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— Sono gli ultimi sacrifici, forse — dice, pensoso, un po’ triste, l’infermiere. — Tu parli di flagello? È anche peggio, adesso, amico mio; sono feriti, stroncati uccisi, i giovani, i molto giovani, i giovanissimi, tutta una generazione di ventenni che sparisce.

— Santillo, non mi far bestemmiare... — dice, così sordamente, Giulio Lanfranchi, che l’altro non raccoglie la sacrilega parola.

— Sai quanti ne sono venuti, stanotte, di questi giovanissimi? Sette od otto... Ti assicuro che mi tremavano le mani, dalla pena, quando li tiravo sui tettucci, ove dovrà perire la loro giovinezza...

Don Giulio Lanfranchi, muto, leva gli occhi al cielo; ma Santillo non vede lo sdegno di quegli occhi.

— Stamane, all’alba, abbiamo portato via il povero capitano Falcone; lo hanno interrato nel cimitero di Sant’Anna, presso la chiesa... Tutta la sua roba l’abbiamo mandata al cognato, il capitano Camillo Moles, che la consegnerà alla vedova, sua sorella...

— Tutta la roba di Falcone? A Moles? Credete di aver fatto bene?

— E perchè? Che pensi?

— Non so... non penso niente — risponde l’altro, crollando le spalle.

— E dopo due ore, stamane, vi è stato qualcuno che ha preso il suo posto, sul tettuccio funebre... Giovanissimo, te l’ho detto. Era in agonia, stanotte. Impossibile salvarlo. Vieni, vieni a dargli una benedizione.

— Sono così sfinito, così finito, Santillo!

— Sai, la merita, questa benedizione: è una faccia di angelo.

E con una mossa vivace del suo vigoroso braccio, Santillo trascina, passo passo, Lanfranchi, verso un piccolo, segregato ridotto, ove non è che un lettuccio mortuario. Giace, su questo letto, l’appena ventenne Giorgio Ardore, a cui, in combattimento, una scheggia di mitraglia ha tagliato la carotide;