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— Camillo... — sospira, con un soffio penoso, Mario Falcone.

— Verrà, viene, non dubitate, fratello mio — aggiunge anche Lanfranchi, stringendogli la mano fredda e umida, sentendo sotto le dita il polso del giovine ufficiale farsi filiforme.

Il tempo scorre, su quell’angoscia. Camillo Moles non appare. Il viso di Mario Falcone si fa disperato. Egli emette un suono forte, inarticolato, che pare un appello estremo; poi, quasi si leva, sul letto, e con una voce roca, cavernosa, ma di cui si odono perfettamente le parole, grida:

— Lanfranchi... chiedete a Camillo, a Magda, perdono, perdono...

Ancora tre lunghi urli disperati, in cui pare che si dibatta l’anima, strappata dal corpo; il petto ferito si abbassa, si abbassa, non si solleva più. Mario Falcone è morto. E, nella morte, il volto contratto non si è disteso, non si è pacificato; vi resta impressa l’ultima sua disperazione. A occhi distratti, don Giulio Lanfranchi gli fa, con la mano, tre segni di croce sulla fronte, sulla bocca e sul petto; non altro segno cristiano. Poi, senza voltarsi, va via, fugge, sparisce.

Crepuscolo limpido e fresco di settembre; i chirurgi, gli assistenti, gli infermieri, hanno un’ora di tregua, Sono venuti fuori dalla tenda, all’aria aperta a respirare, a fare qualche passo, a stirarsi le braccia. Hanno smesso i lunghi e larghi camici, tutti lordi; si sono a lungo lavati e spazzolati. Bonelli, il maggiore medico, il gran taciturno, va e viene, fumando sigaretta sopra sigaretta, curvandosi, quasi, sulla sua immensa stanchezza, più silenzioso del consueto: il capitano medico Mendoza, più socievole, scambia, ogni tanto, qualche parola con Santillo e con Bandini, i due infermieri; Lanfranchi è, come sempre, da qualche tempo, in disparte, appoggiato a un mucchio di casse vuote. Essi credono che egli preghi, che egli dica il rosario e non lo disturbano. Un automobile velocissimo giunge, rombando; di colpo, si arresta, il

M. Serao. ''Mors tua...'' 16