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E ridendo, prende l’esile, emaciato don Giulio Lanfranchi nelle braccia robuste e gli fa fare una giravolta. L’altro rimane inerte e senza sorriso. Poi, replica, torbidamente:

— Io non sono nè soldato nè prete, Santillo. Sono uno sventurato.

E non è torbida, solo, la sua voce che ha perduto ogni inflessione di dolcezza, di mitezza, ma sono diventati, così, il suo sguardo, il suo gesto, ogni sua espressione, come se tutta fosse stata intorbidata, in lui, la sorgente della sua bontà e della sua pietà.

— Ora cerco di lavartela, questa tua giubba — risponde il paziente infermiere Santillo.

E con un asciugamano bagnato cerca detergere le chiazze di sangue della giubba di Lanfranchi: ma quando la sbottona, si accorge che, sotto, la camicia bianca è intrisa di sangue.

— Ti ha inondato di sangue, perdiana, il capitano Falcone... — esclama l’infermiere.

— Che nausea, che disgusto! — grida Lanfranchi: e si nasconde la faccia fra le mani.

Ma, in questo momento, un grido debole e pur penetrante arriva dall’estremità lontana della tenda-ospedale, dal largo reparto, il più largo, ove i due chirurgi e un loro assistente, medicano i feriti, man mano che essi sono trasportati in quella sala, dalle pareti di tela bianca: e sono lì, taciti, intenti, precisi, in ogni piccolo loro moto, intorno al letto di tortura di quella povera carne lacerata, il maggiore medico Bonelli e il capitano medico Mendoza, che non hanno quasi preso riposo, da una settimana, che par loro quella di Passione. A quel grido che, malgrado la loro consuetudine e il loro coraggio, fa trasalire Santillo e Lanfranchi, si odono giungere, dall’altro reparto, ove giacciono, sui loro letti di sofferenza, i feriti già medicati, ma non trasportabili, quelli che sono destinati a morire, fra qualche giorno, i morenti, da questo reparto giungono gemiti, lagni, sospiri, di coloro che, forse, si erano assopiti, che, forse, tacevano.