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In tale stato di cose la mia desolazione è piú facile a concepirsi che a descriversi. Nelle maggiori afflizioni dell’anima, uno de* miei teneri allievi, che tutte le strade cercavano di consolarmi, mi presentò la Profezia di Dante scritta da Byron, sperando distrarmi dal mio dolore per la lettura di quel sublime poema. Non s’è ingannato. La dolce malinconia (ripeterò qui le parole da me scritte a quel sommo poeta (0), che fin dalle prime pagine vi campeggia, non racconsolò giá la tristezza mia, ma parve piuttosto alimentarla ed accrescerla : ma questo alimento aveva in se stesso un non so che di tenero e soave, onde non lessi, ma divorai tutti quattro i canti, senza deporre il libretto di mano. Una certa analogia che, salve le debite proporzioni, mi parve di trovare tra le vicende di Dante e le mie, m’invogliarono di tradurre in verso italiano quell’opera, e mi , misi tosto.al cimento. Per allontanarmi da un loco però, che a ogni istante mi ricordava le cause della mia desolazione, proposi agli ospiti allievi miei di ritirarmi con essi in qualche campagna, e volentieri vi acconsentirono. Fu a me di grandissimo refrigerio la continua conversazione di questi benevoli giovani, nel cui affetto, nelle cui cure, ne’ cui studi mi parea di trovare una gran parte del bene che mi aveva tolto la morte. Il loco ancora scelto, in quell’occasione, da me per un ritiro di pace contribuiva moltissimo tanto al sollievo dell’addolorato mio spirito quanto all’eccitamento d’un estro patetico, che s’accordava allo stato mio e al carattere della poesia ch’io intendeva coprire di bruna veste italiana.

Era situato questo nostro ritiro in una campagna della illustre e onorata famiglia de’signori Livingston; campagna, la quale, oltre all’essere, e per la coltura e per la fertilitá e per l’adiacenze (!) Vedi lettera da me scritta a lord Byron, pubblicata in fronte di quella traduzione [D. P.]. Nella presente ristampa è riprodotta nell’Appendice prima [Ed.].