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— Ah! — esclama, soltanto, il capitano Camillo Moles. E un pensiero improvvviso gli sta, fra ciglio e ciglio, sugli occhi inariditi.


— E si può sapere dove ti sei nascosto, preticchio matto, iersera, stanotte, stamane! Dove hai pranzato? Dove hai dormito? — così apostrofa, col suo largo, spontaneo riso Santillo, prendendo sottobraccio Lanfranchi e costringendolo ad andare e venire, fra l’erba, fra i sassi, sullo spiazzo, innanzi al padiglione. — Confessa i tuoi peccati al tuo amico: io ti assolvo.

— Mi son fatto condurre, da un automobile, ieri al Gran Comando, Santillo. È lontano — risponde don Giulio Lanfranchi, col suo tono stanco e annoiato. — Mi avevano detto che vi avrei trovato il mio capo, il Vescovo Castrense.

— E lo hai trovato?

— No. Non l’ho trovato. È la mia mala sorte, che mi perseguita...

— Ma che gli volevi dire al tuo vescovo?

— Voleva supplicarlo che mi liberassse... che mi mandasse via... perchè tu sai bene che non ne posso più, amico mio!

E il consueto grido d’intolleranza gli esce, lacerante, dall’anima.

— Ma che ti hanno detto al Comando? Quali notizie?

— Mi hanno detto che ci si batte, dappertutto, e chè noi si va avanti, vincendo, dappertutto... e che siamo alla fine, a una fine di gloria...

Amen, amen! — esclama, sincero, il giovane Santillo.

— Ma si muore, dovunque, Santillo; centinaia, migliaia di morti; e scorrono torrenti, fiumi di sangue... è un flagello, un flagello...! — grida, concitato, Giulio Lanfranchi.

M. Serao. ''Mors tua...'' 18