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e per la nobile riviera che la circonda, deliziosissima, ricever pareva nuova leggiadria, nuova luce e nuove qualitá dalle Grazie sorelle che l’adornavano. Era questa la vita mia in quel quasi picciolo Eden. Sorgeva la mattina dal letto al sorger del sole; passava un’ora leggendo ora co’ miei allievi ed ora co’ miei figli un prosatore o un poeta italiano; faceva con essi la mia campestre colazione, e mezz’ora dopo m’adagiava, sempre piangendo, or sotto un pesco ed or sotto un pomo, e traduceva uno squarcio di quel poema, che mi rendeva dolci le lacrime. Quando l’estro parevami stanco, correva a rianimarlo all’abitazione di quelle tre incomparabili damigelle, che colle loro grate accoglienze, col loro divino entusiasmo pe’ nostri autori e co’ loro angelici volti mi faceano dimenticare le mie angosce e passar de’ momenti beati in seno all’ospitalitá, nel piacer ineffabile d’ammaestrarle.

Trapassai poco men di due mesi in questo genere di vita, e, sebben le dolorose mie piaghe non fossero per quello saldate, ottenni nulladimeno forza e coraggio bastante da sopportarle. Tornato a New-York, pensai senza alcun indugio alla educazione degli altri due figli, che, terminati avendo gli studi preparatorii delle solite scuole puerili, erano giunti alla etá di scegliere da se stessi una professione. Parve inclinato il maggiore a quella di Giustiniano; a quella d’Ippocrate l’altro. Ebbi la sorte d’ottenere per essi i piú eminenti soggetti delle due professioni ; e, perché i mezzi miei a que’ tempi erano molto diminuiti, mi venne fatto con facilitá incredibile di fare un cambio d’insegnamento. Io conseguentemente ammaestrai nella lingua italiana i figli di quei professori, ed essi ammaestrarono i miei nelle rispettive loro discipline.

Fu a questo tempo che mi giunse una lettera da Firenze, nella quale mi si annunziava che tanto la mia Orazione apologetica che la mia traduzione della Profezia di Dante era capitata in quella cittá, e che tanto l’una che l’altra s’era graziosamente ammirata e lodata da’ colti toscani, per le cose da me dette non solo, ma per l’ultima purezza dello stile. Fu il signor Giacomo Ombrosi che, senza conoscermi che di nome,