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nulla dice, Soria, ma nel suo volto contratto, è la espressione di chi sta per toccare una mèta agognata e ha il tremolio estremo della cima raggiunta. Tre o quattro volte, egli è anche escito di trincea, per esplorare i dintorni, l’orizzonte, per vedere se qualcuno compaia, con notizie. Arrivano, solo, dal fondo della valle, gli uomini che portano il rancio, fermandosi di trincea in trincea, e dicono che, lassù, in quella punta della Valsugana, da Susegana a Strigno, è impegnata una grande azione, ma non si sa bene, ancora, quali sieno le sorti.

— Ma qui, che facciamo, che facciamo? — grida Guido Soria.

— Eh, non vi rincresca di aspettare! — sogghigna colui che comanda gli uomini del rancio. — Ce ne sarà, stassera, domani, anche per voi... — e se ne va, scrollando le spalle, indifferente.

Soria trema di ansia e di gioia, come uno sposo che conti le ore che lo separano dalle sue nozze. Già ha fatto raccogliere le sue robe in due cassette di ordinanza, da Franceschi: già si guarda intorno, come per salutare, come per distaccarsi, da quel misero ricovero, ove ha passato dei giorni così lunghi, cadendo, a poco a poco, in un esoso torpore morale. Ora, è pronto a marciare, a battersi, a uccidere, a morire: pronto. Il pomeriggio declina: egli è, di nuovo, fuori di trincea, non potendo stare più fermo, non respirando, in quell’imbuto, ove è collocato il suo rifugio. Pure, il bombardamento pare che ceda: e, a Soria, si stringe il cuore, di collera e di tristezza. Il fante Franceschi, anche lui, equipaggiato per escire, affezione, lo segue come un’ombra. Sì, sì, il bombardamento è molto diminuito. Soria guarda il suo soldato, che lo guarda: e uno scoramento è nello sguardo dell’ufficiale, mentre il fante si stringe nelle spalle e borbotta non si sa che.

— Ecco l’austriaco, di nuovo, signor tenente — dice il fante al suo ufficiale, e sono ambedue appoggiati e nascosti da una roccia.