Memorie (Da Ponte)/Parte quinta (1819-1830)
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PARTE QUINTA
(1819-1830)
Dalle sponde dell’Hudson, che siedono a specchio della popolosa New-York, feci portar senza indugio in una barchetta il mio bagaglio, il qual consisteva in pochi vestiti, cento e quaranta volumi de’ Classici e alcuni volumetti bodoniani; e, varcata quella riviera, ricalcai le pietre a me care di questa avventurata cittá. Le prime aure che vi spirai bastarono a esilararmi gli spiriti, richiamandovi mille rimembranze soavi e creandovi una consolatrice lusinga di miglior sorte. Promisi quindi al lettore amico una scena diversa da quella che gli presentai negli altri volumi di queste Memorie , e mi dorrá piú che a lui se, deluso in questa speranza, non m’è dato tenergli la mia parola. Vero è tuttavia che i beni goduti ed i mali da me sofferti, da che ho lasciata la Pensilvania, furono in tal guisa alternati, che non m’è facil decidere da qual parte’, gli uni cogli altri pesando, si vedrebbe cader la bilancia. Sia di ciò giudice il mio lettore; cui, se tanto darammi il cielo di vita, or tra rose e viole ed or tra spine ed ortiche, ricondurrò passo passo per tutti i sentieri da me trascorsi in questo variato decennio. Rallegriamci frattanto del suo fortunato cominciamento. Le ristrettezze de’ mezzi non aveanmi permesso di condurre con me la famiglia. Un solo de’ miei figliuoli era compagno mio, giovinetto di rari talenti, che promettea dalla piú tenera etá d’essere col tempo l’onore de’ suoi e la gloria e il sostegno de’ miei vecchi giorni. La brama d’allontanarlo da Filadelfia non fu l’ultimo stimolo per cui determinai di tornare a New-York. Era questo mio figlio fin d’allora molto avanzato nello studio delle lingue moderne, scriveva e parlava correttamente l’italiano e il francese, e nel suo nativo sermone avea pochi pari. Iniziato era altresi nella lingua greca e latina; ma, quando si diede alla legge, le abbandonò intieramente. Benché i progressi fatti da lui sotto quelPeminente avvocato fossero stati quasi incredibili, nulladimeno la dissipazione della gioventú di quella cittá m’atterri di tal modo, che credei di pericolo piú lungamente Iasciarvelo senza la paterna custodia. Arrivato dunque a New-York, andai sul fatto a un albergo, e mia prima cura fu di trovargli un abile institutore per le lingue antiche, che aveva trasandata e di cui era obbligato conoscersi per esser ammesso al collegio, gli studi del quale erano clausola necessaria alla pratica legale del foro. Entrò il figlio mio il 18 d’aprile dell’anno iSr9 nel liceo d’un uomo sperimentato; e questi, innamorato, come diceva, de’ suoi rari talenti, prese tal cura di lui, che i progressi suoi di sei mesi soli furono senza esempio. Fui dunque piú fortunato nella mia scelta che non fu il padre mio in quella del rustico pedagogo dalle nocche callose, i cui vestigi ancor porto sulla incanutita mia fronte. Avendo a ciò provveduto, andai a far la mia prima visita al signor Carlo Clemente Moore, come quello che tenne e terrá sempre il primario loco tra i miei allievi e benefattori; indi al suo egregio cugino Nataniello e a tutti i diversi membri delle lor venerate famiglie. Le loro graziose accoglienze risposero pienamente alla mia ben fondata aspettazione; ma i lor maneggi a vantaggio mio sorpassaron d’assai le mie speranze medesime. In men d’otto giorni ebbi dodici de’ piú svegliati gioveni e ’damigelle della cittá da instruire nella «dolce (avella», e, tra queste, due spiritosissime sorelle della protettrice famiglia (0, che sono e saranno sempre uno de’ piú leggiadri ornamenti del mio toscano giardino. Animate dalle loro sollecitazioni e piú ancora dal loro esempio, molt’altre persone della cittá aumentavano di giorno in giorno il numero de’discenti: sicché in meno d’un mese ebbi dodici damigelle e altri tanti gioveni da ammaestrare. Non fummi allora difficile disfarmi di que’ volumi ch’avea meco recati da Filadelfia, ottanta de’ quali ebbi la gioia di dividere tra i piú addottrinati di quegli allievi, che con lodevole gara e pari diletto li lessero e gli studiarono; e i sessanta, che ancor rimanevano, gli offriron in dono per mio consiglio alla pubblica biblioteca della cittá, che, ricca de’ tesori greci e latini, non aveva ancor dato un loco ne’ suoi scaffali a quelli della lor inclita primogenita. In segno della mia riconoscenza e per non essere da meno degli altri, vi depositai anch’io a un tempo (1) Una di queste sorelle è ora sposa del signor L De Rhatn. Alla pubblicazione di questo volume sarann’entn.mbi in Italia. Tutti quelli, ch’avranno la sorte di vederli, non negligano, gli scongiuro, d’onorarli e di festeggiarli, come due luminose colonne dell’italiana favella in America. stesso quattordici volumetti bodoniani de’ nostri piú celebri poeti viventi, tra’ quali i versi immortali di Parini, di Mazza, di Cesarotti, di Foscolo, di Monti, di Pindemonte, oltre la vita di queirillustre tipografo che diede, tc indice BonaparteM, anche la palma de’ torchi all’ Italia. La prima volta fu questa che la cittá di New-York vide in una sua pubblica biblioteca sessanta volumi de* nostri classici antichi e quattordici de’ moderni, e questo fu il primo sasso gettato da me per la fondazione del letterario edilízio, che fin dal cominciamento della mia carriera desiderai vivamente ed ebbi qualche speranza (ahi forse invano!) d’erigere. Per tutte queste prosperitá mi trovai presto in istato di prendere una casuccia in affitto, di ornarla di semplici ma decenti suppellettili, di chiamar a New-York il rimanente de’ miei, e di sopportar la non lieve spesa del loro onesto mantenimento e dell’educazione degli altri due figli. Gli affidai entrambi immediatamente a un de’ piú abili insegnatori, e il primo giorno d’ottobre dell’anno stesso collocai il piú attempato nel collegio della cittá, che sul punto era di riaprirsi. Nel solito esperimento degli scolari tai prove diede questo mio figlio di memoria e d’ingegno ammirabile, che il terzo loco gli fu dagli esaminatori assegnato nella numerosa sua classe. Felicissimo dunque, anche per questo rispetto, era il cominciamento del mio nuovo corso di vita, ed io benediceva il momento in cui lasciata aveva la Pensilvania per ritornare a New-York. Tra queste buone apparenze un solo ostacolo rimaneva alla rapida propagazione del nostro idioma e della nostra letteratura, ch’eran l’oggetto primario de’ mici pensieri. Con tutto l’ardore, e quasi direi l’entusiasmo, da me in sei anni prima creato per la nostra favella in New-York, non venne mai in testa ad alcun de’ nostri di portar o mandare una collezione di scelte opere italiane a’ loro antipodi. V’ebbero in ogni tempo e v’hanno ancora in Italia degli spiriti intraprenditori, che spedirono e spediscono tuttavia nelle (i) Leggi la storia del Pater nosler , stampato da Didot e da Bodotii in sessanta e piú lingue, nella Vita del primo, volume secondo. cittá principali d’America (siccome nell’altre parti del mondo) prodotti, lavori e mercatanzie di ogni sorte. Quasi in ogni cittá si trovano i vini e l’uva della Sicilia, l’olio, l’ulive e le sete di Firenze, il marmo di Carrara, le catenelle d’oro di Venezia, il cacio di Parma, i cappelli di paglia di Livorno, le corde di Roma e di Padova, i rosoli di Trieste, la salsiccia di Bologna e fino i maccheroni di Napoli e le figurettine di Lucca. E per vergogna del nostro paese non v’è in tutta l’America un magazzino di libri tenuto da un italiano. Tutti i libri che si truovano in questa cittá, oltre i volumi introdottivi da me, o v’erano stati portati accidentalmente da viaggiatori, o alla morte di qualche abitatore straniero s’eran venduti all’incanto con altri libri. In tale scarsezza tanto d’opere elementari che classiche, in qual guisa poteva io sperare d’insegnar al paese la mia favella, e di trarre d’inganno gli americani, che, imbeccati degli oracoli di Boileau, di La Harpe, di Bouhours, di Johnson, di Chesterfield e di quegli altri nostri teneri amici di Germania, d’Inghilterra e di Francia, o contavano sulle dita i nostri scrittori, o credean positivamente che tutta la letteratura italiana consistesse in qualche novella galante o in qualche leggiadra poesia? V’era, per dir vero, al mio ritorno a New-York, un magazzino di libri francesi e spagnoli, a’ quali il libraio alcuni italiani n’aveva aggiunti; ma, o perché era il solo venditore nella cittá, o perché doveva trarli dalla Francia, i suoi prezzi erano si stravaganti a quell’epoca, che lo studente, atterrito dalla spesa eccessiva, ne abbandonava sovente lo studio. Mi venne dunque pensato di cercar un riparo a cotal ostacolo, e, senza temporeggiare, scrissi a vari editori e librai di Genova, di Venezia, di Firenze, di Livorno e di alcune altre cittá d’Italia, e, informandoli del mio buon successo, del mio disegno e delle mie future speranze, gl’invitai a somministrarmi i libri che m’occorrevano, con solenne promessa di esattissimo pagamento. La somma della prima mia ordinazione non ascendeva che a cento piastre: nulladimeno (piangendo scrivo, e tu piangendo leggi), nel bel paese lá dove il si suona, non trovai un solo libraio di tanta fede, ohe non mi disse in risposta un solennissimo «no». Erano ben lieti d’udire questi miei generosi compatriotti che «il bravo signor Da Ponte s’affaticasse con tanto zelo per introdurre e diffondere la lingua e le lettere italiane in America ; la grata posteritá non mancherá di ricordare il suo benemerito nome negli annali letterari del bel paese: ma, quanto all’inviargli de’ libri senza previo pagamento, in veritá non era cosa da pensarci, perché contraria alle pratiche del commercio e agli usi delle piazze, e cagione assai spesso di liti e di dispute. Il bravo signor Da Ponte spedisca il suo danaro a qualche banchiere, e gli si spedirá immediatamente quello che gli piacerá d’ordinare». Nel mio taccuino di cose rare io non ho meno di dieci lettere di questo tenore. Stando le cose in tai termini, passai un di a caso dinnanzi alla porta d’un magazzino di libri d’un americano, che stava in atto d’aprire una gran cassa collocata presso il sogliare. Appena mi vide: — Ecco — diss’egli, — signor Da Ponte, qualche cosa di buono per voi. — Aperse, cosí dicendo, la cassa, e vidi che piena era di bellissimi volumi greci, latini, tedeschi, oltre un piccolo numero d’italiani. Io, che non aveva un’altissima stima dell’erario di quel libraio (dironne il perché): — E come fate — soggiunsi — ad acquistar tanti libri, voi che in un anno non avete potuto pagarmi cinque piastre che mi dovete? — Caro signor Da Ponte — replicò egli, — io non ho bisogno di piastre, siccome non l’ha alcuno dei miei colleglli, per ottener de’ libri pel mio negozio. — Questo è un secreto — diss’io — che avrei piacere che m’insegnaste. — Secreto? secreto? — gridò ridendo: — non v’ha mercante, mercatantuzzo o mercatantessa, che non si conosca mirabilmente di questo secreto. E non solamente i librai, ma tutti o quasi tutti i negoziatori di questa cittá si fondan sul credito de’ negoziatori stranieri. Che diverrebbe il commercio, se si togliesse la confidenza reciproca e se tutto comperar si dovesse per danaro contante? Questa cassa di libri, calcolati i dazi e i trasporti, non costa meno di seicento piastre, e non men di seimila quel che vedete ne’ miei magazzini. Come potrei sostener tal traffico senza i giusti respiri ne’ pagamenti, o come potrebbero quei sostenerli, che hanno libri o altre mercatanzie del valore di trenta, quaranta e cinquanta mila piastre? — E quai mezzi adoperaste per incominciar il vostro traffico? — Feci pubblicare su vari giornali tI’ Europa un paragrafo generale, il quale non diceva che questo: «N. N., libraio e cartolaio a New-York, vende libri per conto proprio ed in commissione in tutte le lingue antiche e moderne». E in men di sei mesi ricevei da Lipsia, da Amburgo, da Parigi, da Londra e da molte altre cittá non solo della carta e de’ libri, ma stampe, pitture, statue di marmo e di bronzo, e perfino spade, fucili, pistole e cento altre cose, che tengo in questa bottega. — E quando pagate quelli che vendono? — Quando quelli, che comprano, pagano me. — E perché — dissi allora — non fate venir de’ libri da qualche parte d’Italia? — Riferirò in inglese la sua risposta. — Pardon, Mr. Da Ponte; thè Italian booksel/ers are noi very liberal! — Questa risposta fu come una martellata di Bronte sulla mia calva nuca, e, mettendo come cane la coda tra le gambe, partii. Strada facendo, sentii rimescolarmisi pel cervello tutte le cose ch’ei dissemi; e, avido come io era di trovar qualche via onde agevolar la propagazione de’ nostri scrittori, determinai di far un saggio del mio credito in paesi stranieri, giacché in si poco conto io era tenuto nella mia patria; e, dovendo partir a que’ giorni un amico mio per Parigi, gli diedi una lettera pe’ signori Bossange, editori e librai rinomati di quella metropoli, nella qual lettera chiesi senza altra clausola un certo numero d’opere classiche, che trovai registrate ne’ loro cataloghi. Vedremo a’ dovuti tempi la lor risposta.
Passai in questa guisa il primo anno e quasi metá del secondo, senza che cosa accadesse atta a turbare la mia tranquillitá o ad alterare lo stato della famiglia. Passavano sul capo mio tratto tratto de’ nuvoli passaggieri, da’ soffi innalzati della malignitá, dell’invidia e della ingratitudine de’miei medesimi compatriota, che, per quanto strano possa parere, m’odiavano a morte. E, per capir bene la cosa, fa d’uopo sapere che nel corso di que’ sette anni, nei quali io era vissuto in Sunbury, in Filadelfia e in altre parti di Pensilvania, uno sciame di fuorusciti era capitato a New-York, che, privi di mestieri, di mezzi e, per disgrazia lor, di talenti, cangiarono i fucili e le baionette in dizionari e grammatiche e si misero a insegnar le lingue. Si sa che la fame è «monstrum horrendum, biforme, ingens», che fa tutto dire e tutto fare al povero affamato. Tutti quelli perciò che pretesero insegnar l’italiano, vedendo sé e me nello spècchio dell’amor proprio, trovarono molto strano ch’io avessi un gran numero di scolari, mentr’essi n’aveano pochissimi e spesso nessuno. Mi divennero quindi nemici acerrimi, e tutte le strade cercarono di farmi del male. Le dicerie di costoro per qualche tempo mi diedero noia : vedendo in breve però che non aveano denti da mordere, non feci piú conto de’ lor latrati, di quello che faccia un rapido cocchio, che non rallenta il suo corso perché nella polve e nel fango gli corran dietro i cani abbaiando. I lor latrati frattanto non interrompano il filo della mia storia. Torniamo al mese di luglio dell’anno 1820, epoca nella quale il mio figlio maggiore dar saggi dovea in un pubblico esperimento de’ progressi fatti da lui nella collegiale sessione di dieci mesi. I suoi rari talenti, accompagnati da una eccellente memoria e da un impareggiabile amor per lo studio, non mi lasciavan loco da dubitare ch’ei non dovesse uscire con molta gloria da quel cimento. Pieno di tale speranza, entrai una mattina nella sua camera per animarlo. Stava il giovinetto sedendo vicino all’uscio e immerso pareva in una profonda malinconia. Si rizzò quando entrai e presentommi senza parlare un foglio piegato. Sbigottito a tal vista, dispiego quel foglio con molta sollecitudine, e leggo queste parole: Mio amatissimo padre, da che siam ritornati a New-York, come dovete aver veduto, io non ho perduto vanamente il mio tempo. Studiai senza intermissione di e notte, e credo aver profittato quant’ogni altro discente in tutto quello che studiai nel collegio, nel quale vi chiesi io stesso di collocarmi. Preveggo però che tutti i miei sforzi saranno vani e ch’io non arriverò mai a quel grado di onore, che il piú forte stimolo è sempre per eccitare allo studio la gioventú. Permettetemi di tornare col signor Ingersol. Non otterrei la laurea in New-York se non in due anni; un anno solo mi basterá in Filadelfia.
Il suono di questa parola mi fece tremare. Il mio Giuseppe (questo era il nome del figlio mio) mi lesse l’anima negli occhi e pregommi di terminar la lettura della sua lettera, che finiva cosí: Non m’ è ignota la causa per cui m’allontanaste da Filadelfia. Non temete però di niente, mio caro padre. So quel che devo a voi, alla famiglia mia, a me medesimo. Se bramo tornare a quella cittá, è per salvarvi e per darvi gioie, non per disperarvi ed alfine uccidervi.
Furono di tal potere queste parole per me, che non ebbi coraggio di negargli la grazia che mi chiedeva, e che costò poscia a me tante lagrime e tanti mali. — Se dunque — soggiunsi — è tale la vostra brama, e se il signor Ingersol consente di ripigliarvi tra’suoi allievi... — Non mi lasciò terminare; ma, presentandomi una lettera del signor Ingersol, al quale mio figlio aveva giá scritto, trovai che quell’eminenle avvocato era lietissimo di riaverlo come studente nel suo uffizio, e, in pruova del suo contentamento, la cura gli commetteva d’educare i suoi propri figli. Scoprimmi allora le vere cause di questa repentina risoluzione, che in un giovine tanto avido di gloria mi parvero assai naturali, ma che ora sarebbe vano ripetere. Verso la fine, dunque, di luglio egli è partito per Filadelfia, ed io andai a Staatsbourg, ove passai due mesi beati nelle case de’ signori Livingston, tra le muse, le Grazie e le dolcezze dell’ospitali lá e dell’amicizia.
Tornai a’ primi di settembre in New-York, e anche quel mese fu pieno di piaceri per me. Tra un numero eletto di nuovi scolari che domandarono a gara le mie lezioni, una damigella m’offerse la sorte, che fu ed è senza dubbio la piú lucida gemma della mia toscana corona, che cosí chiamo e chiamerò sempre gli allievi miei di New-York. Oltre il sommo diletto da me provato nell’instruirla per la soavitá della sua pronunzia, la rapiditá de’ suoi progressi e il suo ardentissimo amore pe’ nostri scrittori, ebbi quello in aggiunta di tener un loco distinto tra’ suoi amici piú cari; loco dal quale né le disgrazie né la maldicenza né l’ipocrisia né l’invidia di cento nemici hanno potuto o potranno mai discacciarmi. Figlia affezionatissima di adorabili genitori, amorosa sorella, consorte sollecita e tenerissima madre, in tutti questi stati di vita serbar seppe una parte del suo affetto per colui che l’addottrinò nell’idioma che fu ed è tuttavia la sua piú dolce delizia. Son corsi dieci anni dall’epoca fortunata della nostra prima conoscenza; e dove generalmente coll’andar del tempo si sogliono raffreddare gli affetti, in questa rara matrona sembrano di giorno in giorno aumentarsi. Non è possibile imaginarsi in quali e quante maniere s’adopera per darmi ognora novelle pruove di sua cortese affezione. Ella mi consola nelle afflizioni, esulta nelle mie gioie, mi visita nelle infermitá, mi difende da’ miei malevoli, m’esalta co’ suoi amici, e tutto quello, ch’esce dalla mia penna o dalla mia bocca, è piú dolce del nettare, è piú fragrante de’ fiori per lei. Ha poi un’arte, una gentilezza ne’ suoi cari doni (e le piace farne sovente), che difficile è dire se piú pregevole è il dono che fa o la grazia che tiene nel presentarlo. Questo è il ritratto della bella, amabile e virtuosissima signora Francesca Laight, ora Cottenet! New-York non aveva d’uopo d’udirne il nome per riconoscerla, ma io non ho potuto non ornar queste pagine del suo a me carissimo nome, perché, se mai vien che accada (e spero bene che ciò accadrá) ch’ella vegga un giorno l’Italia, sappiano tutti i buoni farle l’onor ch’ella merita, sappiano riconoscere in lei un de’ nostri piú forti letterari sostegni nella piú illustre cittá dell’America, e sappiano alfine che piú mi valse il suo esempio, per estendere la nostra favella in questa cittá, che tutti gli argomenti e le cure mie e quelle di cento e cento altri studenti. Essendo ella a que’ tempi il vero modello delle damigelle ben educate, era cosa naturalissima che tutte l’altre fare volessero quel ch’ella facea; e fu per questo quasi prestigio che dal cominciamento d’ottobre a quello di dicembre non meno di quindici damigelle imparar vollero l’italiano dal signor Da Ponte, perché dal signor Da Ponte la damigella Laight l’imparava. Questa generale parzialitá accrebbe a dismisura il numero de’ miei persecutori; ed uno tra questi tentò il piú infame de’ mezzi per rovinarmi. N’ho giá narrata la storia nel primo volume della prima edizione di queste Memorie. La rinarrai in una nota per chi vorrá pigliarsi la briga di leggerla b). Non contien veramente niente di bello e di gaio; mi pare nulladimeno che possa servir d’instruzione, se non di diletto. Tutti gli intrighi però, tanto di questo vero cannibale che di molti altri suoi simili avversari miei, ridondarono alfine a mio vantaggio o a onor mio. Era agitato in que’tempi colla capitale dell’Inghilterra tutto il mondo politico per la famosa controversia allora esistente tra Carolina di Brunswick e il suo reale consorte. In quella occasione un avvocato irlandese di noto carattere avvisò di pubblicar certa sua lettera a quel re diretta, il cui principale scopo era di denigrare, calunniare e avvilire il nome e il carattere della nazione italiana.-Comparve su’ fogli pubblici quella diatriba, con tutte le solite sarcastiche osservazioni di alcuni giornalisti d’Irlanda, d’Inghilterra e d’America; ed io, come il piú vecchio italiano in questa cittá, in dover mi credei d’impugnare l’armi a difesa di quella patria, di cui con felice successo avea disseminata la lingua ed esaltate le lettere. Né fu contento il mio patrio zelo e il mio amore del vero di scrivere e di recitare a una assemblea numerosa d’intelligenti ascoltatori una orazione di difesa contro le sue calunnie e menzogne, ma la pubblicai il di medesimo colle stampe, e, per renderla a tutti comune, tradur la feci in inglese. Furono per me felici al possibile gli effetti prodotti da questo discorso. Non parlerò adesso se non d’un solo, come quello che diede cominciamento a un mio novello istituto, e una porta ampia m’aperse, per cui provveder alfine di libri italiani la cittá di New-York. Un solo di dopo la recita e la pubblicazione di quel discorso, un giovine americano venne da me e volle essere ammaestrato nella nostra favella. In tre sole lezioni potei conoscere la mali) Vedi l’Appendice prima [Ed.]. ravigliosa vivacitá del suo ingegno, la vastitá delle sue cognizioni e la giustezza del suo criterio. Aveva giá terminati gli studi soliti del collegio; era buon grecista e buon latinista; ma il favorito suo studio eran le matematiche, in cui era fin d’allora molto versato, sebbene, per piacer forse a’ suoi, studiasse ancora la medicina. La famiglia di questo giovine abitando alcune miglia da New-York, mi disse egli un di, conversando meco, che trovar bramava un alloggio nella cittá, che vicino fosse al collegio medico e a’ suoi professori. Gli offersi immediatamente, e quasi da una superiore inspirazione eccitato, la casa mia; e il primo di maggio dell’anno 1821 venne a stare con me, e seco condusse due amabilissimi suoi fratelli: il che fu cagione che ne venissero altri tre colti gioveni, che vaghi mostraronsi di seguitar il loro esempio. Ebbe in questa guisa principio il mio come collegetto domestico, nel quale or cinque or sei spiritosi gioveni, piú come figli ed amici che come discepoli vissero, e furono nella nostra lingua e nelle nostre lettere da me addottrinati. Partirono questi dalla mia casa dopo uno, due o piú anni, per darsi agli uffizi o alle professioni che destinato aveano d’abbracciare. Il solo che non cangiò mai domicilio fu quel giovine egregio che prima venne, e che ora nominerò per sua e piú per mia gloria, benché sappiano tutti esser questi il signor Enrico Anderson, letterato d’alte speranze alla illuminata sua patria. Egli stette due anni con me come studente di medicina, un anno o poco piú come medico, e vi sta ancora da altri sei mesi come professore di matematica nel nobile Colombiano collegio, al cui posto l’eresse, con approvazione ed applauso universale della cittá e della nazione, in fresca gioventú saper senile.
Credo che non lascerá la mia casa se non per visitare la mia patria; e piaccia al cielo che questo accada prima ch’io lasci la terra, perché spero udire anche da lui quello che udii da tanti altri de’ miei cari allievi: — Il piú bel paese del mondo è l’Italia. — Io era, come può credersi, nel colmo delle consolazioni, quando il piú amaro degli umani disastri mise la desolazione ed il pianto nella mia famiglia. Erano giá passati sei mesi dal giorno in cui tornato era a Filadelfia il mio figlio. Io non aveva udite se non buone novelle, e non aveva ragione di sospettare che quelli che mi scrivevan di lui fossero tutti d’accordo per ingannarmi. Or qual deesi creder che fosse la sorpresa e il cordoglio mio, quando verso la fine del mese di dicembre mel vidi capitar in casa improvvisamente, si dimagrato, si smunto, si pallido, che il vederlo e il giudicarlo perduto fu un solo istante! Non racconterò le cause e il principio di si miserabile avvenimento, per non rinnovellare un mortai dolore al mio cor paterno: dirò solamente che, dopo altri sei mesi di strana e gravissima malattia, che i piú sperimentati medici o non conobbero o maggiore trovarono della loro arte, questo caro figliuolo mi fu, avanti che terminasse il suo ventesimoprimo anno, rapito. Oltre l’immenso dolore che questa incomparabile perdita mi costò, si amare, si strane e si tremende per me furono le conseguenze della sua morte, che dall’apice della felicitá mi vidi precipitato in un punto nelle piú disperate miserie. Mille e mille crudeli combinazioni s’unirono a tormentarmi e a farmi odiare del tutto la mia propria esistenza, e per colmo de’ mali furono queste di una natura si delicata e si a un tempo stesso straordinaria, che mi tolsero e tolgono ancora il povero conforto della altrui compassione, che da’ pietosi cuori otterrei, se permesso mi fosse dipingerle. Usciran forse un di dalla tomba mia le voci di quelle angosce, che certi doveri sociali non mi permettono in vita se non di gridare tacendo! A tante calamitá s’aggiunse una somma e quasi irrimediabile scarsezza di mezzi, perché, oltre l’enormi spese necessarie al sostentamento d’una numerosa famiglia, di doppi servi e di doppi medici, di costosissime medicine e di funerali, una quantitá di debiti a me ignoti lasciato aveva questo mio figlio, la maggior parte de’ quali volle l’onor mio ch’io pagassi, mentre, per le disposizioni testamentarie di una donna vendicativa, era a me tolta l’ereditá di alcune centinaia di piastre... Ma si serbi anche questo fatto di umana perfidia alle voci fedeli del sepolcro! Serviranno agli altri di scola, se non serviranno piú a me di conforto. In tale stato di cose la mia desolazione è piú facile a concepirsi che a descriversi. Nelle maggiori afflizioni dell’anima, uno de* miei teneri allievi, che tutte le strade cercavano di consolarmi, mi presentò la Profezia di Dante scritta da Byron, sperando distrarmi dal mio dolore per la lettura di quel sublime poema. Non s’è ingannato. La dolce malinconia (ripeterò qui le parole da me scritte a quel sommo poeta (0), che fin dalle prime pagine vi campeggia, non racconsolò giá la tristezza mia, ma parve piuttosto alimentarla ed accrescerla : ma questo alimento aveva in se stesso un non so che di tenero e soave, onde non lessi, ma divorai tutti quattro i canti, senza deporre il libretto di mano. Una certa analogia che, salve le debite proporzioni, mi parve di trovare tra le vicende di Dante e le mie, m’invogliarono di tradurre in verso italiano quell’opera, e mi , misi tosto.al cimento. Per allontanarmi da un loco però, che a ogni istante mi ricordava le cause della mia desolazione, proposi agli ospiti allievi miei di ritirarmi con essi in qualche campagna, e volentieri vi acconsentirono. Fu a me di grandissimo refrigerio la continua conversazione di questi benevoli giovani, nel cui affetto, nelle cui cure, ne’ cui studi mi parea di trovare una gran parte del bene che mi aveva tolto la morte. Il loco ancora scelto, in quell’occasione, da me per un ritiro di pace contribuiva moltissimo tanto al sollievo dell’addolorato mio spirito quanto all’eccitamento d’un estro patetico, che s’accordava allo stato mio e al carattere della poesia ch’io intendeva coprire di bruna veste italiana.
Era situato questo nostro ritiro in una campagna della illustre e onorata famiglia de’signori Livingston; campagna, la quale, oltre all’essere, e per la coltura e per la fertilitá e per l’adiacenze (!) Vedi lettera da me scritta a lord Byron, pubblicata in fronte di quella traduzione [D. P.]. Nella presente ristampa è riprodotta nell’Appendice prima [Ed.]. e per la nobile riviera che la circonda, deliziosissima, ricever pareva nuova leggiadria, nuova luce e nuove qualitá dalle Grazie sorelle che l’adornavano. Era questa la vita mia in quel quasi picciolo Eden. Sorgeva la mattina dal letto al sorger del sole; passava un’ora leggendo ora co’ miei allievi ed ora co’ miei figli un prosatore o un poeta italiano; faceva con essi la mia campestre colazione, e mezz’ora dopo m’adagiava, sempre piangendo, or sotto un pesco ed or sotto un pomo, e traduceva uno squarcio di quel poema, che mi rendeva dolci le lacrime. Quando l’estro parevami stanco, correva a rianimarlo all’abitazione di quelle tre incomparabili damigelle, che colle loro grate accoglienze, col loro divino entusiasmo pe’ nostri autori e co’ loro angelici volti mi faceano dimenticare le mie angosce e passar de’ momenti beati in seno all’ospitalitá, nel piacer ineffabile d’ammaestrarle.
Trapassai poco men di due mesi in questo genere di vita, e, sebben le dolorose mie piaghe non fossero per quello saldate, ottenni nulladimeno forza e coraggio bastante da sopportarle. Tornato a New-York, pensai senza alcun indugio alla educazione degli altri due figli, che, terminati avendo gli studi preparatorii delle solite scuole puerili, erano giunti alla etá di scegliere da se stessi una professione. Parve inclinato il maggiore a quella di Giustiniano; a quella d’Ippocrate l’altro. Ebbi la sorte d’ottenere per essi i piú eminenti soggetti delle due professioni ; e, perché i mezzi miei a que’ tempi erano molto diminuiti, mi venne fatto con facilitá incredibile di fare un cambio d’insegnamento. Io conseguentemente ammaestrai nella lingua italiana i figli di quei professori, ed essi ammaestrarono i miei nelle rispettive loro discipline.
Fu a questo tempo che mi giunse una lettera da Firenze, nella quale mi si annunziava che tanto la mia Orazione apologetica che la mia traduzione della Profezia di Dante era capitata in quella cittá, e che tanto l’una che l’altra s’era graziosamente ammirata e lodata da’ colti toscani, per le cose da me dette non solo, ma per l’ultima purezza dello stile. Fu il signor Giacomo Ombrosi che, senza conoscermi che di nome, scrisse a me quella lettera. Come personaggio di molta coltura e viceconsole allora di questa repubblica, vide probabilmente con molto diletto che vivesse un italiano in America disposto a difendere il suo bel paese; e, sebbene io poteva supporre che da questo solo principio la piú gran parte nascesse delle sue lodi, bastarono queste nulladimeno a darmi il coraggio di chiedergli grazie. Lo pregai quindi senza ritardo di farmi spedire da un libraio di quella cittá un certo numero di libri italiani, che allor m’occorrevano; e, perché ben credeva che non avrei potuto ottenerli senza pagarli in contanti, non esitai a privarmi di molti oggetti necessari al decoro della famiglia per raccapezzar cento piastre, che presso a poco doveano valere que’ libri. Fu il gentilissimo e non mai abbastanza da me lodato ed amato signor G. F. DarbytO (raro e verace onore del nome italiano in America, pei conosciuti caratteri d’un core benefico, d’una disposizione cortese e d’un credito universale) che s’incaricò di far pagare la suddetta somma per me dalla sua rispettabilissima casa in Livorno, e che, senza il menomo interesse e pel solo diletto di favorirmi, segui per quasi dieci anni e séguita tuttavia a secondarmi mirabilmente in tutte le mie operazioni. Pel vascello, dunque, che portò la mia lettera col danaro, mi furono rispediti que’ libri. Mi giunsero quasi a un tempo medesimo tutte l’opere ancora da me ordinate da’ signori Bossange di Parigi, che, non senza mio gran diletto, mostraronsi con me piú cortesi e piú confidenti. Fu il Mallet, loro agente in questa cittá, ch’ebbe l’ordine di consegnarmi que’ libri, «da pagarsi a mio commodo», con una graziosissima lettera a me medesimo scritta, nella quale tutto quello m’offrivano, a termini molto discreti, ch’era registrato a que’ tempi ne’ loro cataloghi. Ma né i ribassi del libraio fiorentino, né quelli de’ signori Bossange convenivano ai miei disegni, a’ quali, per dir vero, avrei rinunziato del tutto, se i signori Fusi e Stella, editori e librai di Milano, non m’avessero fatte spontaneamente delle (i) Giovane egregio, che sfortunatamente cadde da cavallo e mori. offerte e delle proposizioni onestissime, ch’io accettai di buon grado e ch’essi colla maggiore esattezza per piú d’ott’anni mantennero.
Fu quando vidi nella mia casa mille volumi di scelti classici, che, per dar un’idea de’ nostri tesori agli americani, determinai di pubblicare un Catalogo ragionato , che alcuni anni addietro io aveva scritto per semplice instruzione de’ miei figliuoli. Non aveva meco a quell’epoca né il Tiraboschi né l’Andres né alcun altro scrittore di storia letteraria; e il villaggio, in cui io viveva quando dettai quel catalogo, non aveva mai avuto l’onore di vedere nemmen la coperta d’un libro italiano. Non poteva dunque sperare, non che pretendere, di non cader qualche volta in errore, tanto nell’epoche che ne’ giudizi, che trassi intieramente dalla memoria, e a cui la mia opinione e il mio proprio gusto si conformava. Ardisco creder nulladimeno che, ad onta di tali sbagli, abbia e il mio catalogo e le mie note contribuito di molto alla conoscenza de’ nostri autori e alla diffusione delle loro opere in queste contrade; ed ebbi la gioia qualche tempo fa di sapere che tanto alcuni venditori di libri che i collettori delle pubbliche biblioteche si son di quello giovati per tirar dall’ Italia le nostre letterarie ricchezze, ch’erano prima del tutto ignote in tutta la vastissima America. Né voglio tacere un altro gran bene che seppi pur derivare da quel Catalogo , il quale, essendo, per mezzo d’un italiano, giunto nella cittá di Messico, fu cagione che fossero, oso dir per la prima volta, trasportati in quelle parti alcuni raggi della nostra letteraria luce. Questo italiano fu il signor Rivafinoli di Milano, assai noto generalmente per le sue granili intraprese e pe’ suoi viaggi. Questi, essendo passato l’anno 1S24 per questa cittá, e quel mio Catalogo a caso vedendo, venne tosto da me, comperò molti bei libri che portò seco a Messico, e fu poi cagione ch’altri dopo di lui ne portasser degli altri, che invogliaron piú messicani d’imparare la nostra lingua e di studiare i nostri scrittori. Ebbi il piacere io medesimo d’insegnarla a piú d’uno e di mandare molt’opere italiane a quella cittá, e tra l’altre quelle di Machiavelli, di Beccaria, di Filangieri e di Gioia. In tutta la metá dell’anno 1823 non accadde a me cosa che meriti d’esser ricordata in queste Memorie. La fortuna pareva aver fatto una specie di tregua con me, e tutti i miei dispiaceri o da rimembranze nascevano di mali passati, o dal vedermi odiato senza ragione da’ miei ingiusti compatriotti. Del resto le faccende mie per ogni rispetto andavano di bene in meglio ogni giorno; i miei allievi tanto in casa che fuori continuamente crescevano; ottima era la mia salute e quella di tutti i miei, e gli scaffali de’ miei discenti cominciavano a empirsi gloriosamente de’ nostri piú celebri classici. Narrar vo’ qui un fatterello accadutomi a questi tempi, che, sebbene di poco momento, divertirá il mio lettore e gli fará conoscere meglio quanto strana ed acerrima fu la guerra che in tutti gli eventi in me mossero i miei fastidiosi persecutori. Verso la fine di dicembre, passando d’innanzi la casa mia nel mio solito calessino in un giorno freddissimo, smontai da quello in gran fretta ed entrai nelle stanze interne per riscaldarmi. Uscito novellamente per terminare le mie corse, trovai che calesse e cavallo erano spariti, né per indagini od offerte mi venne fatto, se non dopo quindici giorni, di averne traccia. Un signore francese (il defunto Bancel di buona memoria) ebbe la cortesia d’annunziarmi un avvertimento che velluto avea su’ giornali, pel quale trovai e riebbi il cavallo e il calesse mio, pagando però dodici piastre ad un oste, presso al quale l’avea lasciato un omaccio, dopo essersene servito quattro ore per suo diporto. Che frangia credi, o mio buon lettore, che un vigliacco messo abbia a questa innocente storiella? — 11 Da Ponte — diss’egli — aveva bisogno di danaro. Finse che gli rubassero quell’arnese, eccitò col racconto patetico la compassione de’ suoi allievi, che pagarono la bella impostura col magnifico dono di seicento piastre; intascate le quali, il rapito calesse ricompari; e cosí quel vecchio scaltrito ingannò per molt’anni gli americani di buona pasta! — Epifonema degnissimo della bocca di tale ch’io non nomino qui, per non macchiare le mie carte del suo detestabile nome! Si drizzerebbero sul capo i capelli a tutti quelli che udissero le cose ch’ebbi a soffrire in America da simil razza di fuorusciti malvagi, che, dopo essersi aperta la strada al mio core compassionevole colle solite armi dell’ipocrita e dell’adulatore, terminarono la burletta gridando: — Martira, martira! — e sputandomi in faccia quel sangue che artifiziosamente succhiarono dalle mie vene.
Il racconto però di tali faccende non contenendo in sé niente di «gaio e di bello», come saggiamente fu detto, o non ne parlerò affatto affatto in queste Memorie, per non infastidire il lettore, o ne parlerò solamente quando l’ignoranza de’fatti e la forza della calunnia, avvalorata dal mio silenzio, coprir potrebbe d’equivoche ombre la luce della veritá o la purezza dell’onor mio, quem nemíní dabo. Parlerò invece, tanto per mio conforto che per quello di chi mi legge, de’ pochi buoni, fedeli e onorati amici che colla loro costante benevolenza e cordialitá consolano la mia cadente vecchiezza, compensandomi abbondantemente di tutti i disgusti sofferti e dei torti fattimi da’ miei ingiusti persecutori, e facendomi ancora amar gli uomini. Terrá un loco eminente tra questi, dopo gli altri miei vecchi amici, un giovine fiorentino, che, stato essendomi casualmente presentato da un mio vicino, e piacendomi il suo gentil tratto, le sue maniere garbate, le non equivoche apparenze d’uno spirito coltivato e adorno, per giunta, della soavitá d’un labbro fiorentino, osai pregarlo di stare meco per qualche giorno, sperando di obbliare o almeno d’alleggerire per la sua dolce conversazione le angosce in cui immersa era a que’ tempi la mia famiglia per l’immatura morte di tale che n’era il piú leggiadro ornamento, e che m’astengo di nominare per non rinnuovarne il dolore infando ne’ suoi. Nominerò invece, per mio e altrui refrigerio, il gentile personaggio che finor tacqui e che il curioso lettore desidera giá di conoscere. Era questi il signor dottor Giuseppe Gherardi, fratello di quel bravo signor Donato, che insegnò per vari anni la bella pronunzia toscana e la puritá della sua nativa lingua a Cambridge e a Boston, com’or la insegna a Northampton, e che, onorandomi della sua amicizia, accrebbe in me il desiderio d’offerir l’ospitalitá al fratello viaggiatore. Dopo alcuni rifiuti, per veritá naturali alla delicatezza d’un personaggio bennato, cesse con garbatezza alle mie insistenti preghiere, accettando l’offerta mia. Rimase poi meco pel poco tempo che potè fermarsi in questa cittá, e la sua dotta e vivace conversazione non fu solamente un balsamo consolatorio per tutti noi, ma ci cagionò novelle, però dolci, lagrime al momento di sua partenza. Né il tempo o la lontananza, non che la leggerezza di tale che mi sarebbe grave nominare, servirono a diminuire e ancora meno ad estinguere la sua stima per me, la sua sincera benevolenza e il continuo suo desiderio di piacermi, siccome e per soavissime lettere e per pronti servigi e per cari doni m’ha per piú anni mostrato e tuttora mi mostra. Chi conosce la tempera del mio core capirá agevolmente com’io, avvezzo purtroppo a’morsi dell’ingratitudine e dell’invidia, debba esser caldo di riconoscenza e d’affetto per pruove ed uffizi d’ una si rara amicizia. Tra questi uffizi nulladimeno uno ve n’ha tanto segnalato, che contentar non mi posso d’accennare soltanto, ma co’ piú vivi sentimenti di gioia e di gratitudine mi piace per minuto narrare. Io non ho mai creduto (e mi sia Dio testimonio di tanto) di meritar pe’ miei talenti, e molto meno per alcuna cosa scritta da me, un posto distinto tra i geni brillanti del mio paese; e tutte le volte che il mio tracotante amor proprio pareva disposto a mormorare ed a risentirsi di non veder mai su’ giornali europei il nome di Lorenzo Da Ponte tra gli scrittori del secolo, io strascinavalo issofatto al mio magazzino di libri, gli recitava or una scena d’Alfieri, di Manzoni, di Niccolini, or quindici o venti versi del Giorno del gran Parini, dell ’Ossian di Cesarotti, de’ Sepolcri di Foscolo, della Bassvilliana di Monti o delle canzoni di Pindemonte, e quel temerariaccio si vergognava, e, almen per sei mesi, metteva, come si dice, le pive nel sacco. D’una cosa nulladimeno mi sono lunga stagione maravigliato. — Non v’ha — diceva io — gazzettiere, giornalista o scrittore di novitá, che non empia spessissimo le sue carte di cianciafruscole. «Il conte tale — disse un di quelli — arrivò ieri da Londra e portò sei cavalli seco delle razze del re». «Il tal fabbro — t’informa un altro — inventò una chiave che apre tutte
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PARTE QUINTA 67 le porte della cittá». Questi scrive un articolo di tre pagine in lode della gorgia increspata d’un evirato; quegli annunzia l’arrivo d’un elefante e di due scimiotti nel tal paese; e cosí cent’altri altre cose simili di nessun conto. E in piú di vent’anni non s’è trovato lo scrittore caritatevole, che siasi degnato di tingere in nero un pezzettino di carta per far che sappia il mondo letterario, e gli italiani precipuamente, quello che io stava facendo in America! Possibile — diceva io — che alcuno d’essi non abbia in tanti anni letto od udito da tanti viaggiatori, che dall’America vanno a vedere l’Italia, e da tanti fogli periodici che vi si mandano, i sacrifici che feci, le perdite che sostenni, gli ostacoli che superai, le insidie, le rivalitá, le vessazioni che disprezzai, e le fatiche a cui nella ultima mia vecchiezza mi sottomisi, nella miracolosa intrapresa d’introdurre nella piú vasta e piú remota parte del globo la lingua italiana, e di farvi conoscere, diffondervi e stabilirvi la nostra divina letteratura, che prima dell’arrivo mio o ne era ignota del tutto o nessun cura vasi di conoscere? tanto l’avean calunniata e avvilita coloro che tutto aveano imparato dagli italiani! — Qual fu finalmente la man cortese che ruppe il ghiaccio e liberò il patrio mio zelo da si molesto pensiero? Fu il mentovato dottor Giuseppe Gherardi, che, unitamente al mio vecchio ed impareggiabile amico Pananti, riscaldar seppe a favor mio per tal modo il celeberrimo compilatore del VAntologia fiorentina (ché tale infallibilmente è il signor Montani), che non solo condiscese di far menzione onorata del nome mio in due nobilissimi articoli del suo bel giornale, ma quello disse di me, degli scritti miei e della mia gloriosa impresa in America, che né io ardiva sperare, né di meritarmi credeva o mi credo. Dopo aver illustrato e notato con molto garbo e liberalitá quel che degno di qualche lode parevagli, da saggio e discreto critico, ma con tutta la urbanitá e riservatezza possibile, osservare egli fece ancora i difetti e gli sbagli miei. Né io potrei dire veramente se piú grato gli sono per le lodi prodigatemi o per le poche censure che le accompagnarono; perché, se le prime invogliarono moltissimi a leggermi, le seconde servirono a instruirmi de’ miei errori e ad animarmi a correggerli. 11 che assai di buon grado, e de’ suoi consigli giovandomi, mi son ingegnato di fare, siccome spero ch’egli vedrá, se ha la graziosa pazienza di rileggere la seconda edizione delle mie Memorie.
In due punti nulladimeno, con tutto il rispetto dovuto a un letterato di si fine giudizio, cercherò, se non di giustificarmi, d’attenuare almeno il peccato mio. «Lo stile di quelle Memorie — dice in un loco il mio colto censore — non piacerá forse intieramente al Colombo». Io ho letti, riletti e studiati tutti gli scritti del mio caro e prezioso amico Colombo, e, sebbene io 10 giudichi insieme col Monti il piú vago forse, il piú terso e 11 piú degno da imitarsi di tutti gli scrittori italiani del nostro secolo, senza escludere il Cesari, non credo nulladimeno che lo stile de’ suoi Cadmiti , delle sue lezioni o de’ suoi medesimi opuscoli renduto avrebbe piú care e piú popolari le mie Meviorie di quello che le rendette lo stile che io adottai. Ed eccone la ragione. Io aveva giá messo in mano a’ miei discenti nel lor tirocinio tutte quell’opere celebri che vanno per le mani de’ piú, ma né le scelte novelle del Boccaccio, né le lettere di Bentivoglio, né Le notti romane del Verri, né le Lettere di Foscolo, né le Lezioni di Cesari, né i Cadmiti del medesimo Colombo erano intesi da quelli colla facilitá che avrei desiderato, perché non si servissero, se non di rado, de’ dizionari, e perché i piú rapidi progressi nello studio della nostra favella facessero. Risolvetti allora di scrivere queste Memorie , e scelsi studiosamente uno stile semplice, facile, naturale, senza affettazione, senza fioretti, senza trasposizioni e periodi lunghi col verbo in punta, e preferendo assai sovente le parole usitate e non di Crusca alle antiquate o poco in uso, quantunque passate pel gran frullone; e il mio disegno fu felicissimo. Di settantacinque damigelle che lessero que’volumetti, l’anno 1825, nella mia triplice classe, pochissime quelle furono che non le traducessero egregiamente in un mese, e non poche furono quelle che, per la lettura di quelle Memorie soltanto, non giungessero a scriver correttamente e con qualche grazia in tre e fino in due soli mesi. Ho per pruova di ciò ripubblicate le lettere di queste spiritosissime damigelle, e n’ ho almeno altre cento tra le mie carte, che per mia e loro gloria intendo un giorno di pubblicare, se piace al cielo (’h Un secondo difetto forse giustamente in queste Memorie riprendesi, ed è una certa mancanza di connessione ne’ fatti ; «pregio singolarissimo — dice il censore, — che tanto in quelle di Casanova s’ammira». Devo osservare però che, sebbene tutte le cose che scrissi in questi volumi sieno purissime veritá, credetti nulladimeno esser saggia ed onesta cosa alcune tacerne, come mi protestai nell’epigrafe apposta alla prima edizione. Queste ommissioni forse ruppero il filo talvolta delle mie narrazioni, e parer le fecero pòco connesse. Casanova fece il contrario. Tacque assai spesso quello che avrebbe dovuto e potuto dire per dovere di storico ; e, per empire bene o male que’ vuoti e amalgamare, dirò cosí, la sua storia, permise alia sua prolifica penna di crear molte cose di pianta. Io non dico giá ciò per toglier un iota al merito di Giacomo Casanova o a quello delle sue Memorie , che sono scritte con molto garbo e che generalmente si leggono con diletto; ma io conobbi quant’altri mai quell’uomo straordinario, e posso assicurar chi mi legge che l’amor della veritá non era il pregio principale delle sue opere. Colgo volentieri questa occasione, non per la lusinga di trarne una scusa per me, ma per toglier di errore coloro che credono essere tutto oro finissimo quello ch’ei scrisse. Molti sono gli aneddoti che ei racconta, di cui mi sarebbe almeno permesso di dubitare: d’un solo di questi però parlar voglio, come quello che non rende il dovuto onore alla da me venerata memoria dell’immortale Giuseppe.
Vantasi Casanova d’aver data a quel principe certa ardimentosa risposta, che quel sovrano, sebben clementissimo, non avrebbe sofferto infallibilmente da lui. Ecco perciò la veritá della cosa. Giacomo Casanova, che aveva tanto la testa di progetti ripiena quanto sgraziatamente assai spesso vuota la borsa, trovavasi da qualche tempo a Vienna, vivendo come poteva, ma (1) Furono omesse nella presente ristampa, perché di nessun interesse [Ed.]. particolarmente pe’ mezzi del gioco : l’abate Della Lena e Giacometto Foscarini erano per lo piú il lapis filosofico, anzi la zecca di quel buon galantuomo. Trovandosi un giorno al verde, avvisò di proporre al sovrano certa festa chinese, che doveva divertire moltissimo la cittá ed esser di non poco guadagno all’intraprenditore. Scrisse un memoriale si lungo, che bastò ad atterrire l’imperadore, quando presentoglielo. «Cur, quia, quo- • modo, qua?ido», era l’epigrafe del suo foglio. Ciò fatto, venne da me, salutommi, mi fece sedere, mi pose tra le dita una penna e parlò cosí. Il dialoghetto è grazioso. — Da Ponte, noi siamo amici. — Non v’ha alcun dubbio. .— Io conosco l’onestá vostra, voi conoscete la mia. — Tacqui. — Io ho fatto di tutto nel mondo, ma non ho mai ingannato un amico. — Sorrisi. L’abate Della Lena e il giovane Foscarini erano grandi amici del Casanova! Nulladimeno... — Per l’esecuzione del mio progetto ho bisogno di sole mille piastre. Prestatemi la vostra cambiale per detta somma, pagabile a due mesi, eh’ io avrò cura d’onorare al dovuto tempo. — Deposi la penna, mi scusai alla meglio, e m’alzai dal mio posto. Montò sulle furie, e, aggrottando le ciglia, parti. Noi vidi piú per diversi giorni, ma seppi che il Foscarini, perduto avendo una grossa somma con lui, data gli aveva una obbligazione, con cui sperava trovar de’ mezzi per la sua festa chinese. Una mattina, trovandomi io stesso per faccende teatrali con quel sovrano, il nostro Giacomo chiede udienza. Entra, china la testa e gli presenta il suo memoriale. L’imperadore lo spiega, ma, vedendone la lunghezza, ripiega il foglio e gli ridomanda che cosa vuole. Esposto il progetto, ed illustrato dalle annotazioni fatte al «Cur, quia, quomodo, quando», ch’era il mezzo verso citato da lui, Giuseppe volle sapere qual era il suo nome. — Giacomo Casanova — soggiunse egli — è l’umile persona che supplica della grazia la Maestá Vostra. — Giuseppe tacque per pochi istanti, e, dopo avergli detto con la solita affabilitá che Vienna non amava tali spettacoli, gli volse la schiena e si mise a scrivere. Il supplicante non aggiunse parola e tutto avvilito parti. Io volea seguirlo, ma Giuseppe mi richiamò, e, dopo aver esclamato per ben tre volte — Giacomo Casanova! — tornò a parlare con me del teatro. Vidi pochi giorni dopo quell’uomo irascibile: egli era positivamente furioso. Non è facile imaginare quello ch’ei disse di quel sovrano, né, per quanto (acessi o dicessi, mi venne mai fatto di fargli cangiare opinione. Stimai finalmente che meglio fosse lasciarlo abbaiare, considerando che i latrati di Casanova non potrebber se non accrescer la luce di queU’adorabile sovrano nella mente di quelli che ambidue conoscevano. Credei nulladimeno che fosse da me il favellarne, per dare anche questa pruova della mia grata venerazione ’ alia memoria del mio adorabile signore e benefattore. Di un altro delitto gravissimo venni solennemente accusato dal signor Montani. Il soggetto n’è di somma delicatezza, e non vorrei, nel cercare scuse, fare, come suol dirsi, peggio il taccone del buco. Non potendo tuttavia resistere al desiderio a tutti naturale di procurar la difesa propria, parlerò, ma «wi/h pebb/es in mouth», come dice Byron, perché non esca se non il vero dalla mia ‘bocca. La diversitá del linguaggio tenuto da me quand’ebbi a parlar di Giuseppe e quando di Leopoldo, siccome discopre; die’egli, tutto l’ardore della parzialitá pel primo, tanto è pieno di fiele e d’assenzio pel secondo. Chiunque piu venera lá memoria di quel sovrano nella Toscana, dove piú sparse gli influssi della sua beneficenza e delle sue reali virtú, m’oda tranquillamente, e sia poi giudice mio. Io era vissuto dieci anni in Vienna, quando l’imperadore Leopoldo sali sull’ereditario suo trono. In tutto questo non breve spazio di tempo io avea, come tutti sanno, il favore goduto dell’ottimo Giuseppe, tanto per la mia condotta come cittadino, quanto per l’esercizio del mio impiego. La grazia costante di tal sovrano doveva almeno pruovare ch’io non avea commesso delitti, e di tanto m’assicurava il piú vigilante de’ magistrati e la mia coscienza. Leopoldo, che pel senno, per la clemenza e per la giustizia delle sue leggi avea meritato le / 72 PARTE QUINTA adorazioni della Toscana e la fama del quale suonava gloriosamente per tutto il mondo, destò anche in me, come puossi credere, le piu care, le piú dolci ^speranze, e con pari vivezza di affetto espressi i sentimenti del mio cordoglio per la morte del primo e quello delle comuni speranze per l’avvenimento al trono dell’altro. Esamini attentamente chiunque m’accusa i versi scritti in quell’occasione da me, e vegga se niente di piú grande e di piú onorevole alcun dir poteva di quel ch’io dissi allora di quel sovrano. Io non ripeterò qui se non pochi di que’ miei versi, a cui spero che nessun discreto lettore negherá il pregio d’una sinceritá evidentissima e di una devozione senza confini. Benedetto i’ udia coro iterar di luminosi spirti. Tu che nel ben locasti ogni tua speme, tu ch’ogni retta via quaggiú calcasti, e, ov’altri rose e mirti, d’immortale virtú spargesti il seme A te sol si riserba l’onor di trar di sue tenèbre il mondo, a te specchio de’ regi. A te c’ hai del regnar appresi i modi tra nomi e nodi a umanitá si grati, tra la dolce consorte e i figli amati.
Se questi dodici versi non bastano, leggan gli amici del giusto il rimanente della canzone, giá pubblicata da me nel secondo volume di queste Memorie , alla pagina centoventi (*). Io né sperai né bramai ricompense per quel che scrissi ; ma non po- (i) Allude alla prima edizione: nella seconda la canzone fu omessa. Vedi, nella presente ristampa, l’Appendice prima [Ed.]. teva nemmeno credere che, dopo una pruova si chiara della mia innocenza da un lato, e dall’altro della mia ossequiosa fedeltá e devozione, dovesse il piti formidabile dei supplici cadérmi sul capo; supplicio che mi tenne per piú d’un anno nelle agonie della disperazione e della miseria, che pose sull’innocente mio dorso la schiavina del piú vii reo, e che m’espose alla derisione e agl’insulti d’una masnada di scellerati, che non m’odiavan per altra ragione se non perché non era anch’io uno scellerato com’eran essi. Alla morte del padre fu riconosciuta, egli è vero, la mia innocenza, e compatite dalla pietá e giustizia del figlio le lunghe mie lagrime; ma, obbligato di scrivere la storia di tutto il fatto, per dissipare ogni ombra di colpa da cui minacciata era la mia memoria, che poteva o doveva far io, o che fatto avrebbe ogni uom onorato che stato fosse nel caso mio? Nelle smanie e negli émpiti del dolore dimenticò forse talvolta la penna mia la gran distanza che passava tra un de’ piú sommi regnanti e un povero facitore di versi? Ma perché sdegnerassi altri per udire negli scritti miei quello che, senza sdegnarsi ed alfine non senza compassione, udí lo stesso Leopoldo da me? Io cito al tribunale di quel monarca tutti quelli che mi condannano. Queste poche parole del nostro dialogo sono sufficienti a convincerli c’hanno torto. Quando terminai di parlare, rimase un momento pensieroso, fece due o tre giri per la camera senza parlare, e, volgendosi d’improvviso con serena faccia a me, tuttavia inginocchiato : — Sorgete — mi disse, stendendomi la mano per aiutarmi: — vi credo perseguitato e vi prometto un risarcimento. Volete di piú? — Dissi giá in un altro loco l’effetto che in me produsse questo tratto d’eroica moderazione; e una spiritosissima damigella, udendo da me che negli Stati dell’imperadore s’erano proibite da’ censori del governo queste Memorie , altro non disse che questo: — Invece di proibirle, avrebbe fatto bene di spargerle per tutto il mondo. Un volume d’encomi non avrebbe detto di Leopoldo quello che dice questo bel tratto. — Sottoscrivo alla nobile sentenza, e torno agli avvenimenti d’America e al dottor Giuseppe Gherardi. Dopo esser egli stato alcuni giorni con me, parti da NeivYork per andare a Boston a visitare il fratello. Al suo ritorno da me, parlottimi con sentimenti di gioia di certo articolo inserito il mese d’ottobre di quell’anno (1824) nel North American Review, giornale di molto grido in America, nel quale, per quello che udito aveva da molti, con vera stima parlavasi dell’idioma e letteratura italiana. È facile imaginare il mio giubilo a tal novella. Corsi senza indugiare al magazzino del libraio da cui quel giornale vendevasi ; ne feci l’acquisto, e, senza darmi il tempo d’andare a casa, mi misi a leggerlo. Fu grande la mia allegrezza quando, al cominciamento di quello, d’intendere mi parve che fine primario di quello scrittore fosse di promuovere particolarmente Io studio della nostra letteratura («that an acquaintance with Jtaíian literaiure should be widely diffused»). — Avremo dunque — diceva io a me medesimo, leggendo, — avremo anche in America un Roscoe, un Ginguené, un Mathias, e andranno meglio le cose. — Ma, quando, proseguendo a leggere, m’accorsi che il nostro apparente Plinio prendeva improvvisamente tutta la severitá d’Aristarco, cangiossi allora in cordoglio la gioia mia, e mi parve di vedere il mostro oraziano. che, dopo aver mostrato la bella faccia d’un capo umano, scopre gradatamente una cervice di cavallo ed una coda di pesce. Credei allora che fosse da me il confutar l’opinioni erronee di quel censore. Pubblicai delle Osservazioni su quell’articolo, che, sebben giustissime parvero ad ogni colto e spregiudicato lettore, nulladimeno, invece di convincere de’ suoi torti l’ancor «giovine atleta», l’incoraggiarono a pubblicare un secondo articolo pili acre, piú amaro e piú d’errori pieno e di pregiudizi del primo! Io aveva determinato di dargli una seconda lezione d’un genere diverso dalla prima, che fu per altro tenuta per «balsamica» da uno de’ miei coltissimi allievi, il quale in una sua spiritosa lettera s’esprime cosí: «Non seppi piú della scienza solida dell’Italia che possiede il critico di Boston, a cui Ella ha amministrato un balsamo salutare» (doveva dire «irritante»). Ond’io, di tanto accorgendomi, e riflettendo che ciò ch’ei diceva non era che una esagerata ripetizione di quello che prima di lui tanti altri copisti di Boileau, di Johnson, di Chesterfield e de’ lor seguaci avcan detto, pensai che tutto quello ch’avessi potuto scrivere non sarebbe che un suonar i pifferi a’ sordi, e, invece di andar in collera, mi misi a ridere, siccome i dotti italiani fanno delle matte opinioni di que’ lor giudici. Difatti, se non giovarono a cangiar le opinioni quelle cose che tanti grandi uomini scrissero, come avrei io potuto, anche per molti volumi, cangiarle? Come avrei potuto convincere il nostro critico, si persuaso della sua propria, che le imagini ed i translati da Petrarca usati nelle tre canzoni sugli occhi di Laura sono d’una bellezza e d’una squisitezza inarrivabile, e non affettazioni e concettini, com’egli, ed egli solo finora, ebbe il piacere di chiamarle, se non poterono ottener tanto da lui gli elogi de’ Gravina, de’ Bettinelli, de’ Casaregi e di altri cento italiani e francesi scrittori (oltre il nostro gran trombadore Ginguené), che «le tre divine sorelle» quelle tre canzoni concordemente chiamarono? L’avrei io potuto convincere che Boileau ne’ suoi ultimi anni avea mutato opinione rispetto alla Gerusalemme del Tasso, se nemmeno uno scrittore francese di grido ha tanto potuto? (0. E che dirò del povero Metastasio, che i signori contributori del North American Review tanto poco stimano, ad onta di mille belle cose che di lui scrissero e Rousseau e Arteaga e Andres, per lasciar da parte gli scrittori italiani? Una cosa sola mi sono allora legata al dito, per rivendicare il gusto de’ nostri italiani, quando le occupazioni mel permetteranno; occupazioni assai a me grate di lor natura, aumentate di molto dal felice avvenimento, di cui farò tosto parola. Sebbene io vedessi con giubilo aumentarsi ogni giorno di piú in piú, tanto in New-York che nelle altre cittá dell’Unione, la coltura delle lettere italiane, credeva nulladimeno che un mezzo ancora vi potess’essere da renderle e piú diffuse e piú in pregio; ma, per dire la veritá, io non ardiva sperarlo. Or (t) L’abate Oi.ivf.t, Storia dell’accademia di Francia, carta 18; Skrassi, Vita di Torquato Tasso. qual fu l’allegrezza mia, quando assai persone m’assicurarono che il lodato Garzia, colla sua impareggiabile figlia e con alcuni altri cantanti italiani, veniva da Londra in America, e appunto a’New-York, per istabilirvi l’opera musicale italiana, ch’era il desideratimi del mio sommo zelo? Infatti vi capitò; e l’effetto fu prodigioso. Non è possibile imaginare l’entusiasmo che nella colta parte della nazione produsse la nostra musica, eseguita da soggetti di sommo gusto e di sommo merito. Il barbiere di Siviglia dell’universalmente ammirato e lodato Rossini fu il dramma felice che piantò la prima radice del grand’arbore musicale a New-York. Un giovine americano, di molto ingegno dotato e grand’amatore di questa nobile arte, ne parlava un di quasi ex cathedra co’ suoi amici in presenza mia, poco prima che i nostri cantanti arrivassero. Sembrandomi erronee le sue opinioni, gli dissi scherzando: —Signor Salomone, tacete. Voi non sapete ancora niente di musica. — Parve sdegnarsi meco quel bravo giovine: lo pregai di calmarsi, e gli promisi di presto convincerlo. Qualche tempo dopo arrivò il Garzia: s’annunziò per l’apertura del teatro fi barbiere di Siviglia del detto Rossini, ed alla quinta ripetizione lo condussi meco al teatro con alcuni altri de’ miei allievi, la cui ammirabile musica rapfa ed essi e alcuni altri spettatori, che v’intervennero, in una spezie d’estasi di dolcezza. Accorgendomi dell’effetto maraviglioso, che producea quella musica, dal lor perfetto silenzio, da’ movimenti del volto e degli occhi e dal continuo sbattersi delle mani, terminata la pruova, me gli accostai e chiesi l’opinione del nostro incredulo: — Signor Da Ponte — diss’egli generosamente, — avete ragione. Confesso con vero piacere che io non sapevo un iota di musica. — Non dissimili furon gli effetti che produsse la prima rappresentazione in tutti quelli che non avevan gli orecchi foderati di quella pelle di cui si fanno i tamburi, o non avevan qualche interesse particolare per dirne male b), ora per dare il primato (i) Un giornalista dal tristo specchio onorò la musica italiana del nome di «mostro». alla musica degli altri paesi ed ora per alzar alle stelle il «chichirillare» di qualche seducente gallina. A dispetto delle lor ciance, fu si costante in New-York questo trasporto per la nostra musica, che pochissime furono le sere in cui non fosse pieno il teatro di una numerosissima e scelta udienza ; e anche ciò accadde, cred’io, per mancanza di flemma nel direttore spagnolo. Quanto interesse io prendessi nella continuazione e nella felice riuscita di tale impresa, è facile imaginarlo senza ch’io il dica. Io prevedeva bene quali e quanti vantaggi ne riceverebbe la nostra letteratura, e quanto si diffonderebbe la nostra favella per gli allettamenti del dramma italiano, che per tutte le colte nazioni del mondo è il piú nobile e il piú allettevole di quanti spettacoli l’ingegno umano ha inventato, e a perfezionamento del quale concorrono quasi a gara l’arti piú nobili.
Per quanto belle però e per quanto pregiate fossero l’opere poste in musica dal Rossini, mi parve che l’economizzarne le rappresentazioni e alternarle con quelle d’altro compositore stata sarebbe cosa utilissima, tanto per la fama del bravissimo Rossini che per la cassa degli intraprenditori. Una buona gallina è certamente una deliziosa vivanda; ma, replicatasi si spesso dalla marchesana di Monferrato a certo convito che diede al re di Francia, fu cagione che quel re domandasse se in quel paese non nascevano che galline. Ne parlai al Garzia: gli piacque il pensiero mio, e, all’udire ch’io gli proponeva il mio Don Giovanni messo in musica dall’immortai Mozzart, mise un altro grido di gioia, ed altro non disse che questo: —Se abbiam personaggi bastanti da dare il Don Giovanni , diamolo presto: è la prima opera del mondo. — Rimasi lietissimo a tal risposta, tanto perch’io ne sperava un ottimo effetto, quanto per un vivissimo desiderio, assai in me naturale, di vedere qualche mio dramma rappresentato in America. Esaminate tra noi le cose, si trovò che mancava alla compagnia un soggetto capace di cantar la parte di don Ottavio: m’incaricai di trovarlo io stesso, e lo ritrovai. E, perché l’impresario del teatro non voleva incontrar nuove spese, tra me, gli allievi e gli amici miei lo pagammo; e il Don Giovanni andò in scena. Non m’ingannai nelle mie speranze. Tutto piacque, tutto fu ammirato e lodato: parole, musica, attori, esecuzione; e la bella, spiritosa e amabile figlia nella parte di Zeriinetta tanto si distinse e brillò, quanto impareggiabile parve il padre in quella di don Giovanni. Diverse per veritá furono le opinioni del pubblico sul merito trascendente di questi due rari portenti del regno filarmonico. Chi preferiva Rossini, chi l’alemanno, né saprei veramente dire se piú partigiani ebbe IL barbiere di Siviglia o il Don Giovanni. Bisogna osservare però che Mozzart, o perché piú non è o perché non di razza italiana, non solamente non ha nemici, ma balzato pel sommo suo merito al cielo dagl’imparziali e dagl’intendenti; ove il Rossini ha un partito numerosissimo di nemici, altri perché invidiosi della sua gloria, ed altri pel cacoete maligno o per l’istinto malnato di criticar e di biasimare quanto ha di piú maraviglioso l’Italia. Vo’ narrar qui una storiella, che fará ridere un pochino il mio buon lettore. Mi trovai un di a caso a crocchio letterario con quattro sapienti di quattro nazioni. Uno di questi era spagnuolo, un altro francese, il terzo tedesco e il quarto americano. Ognuno, com’era cosa naturalissima, alzava al di lá di Saturno la lingua e le lettere del suo paese. Don Chisciolle , dicea lo spagnolo, vai quanto valeva tutta la libreria del re di Francia, ch’era, per quanto dicono, la piú bella e la piú ricca del mondo. Il francese dava il vanto stesso a Voltaire, sommo epico, sommo lirico e sommo tragico. Al tedesco bastava Klopstock e Goethe; e le novelle di Cooper e la Colombiade all’americano! Voleva dir qualche cosa anch’io de’ nostri scrittori: ma, appena per parlar la bocca apersi, che que’ quattro sapienti s’alzarono e con un risolino sardonico si misero in atto d’andarsene. Vicino alla porta un d’essi cosí parlò (mi dispiace doverlo dire, era questi l’americano (0): (i) Era di Boston 1 — Signor Da Ponte, io sono stato molti anni in Italia ed ho visitate e studiate tutte le principali cittá; ma, per parlare con ischiettezza, tutto quello che ho trovato di buono furono i maccheroni col cacio di Parma o di Lodi e il bue alla moda. — Con un poco d’aglio — aggiunse allora il francese. Una risata stentorea a quattro voci fu il bel segnale della generale approvazione. Allora, ridendo anch’io, non con loro, ma di loro: — Ebbene — soggiunsi, — se mi farete il favore di venir domani a pranzo da me, troverete i maccheroni di Napoli col cacio parmigiano ed uno stufatello di bue alla moda con dell’aglietto. — Con tripudi di gioia accettarono tutti a una voce l’invito, e udii ch’un d’essi pian piano disse a’ compagni: — Andiamoci e rideremo. — Non riser essi, ma io.
Vennero tutti quattro puntualmente, e, dopo una breve apologia pel selvatico complimento fattomi il giorno antecedente, ricominciarono a intonarmi la solita antifona della salmodia antitaliana; e le stravaganze di Dante, i concettini petrarcheschi, i plagi di Boccaccio, le follie dell’Ariosto, l’oro cantarino di Tasso e lo zucchero sdolcinato del Metastasio furono il dolce antipasto di cui cibarono per un’ora i miei pazientissimi orecchi que’ sapientissimi convitati. Alfine si portò in tavola, e, appena seduti, uno dei servi scopri la bacinella dei maccheroni riccamente informaggiati, ed un altro lo stufatello con dell’aglietto, che coll’odore fragrante potea eccitar l’appetito ne’ morti. Alla ghiotta comparsa: — Bravo, signor Da Ponte! — gridò quel medesimo americano. — Ecco quant’ha di buono l’Italia! — Io, che pur m’aspettava il bel complimento, avea dato a un de’ servi certa lezione, per la quale con prestezza mirabile levò quel piatto e lo stufatello, e, invece di quelli, portò due piatti grandissimi di pannocchie bollite db — Ed ecco — gridai io allora, — quanto ha di buono l’America. Gavazzate, signori! — Chi torse il naso, chi sospirò; ma né lo stufato né i maccheroni furono riportati sulla mia tavola per quel pranzo. (i) «Corti». Piatto favorito in America. Dopo questo breve episodio maccaronico ma istruttivo, torno a Rossini, che dammi argomento parziale a un altro episodio, non men del primo piacevole. Di mano in mano che l’opere di Rossini rappresentavansi, gli applausi de’ conoscitori e degli amici del vero sembravan crescere. Un ser cotale, non so se per gelosia di mestiere o per altro motivo, inalberò arditamente antirossiniana bandiera, e tutto ciò disse e scrisse di questo bel genio, che un pazzo invidioso o un ignorante sfacciato potrebbe dire. Amico zelante della mia illustre nazione e di tutti i talenti che in lei si distinguono, non mi fu davvero possibile menarla buona a costui, e presi tosto la penna in mano per difender la fama di un illustre individuo italiano, come io aveva prima difeso il carattere dell’intera nazione e poscia quello de’ suoi letterati e della sua lingua. E, perché confido di far cosa grata tanto al signor Rossini, quanto a tutti coloro che tante ore deliziose passarono all’incanto della sua musica, trascriverò qui parte di quello che scrissi a difesa delle mal fondate accuse, che quel malevolo anonimo portò contra lui. Forse quel foglio inglese, sul quale il mio articolo pubblicai, non è arrivato in Italia. Eccone la traduzione fedele: Signor anonimo, Ho letto, parte con dispetto e parte con riso, l’articolo pubblicato ier l’altro da voi in un certo giornale, nel quale, per ergere al cielo la musica di Mozzart, vi studiate di seppellir negli abissi quella del nostro Rossini, lo non credeva che il nome celeberrimo di Mozzart avesse bisogno di ciò per accrescere la sua gloria, come non è necessario dire che la stella di Venere è senza luce per pruovar che lucidissimo è il sole: onde, e ridicolo e ingiusto quel vostro scritto sembrandomi e ingiurioso ad un tempo stesso al nome di un italiano, che non da’ soli suoi nazionali ma da’ piú colti popoli della terra per un raro fenomeno è giudicato, non ho potuto astenermi dal fare alcune osservazioni e di far nostro giudice il pubblico. Nel cominciamento di quell’articolo, non osando negare che la musica di Rossini universalmente non piaccia, pretendete insegnarci che il consenso universale degli uomini non sia pruova di veritá; e come tentate pruovarlo? Con uno di quei marroni filosofici, che chiamasi, se non fallo, «paralogismo». — Tutti gli uomini — dite voi — credettero alla magia, all’astrologia, agli oracoli, al moto del sole intorno la terra, alla influenza della luna; ma tutti gli uomini in questa loro credenza s’ingannarono: dunque il comune consentimento non è pruova di veritá. — Questo raziocinio, signor anonimo, sarebbe giusto, se i giudizi, che dipendon dai sensi, non fossero affatto da quelli diversi che dall’intelletto dipendono. Un uomo può ben ingannarsi ne’ calcoli, nelle deduzioni, nelle probabilitá delle analogie e nelle ipotesi; ma chi è mai quello stupido che s’inganni nelle cose che «sunt ocuiis subiectafidelibus», o ad alcuno degli altri sensi, da cui quel giudizio dipenda, se non nel caso che quel senso sia viziato ed ottuso, come è forse il vostro in fatto di musica? E, se pur qualcuno accidentalmente s’inganna, creder possiamo che accada mai che tutti ancora s’ingannino? Potrebbero tutti gli uomini pigliar l’odore ingratissimo del papavero per la fragranza del gelsomino, o masticar la cicuta credendo di masticar una mela, o stringere con le dita un pezzo di ghiaccio credendo di stringer la mano di morbida verginella? Né voi lo credete, né io, né chi ha fior di senno nel capo. Nella maniera medesima, chi non è sordo giudicherá della musica, né prenderá mai il suono d’una campana per quello d’un violino, né il crocitare del corvo pel canto dell’usignolo. Cosi non dirá: — Questa musica mi dá gusto, — se non gli dá gusto davvero; e se, come dá gusto a lui, cosí lo dá a tutti quelli che l’odono, questo dirassi gusto di pubblico consentimento, e per conseguenza pruova di veritá: quod erat demonstrandum. Se poi questo sommo diletto durerá o non durerá, non è da noi l’asserirlo; ma, se ancor non durasse (siccome voi pretendete di profetizzare), questo nulla torrebbe al suo merito, che consiste nella facoltá di porger diletto a quelli ch’ora l’ascoltano. Sappiamo che tutte le cose della terra, per belle che sieno, col tempo cambiansi. Quella rosa al mattino tanto leggiadra, quella forosetta bellissima a sedici anni e «spedando, nigris ocu/is tiigroque capi/lo», quando la sua giá secca e pallida guancia «ruga senilis arat», diventa oggetto di compassione, se non di disprezzo all’immemore vagheggiatore. Ad onta di ciò, non si lascia di amar quel fiore al mattino, perché deve appassire la sera, né di bramar il possesso di quel bel viso nella etá sua piú fresca e piú fiorita, perché si sa che, invecchiando, dee perder gran parte delle sue grazie. Questo conoscimento al contrario aumenta la brama di gioirne e di córre la fresca e mattutina rosa, che, tardando stagion, perder potria.
Facciam il medesimo col Rossini; amiam la sua musica finché piace; quando piú non ci piacerá, lo porremo a dormire co’ Palestina, cogli Scarlatti, co’ «Sassoni», i cui nomi sono immortali nell’universo pel tempo c’hanno piaciuto, quantunque piú adesso non piacciano. Quanto poi ai gradi di merito di questi due celebri compositori ed alle qualitá del diletto prodotto nell’uditore dalla squisita lor musica, né io né voi abbiamo competente bilancia da darne il peso. Io, perché amo ma non professo questa bell’arte ; voi, perché guidato da pregiudizio e forse da una secreta invidiuccia. Parmi nulladimeno di poter dire che, se l’opere di Mozzart sorpassano quelle dell’italiano in profonditá di scienza e negli effetti ammirabili d’una studiata armonia, quelle del Rossini a molte persone piú piacciono per la soavitá delle melodie e per la rara facilitá che trova il cantante a eseguirle, e a ritenerle l’ascoltatore. Voi pretendete nulladimeno che queste melodie rossiniane non giungano fino al core, ed io non voglio fare una guerra con voi su questo punto. Al mio so che vi giungono: se non giungono fino al vostro, è facile che la colpa sia degli orecchi, nella cui soverchia lunghezza l’aria armonizzata si perde, come ho udito dir che perdevasi in quelle del povero Mida. In una cosa però avete dato nel segno, e vi do ragione. Il bravo Rossini ripete qualche volta se stesso nelle sue composizioni. Ma ciò non adiviene, per giudizio mio, per mancanza d’idee o per povertá di fantasia: colpa di ciò è l’avara ignoranza de’ malaccorti intraprenditori teatrali, i quali, credendo che nel successo d’un dramma musicale poco o nulla conti il poeta, per risparmiar qualche piastra col poeta, che tutt’altro è che poeta, dánno a’ compositori di musica delle parole che non dicono niente e dicono sempre lo stesso. Pochissimi sono i drammi ne’ quali non s’oda ripetere una, due e tre volte: «Ah! mi si spezza il core!...», «Io non ho piú speranza...», «Tu mi trafiggi il seno...», «Io morirò d’affanno...», «La mia felicitá...», o frasi e parole di simil genere, che bene o male devono entrar nel cominciamento di quell’aria o nella «stretta», ossia chiusa, di quel duetto, terzetto o finale, e in cui il verseggiatore s’imagina che consista il principale pregio del dramma. Se l’inimitabile Rossini, invece d’esser condannato a vestir delle leggiadre sue note parole insieme accozzate per formar un certo numero d’accenti e di sillabe, a cui dar s’osa il nome di «verso», e in cui non havvi né sentimento d’anima, né vivezza d’affetto, né veritá di carattere, né merito di situazione, né grazia di lingua, né imagine di poesia, avesse avuto de’drammi, in cui, oltre l’interesse del soggetto, avesse il poeta saputo opportunamente alternare il dolce e il feroce, l’allegro e il patetico, il pastorale e l’eroico, ecc. ; altro, ben altro sarebbe stato l’effetto della sua musica, ché la varietá de’ metri, de’ sentimenti e delle parole l’avrebbe obbligato a variare. La pruova di ciò è II barbiere di Siviglia , ch’essendo un de’ capolavori di Beaumarchais, ha somministrato degli ottimi materiali al traduttore italiano. Questa triplice varietá fu il principale mio studio in tutti i drammi scritti da me, e in quelli principalmente che ebbi la fortuna di scrivere per Salieri, Martini e Mozzart, ch’aveano il pregio di saper leggere; pregio per veritá che non tutti vantano i nostri compositori di musica, alcuni de’ quali non sanno quanta differenza passi tra i versi di Metastasio e quelli di Bertati o di Nunziato Porta. Io ho quasi l’ardire di credere che, in dodici drammi scritti da me per que’ tre maestri, non vi sieno due arie o due cosí detti «pezzi concertati» che si somiglino; e, se in queste lor opere si son raramente copiati, in questo aspetto almeno il vanto piacevole mi si accordi d’esser a parte della lor gloria. Questa è la risposta che diedi allora a quel critico, e della quale solennemente poi me ne compiacqui per un avvenimento bizzarro, che fa a proposito. Un signore americano, grande amatore di musica e nella nostra favella versatissimo (come quegli che vissuto era molti anni in Italia e tutte le sue primarie cittá aveva visitate), m’era vicino nel teatro alla rappresentazione d’un dramma applaudito. Verso la metá del primo atto, volgendosi a me, sorridendo: — Signor Da Ponte — disse egli, — terminata quest’aria, m’adagerò per dormire: quando viene il tal pezzo, vi prego svegliarmi, se allora dormo; e credo bene che dormirò, perché questo povero dramma è il miglior soporifero del mondo, come lo son per disgrazia quasi tutti quelli che vengono dall’Italia. — Non seppi che cosa rispondergli, e in pochi momenti l’udii russare. Lo svegliai al pezzo indicatomi, dopo il quale o si riaddormentò o finse di dormire, e cosí per tutto il rimanente dell’opera; e allora ci separammo. Due o tre giorni dopo, dovevasi rappresentare il mio Don Giovanili . Andai la mattina al teatro, e trovai scritto il suo nome nel solito libro de’ posti, ed, essendovi loco anche per me nella loggia stessa, vi feci registrar subito il mio. Era egli giá nel suo sedile, quand’ io v’andai; ond’io mi posi al suo fianco. Verso la fine dell’atto primo volli parlargli; ma egli, quasi in atto di sdegno, mi fece cenno di tacere, e, quando, dopo il finale, calò il sipario: — Ora parlate — mi disse, — o signor Da Ponte. Che volevate dirmi? —Voleva chiedervi — replicai — quando v’adagerete per dormire. — Domani — soggiunse: — a tali spettacoli non solo non dormesi alla rappresentazione, ma non si dorme, dopo quella, tutta la notte. — Questo complimento solleticò un pochino il mio amor proprio, tanto piú che mi parve vederlo prestar pari attenzione al cosí detto «recitativo» e a’ piú sublimi pezzi di musica. Terminata la recita, obbligommi con dolce forza di andare a cenare da lui. Non durò meno di due ore la nostra cena e non si parlò che di teatro. Tutte le sue riflessioni mi parvero giustissime. Egli era ammiratore entusiastico di Goldoni e d’Alfieri. — Immenso — mi diceva egli — è il merito di questi due sommi uomini. Essi sono le due piú forti colonne del vostro teatro, ed ogni critico giusto deve considerarli i ristoratori, anzi i creatori della vera comica e tragica italiana; e non è forse l’ultimo de’lor meriti quello d’aver dato de’ novelli Rosei all’Italia, perché non è possibile, per uno che sappia sol leggere, recitar le bellissime scene di tali scrittori senza essere declamatore eccellente, e chi non l’è, lo diviene. — Io pendeva dalla bocca di quell’egregio ragionatore, come una volta pendevasi dagli oracoli; e se io gioiva in udirlo, chi ha fior di senno sei pensi. Fu questa poi la sua ultima osservazione. — In Francia, come tutti sanno, non si canta come in Italia: ma, siccome i drammi, che rappresentansi, sono in generale scenografici, graziosi e pieni di spirito, cosí, per natura od istudio, gii attori sono eccellenti, onde succede assai raramente che un’opera francese (per servirmi d’una frase tecnica) faccia fiasco. — Applaudendo a tutto quello ch’ei disse, gli diedi la buona notte e partii.
Or m’oda per pochi istanti il mio discreto lettore. Nelle tre prime parti delle mie Memorie , le cittá nelle quali vissi, la natura degli uffizi ch’esercitai, i personaggi distinti con cui ebbi a che fare, e un Certo gioco di fortuna, che parve voler fare in me solo l’estreme pruove del suo capriccioso potere, ampia ed alta materia mi dettero, onde interessare ed intrattenere il mio leggitore. Il paese, nel quale da piú di cinque lustri mi trovo, non prestandomi tali avventure, sono alla condizione d’un precettor di botanica, che viaggia co’ suoi allievi per instruirli in quella scienza, e che, dopo aver mostrato le qualitá e le virtú delle piante, dell’erbe e de’ fiori, nel passare che fa per deserte piagge o per monti sterili, per non perder affatto il suo tempo, mostra loro le proprietá di qualche virgulto o di qualche sterpo. Cosi io, vivendo in America, d’altro scrivere non posso che di fatti domestici e di vicende e di cure cittadinesche, nelle quali sono stato e son tuttavia, se non il protagonista della tragicomedia, almeno uno degli attori primari. Da tutto però qualche cosa di buono può apprendere un saggio lettore; nella medesima guisa che tanto da’ precetti di Socrate e di Platone quanto dalle favolette d’Esopo impara le regole del ben vivere chi vede ... la dottrina che s’asconde sotto il velame delli versi strani.
E molti scrittori (tra i quali lo spiritoso Baretti), pretendono che piú s’impari dalla lettura di qualche Vita privata che da quella di molte storie di popoli e di nazioni. Difatti, se nella mia gioventú avess’io letta la storia d’un uomo, a cui le stesse cose accadute fossero che a me son accadute, e la cui condotta, dal piú al meno, fosse stata simile alla mia, quanti, quanti errori non avrei potuto evitare, le cui conseguenze tante lagrime mi costarono e affliggono si amaramente la mia piú tarda decrepitezza ! Or posso e devo dire anch’io, col Petrarca: Io conosco il mio fallo e non lo scuso; ma il male, all’etá mia, è senza rimedio, e a me piú non rimane che il pentimento. Imparino almeno gli altri dal mio esempio quel ch’io non ebbi occasione d’imparar da quello degli altri. Non si fidino quindi, come ho fatto io, di poche melate parole; non aprano il loro core a persone, di cui non conoscono per anni ed anni il carattere ed i costumi ; facciano l’anima di sasso e l’orecchio di bronzo con quelli che chiedon pietá colle voci dell’adulatore; non misurino la rettitudine altrui dalla rettitudine propria ; non dican : — Colui non ha ragione alcuna d’ingannarci, d’odiarci, di tradirci: dunque non ci odierá, non ci ingannerá, non ci tradirá; — ma dicano invece tutto il contrario, perché appunto il contrario è quello eh’è a me addivenuto: se hanno ottenuto qualche talento dalla natura o qualche favore dalla fortuna, procurino ognor di celarlo altrui colla piú gran cura, e non isperino alfine di cangiar l’animo de’ malvagi colla sofferenza o coi benefici. Dopo questo picciolo sfogo, necessario al mio spirito oppresso dal piú doloroso avvenimento e impensato all’epoca in cui scrivo, torno ai riflessi teatrali di quel sagacissimo americano; e mi giova sperare che, se questo volumetto giunge in Italia, qualche accorto impresario, leggendolo, abbraccerá di buon grado il consiglio mio, per cui si vedrá primeggiare l’Italia anche nel campo drammatico, siccome a dispetto di tutti i critici primeggiò nel comico per un mal censurato Goldoni e per un Alfieri nel tragico. E, giá che son tornato al teatro, mi vi fermerò ancora per poco, e narrerò un fatterello giocondo, che rallegrò me quando accadde, e ch’or piacerá a chi mi legge. lo avevo fatto tradurre in inglese letteralmente il mio Don Giovarmi , e l’impresario di questo teatro m’aveva cortesemente concesso di stamparne i libretti per conto mio. Ne vendei un numero prodigioso al teatro, e il profitto della vendita mi pagò abbondantemente le spese e le cure. Ma la mia buona sorte fece di piú a mio vantaggio. Per comodo di quegli spettatori che non si conoscono molto del nostro idioma, è l’uso in America di porre in vari magazzini e botteghe il libretto del dramma che deve rappresentarsi la sera. Io n’avea posto alcuni in certo botteghino, dove i biglietti del lotto vendevansi ; nel quale entrando io una mattina: — Signor Da Ponte — disse a me il bottegaio, — mandateci tosto degli altri libri. Ne avevamo ancora sedici, e gli abbiamo venduti ier sera: ora vi pagherò sei piastre. Sedete. — Mentre stava contando il danaro, mi si affaccia agli occhi uno scritto, che dice: «Domani si cava il lotto, e il biglietto costa sei talleri». — Ebbene — diss’io allora, — datemi un biglietto, e tenetevi quel danaro. — Fece cosí. Misi quel biglietto nella tasca e andai a casa. Era quella la prima volta ch’io avevo aperto la porta alla fortuna, spendendo alcun danaro a quel gioco; e tanto poco io sperava ch’ella v’entrasse, che il sonno d’una sola notte m’aveva fatto dimenticar affatto il mio esperimento. Verso sera però, mentre io stavo al desco scrivendo, odo picchiar replicatamente con urli di gioia la porta della mia casa; aperta la quale, entrar veggio un domestico di quel botteghino, che m’annunziava la vincita di cinquecento piastre. Avvezzo a’ rabbuffi e poco a’ favori della sorte, durai fatica a prestargli fede ; ma, trovando ch’era la veritá, regalai alcune piastre all’amico domestico, benedicendo Mozzart, Don Giovanni , il teatro e i botteghini del lotto. Andai tre di dopo a riscuotere quel danaro, alla vista del quale un solo pensiero occupò tutto il mio spirito; e fu quello di usarne intieramente in acquisti di nuovi libri, onde stabilire una scelta, se non numerosa, pubblica biblioteca nella cittá. Fu allora che trassi da varie cittá d’Italia un buon numero di belle e costose opere, tra le quali Rerum Italicarum scriptores di Lodovico Muratori, monumento glorioso della sapienza italiana, e il raro’ raro Giornale di Apostolo Zeno, e l’opere del Visconti, e quelle del Winckelmann, e le Memorie della societá italiana , e quelle di Torino, oltre le piú magnifiche edizioni di Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso. Credei che il Collegio esser dovesse un punto di appoggio al mio stabilimento. In un volumetto, che intitolai Storia detta letteratura italiana in NewYork e che pubblicai colle stampe l’anno 1827, narrai per esteso le strade che presi e i mezzi che adoperai per alzare ed eternare nelle sacre sue mura un monumento glorioso alle nostre lettere: narrai che, a facilitarne l’esecuzione, vi deposi io medesimo un certo numero di volumi, in quelli impiegando tutto il danaro che ventotto alunni di quel Collegio a me diedero per le lezioni di dieci mesi, e come poi mi venne fatto, per l’influenza de’ miei due nobilissimi allievi Carlo Clemente Moore ed Enrico Anderson, di aggiungere a’ volumi depositati da me molte altre belle opere, a spese del Collegio stesso acquistate: di maniera che piú di settecento scelti volumi ora trovanvisi, ove all’arrivo mio altro non vi si trovava che un vecchio, sdrucito e tarlato Boccaccio. Ma, per mio soijimo rammarico, fu questo un foco di paglia, e il poco effetto delle mie cure a rinunziare m’indusse allo spezioso titolo di professore, che accordato m’avevano, e insieme ad ogni speranza di veder riuscire in quell’istituto il disegno mio. Siccome però abbiam un proverbio che dice «Semel abbas semper abbas», cosí seguitavano tutti a onorarmi col titolo di «signor professore», e gli alunni di quello invitarono anche me a certo pranzo annuale, ove e alunni e professori convengono. Essend’io quella mattina di buon umore, invece d’andarvi, mandai agli invitatori questo ghiribizzo latino che fece ridere. Sum pastor sine ovibus, aralor sine bovibus, hortulus sine fiore, lychnus sine splendore, campus sine frumento, crumena sine argento , novitá sine navibus, ianua sine clavibus, arbustus sine foliis, taberna sine doliis, Olympus sine stellis, chorea siile puellis, artifex sine manibus, Venator sine canibus, fons sine potatoribus, pons sine viatoribus, sacerdos sine tempio, professor sine exentplo.
Io non avevo né discepoli né salario ! Se però tanto poco conto facevasi degli studi italiani nel collegio della cittá, il generale diletto, che attraeva al teatro la nostra musica, non permetteva ch’io perdessi tutta speranza d’ottener alla fine l’intento mio. — La vostra musica — mi dissero un giorno alcune damigelle— è senza contraddizione bellissima; ma il non intendere l’italiano ci rende lo spettacolo men piacevole. — E perché — replicai — non istudiate anche voi questa bellissima lingua? — Perché, come ben sapete — risposero, — la moda vuole che s’impari lo spagnuolo. — Per quanto naturale sembrassemi che in paese si inclinato al commercio, dopo la rivoluzione del Messico, imparassero gli uomini quella lingua, altrettanto strano mi parve che a quella le dame si dedicassero, per ragioni che tutti sanno, ma ch’io non ardisco ripetere. Persuaso che questa predilezione nascesse dal non sapere la differenza che passa tra queste favelle e il numero e i pregi de’ loro scrittori, andava studiando tra me medesimo al modo piú acconcio a disingannare. Entrato un di a caso nella cantina d’un mercante per comperare del vino per la famiglia, udita la qualitá ch’io chiedeva, mi presentò tre bottiglie e non mi disse che questo: — Ecco tre differenti qualitá del vino che domandate. Assaggiatene un bicchierino di ciascheduno, e avrete quello che piú vi piace. — Feci cosí: comperai il vino che piú mi piacque; e, abbracciando sul fatto un pensiero che il buon ministro di Bacco fece in me nascere, corsi a casa e stesi un paragrafo, che mandai il di medesimo al gazzettiere, nel quale proposi di stabilire una triplice classe, nella quale, pel modico prezzo di dieci piastre, lo spagnolo, l’italiano e il francese s’insegnerebbero. — Ecco — dissi a me stesso — le tre bottiglie di qualitá differente. Veggiamo qual delle tre sará per ottenere piú bevitori. — Scelsi a compagni i due piú valenti insegnatori della ciltá. Pillet, di onorata e venerabile memoria, insegnava il francese, e Vigliarino, oriundo castigliano, lo spagnolo. Ebbi settantacinque scolari il primo trimestre e in punto cento il secondo; e qual fu la bottiglia favorita? Né l’uno né l’altro de’ soci miei ebbe piú di ventidue o ventiquattro discenti, quando io n’ebbi fino settanta, la maggior parte de’quali non bevve che alla bottiglia dell’Arno; e l’entusiasmo, con cui leggevano i nostri autori, e i progressi fatti da una gran parte d’essi, e particolarmente dalle damigelle, stordi non solo New-York e l’America, ma i piú colti critici dell’ Italia.
Le lodi a tempo accordate, i premi distribuiti, gli artefizi adoperati da me per eccitare in essi l’emulazione produssero effetti si prodigiosi, e capaci le resero di scriver non solo e di parlare con qualche grazia, ma di assaporare mirabilmente le piú recondite bellezze de’ nostri piú sublimi scrittori. Ed io non so veramente se piú per error di giudizio, o per essere interamente ignoranti de’ nostri classici, usino certi maestri di lingua italiana di non dar quasi mai in mano de’ loro allievi se non delle storielle puerili o dei ridicoli aneddoti, di cui le grammatiche sono piene, o al piú le Novelle di Soave e le Lettere d’una peruviana e le misere produzioni talvolta delle lor ridicole teste. Due grandi abusi son questi, contro la di cui pratica crederei delitto non avventarmi: il primo de’quali è assai pernicioso al discente, che, per tal negligenza, appena vede il sogliare del nostro letterario edilízio; e l’altro ingiurioso alle nostre lettere, di cui poco conoscendosi gli stranieri, e non distinguendo la scoria dall’oro, credono assai facilmente che in quelle insulsaggini da sassate consista la somma bellezza della nostra letteratura. I versi che pel «gallico eroe» scrisse l’Aloisi in quella sua traduzione buffissima del Mirto riottoso , la lettera dedicatoria del suicida Fiorilli alla Bettina grammaticale son quintessenze di spirito in comparazione d’un orrido guazzabuglio che mi presentò una damigella di Filadelfia, che aveva studiato tre anni la nostra lingua, con queste soavi parole: — Ecco, signor Da Ponte, un libretto di bellissimi versi, che un vostro bravo compatriotta pubblicò ultimamente in questa cittá. Se avete piacere di leggerlo, posso prestarvelo. — Come dal formato e dalla legatura io avca conosciuto e il libro e l’autore, cosí la ringraziai del favore, senza poter nascondere un sorrisetto, che la damigella parve disapprovare, e, gridando: — Invidia, invidia! — mi volse il dorso e parti. Questo «saluto dorsale» poco piacendomi, corsi a casa, mi chiusi nella mia stanza, e, avendo avuto giá in dono quel libro da un buon amico ch’avea l’intenzione di farmi ridere, mi misi a farvi delle noterelle, che mandai a presentare a quella damina, e che presenterò tra le note di questo volume al mio paziente lettore. Per un saggio frattanto di questo invidiabile cigno esibisco, a chi ha voglia di ridere, questo proemiale sonetto ò). AL LETTORE Se mai fia che tu creda ch’io credessi che piacer ne trarresti, queste rime di Iacopo leggendo? ch’apponessi dirti vorria, non è, non ch’io lo stime. Bensí volea e vorrei che tu vedessi, ma per gli occhi del cor, come n’opprime a volte il fato; e che pietá n’avessi, s’egli lo suo dolore pur t’esprime. Che tu ’I voglia biasmar, gnaffe! non credo, che in Parnasso non scrisse le sue carte, ma infra sospiri, e guai, s’io ben travvedo. Non soffriratti il cor censore farte di chi privo d’amici, patria e Credo, qui venne per raccòr e vele e sarte!
Sarte, ossieno corde, di cui il signor poeta ha sommo bisogno. Ecco, signori italiani, i coadiutori che diemmi la mia fortuna in America per inalzare una reggia alle tosche muse ! Che avrebbe (i) Con punteggiatura dell’autore. potuto darmi di piú a proposito per la torre di Babilonia? E volete udir come ei parla di me? Gli chiese un giorno un allievo mio se conosceva il Da Ponte. — Si — gli rispose colui, infiorando la secca faccia d’un sogghignetto cagnesco: —pretende d’esser poeta il signor Da Ponte! — Gli feci dire che s’ingannava: ch’io non pretendeva giá d’esser poeta io medesimo, ma che credeva sol di conoscere quelli che non l’erano, e che tutti i mezzi e le strade cercherei di farli conoscere altrui. Vi fu chi riferí queste parole alla damigella dal saluto dorsale, e, venuta alcun tempo dopo a New-York, l’accidente portò ch’ebbi l’occasione di vederla nella casa d’una mia allieva. Come non era piú in collera, anzi parea colla gentilezza voler compensarmi del non donnesco saluto, io, secondato mirabilmente dalla damigella che ella visitava, senza parlar poco né mollo di quel poetastro e de’ suoi strambotti, la pregai di venire il giorno seguente da me, per veder e udir i progressi della mia classe. Perdonate, o dilettissime figlie del mio intelletto e dell’amor mio, se la mia decrepita vanitá non sa ricusarsi l’onore di decorar queste carte, non piú delle sole iniziali, ma di tutte le lettere del vostro riveritissimo e a me caro nome. Non era per veritá molto numerosa quel di la mia classe; ma le dodici, che convennero, erano i piú bei fiori del mio giardino. Erano queste la damigella Bradford, due sorelline Duer, la signorina Glover, madamigella Dubois, una giovinetta Robinson, due sorelle Weiman, una Johnson, una Kennedy ed una mia nipotina d’anni quattordici. Oltre la lezione giornaliera in iscritto, noi leggevamo un di due de’ nostri classici ed un altro altri due. Tasso ed Alfieri dovevano spiegarsi quel giorno; ma io feci portare dal mio magazzino di libri anche Dante e Petrarca, e, dopo aver fatto leggere a ciascheduna e trasportar in inglese qualche ottava o qualche scena de’ primi due, feci recitar a memoria a chi un sonetto, a chi una stanza del sommo lirico: il che sorprese molto la spettatrice. Ma quello, che parve far miglior impressione nel di lei spirito, fu la franchezza con cui la invitai ad aprir il primo volume della Divina commedia e a domandarne senza riserva la spiegazione. Dopo tale esperimento I felicemente riuscito, le chiesi qual dei primi sei canti le piacerebbe udir declamare a mente. Domandò il terzo: fu la giovinetta da’ quattordici anni ch’ebbe l’onor dell’aringo. Durò piú di tre ore la pruova, dopo la quale rimbombò d’applausi la stanza. Mi accostai allora a quella damina e le chiesi modestamente s’io aveva ragione d’aver invidia.—No, in veritá — rispose ella, — ma si d’esser invidiato! — Ella parlò in profezia. Questo fu precisamente il destino mio, principalmente in America; e l’invidia, di cui fui segno, non era quel sentimento a ognun naturale di desiderar un bene ch’altri possedè e che il Petrarca dipinge mirabilmente in questi due versi: Quanta invidia ti porto, avara terra, che abbracci quello cui veder m’è tolto! ma ben quel sentimento feroce, che sprona a tutto dire ed a tutto fare a’danni dell’oggetto invidiato; che non cura caritá né giustizia, ma, ad esempio di fierissima tigre, dopo aver sbranato e lacerato la preda, gode di lordarsi nel sangue di quella le zanne e gli artigli; e anche di questa ce ne dá quel poeta un’idea, in quel sonetto che dice: o invidia nemica di virtute, da radice n’hai svelta mia salute.
E questo fu ed è veramente tuttora il destino, mio. Né, per cortesie, per pazienza o per benefizi, m’è riuscito mai di placare quest’idra feroce, cui sopra tutto piacque di sparger il suo veleno ne’ miei medesimi compatriotti e in quegli uomini appunto, che tanto bene che male la professione mia esercitavano. E’ parrá cosa strana al lettore che in venticinque anni io non abbia potuto conservar l’amicizia, nonché acquistarmi la stima d’un sol maestro di lingua, da che vivo in America, dove io fui il primo a introdurla, a diffonderla, a nobilitarla e a non hisparmiare spese, cure e fatiche per ristabilirla. E, per coprir ora cent’altri col velo della «caritá natia», d’un solo mi piace qui far parola, che, separato da me per immenso spazio di terra e di mare e per le sue dottrine e fatiche coperto di vera gloria, sperai poter rendermi favorevole, se non pe’ talenti miei o per gli miei scritti, per l’ardor nobile almeno di promulgare, difendere ed esaltare gli studi ch’egli ama ed onora, anzi pur di crearli in questa a lui opposita parte del mondo, e per l’amor del soggetto illustre che mi spronava a chieder consiglio da lui. Nel leggere i nostri classici co’ discenti, non mancai, come ben può credersi, di porre nelle lor mani quelli che piú mi pareano convenire alla loro etá, al loro stato ed ai loro rispettivi talenti. Dopo i piú nobili toscani prosatori presentai loro i poeti. Il Metastasio fu sempre il primo tra questi: indi tutti quegli altri di sommo grido, lasciando sempre per ultime la Divina commedia e le Rime del Petrarca; e, sebbene tutti questi autori furono generalmente amati, nulladimeno chi fu il piú ammirato e studiato? Fu il ghibellino.
Questa giustissima ammirazione accordata al padre e al principe della nostra letteratura inipegnommi a studiare col piú gran fervore quel divino poema, onde schiarirne le oscuritá e spiegarne i passi difficili. Io aveva giá studiati e meditati i piú celebri commentatori: parendomi tuttavia che un loco ancor rimanesse ad illustrazioni, osai farne io medesimo alcune a diversi canti, ch’uno de’ miei piú colti discepoli pubblicò in un giornale che ei compilava. Benché le mie osservazioni generalmente piacessero, pur, onde piú assicurarmi del loro valore, pensai di mandarne copia al Biagioli, commentatore veramente di molto merito, e delle cui annotazioni io ne sparsi piú di dieci esemplari in America. Nella prefazione apposta alla sua prima edizione invita egli «i sapienti del bel paese a fargli conoscere dov’ei possa avere per ignoranza errato o per troppa voglia, e promette di ricevere con seno aperto le loro luminose osservazioni e correzioni, e di riportarle co’ nomi de’ loro autori in una novella edizione, se avesse mai loco». Siccome però il signor Biagioli né m’ha ricevuto con seno aperto, né m’ha degno creduto d’una risposta, cosí conobbi con mia vergogna che né me collocava nel numero de’ sapienti d’Italia (e in questo pupto gli do ragione), né le mie osservazioni ei credeva degne d’esser riportate da lui. Il tacito giudizio di si erudito filologo mi atterri per tal modo,
- he non osai piú proseguire rincominciato lavoro. Confesserò
tuttavia essermi passato qualche volta pel capo il sospetto di aver altamente offeso quel sommo critico, che il piú dolce di core non credon esser quelli che sentono col Lombardi, sebben docilissino si protesti é pronto a ravvedersi e disdirsi e a confessar il suo inganno ad ogni cenno che fatto gli venga. Trovò forse strano che un maestrino di lingua, che vive da piú di cinque lustri in America, ardisca portar opinioni diverse dalle sue nella interpretazione di Dante. Ma voi ben sapete, caro signor Biagioli, che anche il buon Omero talor dormi, e che un uomo senz’occhi trovò un ferro da cavallo, ch’altri non aveva cogli occhi trovato. Or, come è ben cosa facile che il vostro perspicacissimo ingegno vegga assai meglio di me le bellezze dantesche, ma impossibile al parer mio che piú amiate di me la gloria di quel poeta, cosí volgerommi anch’io, con permission vostra, a quei sapienti d’Italia, umilmente pregandoli di giudicarci in alcuni lochi di quel poema, che, secondo le vostre dichiarazioni, non mi paiono degni di Dante. Perché però non sia che un tessuto d’episodi questa quinta parte delle mie Memorie , porrò in una nota le differenze piú considerabili delle nostre spiegazioni, pregando qualche amico di Dante, e piú che tutti il mio venerato Colombo, di farmi udire, o per la via de’giornali o per lettere, la sua opinione, ch’io non tarderò a partecipare agli allievi miei, e prima di tutti a’ maestri ed aLunni di questo Collegio, nel quale introduss’ io primo in quell’anno stesso la mia favella, dichiarando secondo la mia intelligenza quel massimo autore, e sperando di stabilire in quello e per quelli un solido e permanente asilo alle nostre lettere. Trovai col tempo però che un tarlo nascosto, una spezie di lima sorda distruggea tutto quello ch’io per puro zelo faceva, e che, se anche mi fosse venuto fatto di porre in queil’instituto la stupenda libreria dell’Apostolo Zeno, avrei dopo tutto potuto dire con Dante: I libri son, ma chi pon mano ad essi? perché infallibilmente non avrei avuto un solo studente di quella lingua dopo il prim’anno, giacché alcuno de’ professori era persuaso e volea gli altri persuadere che poco di grande avesse la nostra letteratura (di cui per altro non molto si conosceva), e che in tutte le scienze e le arti superiori ci fossero gli alemanni. Non è questo il loco da dir piú di ciò: la sentenza però meriterá a suo tempo qualche riflessione. Stando dunque le cose in tal modo, e desideroso a ogni via di ridurre a effetto il disegno mio, mi parve di poter ottenere dagli altri amici ed allievi miei quello che non piú sperava dal Collegio. Depositai quindi ottocento volumi classici nella pubblica libreria, e pubblicai questi pochi versi: A’ MIEI CARISSIMI ALLIEVI, PER ECCITARLI ALLO STABILIMENTO d’UNA PUBBLICA ITALIANA LIBRERIA Sulla prora del ricco naviglio salvo in porto e felice tornando, obbliando fatica e periglio, posa trova il tranquillo nocchier. Ed il brando di sangue ancor tinto appendendo all’altare di pace, su’ trofei del nemico giá vinto s’addormenta l’antico guerrier. Io, che primo coll’onde dell’Arno non indarno inaffiai queste rive, ove udir d’ Elicona le dive armonia che non pria si senti, e che sparsi onorati sudori sulle zolle del vostro terreno, onde sorgono rose ed allori ove tronchi sorgevano un di; se vi chiedo pel dorso giá curvo sotto il peso e le cure degli anni, se vi chiedo un ristoro agli affanni e una tarda ma dolce mercé, chi di voi, cari figli d’amore, negherá tal conforto al cor mio? chi di voi del piú nobil desio secondar l’aurea fiamma non dé’? De’ bei geni dell’ italo cielo, che tra voi da molt’anni portai, eternar le dottrine bramai, ed il nome di chi le portò; ma tal gioia mi tolgon le stelle senza un’aura di vostro favore; senza voi, cari figli d’amore, la grand’opra compir non si può. Proteggete l’onesto mio voto ; ed all’ombra del bel monumento, qual nocchier, qual guerriero contento, avrò requie al cader dell’etá. Ed unito a que’ nomi immortali, ond’è pien l’universo di gloria, di mio nome una grata memoria dopo morte in vostr’alme vivrá.
Appena si riseppe il mio disegno e le mie operazioni in Italia, non mancarono tutti i buoni di lodare e di secondare i miei patri sforzi; ed, oltre molte lettere di congratulazione e d’applauso ch’ebbi da vari de’ piú dotti, zelanti e spiritosi italiani, non pochi vi furono che delle belle opere in dono mi mandarono, perch’io di quelle arricchissi la mia biblioteca. Il primo a dare agli altri questo nobile esempio fu il mio riverito ed adorabile signore ed amico Tommaso Mathias, che, inviandomi con una cortesia e grazia ammirabile tutte le bellissime sue opere, il campo m’aperse di far vedere co’ lor occhi propri agli americani come un dotto e spregiudicato scrittore inglese, che tanto studiò e meditò gli autori italiani da rendersi il piú stimabile e il piú grande di tutti gli stranieri che nella lingua nostra hanno scritto; come, ripeto, parla e ragiona di quei geni sublimi, che l’altre nazioni (senza escluder l’ameri cana), o per mancanza di studio o per forza di pregiudizio (ad eccezione di pochi), o disprezzano intieramente o si compiacciono d’avvilire. L’esempio di questo erculeo propugnatore fu seguitato da molti de’ nostri, da’ quali nel breve corso d’un anno ebbi piú di sessanta volumi d’offerte per la mia libreria. Ma chi si distinse tra tutti, dopo il donatore britanno, e nel valor de’ doni e nella graziosa maniera del farli, fu il colto, erudito ed eccellente letterato triestino, che, sebben l’ultimo in tempo tra’ miei piú rari ed illustri amici, occupa nulladimeno uno de’ primari lochi tra quelli per le pruove infinite di pura benevolenza, di singoiar gentilezza e di liberalitá senza pari, che, senza alcun merito mio e per la sola bontá del suo cuore, a me diede, e che non solo con rara costanza, ma con ardore sempre crescente séguita a darmi. Il dono generoso di tutte le sue opere si in prosa che in verso, opere che lo dichiarano uno de’ piú zelanti cittadini, de’ piú profondi eruditi e de’ piú eleganti scrittori de’ nostri tempi; questo dono, in sé assai prezioso, è un niente in comparazione degli altri suoi meriti verso me: meriti ch’io posso bene pregiar e sentir vivamente c quanto è dovere che un grato animo senta, ma che non potrò mai, per quanto io studi, trovar parole e concetti bastevoli da dipingerli. Permettimi dunque, o caro ed incomparabile amico, che, dopo questa ingenua dichiarazione della mia inabilitá, passi sotto un rispettoso silenzio le cose e i sentimenti che né la mia lingua né la mia penna sarien capaci d’esprimere; e piacciati solo d’assicurarti che né tempo né lontananza potran cancellare dal mio spirito la menoma parte di quella stima, riconoscenza e benevolenza che ti devo; che m’è e mi sará ognor cosa dolce benedirti ed amarti; che perdonerò, anzi perdono a tutti i torti ed a’ mali a me fatti dalla fortuna, pel bene che mi accordò di conoscerti e d’esser amato da te ; e che, nel momento del gran passaggio, l’ultima parola, che uscirá dalle mie labbra, sará il nome adorabile di Rossetti. Torniamo adesso alla libreria, nella quale, come giá dissi, io avevo depositato ottocento volumi de’ nostri classici, che non avrebber costato piú di mille duecento piastre, legati, e che dovean presto crescer in numero pe’ doni promessi; volumi di cui ogni sottoscrivente co’ suoi eredi avrebbe avuto il diritto di legger per anni e secoli, pel tenuissimo prezzo di cinque piastre. Or chi crederá che, né per consigliare né per pregare, nella ricca, spiritosa e popolatissima cittá di New-York, ove ebbi piú di mille cinquecento allievi ed assai piú amici, in tre anni di cure io non abbia potuto ottenere piú di settanta persone che cinque o dieci piastre sborsassero per uno stabilimento si utile e si decoroso? (*). Ed è da meravigliarsi che, dove il mio solo Catalogo ragionato bastò a eccitare la curiositá de’ dotti di altre cittá dell’Unione, a segno di stabilire delle nobili biblioteche nelle loro universitá e collegi, la sola New-York non siasi arricchita finora se non parzialmente di tal tesoro! Né per alcuno si creda eh’essendo New-York una cittá commerciante di primo ordine, e non avendo né un attivo né un passivo commercio di molta conseguenza coll’Italia, la sua lingua non le diverrebbe d’alcuna utilitá, e perciò una biblioteca sarebbe una spesa superflua, perché allora gli chiederei di che utilitá le son nel commercio la latina e la greca, che con tanto fervore e parzialitá questi commercianti stessi coltivano, e di cui amplissime biblioteche, e non colla modica spesa di cinque o dieci piastre, ma con profusione pecuniaria, si erigono. Che dirò poi delle somme immense che si scialacquano per apprenderle? E fosse almen vero, per non parlare se non della prima, che, dopo tutto, i progressi degli imparanti fossero alla spesa corrispondenti ! Ma, o sia per difetto di metodo e di sapere negli insegnatori, o di diligenza negli studenti, pochissimi sono quelli che il vero sapore e l’«urbanitá» di quella lingua conoscono; e meno ancora son quelli che, passando da’ginnasi alle fattorie, si ricordino dopo qualche anno di quel che per lungo tempo hanno letto e studiato. Un giovine americano, che aveva in soli sei mesi imparato da me l’italiano: — Bramo — mi disse un giorno — di apprendere da voi anche il latino. L’ ho (i) Due soli italiani : il signor F. Mossa di Palermo e il mio signor Rossetti triestino ! studiato, veramente, diversi anni ; ma, avendo viaggiato per tre anni continui, l’ho quasi dimenticato. — In tre soli anni? — soggiunsi. — Cosi credo, signor Da Ponte. — Veder allora gli feci certi versi latini, da me composti il giorno ch’entrai nell’anno ottantunesimo della vita, e cinquanta in punto da che lasciati aveva i collegi. Dopo averli letti e riletti per indenderli bene (il che non senza l’aiuto mio potè fare), ecco quel ch’ei mi disse: — Signore, per dirvi la veritá, s’io non vi conoscessi per uomo di veritá, la cosa mi parrebbe impossibile. — Cesseranno le meraviglie— soggiunsi, — quando vi dirò il metodo nostro generalmente nello studio di questa lingua. Sappiate, prima di tutto, pochissimi esser quelli che son destinati alla mercatura, che si curino del latino. I medici, gli avvocati e quelli che intendono dedicarsi a quest’arte nobile, ma particolarmente i ministri dell’altare, tutti, senza eccezione alcuna, lo studiano. E, perché piú non vi meravigliate, non ho se non a dirvi come lo studiano. Dopo esser passati dalla grammatica inferiore alla superiore (e v’ hanno nel collegio due ottimi professori per queste), passano gli studenti alla scuola dell’umanitá; e, a misura de’ progressi, chi in due, chi in piú anni, alla retorica, ove per altri due anni si studia il latino. Tanto gli studenti d’umanitá ciie quelli di retorica sono obbligati in certe ore del giorno di non parlar che la lingua di Cesare, di Sallustio e di Cicerone; e v’è una grossa e pesante catena di ferro che attaccasi al collo di quello che o commette un errore o parla in altra favella, e la porta finché un altro delinquente si trovi. Tre sere per settimana i piú esperti contengono in una stanza, e criticano e difendono a vicenda i poeti classici, cui per tale esercizio vertunt in succum et sanguinem , e gli hanno, per dir cosí, sulla punta delle dita, come le quotidiane orazioni. I piú svegliati tra questi hanno la libertá di studiare la lingua greca o l’ebraica dopo il terz’anno; ma, quanto alla lingua nativa, e specialmente a’ nostri poeti, nel collegio ove io fui educato si studiavano pochissimo nelle scuole, e chi allo studio di quelli sentivasi inclinato, obbligato era di farlo in privato e celarsi alla vigilanza de’ direttori, quanto poteva. Il dottor Modolini, prefetto agli studi di quel collegio, buon grecista ed ottimo latinista, mi sorprese un giorno mentre io stavo componendo un sonetto. — Sonetti non dan panetti — mi disse egli con faccia tosta, e, strappandomi lo scritto di mano, parti. Dopo ciò — seguitai, — non dovete trovar tanto prodigiosi i miei versi ottuagenari, e posso assicurarvi che tutti quelli, che furono educati con me in quel collegio, possono fare altrettanto, se ancora vivono. — E m’impegnai di dargliene la prova col fatto. M’ascoltò con molta attenzione, e poscia proruppe con queste parole: —Ora capisco perché se ne sa poco di latino in America. Ma, se tanto studio abbisogna per bene impararlo, mi contenterò delle lingue che intendo, e lascerò agl’italiani il latino. — Parti, ciò dicendo, da me, e il giorno seguente mi portò tutti i volumi latini che avea, eccetto Ovidio, De arte amandi , e fece un cambio con tanti de’ nostri. Potrei dir qualche cosa di piú su questo articolo, ma chi mi tratterebbe d’uomo presuntuoso, chi di pregiudicato, ed io ho giá scritto altrove che, avendo fatto l’offerta, ventiquattro anni sono, d’insegnar all’uso nostro questa favella in New York, mi fu categoricamente risposto che gli americani non aveano bisogno di latinisti stranieri per saper abbastanza di quel linguaggio. Vi fu ancor chi sostenne miglior essere della nostra la pronunzia americana, ossia inglese, e non è che da poco in qua che molti svegliati spiriti si persuadettero del contrario, e che ricorsero a me per apprender una migliore pronunzia, che senza contraddizione trovar si deve in Italia, come quella che ne fu la prima creatrice, che conserva i piú probabili suoni della sua prima origine, che a lei (sebben viziati e corrotti dal tempo) da padre a figlio discesero e che in una lingua novella con novelle grazie ritengonsi. E non crederei d’andar errato, se osassi dire che la mancanza d’un vero gusto del classico latino è una delle cause fortissime per cui poco e solo da pochi in America .si fa conto dell’italiano; perché e nell’Irlanda e nella Gran Bretagna e nella Germania, dove diversa è la cosa, v’hanno non solamente i primi talenti dell’Italia, che la diffondono, ma s’erigono cattedre luminose di pubblici insegnatori ; e l’opere nostre si studiano, si traducono e da’ veri dotti si ammirano.
Il poco successo da me ottenuto in America, in comparazione dei miei desidèri e delle mie speranze, avrebbe certo disanimato tutt’aitri che me; ma io volli fare l’ultimo tentativo, e non è ancora deciso se avrá o no qualche riuscita. Io aveva udito dire da molti viaggiatori, e tanto il fratello mio che gli amici miei scritto m’avevano dall’Italia, che Giulietta Da Ponte, nipote mia, oltre il pregio d’una bellissima voce e di molte leggiadre qualitá personali, possedeva il merito singolare d’ un canto toccante e pieno d’espressione e di veritá. Suo maestro era stato il signor Baglioni, personaggio di sommo gusto e saper musicale, che aveva fatti i piú celebri cantanti in Italia, e ch’io avea giá conosciuto per uomo di sommo valore in Praga, quando rappresentossi il mio Don Giovanili. Un poco per voglia di veder, dopo trent’anni di lontananza, alcuno del sangue mio, un poco per la lusinga di allettare allo studio della lingua italiana e alfin alla fondazion d’una biblioteca colle attrattive d’una musica che sembrava tanto piacere, io era sul punto d’invitar questo mio fratello in America e di consigliarlo a condurre seco la figlia. Non ignorando però certi pregiudizi italiani, e per conseguenza le difficoltá con cui alcune famiglie si determinano d’esporre su’ teatri i lor figli, io stava tra il si e il no e non sapeva risolvermi a scrivere. Mentre io ondeggiava nelle incertezze, ecco ch’una lettera di mio fratello mi giunge, nella quale fammi egli stesso la proposizione di venir in America e di condurre questa figlia con sé. È facile imaginare il giubilo mio. Non tardai un momento a rispondergli, e cercai tutti i mezzi onde appianar le difficoltá, che opporsi al riusciinento del suo disegno parevano.
Un de’piú forti ostacoli, e ch’io sulle prime credei insuperabile, era la difficoltá d’ottener un passaporto per venir a New-York. Memore tuttavia delle cose passate, e sopra tutto della clemenza con cui l’imperadore or regnante consolato aveva e addolcite le mie miserie a Vienna, presi la determinazione di volgermi a lui a dirittura, e composi quella canzone, di cui i censori di varie cittá non vollero permettere la pubblicazione, ma che, presentata al sovrano dal fratello mio, ottenne senza tergiversazione la grazia richiesta f 1 ). Io era nel colmo dell’allegrezza. Tanti però furono gli ostacoli che si levarono, che, dopo lunghi carteggi e preparativi, ed io ed essi cominciavamo a perdere ogni speranza di rivederci. «Prevedo —mi scrisse fin dall’anno 1827 la Giulietta — che, ad onta di tutte le di lei cure, non verremo mai a Nova-Iorca».
Languendo in me questa speranza, un’altra ne sorse relativa alla libreria, che m’incoraggiò a un novello esperimento. Io leggeva un giorno la prefazione d’un volume dell’opere di cui mi aveva fatto dono prezioso il signor Mathias. L’eloquenza e la forza, con cui quel giudizioso scrittore parla de’ pregi della favella e delle lettere italiane, produssero in me un tal effetto, che dissi a me stesso: — Può un uomo, ch’abbia due once di cervello nel capo, leggere le pagine ch’ora io lessi, senza sentir il potere della veritá e senza desiderar di posseder un bene e di goder d’un diletto, che quegli gode e possedè, a cui sono aperti i tesori dell’ italiano Parnasso? — Sulle tracce camminando di quella nobile prefazione, io ebbi tosto il pensiero di scrivere un’orazione e di recitarla il settantanovesimo anniversario della mia vita a un numero scelto d’allievi ed amici, che in quel giorno generalmente solevano onorar la mia casa della loro cortese presenza. Mentre io stava preparando i materiali per tal lavoro, un crudele accidente, che per universal opinione pareva dover costarmi la vita, cangiò la faccia di tutte le cose. La casa, dov’io abitava, non essendo nel centro della cittá, io era stato obbligato, a comodo della mia triplice classe di damigelle, di prendere a pigione una stanza centrale, alla quale io andava a cert’ore stabilite, per dar alla classe maggiore italiana le mie lezioni. Era il diciasettesimo giorno di dicembre, e, la notte stata essendo freddissima e per qualche ora piovosa, una lieve e quasi invisibile incrostatura di ghiaccio avea lastricate le (1) È riportata nell’Appendice prima [Ed.]. strade e la stessa gradinata che conduceva al cortile; al quale volendo io discendere, appena posi i piedi sul ghiaccio del primo scaglione, il quale un pòco a caso pendeva, che, sdrucciolando, cascai supino, battendo sugli altri tre talmente a salti a salti col dorso, che dall’osso sacro fino alla metá del mio corpo io era divenuto una piaga. Rimasi piú di un mese nelle mani de’ medici, e, sebben tormentato da caldi emollienti, da scarnificazioni, da punture e da tagli, a dispetto di mille profezie sinistre, ebbi la consolazione il giorno di Natale di poter ricever da me le mie angeliche allieve e di render grazie all’Altissimo della mia ricuperata salute e della occasione che mi offerse su quel letto, che si credeva (e sperava forse) che fosse letto di morte, di veder in modo assai chiaro a quanto può giungere la doppiezza umana e la viltá* degli adulatori. Tornato dunque al mio solito e dolce esercizio d’instruttore, non tardai a ricordarmi del disegno ch’io fatto aveva prima di quella caduta, e, leggendo e meditando novellamente quella prefazione, scrissi un discorso, ch’ora presento al mio lettore in quest’ultima parte, e che recitai il mio di natalizio a una bella corona de’ míei allievi ed amici. Quelli, che non vogliono interromper il filo delle mie Memorie , possono lasciar di leggere questa orazione. Io però ho delle forti ragioni per pubblicarla. Orazione di Lorenzo Da Ponte recitata a’ suoi allievi ED AMICI LA SERA DEL IO DI MARZO DELL’ANNO 1828, SETTANTANOVESIMO ANNIVERSARIO DELLA SUA VITA. Desideroso di darvi una pubblica testimonianza di rispettosa gratitudine, pel favore distinto che fate a me questa sera, onorando della vostra cara presenza l’anniversario del settantanovesimo di natalizio d’una vita, che pel corso di quattro e piú lustri vi consacrai e tuttavia vi consacro; e voglioso ad un tempo stesso d’intrattenervi utilmente e piacevolmente parte del tempo che vi degnate accordarmi, ho determinato parlarvi della letteratura italiana: «felice, fausto e fortunato» soggetto, che meritò per molti anni gli studi, le cure e le lodi vostre, che rese a voi noto e forse non discaro il mio nome, e che m’ottiene il dolce trionfo di veder ora il mio povero tetto da tanti personaggi illustri, da tanti amici cortesi e da tanti affezionati allievi onorato. Pieno, siccome io sono, del nobile soggetto di cui intendo trattare, caldo del desiderio di piacervi, di rinfiammare ed accrescer Paffetto per le lettere italiane in quelli che ne conoscono i pregi, e di crearlo efficacemente in quelli che ancora non li conoscono; da qual punto cominciar deggio il mio ragionamento, su qual base fondarlo, e per quai mezzi poi sostenerlo, onde ottenere l’oggetto per cui vi parlo? Deggio tentar di pruovare coll’autoritá de’ piú famosi filosofi la superioritá della favella italiana su tutte le moderne? il suo poter vantarsi rivale delle piú antiche? la sua anzianitá nell’arti, nelle scienze, in ogni ramo, oso dire, dell’umano sapere, per novitá o perfezionamento d’invenzioni, per diversitá di scoperte, per utilitá, per grandezza, per forza di raziocinio ne’ suoi scrittori, o per grazia, per melodia, per varietá, per purezza di sermone e di stile? Deggio vittoriosamente difenderla contra gli assalti degli stranieri, o deggio imitare quel mercadante d’oro e di gemme, che si contenta di porre in vista le sue ricchezze, sicuro d’allettare gli spettatori colla lor luce a farne sollecito acquisto? Voi, voi, mie carissime allieve, che, di sangue piú vivido, di fibre piú sensibili e di spiriti forse piú delicati, io vidi tanto sovente arder, gelar, languir, fremer, gioire alla lettura de’ nostri autori ; voi facilmente potete intendere e dire quanto agevole mi sarebbe abbagliare, innamorare, stordire, ofTrendo de’saggi d’incomparabile grandezza, sublimitá, originalitá nel poema di Dante; di soavitá, di dolcezza ineffabile ne’versi che immortalarono Laura; di gentilezza, di puritá, di eloquenza nel piú leggiadro e brillante di tutti i novellatori; di fantasia, di vivacitá impareggiabile nell’antonomasticamente «divino» Ariosto; di maestosa epica magnificenza nella tromba del gran Torquato; di beltá pastorale, d’inarrivabile affetto, di novitá tutta tragica nel Guarini, nel Tasso stesso, nel Metastasio, nell’Alfieri. Potrei ancor far mostra di mille e mille bellezze liriche, che brillano in una nobilissima schiera di moderni poeti, che voi ben conoscete; bellezze che da un secolo in qua rendono oggetto di particolare ammirazione un Manfredi, uno Zappi, un Frugoni, un Savioli, un Gozzi, un Parini, un Mazza, un Labindo, un Cesarotti, un Varano, un Casti, un Foscolo, un Manzoni e i due sommi Nestori del toscano Parnasso, Ippolito Pindemonte e Vincenzo Monti! E, se volessi passare da’ giardini de’ poetici fiori a’ campi ubertosi delle scienze e dell’arti, qual messe gloriosa non potrei cogliere, e sfidar baldanzosamente tutti i nemici del nostro nome a far vedere altrettanto? Chi agguaglia, potrei dire, in profonditá ed altezza d’ingegno l’«ape fiorentina» (ché di tal nome onorò il dotto Young, nella sua Storia d’Atene, Nicolò Machiavelli (ú)? chi in perspicacia e acutezza di mente inventrice pareggiò un Galileo? chi un Marchi nell’architettura militare, un Palladio nella civile, un Cavalieri, un Tartaglia, un Falloppio, un Castelli, un Torricelli, un Malpighi, un Viviani, un Cisalpini, un Cassini nella matematica, nell’algebra, nell’astronomia, nella chirurgia, nella notomia, nella medicina? E fini forse in questi la letteraria gloria degl’italiani? Hanno forse potuto le oppressioni, le carcerazioni, gli esigli, la privazione della pace e de’ mezzi, occasionata dalle esazioni, dalla continuazione delle guerre, daU’armate presidiane, hanno forse tanti mali distrutto o scemato il foco, l’amore del sapere ne’ discendenti di que’ grandi uòmini? Gettate gli sguardi sulle storie letterarie del mio paese; osservate quale e quanta è la luce di quegli scrittori, che da quasi sei secoli in ogni ramo del vero sapere (i) A imitazione di Senofonte, che chiatnavasi I’«ape ateniese», chiamò Young il Machiavelli I’«ape fiorentina»; e, per lodare Tucidide, asserí che il suo libro proemiale si poteva solo comparare al primo libro delle Storie fiorentine del mentovato Machiavelli. Un dottissimo inglese non esitò a dichiararlo superiore allo stesso Bacone. Quanti de’ nostri critici hanno letto, studiato e inteso questo nostro scrittore? Unust vel duo? Eppure si ardisce giudicar delle nostre letterei Non è questo un voler parlar dell’astronomia senza aver mai veduto il sole? fiorirono e fioriscono tuttavia nell’Italia de’ cui mirabili geni par veramente che possa dirsi e, appena muore l’uno, e l’altro nasce, «uno avulso, uascitur alter». E, s’io non temessi che a me il tempo mancasse, e a voi la pazienza, con qual patria gioia non ricorderei gli alti nomi di tutti quelli che arricchirono quasi a’ tempi nostri di nuovi splendori le lettere della mia patria! Ma, giacché piú facilmente potrei ad una ad una noverar le stelle e in brev’urna raccór Tacque del mare, di quello che darvi, nel breve spazio del tempo in cui m’è lecito intrattenervi, un’idea adequata della nostra moderna letteratura, non vi nominerò se non un Gravina, un Sigonio, un Muratori, un Zeno, un Zucconi, un Gori, un Lanzi, un Mai, un Mehus, un Visconti, un Micali, nella critica, nella erudizione, nell’antichitá eminentissimi; un Burlamacchio, un Filangieri, un Vico, un Genovesi, un Zanotti, un Azuni, un Pagano, un Galiani, un Beccaria, un Romagnosi, uno Spedalieri ed un Gioia, o ancora viventi o morti da poco tempo, celebri nella giurisprudenza, nella scienza della legislazione, nella estetica, nel dritto delle genti, nella politica; non vi nominerò se non un Morgagni, un Cocchi, un Pasta, un Galvani, un Cirillo, un Mascagni, un Rasori, un Berlinghieri, un Tomasini e uno Scarpa nella medicina, nella chirurgia, nella notomia, nella chimica; due Riccati, un’Agnesi, un Cagnoli, un Toaldo, un Brunacci, un Cardinali, un Lagrangia (che altri vorrebbe usurparvi), incomparabili nelle matematiche; un Vallisnieri, un Frisi, un Venturoli ed un Mari nell’idraulica; siccome un Crescimbeni, un Quadrio, un Zaccaria, un Mazzuchelli, un Tiraboschi, un Ugoni, un Maffei nelle storie letterarie delle nazioni. E, se questa continuazione di luce non bastasse all’Italia per ottenere la palma nel nobile aringo del sapere, qual altro popolo, griderei, può vantare cinquanta volumi di politici economisti elei primo ordine, cominciando dal Boterò, che ne fu l’inventore e che fiori nel secolo decimosesto, fino al grandissimo Beccaria e a’ suoi e a’ nostri stessi contemporanei? Qual altro popolo, aggiungerei, potrebbe far pompa d’una prodigiosa serie di traduttori, che fecero quasi rinascere con nuove bellezze sul nostro Elicona gli Omeri, i Pindari, gli Anacreonti, gli Orazi, i Vergili, gli Ovidi, i Lucrezi, con quanto han di piú bello e leggiadro gli antichi e i moderni di ogni idioma e d’ogni paese? Leggete, signori miei, l ’Iliade trasportata in italiano dal Monti, l’Odissea da Ippolito Pindemonti, Pindaro dal Mezzanotte, dal Rogati Anacreonte! Leggete 1 ’ Eneide dal Caro, le ’Metamorfosi dall’Anguillara, Orazio dal conte Gargallo, Lucrezio dal Marchetti, la Georgica dal Manara, Properzio dal Vismara, Fedro dal conte Corniani, Milton dal Mariottini e dal padre Cuneo, Sofocle dal Bellotti e finalmente Ossian dal Cesarotti b) ; e non potrete facilmente decidere se sia piú da ammirarsi la venustá, la flessibilitá e la ricchezza della nostra poderosa favella, o l’ingegno sublime, versatile e ardimentoso di questi rinomati scrittori, E, perché l’occasione non mi permette di larvi udir con pienezza le bellezze, in altre lingue poco ordinarie, de’ traduttori italiani, permettetemi di presentare al vostro squisito giudizio un picciolo saggio, che servirá bene a farvi conoscere «il leone dall’unghia». Udite dunque come si trasformano in fiori italici i fiori latini. Eccovi uno de’ piú nobili e sublimi squarci del nostro sommo Virgilio: Principio coelum ac terras camposque liquentes, lucentemque globum luna e Titaniaque astra spiri/us intus alit, lotarnquc infusa per artus mens agitai molem et magno se carpare miscet. Inde hominum pecudumqne genus vitaeque volantum et, quae marmoreo fert monstra sub aequore pontus. Igneus est o/lis vigor et caelestis origo seminibus, quantum non noxia corpora tardant, terrenique hebelant artus moribundaque membra. (i) Tutte queste traduzioni, e molte altre in verso ed in prosa, si pubblicano attualmente, con belle note e col testo a fronte, in Italia. Ne avremo un esemplare per la nostra libreria? Udite ora, signori miei, come si traducono in italiano dal Caro questi magnifici versi : Primieramente il ciel, la terra, e ’l mare, l’aer, la luna, il sol, quanto è nascosto, quanto appare e quant’è, muove, nudrisce e regge un, che v’è dentro, o spirto o mente o anima che sia de l’universo; che, sparsa per lo tutto e per le parti di si gran mole, di sé l’empie, e seco si volge, si rimescola e s’unisce. Quinci l’uman legnaggio, i bruti, i pesci, e ciò che vola, e ciò che serpe, han vita, e dal foco e dal ciel vigore e seme traggon, se non se quanto il pondo e ’l gelo de’ gravi corpi e le caduche membra le fan terrene e tarde.
Ho scelto questo breve passaggio tra mille e mille che potrei scegliere, perché la maggior parte di questo nobile consesso, che si conosce perfettamente della lingua del Lazio ed ammira le maravigliose bellezze della poesia virgiliana, intenderá altresi agevolmente quelle del traduttore italiano; e ciò basterá a fargli gustar la dolcezza e intender l’utilitá, che deve procedere dal confronto di quella lingua con la sua amabile primogenita:. Proteo, quasi direi, ma Proteo di vezzi e di grazie, imitatore felice di tutte le culte favelle del mondo. A coloro però che di poco pregio credessero le traduzioni dell’opere altrui 0), e nessuna gloria quindi accordassero alle nostre lettere per le loro ammirabili traduzioni, domanderei, (1) Quelli che, non conoscendo né le bellezze degli originali né quelle de’ differenti idiomi, riguardano i traduttori come letterali di secondo ordine, non hanno, per cangiar opinione, se non a leggere il Magalotti ( Lettere familiari), il Bkttinklli (Opere, vili, 2ii), il conte Carli (Opere, xvi, p. 9) e Rémond dm SaintMard (Le/tres philosophigues , ili, p. 55). Io credo con essi che un ottimo traduttore non vaglia meno che un ottimo scrittore originale. Non sono però d’accordo co! signor di Vatry, il quale pretende che una perfetta traduzione non sia mai da sperarsi (vedi Atti dell’accademia di Berlino, tomo xxxi) e mi basta l’Ossian del Cesarotti per confutarlo. sorridendo, a tali Aristarchi di gusto difficile, qual altro popolo della terra può far pompa di piú di dugento grossi volumi di storie classiche che uscirono da penne italiane, dal Malespina e Villani agli ancora viventi Denina, Botta e Micali ; penne che scrissero con pari eleganza, veracitá e metodo storico i fatti non solo del loro paese, ma quelli eziandio di quasi l’intero universo! Chi infatti scrisse meglio del Maffei la storia dell’Indie; chi quella della guerra di Fiandra meglio del Bentivoglio; quella della rivoluzione di Francia meglio del Davila; meglio del Sarpi quella del consiglio di Trento; e chi meglio del sopralodato Botta quella della guerra d’indipendenza della vostra gloriosa repubblica? Storia, signori americani, che vi raccomando caldamente di leggere, ma di leggere in italiano. Dopo avervi nominati tanti luminari della mia patria, non dovrei durar gran fatica a pruovare innumerabili dover essere i vantaggi che possono derivare dallo studio di questa lingua e di una si vasta letteratura, per quelli non solo che trovano le lor delizie nelle scienze e nell’arti e che non ciban né terra né peltro, ma sapienza ed amore e virtute, che sono il vero pascolo dell’anima; ma per quelli eziandio che, con un ben regolato commercio, co’ cambi, colle navigazioni, arricchiscono onorevolmente sé e la lor patria, e, facendo quasi una gran famiglia di tante diverse parti del mondo, rendono a tutti comuni le arti, le manifatture, le invenzioni, i prodotti, e di Cerere i doni e i don di Bacco; con tante altre delizie e delicatezze, che la capricciosa, anzi la provvida natura parve aver esclusivamente destinate a quelle date terre e a que’ dati climi, e, assai piú che altrove, alla troppo bella, ma per le proprie sue divisioni troppo debole Italia, impoverita, lacerata, straziata da gente, aimè! che del suo bello a’rai par che si strugga, eppur la sfida a morte. Sebbene però e questo crine canuto e le pruove non dubbie, che per tanti anni studiai di dare d’amore, di veritá e di desiderio sincero de’ vostri maggiori vantaggi, dovrebbero farmi sperare che per giusti da voi si tenessero i miei propri giudizi in fatto della letteratura del mio paese, giudizi corroborati da un Roscoe, da un Ginguené, da un Villemain, e in gran parte dal vostro famoso Byron ; voglio nulladimeno che non udiate piú la mia voce per ora, ma voglio che per la mia bocca udiate quella d’uno straniero, a cui nessuno oserá dire: — Signor italiano, voi siete troppo parziale, troppo caldo e pregiudicato dall’entusiasmo nazionale, in altre parole, troppo fanatico; e questo vi fa gonfiare la tromba panegirica a favore de’ vostri scrittori (ò. — E volete sapere, signori, chi è lo straniero che udrete ora parlare per la mia bocca? Egli è il signor Tomaso Iacopo Mathias, che voi tutti conoscete come uno de’ piú famosi letterati dell’Inghilterra, e cui riconosce meco l’Italia tutta come uno de’ piú leggiadri e brillanti ornamenti dell’italiano Parnasso. E, perché non credasi per alcuno che parzialitá e gratitudine a dire m’inducano piú del vero di questo amico prezioso della mia patria e mio, mi piace ripetere quello che i piú illustri poeti, le piú rinomate accademie italiane dissero di lui, e in quante maniere l’esaltarono e lo onorarono le cittá, i letterati e i piú cospicui giornali d’Italia. Udite come favella di lui il duca Gaspare Molo, uno de’ piú spiritosi poeti di Napoli. Di tanti, c’hanno sostenuta la venustá dell’italiana favella, egli è sorprendente il vedere che un figlio d’Albione..., colla scorta d’un genio distinto, d’un gusto squisito, della piena cognizione de’ classici greci e latini, sia giunto a scrivere in italiano versi cosí belli e sublimi, che sembra sia un prodigio dell’umano ingegno e quello d’un fino discernimento, cui la bellezza dell’italiana favella ha dato quell’elettrica scintilla, che lo ha animato e condotto a tanta perfezione. Le sue poesie furono pubblicate in Londra, e quindi in Toscana, co’ dovuti encomi, nonché in Roma, (i) Frase usitata da un contributore d’un giornale americano. dove, al pari che dagli accademici della Crusca, ebbero dall’Arcadia quelle lodi che pur meritavano, e che dal chiarissimo abate Godard, custode del bosco Parrasio, furono nell’edizione romana, con sommo giudizio, celebrate come un modello del bel dire e della felice fantasia dell’autore.
Troppo lunga cosa sarebbe il dirvi come fu accolto e onorato dagli accademici della Crusca, quando comparve in Firenze; come gareggiarono i piú colti editori di pubblicare co’ loro torchi le sue belle opere; come Andrea Zabarella principe lo dichiara di tutti quegli stranieri che in toscano verso mai scrissero, con una bella e leggiadra canzone che incomincia cosí: Te, del Tamigi in sulle sponde amiche, piú ch’altri mai lattar l’itale muse; opinione che s’accorda perfettamente con quella del giá mentovato abate Godard, che al di sopra lo pone non solo di Milton, ma fin di Menagio e di Regnier, i cui nomi suonano con molto applauso sul nostro per gli stranieri malagevolissimo Parnasso. Dopo le testimonianze onorevoli di tanti dotti italiani, chi ardirá non prestar fede a’ giudizi di tanto conoscitore? chi non dirá con me, come giá dicevasi d’Aristotile : Malkias dixir? Udiamo adesso, signori, quel ch’egli scrive in una sua lettera agli eruditi e colti inglesi, e ch’io con pari zelo ed affetto ridico a voi.
Dilettissimi inglesi, voi, che siete nati ad ammirare e gustare la vera poesia, lasciate un poco le verdeggianti rive dell’bisso, e meco in sulle rive del Tamigi accompagnate il laureato e trionfante progresso dei maestri geni d’Italia. L’Europa letteraria [e perché no l’America?] se vuol esser giusta e grata, non sará mai invidiosa della gloria italiana, ma piuttosto riconoscerá ne’ suoi scrittori i suoi maestri al rinascimento delle scienze e delle lettere. Non voglio oltrepassare i termini prescritti alle lodi cosí dovute alla terra madre d’eroi, di poeti e d’oratori. Ma voi, che nel corso della vostra letteraria fortuna avete viaggiato sulle tracce de’lumi augusti d’Atene e di Roma, degnatevi d’ammirare la sublimitá de* toscani poeti fra l’aure de’ lor vaghi e dilettosi monti. Tornate alla soave e dolce contrada di bellissime favole. Di giorno in giorno sentirete piú le vaghezze di questa amenissima lingua. Vanno i poeti d’Italia per tutto infiammati d’un si divino furore, ch’io non so, seppur ciò non sia stato tra’greci, dove si trovi una tale ardenza di spirito, un canto cosí soave e sublime, con epiteti si scelti, con un estro si nobile, con sentenze si magnifiche, con voli si vaghi e con pensieri si pellegrini, quanto nelle loro canzoni. Intanto co’ sentimenti di Milton, che tenne a gloria d’annoverare la letteratura e la poesia italiana tra i piú splendidi ornamenti de’ suoi eccelsi e santissimi studi, volgetevi, o miei colti compatriotti, alle dilettevoli piagge toscane, e per poco coll’Arno cangiate il Tamigi... Desidererei che tutti i letterati d’Europa, e principalmente l’inglesi [ed io dirò invece: e specialmente gli americani] intendessero a fondo la lingua italiana; e che, fra quelli che gustano la vera poesia, non fosse cosí ristretto il numero degli esatti conoscitori de’ suoi meriti e pregi. Ed è cosa da osservarsi e ammirarsi come sopra tutte l’altre nazioni l’Italia abbia dimostrato come «si può essere oratore, filosofo, politico [ed io aggiungerò : astronomo e matematico] e a un tempo stesso insigne poeta. Vorrei perciò [badate, vi prego, gentilissimi signori, a queste eccelse parole], vorrei che nelle due universitá d’Inghilterra fosse eretta sotto la protezione reale una cattedra espressamente, per onorare i suoi professori e per acquistare tra gl’inglesi alla toscana favella permanente stabilimento: imperciocché, lasciando da parte la poesia, quali e quanti non sono i suoi tesori [date udienza a queste parole] nell’eloquenza, nell’antichitá, nella storia, ragguardevoli tutti per materia, stile, disposizione, conte esempi d’ogni studio e d’ogni imitazione degnissimi!
Tutto questo, però, non è se non un’ombra leggera del quadro che presenta a’ suoi leggitori il nostro filantropo panegirista, in tutte le prefazioni delle sue opere, ch’io depositai ultimamente nella nostra biblioteca, preziosissimo dono di questo impareggiabile letterato. Sebbene il poco, che, per non abusar della vostra pazienza, sinora dissi, dovrebbe esser sufficientissimo per trarre chi ha fior di senno nel desiderio vivissimo di conoscersi a fondo del nostro idioma, vi chiederò nientedimeno la grazia di poter aggiungere alle cose giá dette le poche parole, con cui pon fine a questa ammirabile lettera. Ma, se alcuno mi domandasse — diss’egli — da qual motivo incitato m’inchino si affettuosamente all’Italia, risponderei altamente:— E a chi dunque dovrei inchinarmi, se non all’augusto e dominante seggio di Febo, al fonte di vaghissime fantasie, alla risvegliatrice del buon gusto e alla madre e nudrice delle scienze e delle arti? — Fin qui il nostro signor Mathias. Non vi sembra, signori, che debba esser cosa altrettanto piacevole che sorprendente il veder a qual eminente grado di gloria è giunto questo uomo celeste, e che assai viva esser debba la gratitudine di tutti i buoni italiani, anzi di tutti gli amanti della sapienza, non solamente per le sue mirabili poesie, che formeranno una nuova epoca nelle storie della nostra letteratura, ma altresi per le sue efficaci premure e fatiche per diffondere, esaltare e render comune all’intero universo il linguaggio e le lettere della mia patria? Anche Milton per veritá, che amava e scriveva con qualche grazia in verso italiano, parve accennare un simile desiderio in una lettera al suo amico Buommattei. Duolsi quell’uomo sapiente che gli italiani non abbiano nel loro idioma quella precisione che agli stranieri è si necessaria; il che, soggiunge egli, se fatto avessero, alla gloria dell’italico sermone avrebbero assai piú provveduto, lasciando precetti ed esempi, come se tornasse a tutti i mortali imparar la scienza di quella lingua. «Et famae suae et Italici sennonis gloriae hai/d paulo certius consul/tissent, si praecepla et exempla ila tradidissent, ac si omnium mortalium referret Italicae Ibiguae scientiam appetere». Cosi il vostro Milton. Ma quanto piú chiaramente non parla il nostro signor Tomaso? Quanto maggior forza non ebbero tra gli eruditi le belle edizioni de’ nostri classici pubblicale da lui, le sue meravigliose poesie toscane e le sue dottissime prefazioni? Queste, queste ardentemente vi prego di leggere, perché spero che produrranno i medesimi effetti su voi, che produssero universalmente in Londra e in Italia. E vi prego altresí d’osservare com’egli non giudicò necessario di parlar molto né poco de’ pretesi difetti della nostra lingua e de’suoi scrittori, coll’oggetto, come vuoisi da alcuni, di render gli encomi assai piú credibili. Tutto è lode, tutto è splendore, tutto maraviglia negli scritti del signor Mathias; in quegli degli altri, con pochissima luce, non vi sono ch’emisferi di fumo e di tenebre. E sapete, signori, perché? Perché quelli altro non bramano se non avvilire la nostra letteratura: questi vuol inculcarne in tutti lo studio, mostrarne i vantaggi e farne conoscere e sentire le eccellenze. Neglige perciò, o non fa alcun conto di quei difetti, che o si perdono affatto in un oceano di luce che li circonda, o non esistono se non negli occhi de’ visionari, o sono all’eccesso ingranditi dalle lenti dell’amor proprio, dell’ignoranza, del pregiudizio. Due astronomi di genio diverso andarono sulla specola di Bologna, una notte in cui era eclissata la luna. Richiesti, quando da quella discesero, che cosa avevano veduto, uno d’essi rispose:— Non vidi che tenebre:—aveva guardata l’eclisse. — Ed io non vidi che luce — rispose l’altro: aveva mirate le stelle. V’ho narrato questa storiella, perché, quando udite o leggete quello che dicono o scrivono i giornalisti e i viaggiatori dell’Italia e degli italiani, esaminiate bene le cose prima di prestar loro fede, e di conoscere procuriate se sono di quegli astronomi che non guardan se non l’eclisse, o se sono di quelli a cui piaccion solo le stelle. E volete presto conoscerli? Se parlano de’cavalieri serventi, dell’ozio, dell’ignoranza, de’divertimenti stupidi de’ nobili; se si trattengono sull’immoralitá della plebe, sulla quantitá de’ladri e de’malandrini, sugl’insetti, sugli stiletti, sulle cattive locande e su simili altre favole, a cui fanno attenzione con occhi d’Argo molti di quelli che ci visitano, bruciate subito i-lor volumi e mandate que’ tali autoii a guardar l’eclisse. Se cominciano invece a decantare le sue bellezze (e sarebbero troppe per noverarle), se non imitano i Lalande, i Sass (*) o la malaugurata favoleggiatrice del secolo decimonono di Roma, ma seguono piuttosto Torme de’ buoni che conoscete, e sopra tutto del personaggio di cui oggi vi parlo, astro luminosissimo di veritá e di sapere, prendeteli pure per guida de’ vostri pensieri, delle vostre opinioni e de’ giudizi, che formar vi dovete dell’Italia e de’ suoi scrittori. E se mai alcuno di voi ha l’occasione di visitare l’Italia, non negliga, lo prego, di veder ( gli atenei di Verona, di Brescia, di Udine, di Treviso; le universitá di Padova, di Pavia, di Pisa; l’accademia de’ Georgofili di Firenze, quelle delle scienze di Torino e di Cortona, T Insoluto di Bologna, l’Arcadia di Roma, e cento altri collegi, seminari e licei, che quasi in ogni cittá del mio paese si trovano. Cerchi altresí di conoscere i letterati che presiedono a tali instituzioni o da quelle escono; esamini e studi Topere che d’anno in anno si pubblicano; si spogli perfettamente delle massime, dell’idee, de’giudizi formati sulTaltrui relazioni; giudichi col suo proprio intelletto e co’ propri sensi (e, se non è capace di tanto, non lasci mai il suo paese) ; e allora, allora solo saprá che sia, non solamente in fatto di letteratura, ma in tutti gli aspetti, in tutte le relazioni si fisiche che morali, l’Italia, di cui gli stranieri assai meno parlerebbero, se fosse o men bella o piú forte!
Dopo tutto quello che dissi, chi potrá maravigliarsi che io, di core e di sangue italiano ; io, che per tanti anni ho gustato e tuttavia gusto la soavitá della nostra poesia, mandato forse tra voi da un genio benefico per isquarciare le nubi che i suoi be’ raggi coprivano, per far risuonar per la prima volta sulle rive dell’Hudson (che n’è ben degno) le avene, le cetere e le trombe della moderna Italia (che sarebbe venerata quanto l’antica, se fosse piú conosciuta); io finalmente, in grazia solo della sua lingua favorito, e per bontá e gentilezza vostra stimato, onorato e, lo voglio pur dire, amato da voi, con un esempio si bello dinnanzi agli occhi: chi potrá, ripeto, maravigliarsi (1) Costui non trovò in Italia di buono se non qualche compositore di musica. Mettiamolo con quello dei maccheroni ! ch’io cerchi di far brillare e di spargere ed eternare tra voi, cortesissimi protettori e fautori miei, questi autori, quest’opere e questa favella? Son mosso, anch’io, ve lo giuro, al pari dell’egregio mio inglese antesignano, non da parzialitá nazionale, non da entusiasmo fanatico; ma da amore di veritá, dal desiderio del vostro bene, da forza invincibile di sentimento e dalla dolce speranza che sia ricordato un giorno con grata affezione, che sia benedetto, oso dire, il nome di un uomo che visse giá cinque lustri tra voi, e che non fu ad altro intento che a meritare la vostra graziosa benevolenza, tutti i mezzi cercando di farvi conoscere i nostri sommi scrittori e di farvi assaporare e possedere i migliori tesori delle nostre letterarie miniere, che diverranno, quando che fia, fonti inesauribili di sapienza, di commodo, di utilitá e di diletto per voi, per i vostri figliuoli e pei piú tardi nipoti.
Non contento per questo d’aver per tanti anni incontrati «noctesque diesque labores»; non contento d’aver avvezzate le labbra di tanti giovani e giovinette virtuose alla culta favella dell’Arno, d’aver mostrati gli effetti mirabili del mio zelo, se non del mio sapere, ne’ prodigiosi progressi fatti nelle mie classi da molti discenti, ma specialmente dalle svegliate e spiritose damigelle ch’ora affettuosamente m’ascoltano; di aver infine introdotto nel vostro venerabile collegio la primogenita della lingua latina, che ben chiamare si può, con Orazio nostro, d’una madre gentil figlia piú bella inatre pulchra filia pulchrior; non contento, dico, di tutto questo, presi l’ardita risoluzione di accumulare il piú bel fiore de’ nostri grandi uomini, e di formare una biblioteca, che, permanentemente durando, l’agio vi desse di studiarli, di leggerli, di esaminarli e di approfittarne. Il mio mediocrissimo erario non mi permise arricchirla di tutte le dovizie di cui si gloria la italiana letteratura. Ricordandomi tuttavia della divisione fatta dal gran Bacone delle tre facoltá della mente: memoria, raziocinio, imaginazione, alla prima delle quali appar tiene la storia, alla seconda la filosofia, e alla terza la poesia e le belle arti; ho creduto bene di unire nella mia collezione quanto abbiamo di classico in queste tre vaste province, e precipuamente nella storia, che contiene per mio avviso la scola piú utile della vita e la piú abbondante messe del sapere, secondo l’antico adagio: «Tantum scinius quan/um memoria tenemus» : . d’ogni nostro saper memoria è sede.
Questa libreria, miei signori, è giá incominciata: abbiam piú di settanta sottoscriventi, e siam preparati «ad incorporarla» (0. Il suo perfezionamento però dipende da un pronto, deciso e generoso favore tanto de’ miei allievi che de’cittadini in generale di Nova-Iorca. Ma, per quanto ardentemente io ne desideri lo stabilimento, non credo che questa sera convengami dirvi di piú ; tanto per non parere troppo indiscreto, chiedendovi novelle grazie, in un punto in cui quella mi fate della vostra grata presenza, quanto pel desiderio di lasciar la cosa intieramente al giudizio vostro, che, in un affar tanto utile, tanto decoroso per voi e per la vostra spiritosa cittá, non può non esserle favorevole. Non avendo piú dunque niente questa sera da dirvi, concluderò il mio discorso rendendovi i piú vivi ringraziamenti per l’onor che vi piacque farmi. È questo un onore, (parlo ora a voi rispettabili cittadini della piú bella parte dell’Unione, non meno che a voi, carissima prole del mio intelletto e dell’amor mio), è questo un onore, voglio ripeterlo, di cui non cancellerá la memoria se non la morte. Mi sarebbe impossibile dire quanto mi consoli la vostra presenza, quanto mi piaccia la cortese attenzione con cui le parole ascoltaste del vostro vecchio maestro, e quanto la vostra visibile giovialitá e quel soave approvator sorriso m’avvalori, m’alletti ed intenerisca. Possano in voi produrre le voci mie il medesimo effetto, che in me produsse l’aspetto vostro. (i) Frase inglese. Possa ognuno di voi sentire a che tendono l’onorate mie mire, e ricordarsi,- con quella egregia sentenza del nostro Dante, che la domanda onesta si dee seguir coll’opera tacendo.
Sono passati settantanove anni da che spirai le prime aure di questa mia lunga carriera: incomincio l’ottantesimo in questo istante con felicissimi auspici. Innalzo al cielo le luci per ringraziarlo d’avermi tanti anni tenuto sopra la terra, e ben ventiquattro di questi tra voi. Innalzo ad un tempo stesso de’ voti, che tutti voi spero accompagnerete co’ vostri, per supplicarlo umilmente di poter anche di questo veder la fine. Io lo spenderò con gioia sincera in servizio vostro, in onor delle nostre lettere e al trionfo della veritá; e, per meritar sempre piú la vostra benevolenza, procurerò, colla guida del nostro benefico astro britanno, di compensare colle cure e la perseveranza e lo studio quello che negherammi di fare l’animo stanco, la cangiata scorza e la scemata in me destrezza e forza. Farò com’ uom, che, dopo lunga via, scemar sente la lena al corpo lasso ; che, se notte s’appressa, affretta il passo ver’ la magion cui riveder desia. Se non potrò seguir la scorta mia, dietro le andrò pur cosí passo passo; e, quando poca terra e muto sasso delle ceneri mie la tomba fia, qualche anima gentil da quella terra inalberá con lagrime pietose i cari germi che il mio cor rinserra. E allor rinascerá tra gigli e rose (’), amaranti e giunchiglie il mio gesmino ( 2 ), e sará la mia tomba un bel giardino. (1) Ho giá fatto osservare che tutte le mie migliori allieve ebbero da me il nome di qualche fiore. (2) L’amabile Cottenet ! Applaudirono tutti alle cose che dissi, ma terminò in belle parole il trionfo mio ( 0 . Che rimanevami allora da fare? La casa mia era tutta piena di libri, ma la borsa cominciava a sentire gli spazi vacui. Viveva allora, per mia fortuna, con me il signor Giuliano Verplanck, personaggio coltissimo, protettor delle lettere e di molto credito nel Congresso, di cui era membro egli stesso. Gli diedi un giorno il catalogo de’ miei libri, e lo pregai di presentarlo a’ direttori della biblioteca del governo, ed ottenermi l’onore, s’era possibile, di fornir di qualche opera italiana la lor cospicua collezione. Partito il signor Verplanck pochi giorni dopo per Washington, si ricordò, per mia buona sorte, assai efficacemente della mia preghiera, e, colla cooperazione d’un de’ piú illustri membri di quel nobilissimo corpo, il signor Everett, tanto far seppe, che ordine mi fu dato di mandar loro un considerabile numero di scelte e costose opere,
tra le quali una magnifica edizione della Divina commedia di Dante, d’Ariosto, d’Alfieri, Scriptorcs rerum Italicarum di Muratori, che per la prima volta veduto aveano le rive dell’Hudson, e l’opere di Tiraboschi e di Visconti. Questo pecuniario rinforzo, che oltrepassò quattrocento piastre, mi venne come una manna dal cielo, in un momento nel quale io sapea di dover ricevere una grossa partita di libri scientifici e matematici, e tra questi l’opere del Manfredi, de’ Riccati, del Cagnoli, del Brunacci, del Cardinali, del Guglielmini, del Vallisnieri, del Lami, del Gori, del Morelli, del Lanzi, del Venturoli, del Micali; autori tratti da me dall’Italia, per convincere un certo, per altro dottissimo, amico mio, con altri pochi del suo parere, che ostinansi a sostenere che nelle scienze gravi e severe non sia paragonabile alla Germania l’Italia, e che si sono o fingono di essersi dimenticati che «c’est de /’ Italie que nous tenone les Sciences», come un ingenuo scrittore francese confessa nella prefazione all’ Enciclopedia. Di fatti quasi tutte quest’opere pochi giorni dopo mi capitarono; ma, contemporaneamente con quelle, me ne furon dell’altre spedite, che (i) Tutta questa lunga orazione non servi a darmi un sottoscrivente 1 né io aveva ordinato, né fatte eran per l’America. V’era tra queste una magnifica edizione di Dante e un’altra della Gerusalemme del Tasso, bella per veritá, ma d’un prezzo tropp’alto per trovarne facile spaccio in questi paesi. Siccome però il libraio, che me ne fece la spedizione, credette di darmi per quella una prova di vera amicizia, ed, oltre a ciò, essendo egli in qualche maniera connesso con persona ch’oltre ogni credere venero ed amo, desideroso di dar ad entrambi una marca di considerazione, risolsi di accettar a certe condizioni quell’opere, e, dopo d’aver tentato invano di vendere le piú splendide, imaginai un modo novello da sbarazzarmene, che parzialmente riusci. Trassi dal mio catalogo una serie di scelti volumi, il cui valore ascendeva a quattrocento piastre ; invitai quaranta persone a vederli, e proposi di formar due classi di studenti, ad una delle quali insegnar l’italiano di pianta, per quanto in quaranta lezioni potevasi, e all’altra leggere e spiegar la Commedia di Dante, con qualche altro classico non prima letto e da lor medesimi scelto. Ogni concorrente doveva pagar dieci piastre, che avrebbero fatto in tutto l’intero valore de’libri, e questi, divisi in otto parti o vogliamo dire in otto premi, dovean cavarsi a sorte da un’urna. Ma, quando venti avean sottoscritto, impazienti d’indugio, chiesero d’estrar la metá dei premi, e cosí fu fatto; e, se questa operazione, agli altri maestri di lingua del tutto nuova, non aggiunse un obolo alla mia borsa, procurommi certo il diletto impareggiabile di far conoscere la sublimitá e le divine bellezze del nostro Dante ad altri venti de’ piú coltivati e nobili ingegni della cittá, perché tutti que’ venti discenti vollero leggerlo, tra’ quali anche sei damigelle e una giovane sposa, il cui entusiasmo ed ammirazione per quel nostro incomparabile poeta oltrepassava quello degli uomini! Ma né la lettura di Dante né quella d’alcun de’ nostri poeti fece dimenticare le grazie della nostra musica. Narrerò a questo proposito un accidente altrettanto piacevole che straordinario. Bisogna sapere ch’io aveva giá da gran tempo detto che la mia nipote verrebbe a New-York, e probabilmente condurrebbe qualche altro buon cantante con sé. V Ma l’arrivo suo tardò tanto, che tutti gli amatori di musica si burlavan di me e non lasciavan córrer occasione di pungermi e motteggiarmi. Una mattina, in cui leggevamo il canto vigesimottavo del Purgatorio , la damigella, cui toccò leggere quella bella terzina che dice: una donna soletta che sí giá cantando ed iscegliendo fior da fiore, interruppe quella lettura, e scherzosamente mi disse: —Signor Da Ponte, non sarebbe vostra nipote questa cantante che coglie fiori?—Io, che tanto aspettava allora la sua venuta quanto di trovar al buio una perla: — Non si faccia beffe — soggiunsi: — la mia nipotina verrá. — Ma quando, quando? — replicarono tutte l’altre. —Quando verrá? Verrá oggi—replicai io. Parlai veramente in ispirito di profezia. Perché, appena aveva terminata la frase, che una sonora picchiata alla porta della casa mi fece correre alla finestra, di dove vidi il signor A***, che con lietissima faccia mi disse queste sole parole: — Sono partiti. — Discendo precipitevolmente dalla scala, al piede della quale quel signore m’incontra e mi porge una lettera del mio angelo triestino, nella quale l’arrivo di mio fratello con sua figlia Giulietta a Trieste e la lor sollecita partenza per New-York definitivamente m’annunzia. Si converti in un universale tripudio di allegrezza la lezione di quella mattina, e qual fosse la mia e quella di tutti i miei non si potrebbe per alcun immaginare, nonché descrivere. Un uomo, che avea giá passato l’anno ottantesimo d’una travagliatissima vita; che per piú di trenta anni non aveva avuto il conforto di veder alcuno de’suoi; con un core tenero, affettuoso, sincero, e quasi fuori d’ogni speranza di tanto bene: qual genere, qual eccesso di consolazione sentir non doveva alla improvvisa novella deH’avvicinamento d’un fratello, che solo b) ancora gli rimaneva, che avea fin da’piú (i) Si vuole che un altro fratello mio viva in America; ma, s’ancora vivesse, avrebbe risposto alle lettere che gli scrissi. Non avendolo fatto, o non vive piú, o non dee essere mio fratello. teneri anni amato sopra ogni cosa, e per le cui replicate lettere, spiranti amore, rispetto, stima, riconoscenza, nudriva le ’ piú soavi speranze d’una reciprocazione perfetta d’aiTetti? A questo dolce pensiero il piacer ineffabile s’aggiungeva di veder per la prima volta e stringer al mio seno una nipote, delle cui belle qualitá personali, soavitá di carattere e gentilezza di maniere avea ricevuto da vari amici le piú piacevoli informazioni, e che per un distinto ed ammirato talento brillava giá nella piú filarmonica cittá d’Italia (ché tale è Venezia) in un’arte ch’io sperava dover contribuire a una maggior diffusione di quella favella, che formò e formerá sempre il primo e l’ultimo de’ miei voti, e a perpetuare con una nobile biblioteca la sua impareggiabile ma poco ancor conosciuta letteratura! Siccome però nel giardino deH’umane delizie rosa non v’ha senza qualche spina, cosí la non picciola spesa, che per la partenza del fratello mio da Venezia e pel viaggio suo colla figlia ed altre domestiche combinazioni occorreva incontrare, mi sbigottiva e discoraggiava, pel timor naturale a un uomo di limitata fortuna di non poter trarmene con onore. Ne’ trasporti del mio fervore io aveva scritto al piú prezioso, al piú liberale de’ miei amici, al signor dottor Domenico Rossetti di Trieste, di non guardar per minuto alle spese, e aveva impegnato il mio onore e la mia sacra parola con lui di pagar prontamente, perch’egli l’impegnasse cogli altri. Non esitò, non tardò a secondarmi quell’uomo angelico; ma, quando mi scrisse: «Quattrocento e venti piastre so ben che faranno un gran vuoto in una borsa poetica», tremai, lo confesso, dal capo ai piedi, non vedendo da qual sorgente scaturir dovea questa somma, che per colmo de’ mali dovea pagarsi a vista. Questa paura non mi lasciava sentir tutta la dolcezza dell’avvicinamento del loro arrivo, che il mio core bramava sollecito e il mio piccolo scrigno procrastinato; ma, quando il giorno diciottesimo di febbraio l’arrivo del vascello, dove imbarcati s’erano, fummi annunziato, e poche ore dopo la carrozza giunse alla porta della mia casa, dond’essi uscirono, la mia infinita allegrezza non lasciò piú loco a paure, e le carezze, gli abbracciamenti, le questioni reciproche, or accompagnate dal riso ed or dalle lagrime, ci fecero passare in famiglia tutto il rimanente del giorno e gran parte della notte. Vinti o, per meglio dir, sopraffatti da una foga di dolci affetti, ci abbracciammo novellamente e andammo alle nostre stanze per riposare. Non m’addormentai se non dopo molte ore di veglia; ma, quando m’addormentai, mi si rimescolarono per la fantasia tutta le cose di cui avevamo parlato il giorno, ed io fui il rimanente di quella notte col nostro buon padre, co’ fratelli, colle sorelle e cogli amici di Venezia, di Treviso, di Ceneda e di molt’altre cittá dell’Italia. Non so d’aver fatto mai sogni piú deliziosi in tutto il corso della mia vita. Mi pareva che fossimo tutti insieme ad una gran mensa, mangiando, bevendo e discorrendo di cose allegre: v’era tra gli altri il mio amatissimo Colombo, il quale, invitandoci tutti a bere, intuonava, prima di farlo, il seguente versetto: — «Quam ánice et quatti iucundum habitare fratres in unum!» — Lo ripetevamo tutti ad un tempo, formando un coro, ed era tale il trambusto, che si rompeva il mio sonno. Vedendo che il sole s’era giá alzato, mi rizzai immantinente, e chiesi s’era pronta la colazione. Trovai nella solita stanza un de’ miei allievi, e gli narrai quel bel sogno. — Signor Da Ponte — ripigliò egli, — il sogno è bellissimo : è bene però che vi ricordiate che «rara est concordia fratrum». — La sua crudele osservazione m’afflisse molto ; ma altro non replicai se non : — «Dii omeri advertant». — Intanto il rimanente della famiglia arrivò nella stanza e le nuove carezze, gli abbracciamenti, le interrogazioni novelle mi fecero presto dimenticare quella osservazione di mal augurio. Dopo una festosa colazione, uscii di casa col fratello mio per trovar sesto alle cose. Rimanevano da pagarsi alcune centinaia di piastre per doveri incontrati per quel viaggio, oltre a trecento da me giá pagate prima del suo arrivo. Benché le tratte fossero a vista, con qualche sacrifizio pecuniario vi riuscii. La nuova frattanto si sparse per la cittá, che la tanto desiderata Giulietta era giunta. I piú rispettabili signori di New-York, e sopra tutto gli allievi miei e le loro famiglie bramarono di vederla e d’udirla. La videro, la udirono, e a tutti piacque generalmente e pel contegno e pe’ talenti. Anche la franca e disinvolta maniera di mio fratello era applaudita ed amata tanto dagli amici miei che da vari membri della famiglia. La mia felicitá era quale io l’aveva imaginata in questi tre versi della mia canzone all’imperatore: Tal nell’anima mia creerá pace e gioia, e caccerá martir, pianto e cordoglio.
E che non fec’io, che non fecer tutti i miei per render questa pace e questa gioia durevole? Passati pochi giorni in allegrezze domestiche, si volsero tutte le cure e tutti i pensieri agli affari, e al modo precipuamente di far comparir per la prima volta la nostra Giulia con piti vantaggio. Volevano gli altri che incominciasse la sua carriera con un’accademia di canto: io solo fui di diverso parere; e, mentre essi disponevano le cose a lor modo, io feci un contratto tale coll’intraprenditore del teatro piú frequentato, che, le opinioni cangiatesi, si applaudí alla destrezza e al giudizio mio. Le ottenni la bella somma di mille e dugento piastre per le due prime comparse, e la metá dell’entrata d’un «benefizio» (*) per la terza. Questo danaro le fu nelle mie mani pagato; e quei signorotti e quelle signorine, che diedero il bel nome di «bomba» ( 2 > al racconto mio, si compiacciano di legger questi versi, che l’estemporanea mia musa lor dedica. Signori increduli, fremer non giova ; la cosa è insolita, la cosa è nuova; ma le secento piastre d’argento (metal si raro e a voi si caro) (1) Voce tecnica teatrale, conosciuta universalmente. (2) Lo stesso che «puff». due sere in séguito in tasca entráro di mia nipote, per l’incantesimo delle sue note. Un «benefizio» s’ebbe la terza; e, se l’invidia vi punge e sferza, questa, scusatemi, a nulla monta, se intanto i dollari la Giulia conta. Signori increduli, non so chi siate; ma, se in America venir osate, n’avrete mille, nonché secento, senza postille di complimento, che lieti accordano certi impresari per supplemento de’ lor danari. Ma non ardiscono venir tra voi quelli che «cancheri» chiamate voi ; ché i vostri antipodi con cigni tali di pomi fracidi fien liberali; perché dir debbovi, per esser giusto, ch’or della musica qui c’ è il buon gusto, se non in tutti, in quei che instrutti fúr dall’amabile di Garzia figlia, fior dell’armonica melo-famiglia. A evitar dunque scherno e gastigo, or che dall’Adria parti Dorigo, vengano, vengano quei nostri eletti, che vanta Italia cantor perletti. Venga con Davide quel gran Velluti, appo cui gli angeli sembrano muti ; venga Zucchelli, venga Donzelli, o un cantor simile al mio Mombelli. Per donne basta per me la Pasta: parlo di quella che d’anno in anno si rinnovella con dolce inganno, come si dice della fenice. Signori increduli, schietto vi parlo, non è satirico, (chi può negarlo?), non è incivile questo mio stile. Volli sol darvi corta lezione, ond’insegnarvi la discrezione; per cui non dubito che in avvenire sarete cauti prima di dire: — Quell’uom decrepito non si vergogna macchiar sue pagine con vii menzogna. — E tu ricórdati, Pasquetta cara, che piú che vivesi, e piú s’impara.
Lasciamo ora i versi e torniamo a Giulia, cui l’insistenza mia fu vantaggiosa non solo per l’interesse, ma lo fu ancora piú per l’onore. Dopo aver accordato di farla comparire la prima sera come semplice cantante, perché s’avvezzasse un poco a veder un pubblico nuovo per lei, credetti bene di vedere e di far vedere quanto valea nell’agire. Composi perciò una specie di azione teatrale, di cui dará una perfetta idea la prefazioncella seguente : Agli abitatori della cittá di New-York Né le circostanze attuali de’ nostri teatri, né il picciolo numero e la qualitá de’ cantanti, né finalmente il tempo fissatomi a scrivere questi versi poteano i mezzi somministrarmi da scriver cosa che meritasse il nome di dramma, né come tal lo presento ad un colto pubblico. Mancandomi attori, tempo e spartiti, non composi per altro oggetto questo ghiribizzo poetico che per divertire in certo modo una rispettabile udienza, e porgere a un tempo stesso occasione a una novella cantante di dar una qualche idea della sua capacitá nell’azione (qualunque ella siasi); cosa impossibile a farsi in un de’cosí detti «concerti». Dopo aver molto studiato sul titolo che potea convenire a simile lavoro, a quel m’appigliai d ’Ape musicale. Non offro dunque, come giardiniere d’Apoilo, un giglio, una rosa, o una giunchiglia drammatica, cólta da me sulle vette di quella montagna; ma, a guisa di pecchia, che, suggendo e mescendo l’essenza di tali fiori, forma ne’ favi il piu dolce e grato de’ cibi, cosí, unendo quasi in un centro le piú vaghe armonie de’ nostri favoriti compositori, ho sperato dare un de’ piú piacevoli passatempi al cortese e discreto lettore. Mi sono ingannato ò). L ’Ape musicale non piacque, ed io m’accorsi alle pruove che non poteva piacere: ma la novella cantante, che vinta aveva la naturai timidezza, brillò in tutto il suo lustro, e cosí fu nella terza rappresentazione e ancora piú nella quarta ; e questo era quello che piú importava per tutti. Il buon effetto però della sua bella voce e dello squisito suo metodo non s’estese se non a’veri professori di musica e a’ dilettanti piú coltivati ; e ne dirò le ragioni. La musica scelta da lei per le sue rappresentazioni era infallibilmente bellissima. Convien tuttavia confessare non esser fatta tutta tal musica per ogni gusto e per ogni orecchio. Quelli, che son avvezzi alle canzonette da piazza, alle ballate, alle waltz ed a simili volgari corbellerie, si trovano affatto in un mondo nuovo per essi, quando si cantano certi pezzi; e qualche volta, per dir il vero, vi si trovano ancora i piú intelligenti in quell’arte. Desiderio di novitá, imitazion pedantesca di qualche compositor favorito senza posseder il suo genio, e mancanza talvolta di vera scienza musicale fanno che una gran parte de’ moderni maestri studi il difficile, lo stravagante, lo strepitoso, sperando nascondere per tal modo i loro difetti.
Tal musica non piace (a quello che dicono molti) nemmeno a’ nostri italiani; e, se pur loro piace, questo adiviene solo quando la cantano que’ virtuosi per cui fu scritta, dopo averla udita cantare almeno sei volte. Uno de’ piú giudiziosi e raffinati conoscitori di questa bell’arte mi scrisse ultimamente cosí da Venezia: (1) I primi a criticare furono due de’ peggiori cantanti. La piú cattiva ruota del cario è sempre quella che grida. F*** e R*** ! Sanno leggere? ’ La musica, che adesso si canta qui, è pur troppo fuori della natura, e gli orecchi americani, che non sono rozzi ma vergini, non potranno gustare della musica manierata che qui è di moda. Se costi sembrano troppo studiate le canzoncine che scrive mio figlio, che pur sono i fioretti della musica, quale stordimento produr non dovranno le musiche di pretesa, che sono spesso inintelligibili anche a me? Vedo che per formare un’opera, che, cantata in una lingua diversa dalla comune, possa dilettar l’universale, noti sará cosí facile; e sono persuaso che piacerebbero piú quelle di Cimarosa, di Paisiello e d’altri di quel tempo, che le nostre. Io aveva giá scritte queste medesime cose prima che giungesse a me questa lettera, e mi compiacqui ed andai altèro di sentire con un personaggio si colto e si qualificato a dar giudizi in un’arte, di cui fu egli medesimo un de’ piú leggiadri ornamenti come semplice dilettante, siccome lo è attualmente il suo «fihus sapiens et gloria palris». Tutta Venezia intende eh’ io parlo del mio pregiatissimo ed ornatissimo amico Girolamo Perucchini. Dopo tutto ciò, qual maraviglia se non furono generalmente ammirate in America certe arie di Vaccai, di Generali e di altri del loro ordine, sebbene bellissime, e da quelli principalmente che non furono avvezzi ad udire prime se non le canzoncine e le ballate di Kelly, qualch’aria polonese, scozzese o irlandese, oltre la favoritissima nazionale cantica di Yankee Doodleí A uditori di questa scola, che non lodarono né potevan lodar ragionevolmente un canto che non capivano, bisogna aggiungere una caterva di parziali, di partigiani, di protettori, di pretendenti, di rivali per mestiere, di maestrini per fame, che, assistiti, co’ lor puffs (0 da sei baiocchi, da certi gazzettieri, giornalisti e scrittori venali di fogli pubblici, che parlano in tuon magistrale delle cose che meno sanno, einpion le menti del pubblico men intelligente di mille pregiudizi, di mille errori, e coloro principalmente, che non ardiscono mai proferir giudizi se non dopo aver lette tutte le gazzette della cittá. Pruoverá (t) «Puff» è voce inglese che significa «falsa lode». un avvenimento troppo vicino che non è per gloria o per vantaggio de’ miei che cosí ragiono. I! mio grande amore per la nostra favella e pe’ nostri scrittori, e il desiderio onorato di diffondere piú e piú e di stabilire in America le nostre dottrine e le nostre lettere, furono lo sprone principale che mi punse e incitò a stimolar il fratello mio di condur sua figlia seco in America. Ella non era fatta pel teatro, né il teatro per lei. Ma suo destino era di venir appunto in America per tosto tosto lasciarlo, e per apparir invece in un modo degno della sua educazione, de’ suoi parenti e della sua nascita sul gran teatro del mondo. Per chi dunque scrivo le mie osservazioni? Le scrivo per que’ bravi virtuosi che potrebbero un giorno determinarsi di venire in America^, e per quello precipuamente che fu invitato a venirci per mio consiglio, per dar un compagno di merito alla nostra Giulietta. Non si fidino questi nel solo pregio della lor bella voce. — Vox contot — sogliamo dire; e negar non si vuole che la voce non sia un de’ principali requisiti del canto. Se la voce però non è accompagnata da buona musica, fará l’effetto medesimo che far suole un abito del panno piú fino, che, se è mal tagliato dal sarto, faratti ridere. Sará dunque saggio consiglio provvedersi d’una buona dote d’arie e di cosí detti «pezzi concertati», le cui cantilene siano facili, naturali e melodiose, senza esser triviali e volgari. Questi rimangono agevolmente nell’orecchio e nel core di chi gli ascolta, li canticchiano i dilettanti quand’escono dal teatro, i mercadanti di musica gareggiano a pubblicarli; quando son pubblicati, li comprano, li ricantano tanto quelli che ne sanno di canto quanto quelli che non ne sanno; tornano al teatro piú volte per riudirli; e qualche volta due o tre pezzi di questo genere bastano a far che un’opera piaccia, con onor del cantante, con gloria del compositore e, quel che piú importa, con vantaggio vero dell’impresario. Lascino quindi a chi la gode la musica di pretesa, che sforza il cantante a divincolarsi, a boccheggiare, a strozzarsi, per arrivare a quella tal nota, per eseguire quel tal gorgheggio e per far udir la sua voce, ora legata dagli accompagnamenti ed ora coperta ed affogata da una tempesta di pifferi, di tamburi, di corni, di fagotti e di trombe, a cui altro non rimane ad aggiungersi se non le campane e i cannoni. Non andrá guari che il signor Dorigo (cosí si chiama quel bravo giovine; arriverá a Nova-Iorca, e forse non solo; perché, s’è vero quello che gli amici mi scrivono dall’Italia, tal fu l’orgasmo prodotto dal buon successo di mia nipote nella famiglia filarmonica, che molti, fino l’impareggiabile Velluti, paiono vogliosi di far una visituccia a’ loro antipodi. Io non cessai d’animarli e di stimolarli, e i miei preziosi amici italiani tutte le strade cercano di secondare questa mia brama onorata. Ebbi giá varie proposizioni da due de’ primari intraprenditori teatrali, le quali prevedendo che non sarebbero col carattere e gli usi di questa cittá compatibili, dell’altre ne feci io stesso, di cui di giorno in giorno posso aspettare o il rifiuto o l’approvazione.
Questo soltanto potrebbe ancor far rinascere in me la speranza di veder adempito il mio voto, di veder, dopo tante fatiche, sacrifizi ed opposizioni, una scelta biblioteca italiana nella illustre cittá di New-York. Tutti gli altri mezzi furono tentati da me. Ho consigliato, ho pregato, ho convinto un buon numero di veri dotti della utilitá dei progetto; ma niente giovommi finora, anzi pare che tutto vada di male in peggio. Ed odi ora questa, o mio buon lettore.
Verso la fine di novembre dell’anno 1829, il presidente del collegio Colombiano cessò di vivere. Un soggetto di molta dottrina e di spiriti generosi fu scelto in suo loco: nulladimeno, per diversitá d’interessi, di religione, di partiti, nacque una spezie di gara o piuttosto di opposizione tra i cittadini, per cui una gran parte di quelli propose e gagliardamente sostenne esser di pubblico bene la fondazione d’un’altra universitá, nella quale con diversi principi e in diversi studi si dovesse instruir la cittadinanza. Fu lunga, clamorosa e ostinata la controversia, et lís adhnc sub indice pendet. Gli affidati frattanto del vecchio collegio, di por fine sperando alle divisioni e di metter le opinioni d’accordo, determinarono d’erigere il collegio suddetto in universitá, e tal riforma proposero, che, uniformandosi all’universali occorrenze, il preteso o il reale bisogno togliesse d’un secondo stabilimento. Novelle pratiche e studi novelli vi s’introdussero, tra i quali quello delle tre lingue spagnuola, francese e italiana. Fecero a me l’onore di richiamarmi al professorato per questa ultima: ed io, sebben con ottanta anni sul dosso, accettai l’offerta con giubilo. Io ben credeva di dover esser novellamente professor síne exemplo , cioè senza scolari e senza stipendio. Perché io ragionava cosí: — Il piano adottato da’ direttori di questa «riformata universitá» non è certamente favorevole al nostro idioma. Si vuol che, mentre a’ professori di greco e di latino (e per questo ultimo idioma sen pagano due) un onorario è assegnato di duemila e duecento piastre, con un certo numero di discenti; si vuole, dico, che i professori di quest’altre tre lingue dipendano affatto dalla volontá degli alunni per la scelta di quelle e dalla volontá de’ parenti per lo stipendio. Questi, pagando la non lieve summa di novanta piastre per gli altri studi di dieci mesi, non è probabile che di spese ulteriori vogliano caricarsi per altre lingue ; e quelli che lo faranno (e saranno pochi), non sará per la lingua di Dante, ma per quella di Voltaire e di Don Chisciotte , che si credon utili pel commercio ; mentre la favella italiana si tiene semplicemente per lingua d’ornamento e di lusso. Io dunque non avrò alcun discepolo. Se però è per uno spirito di mal calcolata economia b) che vi sará tanta scarsezza di scolari anche per quelle due lingue, forse — dissi a me stesso, — togliendosi da me tale ostacolo, ottener potrei pel nostro linguaggio quello che gli altri due professori non otterranno. — Volli attender però l’esito del primo anno, e vidi assai chiaramente che non m’era ingannato ne’ miei giudizi. Pochissimi furon gli allievi de’ miei abilissimi colleghi: credo che tra l’uno e l’altro n’abbian instruito quattordici! Ed io? Piangete, o toschi, e con voi l’Hudson pianga, (1) Mal calcolata, perché il commerciante, trovando che né il greco né il latino gli è d’alcun uso ne’magazzini, si vede sforzato d’imparar adoppia spesa, e spesso da pessimi maestri, una o piú di quelle tre lingue; e ciò, quando la folla degli affari gl’impedisce lo studio’. non uno. Non m’impediron però le lagrime di fare un ultimo tentativo, e fu questo. Proposi di dare due lezioni per quaranta settimane a cento alunni di quell’instituto, ognuno de’ quali piú non avesse a pagare che quindici piastre per ottanta lezioni, e di presentare agli studenti o alla universitá mille volumi di scelte opere, uguali in valore alla intera somma da lor pagata. Mandai la proposizione a ragguardevole personaggio, la cui voce ed il cui consiglio è di grande autoritá e di gran peso per tutti, ed ebbi la seguente risposta b): Caro signore, vi consiglio di non insistere troppo su questo punto, perché, per esser candido con voi, non credo che siavi la menoma probabilitá che gli affidati vogliano intraprendere di alterar il presente sistema del Collegio e di obbligar gli studenti d’apprendere l’italiano. Voi siete ora professore del Collegio e avete l’opportunitá d’insegnarlo a quanti alunni vorranno impararlo da voi. Gli affidati non posson far niente senza alterare gli statuti attuali, e questo so bene che, per offerte che loro facciansi dagli ammiratori della lingua italiana, non potranno consentir mai di fare. Mi pare che siate un po’ troppo ansioso rispetto alla memoria che lasciar bramate di voi. Per quello che avete giá fatto per l’amor del linguaggio e dell’italiana letteratura, finché durerá in questo paese alcun gusto per l’elegante letteratura, il nome di Da Ponte, clarum et venerabile nomen , sará in grata venerazione tenuto; e la gioventú dell’uno e dell’altro sesso volgerassi addietro nel declinar della vita all’ore passate in piacevole ed instruttiva conversazione col loro illuminato ed elegante maestro, come a’ piú brillanti momenti della loro esistenza. Fate che ciò vi basti, e non cercate, come Bonaparte, d’acquistar per voi solo tutta la gloria dell’universo. Il vostro vero amico C. M. Quanto mi piacquero i cortesi, affettuosi e consolanti sensi degli ultimi paragrafi di questa nobilissima lettera ( 2 ), altrettanto (1) Parte di lettera scrittami dal signor Clemente Moore. (2) Non è per vanitá, ma per difesa dell’onor mio lacerato ingiustamente da chi men dovrebbe, che pubblicai anche l’ultima parte di questa lettera. Lettore, ricórdati di questa nota. quelli de’ primi mi sconfortarono e afflissero. Il mio prezioso protettore ed amico non sa però che tutto quello che ho fatto mi pare e mi parrá poco, se prima di tornar alla terra non lascio a questa illustre cittá tutto il tesoro delle lettere italiane. Per questo nobile desiderio, se mi vien fatto di riparare al torrente de’ mali, che da ingrate mani... mi cadde addosso inaspettatamente nella mia dolente decrepitezza, spero ancora di far vedere che piú d’ogni ricchezza e comoditá mi sta a cuore la gloria della mal conosciuta mia patria. Ho aperto perciò un magazzino di libri, dove m’assido al cantar del gallo, e non n’esco se non per pochi momenti, e vi rimango poi fin dopo molt’ore della notte. Son corsi giá cinque mesi dacché fo il mestier di libraio. Non ho molt’occasioni per veritá di sorger dalla mia sedia in un giorno; i compratori son pochi e rarissimi: ma io ho invece la gioia di veder a ogni istante venir alla porta mia cocchi e carrozze, e talvolta uscire da quelle le piú belle facce del mondo, prendendo per isbaglio la mia bottega di libri per la bottega alla mia contigua, ove si vendono zuccherini e crostate. Perché creda la gente che ho molt’avventori, penso di porre uno scritto alla finestra, che dica: «Qui si vendono zuccherini e crostate italiane»; e, se per questa burletta alcuno entrerá nel mio magazzino, gli farò vedere il Petrarca o qualch’altro de’ nostri poeti, e sosterrò che sono i nostri piú dolci zuccherini, per chi ha denti da masticarli. Il mese d’ottobre è vicino. Gli allievi e gli amici miei lasceranno tra poco i piaceri della campagna, richiamati dal freddo e da’ ghiacci agli affari e agli studi. Le mie classi spero che fioriranno, e, conosciuto il mio bel desiderio, cresceran gli avventori al negozio mio. Di tanto m’affida la conosciuta benevolenza e liberalitá degl’individui de’ quali parlo. Con questa dolce speranza finisco questo volume. Credeva veracemente che dovesse esser l’ultimo. Imperiose circostanze e fatti d’alta importanza, ma non ancora abbastanza sviluppati, m’obbligano a trasportarne il racconto ad un altro tempo. Farollo in un volumetto, che servirá d’appendice a’ tre giá da me pubblicati. La storia di quello incomincierá dal decimoquarto giorno di settembre 1830, in cui questo termina. Non ti dispiaccia, lettor cortese, tal dilazione. Procede questa dalla brama onorata di informarti di tutto con quella medesima ingenuitá e veritá, che tu e trovasti e approvasti ne’ miei primi volumi ; e vo’ che tu sappia che, se, giusta l’epigrafe della mia prima edizione, ti tenni alcune cose celate, cui caritá e prudenza mi obbligò tacere, omnia mine dicam, sed quae dicam omnia vera.