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nemico è sparito dalla valle; se ne è andato via, nella notte, con una immensa cautela, quasi a passi feltrati, come un fantasma, lasciando vuoto il suo trincerone, le sue trincee, risalendo la collina, per ritornare, certo, verso Strigno, per cercare di riprendere, da un altro lato, la grande posizione perduta. E gli italiani non hanno più nemici, davanti; sono soli, in quel posto avanzato, dove non hanno fatto, per mesi, che la guardia, niente altro... Anche Costantini è tornato: medesimo rapporto a Soria, trincee nemiche vuote, belle trincee, in cemento, nientemeno, e roba buona, anche, da raccogliere, lasciata così, da questi nemici, così ricchi, così bene equipaggiati. Soria è, di nuovo, invaso dal furore nella notte, questa gente maledetta, è partita, è fuggita, impossibile seguirla, ora è lontana, chi sa dove, o si sa, verso Strigno e, qui, non vi è, come sempre, nulla, nulla da fare!

— Almeno, io, Costantini, ne ho mandato uno all’altro mondo! — esclama, impetuoso, Soria.

— Sì — dice il caporale. — È lì, morto. Siamo passati poco lontani.

— Sai che voleva uccidermi, Costantini?

— Non era armato, tenente — risponde, piano, il caporale.

— Come lo sai? Hai visto bene?

— Ho visto bene. Non era armato. Accanto al cadavere, vi è un frustino; e, più in là, una macchinetta fotografica.

— Ah! — esclama, senz’altro, il tenente Soria.

Poichè tutti hanno saputo che gli austriaci sono spariti, come spettri, vi è apparizione continua di uomini, che escono di sotterra, a respirare, a vedere il sole, a muover le gambe, a fumare all’aria libera. Pare una grande scuola in ricreazione. Ma di lassù, dall’altra parte, scendono soldati e ufficiali, che vengono dai posti dove si è tanto combattuto, tutto il giorno prima e poi si è vinto, disperso, messo in fuga il nemico. Si fermano a narrare, ai compagni, i casi della giornata; e il ritornello è sempre: