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pruova di veritá; e come tentate pruovarlo? Con uno di quei marroni filosofici, che chiamasi, se non fallo, «paralogismo». — Tutti gli uomini — dite voi — credettero alla magia, all’astrologia, agli oracoli, al moto del sole intorno la terra, alla influenza della luna; ma tutti gli uomini in questa loro credenza s’ingannarono: dunque il comune consentimento non è pruova di veritá. — Questo raziocinio, signor anonimo, sarebbe giusto, se i giudizi, che dipendon dai sensi, non fossero affatto da quelli diversi che dall’intelletto dipendono. Un uomo può ben ingannarsi ne’ calcoli, nelle deduzioni, nelle probabilitá delle analogie e nelle ipotesi; ma chi è mai quello stupido che s’inganni nelle cose che «sunt ocuiis subiectafidelibus», o ad alcuno degli altri sensi, da cui quel giudizio dipenda, se non nel caso che quel senso sia viziato ed ottuso, come è forse il vostro in fatto di musica? E, se pur qualcuno accidentalmente s’inganna, creder possiamo che accada mai che tutti ancora s’ingannino? Potrebbero tutti gli uomini pigliar l’odore ingratissimo del papavero per la fragranza del gelsomino, o masticar la cicuta credendo di masticar una mela, o stringere con le dita un pezzo di ghiaccio credendo di stringer la mano di morbida verginella? Né voi lo credete, né io, né chi ha fior di senno nel capo. Nella maniera medesima, chi non è sordo giudicherá della musica, né prenderá mai il suono d’una campana per quello d’un violino, né il crocitare del corvo pel canto dell’usignolo. Cosi non dirá: — Questa musica mi dá gusto, — se non gli dá gusto davvero; e se, come dá gusto a lui, cosí lo dá a tutti quelli che l’odono, questo dirassi gusto di pubblico consentimento, e per conseguenza pruova di veritá: quod erat demonstrandum. Se poi questo sommo diletto durerá o non durerá, non è da noi l’asserirlo; ma, se ancor non durasse (siccome voi pretendete di profetizzare), questo nulla torrebbe al suo merito, che consiste nella facoltá di porger diletto a quelli ch’ora l’ascoltano. Sappiamo che tutte le cose della terra, per belle che sieno, col tempo cambiansi. Quella rosa al mattino tanto leggiadra, quella forosetta bellissima a sedici anni e «spedando, nigris ocu/is tiigroque capi/lo», quando la sua giá secca e pallida guancia «ruga senilis arat», diventa oggetto di compassione, se non di disprezzo all’immemore vagheggiatore. Ad onta di ciò, non si lascia di amar quel fiore al mattino, perché deve appassire la sera, né di bramar il possesso di quel bel viso nella etá sua piú fresca e piú fiorita,