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Guido Soria sussulta, bestemmia:
— Porca razza di vigliacchi...
— È quello di stamane, signor tenente: l’ha con noi: ci vuol provocare...
— Vigliacco, vigliacco, vigliacco! — grida Soria, folle di collera.
— Si guardi, signor tenente: mi sembra armato; si guardi!
Il fante Franceschi si addossa, tutto, alla roccia che è grigia e ove pare si unisca e si fonda il colore dell’uniforme italiana. Guido Soria, invece, non pensa a guardarsi: i suoi occhi sono torbidi, sinistri, sotto le sovracciglia aggrottate, tutto il suo viso ha un’espressione di furore concentrato. A un tratto, il fante Franceschi dà in un grande urlo:
— È armato!... Ha il fucile... Spari, spari, tenente, o lei è morto!
Un istante solo: e Guido Soria ha mirato, ha sparato, non un solo colpo, ma tre, quattro, sei, quanti ne ha il caricatore. A occhio nudo, l’austriaco ha vacillato, piegandosi innanzi e indietro; poi ha roteato su sè stesso, ed è caduto.
— È fatto — soggiunge, diventando subito tranquillo, il fante Franceschi, riprendendo l’amato fucile, che ha salvato la vita al suo tenente.
Una calda gioia precipita nelle vene di Guido Soria, il suo sangue giovanile: egli si sente ardere tutto, in plenitudine di vita: le sue guancie sono accese: i suoi occhi scintillano: e le sue braccia si tendono verso il suo fedele soldato e se lo stringe al petto, il fante Franceschi, che è contento e commosso di tanto slancio. Guido Soria si guarda intorno, per scorgere che cosa sia accaduto, dopo il suo strano duello con l’austriaco: nulla si scovre. Il cannone tuona, ancora, sebbene più fiaccamente. Esso ha coperto lo scoppiettio secco del fucile. E lassù, verso quella cortina di alberi, si vede, a occhio nudo, un mucchio, per terra: l’austriaco caduto.
— Va a prendermi il cannocchiale, Franceschi.