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felicemente riuscito, le chiesi qual dei primi sei canti le piacerebbe udir declamare a mente. Domandò il terzo: fu la giovinetta da’ quattordici anni ch’ebbe l’onor dell’aringo. Durò piú di tre ore la pruova, dopo la quale rimbombò d’applausi la stanza. Mi accostai allora a quella damina e le chiesi modestamente s’io aveva ragione d’aver invidia.—No, in veritá — rispose ella, — ma si d’esser invidiato! — Ella parlò in profezia. Questo fu precisamente il destino mio, principalmente in America; e l’invidia, di cui fui segno, non era quel sentimento a ognun naturale di desiderar un bene ch’altri possedè e che il Petrarca dipinge mirabilmente in questi due versi: Quanta invidia ti porto, avara terra, che abbracci quello cui veder m’è tolto! ma ben quel sentimento feroce, che sprona a tutto dire ed a tutto fare a’danni dell’oggetto invidiato; che non cura caritá né giustizia, ma, ad esempio di fierissima tigre, dopo aver sbranato e lacerato la preda, gode di lordarsi nel sangue di quella le zanne e gli artigli; e anche di questa ce ne dá quel poeta un’idea, in quel sonetto che dice: o invidia nemica di virtute, da radice n’hai svelta mia salute.

E questo fu ed è veramente tuttora il destino, mio. Né, per cortesie, per pazienza o per benefizi, m’è riuscito mai di placare quest’idra feroce, cui sopra tutto piacque di sparger il suo veleno ne’ miei medesimi compatriotti e in quegli uomini appunto, che tanto bene che male la professione mia esercitavano. E’ parrá cosa strana al lettore che in venticinque anni io non abbia potuto conservar l’amicizia, nonché acquistarmi la stima d’un sol maestro di lingua, da che vivo in America, dove io fui il primo a introdurla, a diffonderla, a nobilitarla e a non hisparmiare spese, cure e fatiche per ristabilirla. E, per coprir ora cent’altri col velo della «caritá natia», d’un solo mi piace qui far parola, che, separato da me per immenso spazio di