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— Si è vinto, magnificamente; ma quelli sono scarafaggi, ripullulano, tornano: e noi li schiacceremo novellamente...

Ecco che Guido Soria ha scorto un gruppo di portatori di barelle, che viene via, che, forse, va al riposo, per qualche giorno. Ecco Fratta, con la sua branda a tracolla, la sua nera pipa fumante e quel suo aspetto stanco e stracco.

— Fratta, Fratta, vieni qui! — gli grida Soria.

— Che vuoi, Soria?

— Senti, senti, devi fare una cosa che mi preme.

— Che cosa?

— Andarmi a prendere un cadavere...

— Finiscila, Soria! Son trentasei ore che porto feriti e morti; è un mestiere che stronca... Non voglio crepare.

— Ne prendi un altro, Fratta.

— Ma che t’importa, di questo? Ti è fratello? Ti è amico?

— Mi serve — dice, senz’altro, Soria.

— Lasciami andare, Soria, non mi seccare, ne ho abbastanza, sai!

— A te il denaro piace, Fratta — risponde più sommesso, Soria, guardandolo fiso negli occhi. — Ti do dugento lire, se mi vai a prendere questo morto, che è mio...

— Ma dove è, perdio, questo tuo morto?

— Là, là — e gli addita, lassù, il posto dove giace morto, abbandonato, dal giorno prima, l’austriaco che egli ha ucciso.

— E sulla trincea nemica! Grazie; non ci vado.

— La trincea è vuota; è deserta. Ce l’hanno fatta; sono tutti scomparsi, stanotte, gli austriaci.

— Non hanno portato via il loro morto?

— Fortunatamente — dice Soria, a denti stretti. — Avean fretta. Ti do trecento lire, via!

— È lontano; sono stanco. Non ci vado.

— Cinquecento lire, Fratta!

— Ma tu sei pazzo, dunque! — dice, lentamente, il portatore. — Lo hai, qui, questo denaro?

— Lo ho qui. Portami il morto e te lo do.

M. Serao., mors tua... 16