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di collera, il tenente Soria, che butta via il fucile: Franceschi lo raccoglie al volo, stringendosi al petto il suo lucidissimo arnese.
Cannoni, bombe, mitraglia, un clamore che assorda, che toglie la parola, che mozza il fiato, e i tre uomini, confitti al suolo, quasi son pietrificati: e nulla più esiste, per loro, dietro quegli alberi, che quell’immane bombardamento... Adesso, vi è un rallentamento che si prolunga: Guido Soria chiede al fante Franceschi, con voce trepidante:
— Tu sei stato molto in combattimento... puoi distinguere, forse... puoi distinguere, la voce nostra?
— Sì... Forse... se mollano per qualche minuto, ancora... Quando ricominciano — risponde, assorto, il fante; poi si distende a terra, con l’orecchio sulle zolle. Di nuovo, un altissimo scoppio: cannoni, bombe, mitraglia...
— Questo è nostro, è nostro, è nostro — grida, da terra, il soldato Franceschi, caprioleggiando per la gioia.
— Ah! meno male! — sospira, profondamente, il tenente Soria.
Rientrano: ma non hanno requie. E nessuno ha più requie fra gli uomini della trincea, ove è Soria, vi è un continuo muoversi, andare e venire, un parlottare, testa contro testa, in tre, in quattro, qualche grossa risata, qualche disputa puerile che finisce in borbottìo, mentre continua incessante il bombardamento, intorno a Strigno. E poichè, regolarmente, di distanza in distanza, scendendo verso la valle, vi sono altre trincee italiane, si sente, sotterra, quel rumorìo, quel calpestio confuso di persone e di voci, quell’agitazione umana, venuta dall’aspettativa di un fatto di guerra, oggi, stassera, domattina, ma è prossimo, è vicino, è imminente... Soria non può star tranquillo, nella sua cabina: tre, quattro volte, è sceso giù, fra la sua gente, dove il previggente caporale Costantini va esaminando minutamente gli uomini, le loro armi, le loro munizioni, la riserva di alimenti: non parla,