La Fortuna/L'amore
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L'AMORE
....Car ces êtres sont de la race François Coppée. |
Quando in paese si raccontava che Nanna, la sciancata che domandava l'elemosina sulla porta della chiesa, era stata trovata in mezzo a un campo «in istato d'ubbriachezza ripugnante», e perciò trasportata all'ospitale e poi in carcere, nessuno se ne meravigliava.
Regolarmente ogni anno, al principio d'ottobre, all'epoca della pigiatura, Nanna si ubbriacava.
Che volete?... Verso sera, al tempo delle vendemmie, tutti sono allegri, un po' esaltati dalle canzoni e dai fumi del vino; le ragazze arrivano cogli ultimi cesti carichi d'uva bionda; sotto il portico gli uomini pigiano a piedi nudi e cantano; il mosto corre torbido e dolciastro: in cucina arde un gran fuoco: chi potrebbe rifiutare qualche cosa a un poverello? Appunto verso sera l'accattona ronzava intorno alle fattorie, entrava nei cortili, si appoggiava alla sua stampella, ed aspettava in silenzio.
Tosto la massaia le portava una traboccante scodella di mosto, ed ella beveva golosamente fino all'ultima goccia, deponeva la scodella per terra, e se ne andava in silenzio com'era venuta: verso un'altra fattoria, verso un'altra scodella.
Gasparone, la guardia municipale che all'epoca della pigiatura per ordine superiore correva i dintorni in traccia di risse che non avvenivano, scovava invece regolarmente ogni anno la mendicante ubbriaca fradicia sotto un albero, sulla riva d'un fosso, dietro un pagliaio, qualche volta nella cuccia d'un cane.
Egli la trascinava all'ospitale senza troppi complimenti, incoraggiandola con piccole piattonate. Un codazzo di monelli seguiva ridendo e beffando. Qualche buccia d'arancio e di mela volava sul capo di Nanna, ed allora ella si rivoltava, agitava la stampella, grugniva ingiurie cui rispondevano fischi e risate. Gasparone domava tosto il tumulto coll'autorità dei suoi baffi tinti, irti e minacciosi come due chiodi. Ma più spesso l'accattona si lasciava trascinare e beffare passivamente: la sua ubbriachezza era silenziosa e triste.
Chi a Castelluzzo poteva più interessarsi ad uno spettacolo tanto vecchio e tanto stupido?
Una sera però in causa di Nanna tutto il paese fu messo a subbuglio.
Il segretario comunale, Giacomino Ganzetta, entrò in farmacia cogli occhi fuor dell'orbita. Il sindaco, il maestro e l'arciprete, schierati in bell'ordine coi vasi di sanguisughe e col magnifico angora sonnacchioso, lo interrogarono con sguardo spaventato. La signora Zenobia che lavorava all'uncinetto dietro il banco, e il signor Prospero che manipolava certe pillole, smisero di lavorare, e fissarono su di lui quattro occhi ansiosi.
— Che c'è?
— Non avete ancora visto il dottore? — articolò il segretario, cui l'agitazione accresceva l'abituale balbuzie.
— No! — dissero tutti ad un tempo. — Ma che c'è, signor Giacomino?
Il segretario non riesciva a spiegarsi. Infine, dopo innumerevoli suoni inarticolati e gesti di un'eloquenza da impressionare un pellerossa, il racconto esplose, terribile.
— Nanna, la sciancata della chiesa, visitata nella mattina per certe piccole ferite che non volevano rimarginarsi, aveva colpito il dottore per la sua.... come dire?... per la sua configurazione anormale. Un lampo di genio. Il dottore l'aveva esaminata... E.... l'aveva trovata in stato d'avanzata gravidanza. Uno scandalo.
— ....Non c'è dubbio?
— Non c'è dubbio.
Vi fu un silenzio d'indignazione e d'orrore. L'Arciprete aspirò l'aria con un tal sibilo che il gatto d'Angora si svegliò di soprassalto e si guardò intorno con diffidenza. La signora Zenobia chinò pudicamente gli occhi sul lavoro, e il signor Prospero riprese furiosamente a manipolare le pillole. Infine il maestro Zanella, che era il più ardito, osò la domanda che stava sulle labbra di tutti:
— E.... chi?...
— Non si sa. Finora.
La signora Zenobia guardò istintivamente il marito e questi arrossì fino alla radice dei capelli.
Nello stesso momento il campanello d'avviso squillò, e il dottore apparve. Tutti gli furono intorno.
Confermava il fatto?
Si, confermava il fatto; ma consigliava la mas-si-ma prudenza sulla faccenda estremamente delicata, in cui (era inutile nasconderlo) Castelluzzo non si faceva onore.
Tutti si ritirarono scandalizzati e preoccupati.
In quella sera molte mogli guardarono i loro mariti e molti mariti arrossirono senza ragione. Una specie di malessere teneva il paese intero; le parole del dottore: «Castelluzzo non si fa onore» erano state ripetute al caffè; sugli uomini, sopratutto sugli ammogliati, gravava l'apprensione d'un pericolo possibile. Chissà mai che cosa poteva inventare quella cenciosa, mezzo scema, vagabonda? Le mogli erano nervose o irascibili, i mariti imbarazzati e coll'aria di delinquenti.
Anche in farmacia si respirava un'aria carica d'elettricità. Il maestro Zanella aveva osato sull'argomento una parola scottante.
— L'amministrazione comunale sola — egli aveva detto — è responsabile dello stato anormale di Nanna. L'amministrazione comunale, noncurante ed inerte, che permette l'accattonaggio sulle piazze e il vagabondaggio di esseri deficienti e degenerati nocivi a sè stessi e agli altri.
Ben detto! Ma dacchè la politica aveva fatto capolino, maestro e segretario si cavavano quotidianamente gli occhi, e il gatto d'Angora non poteva più dormire.
E intanto Nanna era ogni giorno interrogata, e il paese attendeva trepidando l'esito degli interrogatorî.
Infine, come Dio volle, la notizia venne, ufficialmente ripetuta in farmacia, in sacristia e al caffè. Interrogata e riinterrogata, Nanna non accusava nessuno, anzi «negava il fatto». Contro l'evidenza materiale, contro il suo stesso interesse, con un'ostinazione pazzesca e incomprensibile, negava.
Il paese respirò.
— Non è vero! — aveva detto l'accattona nel primo interrogatorio. — Non è vero! — aveva giurato nel secondo e nel terzo.
E dopo giorni e giorni di snervanti insistenze aveva finito per inveire, colla sua voce rauca e violenta:
— Ebbene, lasciatemi in pace! Se è vero, è vero, ed è stato il diavolo! E quando nascerà questo suo figlio, che voi dite che deve nascere, come è vero Dio, lo strangolerò!
Durante i due mesi che mancavano al parto, Nanna fu tenuta in osservazione all'ospitale e guardata a vista.
Nelle prime settimane le suore le furono d'attorno amorevolmente per cercar di blandirla e di ottenere da lei una parola di pentimento, un atto di contrizione e di fede.
Ma la sciancata che dapprincipio accettava le cortesie senza mostrar gratitudine nè contrarietà, chiusa in un'indifferenza fra sdegnosa ed ebete, non appena si avvide dove si andava a parare, oppose una resistenza imprevista e feroce.
Si rifiutava di mangiare, grugniva, rispondeva con spallucciate, guardava le buone Madri sospettosamente. Confessarsi? Comunicarsi?... Come? Gli interrogatorî erano finiti, ed ancora la si voleva tormentare? Con qual diritto? Che la lasciassero vivere o morire in pace.
Le suore per il momento desistettero.
Ella stava là, sulla seggiola presso alla finestra, colla stampella fra le gambe, inerte, sguaiatamente abbandonata su sè stessa, brutta d'una bruttezza repugnante e volgare.
Vecchia non doveva essere, ma i suoi capelli eran già quasi tutti grigi, ispidi, arruffati; la pelle aveva ruvida e untuosa, gli occhi chiari a fior di testa: le mancavano due denti proprio davanti.
La sua voce era rauca e violenta, ma di rado ella rivolgeva la parola a qualcuno; parlava, o piuttosto mugolava fra sè continuamente: si rivolgeva dei lunghi discorsi, ora lamentosi, ora concitati, incomprensibili per tutti. La suora infermiera e le sorveglianti però dicevano sembrar loro che in quei soliloqui la sciancata minacciasse continuamente qualcuno: forse colui che doveva nascere.
All'avvicinarsi del termine fu raddoppiata la vigilanza.
Una sera nacque, o meglio fu strappata col forcipe, una bimba, un mostriciattolo gialliccio, coi capelli già lunghi, e la pelle così floscia che pendeva in fonde pieghe dal miserabile corpo.
Nanna aveva perduto coscienza.
Due medici e due suore, oltre alla levatrice, erano intorno al suo letto.
Uno dei dottori le applicava delle compresse per stagnare l'emorragia e diceva che il caso era bellissimo.
L'altro giudicava l'operazione eseguita dal collega come brillantissima.
Tutti e due erano molto contenti.
La Superiora invece, una nobile mantovana grassa e pallida con chiari occhi freddi, era sulle spine perchè, se Nanna non riprendeva i sensi, sarebbe spirata fuori della grazia di Dio, senza confessione nè comunione. Scandalo su scandalo. — Crede, dottore, che....? — azzardò ella porgendogli l'asciugamano.
— Madre reverenda mia! — rispose il dottore gaiamente, stropicciandosi le braccia fin sopra al gomito. — Questa qui ha la pelle dura! La bambina, piuttosto! Se riusciamo a salvarle tutte e due, possiamo dire d'aver fatto miracoli.
E tosto riprese col collega una discussione irta di termini scientifici e di parole latine.
Nanna rinveniva. L'emorragia era stagnata. La sua preziosa esistenza era salva.
La bimba invece non si risolveva a vivere nè a morire.
Naturalmente, non appena venuta alla luce, ella era stata tolta alla madre e portata al capo opposto dell'ospitale, nel riparto «Lattanti». La Superiora stessa l'aveva tenuta a battesimo, e le aveva imposto, non a caso, il nome di «Innocenza».
Una nutrice aveva tentato subito di attaccarsela al petto, ma inutilmente. Due giorni erano passati, e ancora la piccina non voleva attaccare.
Suore e infermiere si fermavano intorno al suo lettino e dicevano:
— Povera bimba!... Forse attaccherebbe al seno della madre, ma la madre non vuol vederla: la vuol strangolare. Se non si attacca neppur stanotte, morirà di fame.
La Superiora insisteva:
— Provate, Marianna.
E la nutrice provava, ma inutilmente. La piccina rifiutava il suo latte. Morire, doveva: morire.
A metà del terzo giorno la Superiora prese una decisione gravissima.
Tolse la bambina in braccio, l'avvolse in una flanella, e traversò rapidamente il lungo corridoio che separava il reparto «Lattanti» dalla Clinica ostetrica.
Si affacciò all'uscio della stanzetta di Nanna, e dalla soglia, senza avanzare, alzò sulle braccia il povero essere moribondo.
— Nanna, — disse con voce calma, dominando l'inferma coi suoi chiari occhi freddi, — ecco la tua bambina. Se tu non le dai il tuo latte, muore di fame.
Allora, davanti agli occhi ansiosi e meravigliati delle suore e delle infermiere accorse in punta di piedi, uno spettacolo profondamente pietoso e inaspettato si svolse.
La donna che giaceva sul letto, coi capelli grigiastri scompigliati sul guanciale, coi lineamenti rilassati in atto d'indifferenza e d'incoscienza profonda, balzava a sedere; i suoi occhi smisuratamente si aprivano per abbracciare d'un colpo le forme incerte della sua creatura, e un grido rauco, più selvaggio che umano, usciva dalla sua bocca.
Poi le sue braccia si tendevano verso la creatura, e le labbra, inutilmente cercando un nome, una parola, per chiamarla, balbettavano disperatamente e tremavano.
La Superiora non avanzava; teneva sempre la bimba sollevata in alto verso la madre.
— Non le farai del male?... Un singhiozzo rispose, uno schianto, un pianto, che non rassomigliava al pianto di nessun'altra donna. Veniva forse da una sconosciuta fonte, dalle più misteriose addormentate profondità dell'essere, lavava troppe sozzure: certo aveva un suono diverso e strano.
Nanna era ricaduta sul guanciale e si nascondeva il volto colle due mani.
Un fremito di pietà strinse il cuore delle donne presenti: alcune di esse erano madri, altre non lo erano, non lo sarebbero state mai.
— Datele la bambina! Datele la bambina!
La Superiora si avvicinò pianamente e staccò le mani dal volto della sciancata, poi le posò la bimba in grembo.
— Ha fame, — disse semplicemente. — Prova a darle il petto.
E Nanna cessò subito di piangere e si scoprî.
Un altro miracolo avvenne. La bambina attaccava: pareva che indovinasse sua madre.
Per alcune settimane la vigilanza intorno a Nanna continuò.
Si diffidava; la vagabonda poteva essere ripresa dal suo furore e nuocere alla bambina che ormai cominciava lentamente a rimettersi.
Ma ben presto tutti si avvidero che, se di qualche cosa bisognava diffidare, era della soverchia passione della madre per la figlia. Nanna si rovinava, non dormiva quasi più. Giorno e notte contemplava la sua creatura, la covava collo sguardo, l'adorava.
I suoi occhi torbidi e grossi si facevano dolci di una pietosa e tragica dolcezza posandosi sul piccolo mostriciattolo giallastro che poppava debolmente ma ogni giorno più si attaccava alla vita; la volgarità sfrontata e repugnante dei suoi lineamenti appariva mitigata, ammorbidita, in una bontà, in una compostezza nuova.
Quelle labbra che non avevano mai sorriso, talvolta sorridevano; quella bocca che non si era mai schiusa ad una gentilezza balbettava con voce rauca piccole parole nuove, inventate «per lei»; e le mani venose e adunche tentavano timide carezze, e il rossore, — il rossore! — saliva su quel volto dianzi aspro e indifferente come la pietra su cui tutti posano il piede. Il rossore, il pudore, la timidezza!... Il pugno chiuso della creaturina portava tutto questo a sua madre.
La Superiora stimò esser giunto il momento opportuno.
— Bisogna confessarsi e comunicarsi.
— Sì, tutto, tutto.
Nanna acconsentiva colla docilità d'un agnello. Pareva non rammentarsi neppure della resistenza feroce opposta pochi mesi innanzi.
Soltanto, al momento di lasciare per la prima volta la figlia per recarsi alla chiesa, un improvviso dubbio le balenò, e il terrore trasfigurò il suo volto. Posando le mani sul braccio della Superiora: — Finchè io sarò alla chiesa, non mi porteranno via la bambina?... — balbettò.
La buona Madre la rassicurò, e Nanna si lasciò condurre, pallida, tremente, voltandosi indietro ad ogni passo, tendendo l'orecchio, come la cavalla che lascia il suo nato, e sosta, e nitrisce, e si volta, per salutarlo e chiamarlo.
Quella sera tutto Castelluzzo parlò del fatto e la Superiora fu portata ai sette cieli.
— Non tanto per la confessione e la comunione, — sentenziò in farmacia il maestro Zanella che era un mangiapreti, — quanto per aver riconciliato la madre colla figlia. È impossibile negarlo: Madre Antonietta è una gran donna.
— Una gran donna! — ripeterono il sindaco, il dottore, e l'Arciprete.
E perfino il gatto d'Angora socchiuse gli occhi, e, leccandosi i baffi, parve affermare: — Una gran donna.
Voci forse un po' esagerate, ma singolarmento edificanti, su quella che ormai si chiamava «la conversione di Nanna», cominciarono a circolare in paese, e, ben lungi dall'imaginarselo, la poveretta divenne l'argomento delle conversazioni e dell'interesse generale.
Ben presto alcune signore di Castelluzzo, facenti parte del comitato per la «Redenzione della giovane», comitato che ogni paese rispettabile alberga nel suo seno, fecero domanda alla Superiora di poter visitare Nanna per coadiuvare alla sua redenzione, e prendere qualche provvedimento sul suo collocamento avvenire. Pensate!... L'avvenire di Nanna, di lei che non aveva avuto altro collocamento che il gradino della chiesa, altro pane che quello gettatole dai passanti.
Fu accordato. Le signore del comitato, compunte e dignitose, incominciarono le loro vìsite. Ma ebbero tosto una delusione. Nanna non aveva più bisogno d'essere redenta.
A ciò bastava, era bastata, quella grossa testa difforme coperta da una peluria bionda, quelle piccole scarne braccia che si agitavano, quell'essere fragile e brutto che miagolava in fondo al giaciglio.
Nanna non era più riconoscibile. L'istinto materno prima, la consuetudine colle buone suore, e il riposo poi, avevano fatto di lei anche materialmente un'altra persona, una donna quasi simile alle altre donne.
Rispondeva timidamente, umilmente; e la sua voce, sempre rauca, si era adattata ad inflessioni basse e monotone che ne moderavano la violenza; i suoi capelli erano ravviati, le mani e le vesti pulite.
Le signore del comitato interrogavano.
— Praticava?
— Sì, andava alla messa dell'alba ogni mattina.
— Si confessava?
— Tutte le settimane.
— E faceva quasi ogni giorno un fioretto per la salute della bambina, e partecipava alle novene per i malati gravi....- aggiungeva la Superiora. Ad occhi modestamente chini, ella gongolava. Le signore del comitato però non lasciarono presa. Fallita la speranza della «redenzione di Nanna», per opera loro, restava tuttavia «l'avvenire di Nanna».
Che avrebbe fatto la poverina, con una bimba sulle braccia, spirato il termine dell'allattamento? (Ed era già molto che le fosse stato concesso di passarlo là dentro!) Che cosa possedeva? Nulla, se non una cadente capanna in riva al fiume. Poteva forse tornare a chiedere l'elemosina sulla porta della chiesa, d'inverno e d'estate, colla bambina? Poteva vagabondare di paese in paese, colla bambina?...
No. «Castelluzzo non avrebbe mai permesso una cosa simile».
Le signore se ne andavano impettite ripetendo questa frase con energia.
E non appena restava sola colla Superiora, Nanna le si gettava ai piedi, le abbracciava i ginocchi, baciava la croce che le pendeva al fianco, piangeva, supplicava:
— Madre, madre, dove mi manderanno?... Non mi toglieranno la bambina!...
La Superiora la calmava. Ella sapeva che la portinaia dell'Istituto dell'Infanzia derelitta era morta da un mese e non era stata ancora sostituita. Le signore del comitato proponevano intanto un posto di custode alla Casa di Ricovero per Nanna, ed uno all'Orfanotrofio per la bambina. Era la separazione. Seguì una scena violenta di lagrime e di convulsioni. La Superiora comprese che bisognava affrettarsi. La sua influenza era misteriosa e grande. In capo a pochi giorni il consiglio d'amministrazione dell'Infanzia derelitta proponeva la nomina di Nanna come portinaia, e l'accettazione della bambina nell'Istituto come educanda.
Era un posto ideale: si trattava di aprire la porta dopo aver spiato dalla piccola grata, e di fare i segnali d'avviso secondo la persona introdotta. Bisognava vestire una specie d'uniforme, alzarsi all'alba, seguire le pratiche religiose delle suore, non uscire che una volta al mese in compagnia di una monaca.
— Nanna accettava?
— La bambina sarebbe stata ricoverata colà? L'avrebbe potuta vedere ogni giorno?...
Accettava tutto: tutto. La facessero prigioniera, la caricassero di catene, non le lasciassero più vedere il sole, ma non le togliessero la bambina.
Madre e figlia furono accolte.
Il «Comitato per la Redenzione della giovane» passò un quarto d'ora di cattivo umore.
Sedici anni trascorsero. Nanna e Innocenza non avevano più lasciato l'Istituto.
Innocenza era già una giovinetta: gobba, con un pallido viso dal mento aguzzo, e dei biondi capelli meravigliosi che sciolti toccavano terra. Nell'Istituto tutti le volevano bene.
Le suore che l'avevano accolta piccina dalle braccia di sua madre, con una grossa testa che ciondolava malforma, e due lunghissime mani irrequiete, l'avevano sempre considerata come una cosa sacra, come il segno visibile d'un prodigio avvenuto.
La scena — un po' fantastica, un po' storica, — della repentina conversione della sciancata alla vista della sua creatura moribonda, aveva colpito come un miracolo quelle anime semplici e proclivi ad ammettere il soprannaturale, ed aveva cinto d'una specie d'aureola la grossa testa della piccina.
Intorno alla sua culla Innocenza non aveva visto che volti sorridenti, mani solerti e amorose. Ella non aveva avuto una sola madre: tutte le suore le erano state un po' madri.
Ed oltre alle suore, anche le compagne l'avevano amata, perchè era la più piccina e la più debole. Le grandi di dieci anni l'avevano difesa dai baci e dalle carezze maldestre delle piccole di cinque; le vecchie di quattordici l'avevano protetta dalla prepotenza di quelle di dieci: qualche volta erano avvenuti serî litigi ed eran piovute lagrime di gelosia.
Innocenza aveva tardato molto a camminare. Tutte le malattie dell'infanzia si erano addensate su di lei. Fino a tre anni, ella era stata nella sua seggiolina, davanti a un panchetto, intenta a tagliuzzar carta e a formar bizzarre figure colle sue mani irrequiete; non camminava ma continuamente chiacchierava con voce acutissima ed aveva i capelli già raccolti in due treccioline lunghe e sottili come serpentelli. A tre anni, un bel giorno, e precisamente il giorno di Santa Teresa, la piccola aveva lasciato la sua seggiola, e, barcollando e tentennando colla sua grossa testa fra il silenzio ansioso delle suore presenti, aveva traversato il guardaroba ed era andata a cadere davanti all'altarino, sotto il Crocefisso stillante sangue dalla sua corona di spine.
La piccina cadendo aveva battuto in uno spigolo, e piangeva, ma le suore confortandola ammiccavano fra loro con occhi lucidi e commossi; i primi passi di Innocenza erano stati rivolti verso l'altare.
E così, dai tre anni in poi, ogni tappa della vita di lei era stata accolta con commossa compiacenza, con meraviglia, quasi con orgoglio.
A sette anni, in occasione della visita del vescovo di Mantova, la piccola, vestita di bianco, coi lunghi capelli sciolti sul corpo difforme, aveva recitato una poesia di circostanza con tale accento da strappare le lagrime.
A dieci anni, nel saggio annuale, ella aveva cantato un a solo: «Ave, Maris Stella»; e le autorità di Castelluzzo l'avevano freneticamente applaudita.
A dodici, a quattordici, il giorno della dispensa dei premi, era stata sempre lei a salire per la prima la scaletta col tappeto rosso conducente al palco del sindaco, ed aveva ricevuto i più bei libri di premio, rilegati in verde, in celeste, trattenuti da un nastro. Un suo quadro ricamato a passata: «Il giudizio di Salomone», col re, le due donne, il neonato agguantato per una gamba, figurava nell'oratorio sotto una tendina di seta verde, ed era scoperto nelle feste solenni.
Ah! ella era ben l'eletta del Signore!... La sua pietà era citata ad esempio: assisteva ogni mattina alla messa dell'alba, e si comunicava con tal fervore che bene spesso nell'atto d'ingoiar l'ostia benedetta era colta da deliquio o da convulsioni.
Nel suo quindicesimo anniversario la Superiora le aveva regalato un libro di preghiere a fregi d'argento, «Le preghiere a Gesù», dove lo Sposo celeste era invocato coi più dolci, coi più sacri, e coi pïù inaspettati nomi.
Innocenza ne era stata riconoscente e turbata a tal segno che il libro non la lasciava più nè giorno nè notte. Lo accarezzava colla mano sotto il guanciale, o lo teneva sul petto, ripeteva i dolci nomi per lunghe ore e ne sognava.
Madre Antonietta, la sua prima protettrice dell'ospitale, s'interessava continuamente a lei, non senza una segreta rivalità di Madre Gesualda, Superiora dell'Infanzia derelitta. E una vecchia signora molto devota che faceva ogni anno il «Ritiro» nell'interno dell'istituto, ben consigliata, aveva lasciato morendo ventimila lire alla Pia Opera, e dodicimila alle due ricoverate, Innocenza e Nanna, usufruttuaria la madre.
Nanna passava le sue giornate in portineria, seduta presso alla grata, con un grosso mazzo di chiavi alla cintura. Lavorava a maglia; aveva sostituito la stampella con un bastoncello forte e ricurvo, ed aveva intorno al collo il largo nastro azzurro delle madri cristiane. Anche di lei le suore non avevano che da lodarsi: silenziosa, devota, premurosa, esatta.
Ella non viveva che per aspettar l'ora della ricreazione in cui sua figlia veniva a trovarla. Per quell'ora si sarebbe fatta tagliare a pezzi, scorticar viva brano a brano.
Di rado Innocenza se ne dimenticava, ma, quando questo avveniva, la disperazione di Nanna era tacita e profonda: un annientamento di tutto il suo essere. Improvvisamente, pareva divenire ebete e sorda: non udiva più il campanello d'avviso, oppure apriva senza spiar dalla grata, trascinava la gamba storpia con una lassitudine che la sua infermità ne appariva d'un tratto quadruplicata.
E in quei momenti avveniva che il passato le ritornasse fulmineamente dinanzi.... La campagna immobile nelle arsure d'agosto, il ciglio polveroso d'una strada, l'odore d'un'acqua stagnante, il latrato di un cane, la sua capanna bassa e nera in riva al fiume.... Ah! fuggire laggiù, ancora, libera, sola, nei campi deserti, sdraiarsi all'ombra d'un albero e ascoltare le rane, trascinarsi di cascina in cascina, senz'altra legge che il sole che si leva e che si corica, mangiare nella scodella del cane, libera, libera!...
La voce d'Innocenza squillava nel cortile. Uno scalpiccìo cadenzato di piedi, due battute di mano. Le piccole educande intonavano il coro.
....In questo santo asilo Posa serena il piè! Come a un inaspettato squillo di tromba il cuore di Nanna sussultava, e la madre trasfigurata balzava zoppicando verso la finestrella e guardava in cortile.
Le educande, tutte eguali nell'uniforme color piombo orlata di viola, colla mantellina rotonda, e il nastro delle figlie di Maria, sfilavano a due a due marcando col passo la cadenza del coro.
Avevano tutte i capelli tirati sulle tempie e riuniti sulla nuca in un minuscolo nodo; i grossi piedi uscenti dalla gonna nè lunga nè corta; le mani rosse e gonfie di geloni.
Innocenza, nel mezzo del cortile, colla testa che sembrava piegare sotto il peso delle trecce, segnava il tempo battendo le palme. Madre Gesualda, suor Genoveffa, e suor Agata, ascoltavano.
E ad un tratto la fanciulla alzava il mento aguzzo verso la finestrella, e sorrideva a sua madre.
Tutto era dimenticato. Non esisteva più nulla. Nanna era felice. Felice!... Tornava al suo posto; e sorrideva; e balbettava parole di tenerezza; e tendeva l'orecchio; e batteva festosamente col bastone sull'impiantito. Un'onda d'amore e d'orgoglio le gonfiava il cuore, passava, travolgendo e placando, sulle memorie di vergogna, sugli avvelenati istinti.
....Come era bello, quel coro!... E come Innocenza sapeva dirigere bene!... Quale trionfo per lei alle prossime recite di carnevale!... Si inaugurava il teatrino, e si rappresentava nientemeno che un dramma con musica e cori: Innocenza, naturalmente, sosteneva la parte principale, e sarebbe stata una duchessa: una duchessa bellissima e saggia che tre principi volevano sposare. Ma ella invece rifiutava, e si faceva religiosa per fuggire così le tentazioni del mondo.
....In questo santo asilo Posa serena il piè!
Con una toccante cecità le suore sembravano non avvedersi che Innocenza era gobba. Più di una volta esse l'avevano fatta recitare, e l'avevano abbigliata con ingenua ricercatezza, le avevano arricciato ed infiorato i lunghi capelli. Non finivano di ammirarla per quei meravigliosi capelli. Nanna li accarezzava con devota timidezza, le piccole imploravano come un premio di poter vederli quando erano sciolti: morbidi, un po' flosci, d'un biondo smorto, incornicianti un pallido viso di donna su di un corpo difforme di bambina.
Tutto lasciava credere a Innocenza di essere una vera bellezza.
Ella toccava i diciassett'anni. Alla vigilia del saggio annuale, ai primi di luglio, una violenta epidemia difterica scoppiò. La mortalità era enorme.
Tutto il paese fu in allarme; le scuole furono chiuse, i collegiali rimandati alle loro case, le monache ad altri conventi.
Nanna e Innocenza dovettero acconciarsi ad andarsene. Dove?
Nanna ricordò di avere una capanna in riva al fiume, a due chilometri dal paese. Avrebbero potuto ricoverarsi colà: il denaro non mancava per riattare alla meglio una stanzetta; già, non l'avrebbero abitata che per poche settimane. Così fu deciso.
E un dopo pranzo madre e figlia salirono piangendo su una carrozzella.
Non riescivano a staccarsi dalle care mura del convento, dalla Superiora diletta, che restava per ultima, come il capitano sulla nave che affonda.
Dopo tanti anni ininterrotti di quiete, di protezione sicura, di sicuro asilo, trovarsi ad un tratto sole, sperdute nel mondo!
La luce feriva violentemente le loro pupille avvezze alla penombra, le strade che le conducevano lontano sembravano loro paurose e interminabili.
Madre e figlia smarrite baciavano lo scapolare della Superiora, ripetevano fra le lagrime:
— Fra pochi giorni, fra pochi giorni torneremo, Madre Gesualda!...
E sotto la mantellina color piombo Innocenza serrava forte il grosso libro a fregi d'argento: «Le preghiere a Gesù», unico conforto nel doloroso distacco.
Una voce allegra chiamò dall'argine: — Innocenza!
E tosto, ad una finestrella della capanna, fra due vasi di garofani rossi, una testa bionda s'affacciò ed una voce acuta rispose:
— Un minuto, Pasquetta, scendo subito!
La ragazza che aspettava sull'argine si mise a canterellare. Era una ragazzona tarchiata, dalle spalle quadre, dalle guance paffute; aveva due piccoli occhi d'un azzurro intenso ed una larga bocca sempre ridente. Portava una blusa chiara di percalle, e tra i capelli crespi e rossicci aveva una dalia rossa.
Sulla porta della capanna apparve Innocenza seguita da Nanna.
— Uh!... — esclamò l'altra alzando le braccia. — Come sei bella!...
Innocenza aveva sostituito l'uniforme del convento con un vestito di tela giallognola a fiorellini viola; aveva i capelli divisi in due grossi rigonfi, sul volto pallido un velo di polvere molto visibile.
Ella si lasciò ammirare con compiacenza, poi disse, attaccandosi al braccio dell'amica:
— Era ora che lasciassi quei cenci!
Le due ragazze si allontanarono allegramente verso il paese.
In tre settimane si erano fatte inseparabili amiche. Le loro case, poste l'una quasi dirimpetto all'altra sulle rive opposte del fiume, si guardavano: Pasqua non aveva che da traversare il ponte per arrivar da Innocenza, Innocenza non aveva che da sventolare il fazzoletto per chiamare Pasquetta.
Nelle prime sere dopo il suo arrivo alla capanna, Innocenza sedeva nel cortiletto, a lato di sua madre, e con molta tristezza. Ambedue tacevano; Nanna lavorava; Innocenza guardava il fiume scorrere. Non conoscevano nessuno.
Pasquetta passava ogni giorno sola con un piccolo paniere; aveva un fiore tra i capelli e canterellava; ed ella, che sorrideva a tutto: al fiume, agli alberi, alle rondini, aveva sorriso anche alle due sconosciute che vedeva ogni sera silenziose allo stesso posto. Poi aveva cominciato a salutarle, a sostare davanti al cancelletto, a scambiare qualche parola.
L'amicizia si era legata in fretta. Veramente era stata Nanna a precipitare le cose. Avendo capito che la figlia moriva dalla voglia di uscire a passeggio, aveva trattenuto Pasquetta con un pretesto, poi le aveva offerto una fetta di focaccia, e, da una parola all'altra....
Le ragazze trottavano a braccetto chiacchierando.
Era il tramonto. La strada, alta sull'argine che seguiva il fiume, era popolata di frotte d'operaie che uscivano dalle fabbriche per tornare alle loro case; gruppi di giovani in camiciotto precedevano e seguivano ridendo e celiando. Tratto tratto sostavano per attendere lo sciame femminile o affrettavano il passo per poi lasciarsi ancora sorpassare. Qualche coppia d'innamorati proseguiva con volontaria lentezza, parlando sommessamente nel dolce tramonto.
Quasi tutti si voltavano a guardare Innocenza che, arrivata da poco, non era conosciuta. Le ragazze bisbigliavano:
— Chi è? Ed uno dei giovani disse forte:
— Che bei capelli, signorina!
Ed un secondo:
— Pronta per friggere.
Gli altri si misero sguaiatamente a ridere.
Le due amiche continuarono il cammino senza voltarsi.
Tutti quei giovani, quegli sguardi, quella curiosità, eccitavano Innocenza, le sferzavano il sangue; ed ella rideva forte, gesticolava colle sue lunghe mani, chiacchierava volubilmente con voce acutissima. E Pasquetta l'ascoltava a bocca aperta.
Pasquetta era molto bestia. Sapeva appena leggere e scrivere; ella ammirava la sapienza della sua amica e credeva ciecamente alle mirifiche descrizioni dei trionfi di lei.
— Capisci, — raccontava Innocenza guardandosi furtivamente intorno nella speranza che qualcuno ascoltasse, — in carnevale s'inaugurò il teatrino con una recita: «La duchessa Ildegonda». Io feci la parte di duchessa. Capisci? Tu non ti puoi imaginare quali splendidi abiti ho indossato: uno così, color del cielo a stelle d'argento; l'altro, color malva trapunto d'oro.
Tutto ciò non era forse scrupolosamente esatto, ma Innocenza era convinta di dire la verità.
— Ah, che bellezza!... — proseguiva ella. — E tre principi mi volevano sposare.
— Quale hai scelto? — chiese Pasquetta, subitamente interessata. — Nessuno, — rispose con sussiego Innocenza. — Mi sono ritirata dal mondo, e mi son fatta suora.
— Pazza! — rise l'amica con una risata lunga e argentina. — Io mi sarci presa uno dei principi, il più bello!...
— Anch'io, sai!... — confessò Innocenza sottovoce stringendole il braccio. E seguitò: — Bisogna che tu venga a casa mia a vedere i miei libri di premio: ti mostrerò le figure. Sono rilegati in tela e oro: ne ho dieci.
— E li hai letti tutti? — chiese Pasqua con ingenuo stupore.
— Tutti! — asseverò Innocenza. — Ora però leggo altra cosa. Leggo i «Reali di Francia».
Continuarono a camminare. Pasquetta raccolse un sasso e lo gettò nel fiume. A un tratto Innocenza sospirò, guardando il cielo:
— Ah!... Io vorrei essere una regina, e che qualcuno si uccidesse per me.
Entrarono nella borgata. Era un'ora dolce. Molti oziavano sulla porta delle case; le beghine si dirigevano alla chiesa; suonava l'Ave Maria.
Nella piazza, fuori della farmacia, due gatti giovani erano usciti a godere il fresco e si baloccavano in fraterna domestichezza col cane. Dall'ultimo piano di una casa veniva il suono d'un a solo di flauto.
Sulla vetrina del barbiere, fra due file di trecce stoppose, due teste si facevano ammirare, l'una di legno, bianca e rosa, cogli occhi di smalto, coi capelli dipinti color ebano; l'altra viva, bianca e rosa anch'essa, ma con una zazzera di ricciolini biondi e due baffetti un po' più scuri impomatati. Era Zeffirino, il giovane barbiere, che si esponeva così ogni sera agli sguardi ammirativi del bel sesso castelluzzese. Egli si sporse vivamente al passaggio d'Innocenza e di Pasqua.
— Dove andate, belle ragazze?
— Dove ci pare e piace, — rispose ruvidamente Pasquetta senza fermarsi.
— Uh, che scontrosa!... — fece lo zerbinotto. — Non parlo con lei, parlo colla sua amica!
E, abbandonato il suo posto d'osservazione, uscì nella strada.
— Vuol dirmi dove vanno di bello, signorina Innocenza? — insistette egli, pur non cessando di sbirciare Pasquetta che guardava ostentatamente dall'altra parte.
— Andiamo da Giocondo a comperare del pane, e da Agesilao a comperar del formaggio, — rispose gentilmente Innocenza; e piegò un po' il capo per far ammirare le trecce.
— Vuol darmi quella dalia? — domandò Zeffirino a Pasquetta.
L'altra gli rise in faccia.
— Se la prenda, se ci arriva!... — lo sfidò ella mettendosi a correre sul marciapiede. Quando fu a venti metri sostò, e gettò la dalia sopra i tetti.
— Se lei crede che me ne importi!... — le gridò dietro Zeffirino, e si accompagnò a Innocenza, raggiungendo con marcata lentezza la dispettosa. — Come sa che mi chiamo Innocenza? — chiese la ragazza al compagno.
— Me l'ha detto la sua amica, quando passava sola, e degnava rispondere alle mie domande, — fece Zeffirino, e più forte: — A lei, signorina Innocenza, prenda questo garofano: lei se lo merita, perchè è tanto gentile quanto è elegante.
La fanciulla prese delicatamente fra il pollice e l'indice il gambo esile del garofano e avvicinò il fiore alle nari. Poi sorrise a Zeffirino con infinita riconoscenza.
Il giovane ormai non rivolgeva più il discorso a Pasquetta: tutte le sue attenzioni erano rivolte a Innocenza. Pasquetta si era chiusa in un ostinato mutismo.
Innocenza rideva, scuoteva la testa con civetteria, stringeva le labbra, guardava Zeffirino con estatica ammirazione; gli occhi luccicavano di gioia nel viso aguzzo.
Fatte le provviste, s'incamminarono verso casa.
Quando furono davanti al cancelletto della capanna, Innocenza chiamò forte:
— Mamma!
S'intese lo scalpiccìo del faticoso passo di Nanna, ma Pasquetta non l'attese, e piantò in asso i due con un burbero «buona sera».
Nanna apparve sulla porta della cucinetta dove un fuocherello divampava allegro.
— Vede?... — disse Innocenza, — questa è la mia mamma, e questa è la nostra casetta. Era un orrore quando ci arrivammo, pareva una tartaruga accovacciata sotto l'argine: nera, screpolata; ora l'abbiamo intonacata e restaurata un po', e, a poco per volta....
— Loro sono qui da molto? — chiese Zeffirino seguendo cogli occhi la tarchiata figura che si allontanava.
— La mia Innocenza è uscita solo da tre settimane dall' Istituto dove è stata allevata, — disse con fierezza Nanna.
— Si capisce dalla sua educazione! — notò galantemente il giovane barbiere. — Lei non è come la sua amica.
— Oh, quella là!... — fece Innocenza con disprezzo, e si mise a ridere.
Zeffirino si congedò.
Le due donne sedettero nel cortiletto.
— Vuoi cenare, Innocenza?
— Non ho fame, mamma. Restiamo qui ancora un poco.
L'ombra era calata sulle case, sui campi, Il fiume nero scorreva ai piedi della capanna, tacitamente.
All'improvviso la figlia chiese alla madre:
— Abitavi qui, tu, mamma, da ragazza?
Nanna alzò il capo con un fremito. Poi rispose a voce bassa:
— Sì, cara.
— E, dimmi, mamma, il tuo fidanzato come ti conobbe?
Nanna non rispose.
— ....Fu a passeggio, oppure fu qui, vedendoti fuori della porta a lavorare?... Raccontami. La madre ripetè come un automa:
— Fu... qui... vedendomi fuori della porta a lavorare.
— Com'era, mamma?... Non me ne hai mai detto nulla. Com'era?...
La madre ancora non rispose. Pareva che l'ombra le si fosse addensata dintorno.
Innocenza le si avvicinò e le sfiorò colla mano la mano fredda.
— Sei agghiacciata, mamma!... Hai freddo!... Vuoi che rientriamo in cucina? Lì c'è un bel fuoco, e potrai raccontarmi meglio la tua storia. Rientriamo, rientriamo, mamma!
— No! — oppose impetuosamente la donna. — Ti racconterò tutto quello che vuoi, ma lasciami qui. Il fuoco mi fa male.
— Dunque, come fu?...
— Dunque....- incominciò penosamente la madre dopo una lunga pausa, rannicchiandosi nell'ombra. — Fu così....Io abitavo qui. Non uscivo mai da questo cortiletto. Lavoravo presso alla porta. Un giovane che passava ogni sera si innamorò di me e mi volle sposare. Poco dopo avermi sposata morì, ed io mi ricoverai con te all'Istituto.
— Ma.... com'era?... com'era, mamma, il tuo sposo?... Era biondo?... aveva i capelli ricciuti? due baffetti più scuri?...
— ....Era biondo, coi capelli ricciuti.... coi baffetti più scuri.... sì, era così.
— E che cosa ti diceva?... ti dava dei fiori?...
— Mi diceva tante cose.... mi dava tanti fiori.... — Veniva ogni sera?... Ti voleva molto bene?... E tu, mamma, l'amavi?
— Tutto questo è vero, figlia mia.
— Povera mamma!... — esclamò Innocenza, — ti fa male il parlarne, non è vero? Sei stata così disgraziata, povera mamma!... Avere uno sposo che ti adorava, e perderlo!... Perdere una felicità così immensa.... Perchè tu sei stata felice, proprio felice, non è vero?
— Sì, figlia mia.
Le due donne ricaddero nel silenzio.
Ad un tratto Innocenza riprese ad interrogare, con una voce ansiosa e timida:
— ....Eri molto bella, tu, mamma?...
La sciancata si sollevò nell'ombra con un brivido di passione, tese le mani a cercare la testa di sua figlia, e l'accarezzò.
— Tu sei molto più bella. Io non avevo i tuoi bei capelli. Io non avevo la tua bella voce. Io non avevo la tua istruzione. Io, non ero come sei tu.
Innocenza posò il capo sulle ginocchia di sua madre.
— ....Quante stelle!... Dev'essere una felicità immensa, l'amore!... Tu che lo sai, mamma, dimmi....è una felicità proprio immensa?... È proprio una felicità di paradiso?...
La voce cupa di Nanna ripetè come un'eco:
— Una felicità di paradiso.
Innocenza stava alla finestra a consultare il «Linguaggio dei fiori». Lo aveva comperato di nascosto, ed ora l'interrogava con ansietà.
Possibile?... Zeffirino in una settimana le aveva dato due garofani rossi: «amore ardente»; due bianchi: «indifferenza»; un fiore di gaggia: «gelosia»; un ciclamino: «siete bella e fredda»; una dalia gialla: «odio e disprezzo». Come raccapezzarsi?...
Il ciclamino forse diceva il vero; egli glielo aveva dato la sera innanzi con viso cupo mentre Pasquetta fischiettava; certo era un rimprovero per lei, Innocenza, per la sua freddezza che gli toglieva il coraggio di spiegarsi.
Poichè non c'era dubbio che egli l'amasse. L'aspettava ogni sera, si univa a loro, chiacchierava sempre con lei, le dava i fiori, la complimentava di continuo, anche in presenza di Pasquetta, che, un po' in disparte, ottusa e immusonita, fingeva di non sentire, guardava in alto, e batteva forte gli zoccoletti rossi sul marciapiede.
Ma non appena Zeffirino le lasciava, ella scuoteva il braccio dell'amica e le rideva sotto il naso, nervosamente:
— È innamorato di te! È innamorato di te!...
E qualche sera dimenticava passando di chiamarla, o rinunciava alla solita passeggiata, ma cantava a squarciagola dalla sponda opposta del fiume.
Innocenza sentiva, e scuoteva il capo con disprezzo. Nanna borbottava:
— Tutta rabbia!
E allora Innocenza se ne andava sola al paese, tutta bene acconciata dalle mani di sua madre che le arricciava i capelli e le metteva la cipria sul viso. Ogni sera Nanna le stirava il vestito nuovo a fiorellini viola, e la guardava allontanarsi rapida, colla testa un po' storta, carica di trecce, e le lunghe braccia magre.
Zeffirino vedeva da lontano giungere la gobbetta; usciva dalla bottega.
— E Pasqua? — domandava.
Qualche volta non lo domandava neppure, ma era nervoso, turbato, si capiva che avrebbe voluto dire qualche cosa e non osava.
Innocenza lo guardava coi suoi grandi occhi avidi, colla testa un po' curva sotto il peso delle trecce, gli diceva timidamente:
— Vuole accompagnarmi per un po' di strada?...
Ed egli l'accompagnava; ma l'imbarazzo cresceva, il silenzio si faceva greve, Zeffirino le dava il fiore che stava rigirando fra le mani, si congedava in fretta, riguadagnava in due salti la soglia della sua bottega. Qualche ozioso gli chiedeva ridendo:
— A che punto siamo, Zeffirino, colla gobbetta?
Innocenza tornava a casa trasfigurata dalla gioia, portando il fiore come una reliquia, come un trofeo di vittoria. La madre l'attendeva sulla porta.
— Mamma! mamma!... È un garofano, questa sera! Guarda come è bello!... Ah, mamma! che felicità! Mi aspettava. È innamorato di me, ed io l'amo, l'adoro! Ah, mamma, mamma mia!... Siedi, vieni qui, lascia che ti racconti.
E sedevano tutte e due nella cucinetta, presso alla tavola preparata, madre e figlia cogli occhi scintillanti. Non mangiavano; dimenticavano la zuppa che si raffreddava nelle scodelle, dimenticavano di accendere la lucerna. Nanna beveva le parole di sua figlia, e la felicità di lei l'abbagliava e la travolgeva come una veemente ebbrezza.
— Sai, mamma, mi ama tanto.... non me l'ha detto, ma mi ha guardato così....mi ha stretto la mano così....mi ha dato questo fiore in un certo modo.... Ah, Dio mio! Se tu avessi visto come era bello stasera!... Aveva una cravatta rosa a bolli verdi.... E poi era così commosso che la voce non gli veniva.... Anch'io ero commossa, e non riescivo a dirgli una parola.... Perciò egli crede che io sia fredda, mentre l'amo, l'adoro!... Ma succede a tutti, non è vero?... che l'amore fa quest'effetto, che rende timidi, impacciati?... Succedeva anche a te, mamma?
— Sì, sì, anche a me, cara.
— E il tuo fidanzato non se ne offendeva? ti voleva bene lo stesso? capiva?... Io ho paura che il mio creda che non l'ami.... Ho paura che si stanchi di me.... ho paura, mamma!... — Ma no, cara, no; non temere: ascolta. Anche a me avvenne. Sì, certo... avvenne, avvenne anche a me.... Non ti affannare: ascolta.
Più l'ombra infittiva, e più Nanna si faceva loquace. Coi gomiti sulla tavola, colla testa fra le mani, nel buio, ella raccontava. Era sparito l'imbarazzo penoso del primo giorno; ora i dettagli si moltiplicavano; gli episodî fiorivano; il suo sposo era descritto come un eroe, come un Dio; il periodo del loro fidanzamento come un periodo d'incantata felicità.
— I suoi parenti si opposero perchè io ero povera, ma egli mi volle, mi volle a tutti i costi....
Qualche contraddizione cadeva qua e là nella meravigliosa favola, ma nè la narratrice nè Innocenza ne avevano coscienza. Madre e figlia erano immerse in un'atmosfera di sogno.
Infine la voce di Nanna taceva, e improvvisamente lo scorrere del fiume fra le alte sponde nere riempiva del suo fruscìo la cucinetta.
Innocenza diceva con un sospiro:
— Accendi, mamma.
La madre accendeva la lucerna; si guardavano in viso tutte e due un po' pallide; si mettevano a mangiare in silenzio, l'una davanti l'altra, la zuppa fredda e oleosa, e tratto tratto smettevano di mangiare per sorridersi, cogli occhi umidi e felici.
Un giorno Innocenza era nella sua camera quando Nanna la chiamò:
— Innocenza, il postino! La ragazza scese di volo.
— C'è una lettera da Mantova, una raccomandata, — disse il grosso uomo colla bisaccia a tracolla.
Innocenza firmò sul libro, poi aperse la lettera, e lesse.
— È della Superiora, ci annuncia che fra quindici giorni l'istituto sarà riaperto, — diss'ella duramente, e gettò la lettera sulla tavola. Dalla busta cadde un'imagine sacra, contornata di trafori. Nanna si chinò a raccoglierla.
— Che cosa facciamo?... — chiese con timidezza non osando guardare la figlia.
Questa, che si era messa alla finestra colla faccia tra le mani, si volse impetuosamente alla madre.
— Non penserai che torniamo a seppellirci là dentro, non è vero? Non penserai che io torni ad essere la schiava e la serva di tutti, non ti passerà per la mente?
Nanna curvò la schiena come il cane quando il padrone lo batte.
— Faremo quello che vuoi tu, cara, — rispose umilmente. — Non arrabbiarti.
La ragazza si riaffacciò alla finestra e cominciò a strappare le foglie secche dalle piante di geranio. Le strappava rabbiosamente e poi le gettava nella strada. A un tratto rientrò verso sua madre e disse, più calma:
— Senti; ho pensato. Congedarci dalla Superiora, bisogna, altrimenti direbbero che ricambiamo coll'ingratitudine i beneficî. Noi li abbiamo pagati dieci volte, tu ed io, in sedici anni; ma per il mondo!... Dunque bisogna congedarci dalla Superiora; ma se aspettiamo a parlarle qui, quando l'Istituto è riaperto, chissà con quali arti ci tratterrà! Là le pietre sono gommose, e chi vi posa il piede vi si attacca. Andiamo invece a Mantova alle Orsoline. Troveremo la Superiora sola: è altra cosa. Le spiegheremo....
— Che cosa le diremo?...
— Quello che vuoi.... la verità!... Che io non voglio più tornare in convento.... Le racconteremo.... Le diremo che infine.... che infine.... io penso piuttosto a maritarmi!
La diligenza sgangherata colle due bolse cavalle grigie sostò nella fitta nebbia del mattino davanti al convento delle Orsoline.
— Signore! — avvertì galantemente l'auriga facendo schioccar la frusta. — Siamo arrivati.
Le due rozze si voltarono mestamente a guardar Innocenza e la madre che discendevano; i compagni di viaggio, un carabiniere baffuto, e una donnetta con una valigia sulle ginocchia, le salutarono con cenni del capo; la dilligenza si rimise in moto. Era stato un viaggio allegro, pieno di chiacchiere; Innocenza, che aveva sognato Zeffirino tutta la notte, eccitata ed inquieta, aveva intrattenuto incessantemente la compagnia, aveva persino cantato riscuotendo gli applausi del carabiniere. Ella diede una spavalda strappata al campanello: tosto due occhi spiarono dalla grata, e la porta ferrata, con grande rumore di chiavi, girò sui cardini.
— Che odore di chiuso!... — borbottò Innocenza all'orecchio di Nanna, ed inoltrarono una dietro l'altra nel corridoio.
Ma non appena la portinaia guercia ebbe richiuso dietro a loro pianamente l'uscio del parlatorio, madre e figlia si sentirono riafferrate da quel non so che di tacito e di ferreo che stagna nella chiusa atmosfera dei conventi, delle chiese, delle prigioni, che induce a smorzare la voce ed il passo, che immobilizza le volontà.
Nel nuovo vestito a fiorami, nella nuova pettinatura a rigonfi, Innocenza si sentì a disagio. Ella si passò la manica sulle guancie per toglierne la polvere; incontrò gli occhi di sua madre, grossi e spaventati.
Ed ecco che la porta si aperse pianamente, e Madre Gesualda entrò. Sottile come un cero, pallida, col volto soffuso di bontà, e fasciato dalle bianche bende. I neri occhi di lei, l'unica cosa viva ed ardente in tutto quel pallore, si posarono fuggevolmente con un'impercettibile espressione di sorpresa sull'abbigliamento strano della sua protetta, ma la voce tranquilla non tradì nessuna contrarietà, le mani si offersero a baciare, molli e benedicenti.
— Avete fatto tutto questo viaggio per...? Racconta, racconta, figlia mia.
E Innocenza incominciò a raccontare. Prima esitante, cercando le parole, arrossendo sotto lo sguardo calmo che non la lasciava, poi animandosi via via che raccontava.
— La nuova vita.... la casa.... i restauri.... il giardinetto.... le nuove relazioni....
A questo punto si arrestò improvvisamente.
— Continua tu, mamma.
E Nanna, ingarbugliandosi ancor più della figlia, proseguì:
— L'amicizia con Pasquetta, una buona ragazza.... le passeggiate fino al paese.... Quella vita di moto faceva molto bene a Innocenza....(si era fatta rossa e grassa!...) gli incontri.... infine.... infine.... perchè nasconderlo?... c'era un giovane che aveva delle intenzioni su Innocenza. Erano venute per questo, per confidarsi alla Superiora, per chiederle consiglio, e raccomandarsi alle sue preghiere. Poichè....poichè naturalmente.... per il motivo di questo giovane.... Innocenza non avrebbe più potuto ritornare in convento.
Vi fu una pausa interminabile che un moscone annaspante presso ai vetri riempì del suo assordante ronzìo. La nebbia si era levata; dalle alte finestre entrava il sole allegro. Due suore giovani, colle gonne rimboccate, gettavano grandi secchie d'acqua sulle mattonelle del porticato in fondo al cortile; nella stanza accanto una mano infantile ripeteva le scale, sbagliando ostinatamente la stessa nota.
— Do, re, mi, fa, sol, sol, sol....
Finalmente una pioggia di domande si scaricò sulle spalle delle due donne: lenta, calma, monotona. — Il giovine è di religione? Come si chiama? Che cosa fa? Da chi è conosciuto? Siete sicure che sia un buon giovane, timorato di Dio, mosso da sincera affezione per Innocenza, e non da cupidigia per il vostro piccolo peculio? Ha intenzioni serie? Quanti anni ha? Come si è espresso? Conoscete la sua famiglia? siete informate della sua salute?
Innocenza ripeteva come un ritornello:
— Sì, Madre; sì, Madre... — ed aveva gli zigomi accesi, e due piccole macchie rosse sulla fronte. Nanna guardava la figlia e faceva col capo cenni continui d'assenso.
Finalmente la Superiora si alzò:
— Promettetemi di sospendere ogni impegno, ogni trattativa, finchè io non sia tornata all'Istituto. Si tratta di aspettare due settimane. M'incarico poi di assumere informazioni, e, se la cosa è possibile.... Se è per il tuo bene, figlia mia.... Dio sa le sue vie.... Pregherò intanto per voi.... E anche voi pregate, raccomandatevi al Signore....
Ella aveva regalato a Innocenza due imagini sacre, aveva accompagnato le due donne fino alla porta, aveva offerto le mani a baciare. La guercia col suo gran mazzo di chiavi era accorsa ad aprire.
— Mamma! — disse Innocenza non appena furono sulla strada. — È andata abbastanza bene!... Torniamo a casa. Non ne posso più.
Alla Corona d'Italia c'era una diligenza che partiva quasi subito, ma si fermava a Cernedo, a due chilometri dalla capanna di Nanna. Le due donne vi salirono egualmente, prese dalla febbrile ansia del ritorno. Non avevano mangiato nulla; Nanna però aveva un po' di pane e salame nella lunga tasca della sua gonna e l' offerse alla figlia che ingoiò qualche boccone nervosamente, mentre i cavalli stracchi s'avviavano.
Che stanchezza, quel viaggio!... Non finiva mai: la campagna sempre eguale; la pianura monotona nuovamente affogata nella nebbia; i paesetti insonnoliti nella grigia quiete del pomeriggio; i visi imbambolati del falegname colla pialla in mano, del calzolaio che imbrandiva una scarpa, che si affacciavano al passare della diligenza: sempre lo stesso, sempre lo stesso.... Faceva quasi freddo; Innocenza avrebbe voluto spingere la carrozza, frustare i cavalli a sangue, pur di arrivare più presto.
Nanna la guardava e non osava chiederle nulla. Tutte e due, senza dirselo, si sentivano stringere il cuore.
Ma ad un tratto, dopo una svolta, trasalirono insieme di sorpresa e di gioia.
Il bel fiume largo e silenzioso che passava davanti alla loro capanna, il loro amico, il caro confidente, che le ascoltava ogni sera chiacchierare presso al cancelletto, era là, all'improvviso, più largo e più azzurro nella piatta campagna.
— Mamma! Guarda, mamma! — esclamò Innocenza sporgendo vivamente il capo dal finestrino.
E tosto la nebbia plumbea parve sollevarsi sul paesaggio come un sipario, ed esse festosamente riconobbero e salutarono campanili, case, cascine, alberi, cani abbaianti, finestrelle fiorite. Innocenza incominciò a cantare.
Si rientrava, si rientrava nel paese dell'amore!...
A Cernedo dovettero discendere. Ma non sentivano più stanchezza nè freddo; la strada era la stessa che Innocenza quasi ogni sera percorreva per incontrar Zeffirino: ogni sasso era bello e dolce al suo piede, e Nanna rifletteva come uno specchio le impressioni di sua figlia.
— Domani lo rivedrò! — ripetè per la decima volta la ragazza. — Domani!... Ma tu, mamma, non raccontargli che siamo state dalla Superiora. Del resto, che importa a noi delle informazioni?... Se egli mi ama, ed io lo amo, non basta, mamma?...
— Certo che basta, cara.
— Ah, che gioia! che gioia!...
Ella riprese a cantare con quella squillante acuta voce un po' in falsetto che sovrastava anche nei cori tutte le voci:
Se tu mi fai morir Non me ne importa!... Se tu mi dai il tuo amor Fammi morire!...
Erano arrivate al cancelletto arrugginito del loro piccolo giardino; la capanna era tutta chiusa, colle finestre sbarrate. Nanna trasse di tasca una grossa chiave, E tosto, di là dal fiume, una voce chiamò:
— Innocenzaa.... a....a!...
E la tarchiata figura di Pasqua apparve sulla riva, attraversò correndo il ponte. Aveva un grembiale a righe bianche e azzurre, una dalia nei capelli scompigliati, gli zoccoletti dalla punta rossa: la bocca, gli occhi, ridevano, sfavillavano.
— Ti ho sentita da lontano! — gridò ella abbracciando rumorosamente l'amica. — Di dove torni?... Sono già stata a cercarti a mezzogiorno, ma era tutto chiuso, — continuò tutto d'un fiato senza accorgersi del contegno freddo e un po' imbarazzato delle due donne.
— Vorrei pregarti di un favore, Innocenza!... Tu sola puoi farmelo, che sei tanto brava, che sai scrivere tanto bene!... Io ho una calligrafia da gallina... Sai? ho ricevuto stamane una lettera... una lettera di Zeffirino... Così bella!... Egli voleva darla a te, ma tu non c'eri, e me l'ha mandata per la posta.... Sai, da due anni mi ama, e non aveva coraggio di dirmelo.... credeva che lo disprezzassi... E infatti, io non gli facevo che dispetti!... Ma, per timore che non mi volesse bene sul serio!... Quanti dispetti gli ho fatti, Dio mio!... — Pasquetta si mise a ridere di gran cuore nascondendosi il bel viso nelle due palme. — Ma lo amavo, sai!... Oh, come lo amavo!... E quanti pianti ho fatto per lui!... Ma ora si è dichiarato.... Sono così contenta! così contenta!... E tu gli risponderai una bella lettera per me, non è vero, Innocenza?... Ho portato la carta. Le due donne erano impietrite, livide, immobili, come inchiodate al suolo.
Nanna fissava alternativamente sua figlia e la ragazza straniera, ed i suoi occhi erano torbidi e cupi. Innocenza, pallida, colla testa storta, si mordeva le labbra a sangue, e taceva.
A un tratto Pasquetta ricordò di essere stata negli ultimi tempi poco gentile colla sua amica, di aver trascurato di andare a prenderla, di avere cantato a squarciagola per farle rabbia, e, interpretando il silenzio di lei come un memore corruccio, pensò di indurla al perdono con una prova di fiducia.
— Innocenza! — diss'ella toccandole il braccio. — Non sarai mica in collera con me?... Vuoi che ti faccia leggere la lettera di Zeffirino?
Nanna scattò come una biscia cui si pesti la coda. Brutalmente afferrando la ragazza, e scuotendola per il petto, ella la cacciò contro la polverosa siepe che cingeva il cortiletto.
— Vuoi tacere, vuoi tacere, svergognata?... Vuoi levarti dai piedi?... — le gridò sulla faccia con voce rauca e sibilante. Indi tirò a sè con un violento strappo il cancello, lo sbatacchiò sul naso di Pasquetta, e, presa per le spalle la figlia, la spinse dentro, nascondendola, difendendola, coprendola colla sua persona.
Giunta nel mezzo della cucina che era buia, colle imposte tutte chiuse, a tentoni senza lasciarla trovò la seggiolina sua bassa presso alla finestra, la fece sedere, le si accoccolò accanto, le prese le mani, e glie le baciò. E come Innocenza taceva, senza lagrime, presa da un tremito convulso, la madre balzò in piedi, disperata, violenta, cacciandosi le mani nei capelli, ululando ingiurie e bestemmie da tanti e tanti anni sepolte nella sua memoria, minacciando col pugno chiuso verso colei che aveva fatto tutto quel male, verso colei che fuggiva lungo l'argine cogli svelti zoccoletti rossi senza voltarsi indietro.
— Svergognata!... Sgualdrina!... Ladra!... Losca figura!...
Poi di nuovo si accoccolò in terra vicino ad Innocenza, la cinse colle sue braccia.
— Cara.... Non era degno di te quel furfante... Non era degno.... Tu sei tanto bella, figlia mia.... sei tanto bella.... ne troverai un altro migliore.... Non disperarti.... non tremare.... Ne troveremo un altro.... Vuoi che ti comperi un vestito nuovo a righe bianche e verdi?... Vuoi che ti accompagni alla fiera di Cernedo?... Tutto quello che vuoi... tutto quello che vuoi... ma non disperarti... non soffrire....
La vendetta di Pasqua era molto semplice, forse non voluta: ella passava ogni sera davanti alla capanna d'Innocenza, stretta al braccio del suo Zeffirino.
La prima sera ella aveva lanciato passando un'occhiata alla finestrella della sua amica, un'occhiata fra trionfante e paurosa; ma le sere di poi era passata chiacchierando così fitto col suo innamorato, così stretta a lui, così immersa nella sua nuova felicità, che aveva persino dimenticato di vendicarsi.
Ma Innocenza, dietro le imposte socchiuse, raggomitolata su sè stessa come un serpe, pallida e a denti stretti, la spiava.
Ella non era più tornata al paese; si era rinchiusa in casa, in una solitudine, in un mutismo ostinato e freddo che desolava sua madre; non mangiava quasi nulla, passava le notti a voltarsi e rivoltarsi nel letto, ma non piangeva, non si lagnava, e se Nanna la guardava, se l'interrogava con quei suoi umili occhi di cane prorompeva aspramente:
— Perchè mi guardi? che vuoi? — e correva a chiudersi a chiave nella sua cameretta.
Nanna dal buco della serratura vigilava, e intravedeva la figlia, presso alla finestra appena, socchiusa, in agguato. E avrebbe voluto gridarle:
— Non guardare!... — e trascinarla via con sè, bendarle gli occhi, perchè non vedesse. — Non guardare! non guardare!...
Nanna sapeva bene!... Era primavera, l'ora in cui l'amore degli altri fa tanto male a chi è solo; dopo il tramonto tutti gli innamorati venivano a passeggiar lungo il fiume... Passava Pasquetta con Zeffirino; passava la figlia dell'oste del Gambero con Gigi carrettiere; passavano Concettina e Rosa, le merlettaie, coi due fidanzati; e Teresa, la zoppetta pallida, col suo fedele suonatore di flauto che da sette anni aspettava di poterla sposare; e Nina, la rossa, colla gran bocca e gli occhi sempre ridenti, ora coll'uno, ora coll'altro... E come andavano lenti, come parlavano sommessamente!
Poi veniva il gaio sciame delle operaie delle filande, degli operai della cartiera, stornellando, chiacchierando, ridendo, arrestandosi a scambiare sguardi, fiori, saluti.
Era primavera, era primavera!... Qualche cosa passava nell'aria, come un fremito, come un chiamarsi, come un volersi bene... Il fiume era così trasparente che rifletteva il cielo tutto a bianche pecorelle, e in fondo ad esso si scorgevano morbide foreste vellutate, e piccoli pesci guizzare; le siepi si facevano verdi; nelle ondate dell'aria si sentiva un fiato tiepido e odoroso.
Innocenza guardava. Un vagabondo cieco, tutto barba e cenci, con un grosso naso bitorzoluto si fermava ogni sera sotto alla sua finestra e cantava, accompagnandosi colla chitarra:
Quando gli augelli fan versi d'amore E l'aria fresca comincia a schiarire
La gente fa di fior le ghirlandette
Cominciano a gioire li amadori
E fanno dolzi danze i sonadori.
E non si può d'amor proprio parlare
A chi non prova i suoi dolzi savori;
E senza prova non se 'n può stimare
Più che lo cieco nato dei colori.
Un piccolo sordido barbone, tenendo fra i denti il piattino e dimenando la coda, raccoglieva l'obolo dei passanti. Tutti davano qualche soldo, anche i più poveri; tutti avevano un saluto amichevole pel cantatore cieco che si diceva essere un antico professore di letteratura caduto in miseria.
Innocenza guardava: dapprima con odio, con rancore, con rabbia, tutta quella gioia intorno a lei destarsi negli uomini e nelle cose, poi a poco a poco, coll'acquietarsi del ricordo, con interesse, con curiosità, con simpatia, con struggimento.... quasi con tenerezza, quasi con speranza....
Sì, con speranza!... Perchè non anche per lei?... C'era tanto amore al mondo!... Ce n'era tanto tanto, per tutti, per tutti!... Lo si sentiva talmente nell'aria, nell'erba, nel cielo che mutava colore ad ogni ora, nel gioioso trillo dei passeri dondolanti sulle vette degli alberi!... Perchè non anche per lei?...
Ella aveva diciassett'anni; dimenticò Zeffirino e Pasquetta; spalancò la finestra; e si rimise a sperare.
Così, quando sua madre un giorno salì a bussare alla sua porta e con timidezza le chiese se acconsentiva a comperare due biglietti per il trattenimento organizzato a beneficio dell'erigendo padiglione per i tubercolosi (c'era giù l'incaricata alla vendita che aspettava) ella rispose subito:
— Ma sì, certo! Perchè no?... E Nanna tutta contenta scese le scale quanto più in fretta potè a recare la buona nuova alla venditrice.
Da quel giorno Innocenza si rifece ciarliera, allegra, affettuosa con sua madre, impaziente dei preparativi.
Fu comperato il vestito a righe bianche e verdi; una grossa scatola di polvere; una bottiglia d'acqua di rosa, un ferro per arricciare i capelli. La sarta venne da Castelluzzo con un fascio di figurini, e, dopo lunghe discussìoni, tagliò e cucì un vestito meraviglioso, forse un po' complicato, ma indubbiamente di ultima novità e di sicuro effetto.
Il prezzo delle sue giornate parve a Nanna alquanto elevato, ma in compenso la buona donna prima di andarsene dichiarò che Innocenza sârebbe stata la ragazza più elegante della riunione, e questo bastò per rendere la madre completamente docile alle sue pretese.
Le due frazioni di Castelluzzo e Cernedo, tradizionalmente in lotta fra loro, che si dilaniavano a sangue sull' «Eco della verità» e sulla «Scintilla del bene», dopo lunghe esitazioni, discussioni e litigi, si erano finalmente accordate di mandare entrambe un egual numero di consiglieri al concerto vocale istrumentale indetto pro «Padiglione Tubercolosi». Come astenersi, quando era ben stabilito che il padiglione sorgesse ad eguale distanza di chilometri, metri, centimetri e millimetri, dalle rispettive chiese? Come rifiutare il proprio obolo ad una simile opera di carità? Lo scandalo sarebbe stato troppo grave. Perfino l' «Eco» e la «Scintilla» da qualche giorno tacevano.
Quella sera, alle otto in punto, cinque consiglieri di Castelluzzo, rappresentanti il partito moderato, in severa giacca nera, entrarono solenni nella sala sfarzosamente addobbata di bandiere tricolori e di festoni d'edera, e presero posto nelle poltrone di velluto rosso: «a destra entrando». Alle otto e un minuto, i cinque di Cernedo, rappresentanti i partiti popolari, in elegante «négligé», fecero il loro ingresso e occuparono le poltrone di vellute rosso: «a sinistra entrando».
Il sindaco, che non era di Cernedo nè di Castelluzzo, seguito da due assessori, l'uno moderato, l'altro popolare, entrò per ultimo, salutando col capo ad eguale profondità a destra e a manca.
Le due falangi nemiche affettavano di ignorarsi.
E, nei posti distinti, le signore di Cernedo, quelle di Castelluzzo, a gruppetti di tre o quattro in fila, l'uno più variopinto dell'altro, separate da barriere più insormontabili che trincee, affettavano esse pure di ignorarsi, ma si contavano reciprocamente i capelli, e scrutandosi di sottecchi facevano provvista di pettegolezzi e di chiacchiere per l'indomani. Del resto tutto era andato benissimo. La signorina Attila Meggiorini (di Castelluzzo), vestita di lana bianca con un nastro di raso celeste in testa, aveva cantato con voce soave e con molta espressione «M'hanno detto che Beppe va soldato», ed era stata richiesta, del bis.
La signorina Aida Ratta (di Cernedo), vestita di lana rosa con un nastro verde in testa, aveva suonato sul mandolino con incomparabile delicatezza «La leggenda valacca», ed era stata richiesta del bis.
Due eguali mazzi di fiori erano stati offerti alle due vezzose giovinette. Poi c'erano stati gli interessanti giochi di prestigio presentati dal signor Pericle Meneguzzi, maestro di Castelluzzo; e la canzone di Garibaldi declamata con voce tonante dal cavalier Ildebrando Restelletti, nipote di uno dei mille, di Cernedo.
Due eguali medaglie d'argento, col nome inciso, e la data, erano state offerte ai due ottimi giovani.
Il sindaco stesso volta per volta aveva dato il segnale degli applausi, e le due parti avevano militarmente incominciato insieme, ed insieme finito, i battimani, come regolate dal metronomo.
Nondimeno, chi l'avrebbe detto?....Tutte queste precauzioni non erano valse ad impedire il giorno appresso lo scatenarsi della guerra civile.
Sì, il concerto era andato bene, non c'era che dire; le due frazioni avevano dato per la beneficenza il fior fiore dell'intellettualità e dell'eleganza.... ma poi?... poi?... partite le autorità, tolti i freni, che cos' era successo? dove si era andati a finire?...
Appena l'élite aveva lasciato libero il campo era successo un pandemonio. La folla che gremiva i posti da cinquanta centesimi aveva invaso la sala, sgombrate le seggiole, fatto entrare due suonátori di armonica....
E mentre quelli di Cernedo, giovani e ragazze, pur nell' allegria avevano saputo conservare un contegno castigato e dignitoso qualle si addice a gente timorata di Dio, la plebaglia di Castelluzzo (dominata dal mal governo dei socialisti!) si era abbandonata ad uno scapigliato tripudlo, bevendo, ballando, cantando, profanando insomma il luogo sacro alla beneficenza con una vera orgia infernale.
Gli abitanti di Cernedo, in massa, avevano sgombrato la sala in segno di protesta. Due episodî documentavano la descrizione dell' «orgia» facendo inorridire anche i più spregiudicati.
Nina, la rossa, era stata colta mentre si lasciava baciare, dietro una porta, da un uomo ammogliato, padre di cinque figli!!!...
E una certa Innocenza, una gobbetta da poco stabilita fuori di Castelluzzo, presa in mezzo da tre scapestrati, un sergente e due operai della cartiera, era stata ubbriacata e malmenata, poi il sergente l'aveva fatta ballare ed erano andati a finirla tutti e due a gambe all'aria. Un'orgia!... un'orgia!... Sulla prima pagina della «Scintilla del bene» apparve un articolo di fondo di quattro colonne, listato a bruno, con questo titolo a lettere cubitali: «Horresco referens».
Ma le due principali eroine non lo lessero.
Nina, la rossa, fuori della porta della sua osteria, colle mani sotto il grembiale e la bella bocca senza pentimenti, rideva e canterellava; Innocenza, cui le confuse reminiscenze della serata avevano lasciato una più ardente irrequietudine, una più torbida arsura, capitava in paese due o tre volte al giorno, passava e ripassava davanti alla caserma, tirando il collo, sperando di vedere il suo sergente, di cui non rammentava bene il volto, ma le braccia robuste che l'avevano abbrancata e fatta girare vorticosamente, i lucidi bottoni, il fiato caldo e vinoso.
Il sergente era irreperibile; ma fuori della caserma c'erano sempre soldati, e al passar della gobbetta, azzimata, infarinata, che li guardava tutti con occhi avidi, umili, e sfacciati, si davano di gomito, assumevano delle pose assassine, e poi sghignazzavano alla più bella.
Un'anima caritatevole stese un piccolo rapporto anonimo, e l'indirizzò a Madre Gesualda da poco rientrata all'Istituto dell'infanzia derelitta.
La chiamata della Superiora piombò fulminea e inaspettata.
— Va tu, mamma: io non vengo!... — dichiarò dispettosamente Innocenza. — Sono stanca di essere sotto tutela! Dille che ci lasci in pace, che noi abbiamo diritto alla nostra libertà. Dille che ti paghi il salario di sedici anni di portineria. Dille che ho altro per la testa, io, che le sue querimonie!...
E Nanna andò.
E quando fu davanti alla Superiora negò, negò tutto; giurò sul Cristo che la lettera anonima non diceva il vero, che la sua Innocenza era sempre stata la stessa, tutta chiesa e casa; che anzi non aveva più voluto saperne neppure di quel tale.. di quel tale di cui avevano parlato alla Reverenda Madre; promise di tornare presto con lei a rassicurare, a convincere la Superiora.
La buona Madre, scossa dall'insolita eloquenza di Nanna, si lasciò disarmare. Ella non voleva, no, richiamarle per forza nell'istituto se preferivano vivere fuori (il Vescovo anzi aveva anche recentemente raccomandato alle religiose di non influire mai in questo senso sulle loro protette) (tempi infidi!) ma intendeva metterle in guardia contro i pericoli di cui è sparsa la via, specialmente per una giovinetta. Se la buona Innocenza era stata presa di mira dalla maldicenza senza sua colpa, che si astenesse per qualche tempo dal tornare in paese, che facesse vita ritirata, di preghiera, in modo da chiudere, coll'aiuto di Dio, la bocca ai maligni...
Nanna ringraziò, promise...
Innocenza intanto stava alla finestra, nell'ombra della sera, ma non per aspettare sua madre.
Vi sono sventure che strappano le lagrime; altre, più insultanti e più atroci, che muovono il riso, che eccitano lo scherno, il frizzo mordace, quasichè il loro aspetto abbia il potere di attirare a galla quanto nell'anima umana v'ha di più spietato e perverso.
La sventura di Innocenza era fra queste.
La sua comparsa al concerto aveva attirato l'attenzione; la sua deformità, resa ridicola dalla bizzarra e ricercata acconciatura, l'ansiosa smania di piacere, l'esasperata debolezza con cui aveva accolto le buffonesche galanterie del sergente, l'insistenza con cui si accaniva a mendicare l'amore, avevano fatto di lei lo zimbello di tutte le ironie, la caricatura meta di tutte le beffe: il bersaglio, cui ogni passante si credeva in diritto di scagliar la sua pietra.
L'innamoramento per Zeffirino fu risaputo: raccontato e abbellito da Pasquetta di molti particolari; vi fu chi assicurò che ella era stata anche innamorata del cappellano, e che attualmente faceva gli occhi dolci al vecchio sordo che colla sua barca portava i passant di là del fiume. Qualcuno dubitò; altri volle provar «se era vero». E per qualche tempo «far la corte alla gobbetta» divenne il trattenimento di moda, lo spettacolo quotidiano più attraente e saporito. A una cert'ora a Castelluzzo i ragazzi oziosi sulla porta delle case domandavano:
— Chi è di turno?
I corteggiatori erano tre, tre scavezzacolli, ed ora all'uno ora all'altro toccava passeggiare sotto alle finestre della gobbetta.
Gli altri seguivano in gruppo a qualche distanza, o vigilavano dietro una siepe. Ed ognisera andava a finire allo stesso modo: fosse l'uno o l'altro dei tre, la gobbetta appariva alla finestra, camuffata con una pettinatura monumentale tutta a onde e a riccioli, con un enorme nastro rosa al collo, pallida e infarinata: assumeva una posa languida fra i due vasi di garofani; e man mano che l'ombra avanzava si faceva audace, rispondeva ai cenni, ai sorrisi, odorava un mazzolino di fiori, sospirava, agitava il fazzoletto.
A pianterreno, la capanna, colle imposte tutte chiuse, sembrava deserta; ma Nanna era invece prigioniera volontaria nella cucinetta non osando mostrarsi per non disturbar la figliola.
Gruppi di ragazze, preavvisate del trucco, passavano a braccetto cantando, e appena svoltate lasciavano di cantare e si mettevano a ridere come pazze.
Una sera uno dei tre commedianti spinse l'audacia fino ad accennare alla gobbetta di scendere nella strada.
Ed ella, tremando e rabbrividendo, discese.
Ma non c' era più nessuno; verso Cernedo un'ombra dileguava rapidamente, certo l'innamorato aveva avuto paura di quell'ombra. Che notte, fu quella per lei!... Col libro di preghiere stretto sul seno gramo, ella ripeteva perdutamente le invocazioni a Gesù, ma vedeva una bocca rossa china su di lei, sentiva un alito caldo sfiorarle l'orecchio.... Aveva freddo, le mani brucianti, e la fronte molle di sudore... Il suo misero corpo ardeva e si consumava, ed ella batteva i denti, e tremava, e si sentiva mancare... come altra volta, in convento, in qualche gelida mattina, quando nella penombra il prete avvicinava alle sue labbra l'Ostia consacrata. Perdutamente ella ripeteva, rabbrividendo: — Sposo celeste, vieni, non tardare, ti supplico... — Quanto lunghe sfilarono le ore primadi giungere ancora alla penombra della sera!...
Ma, giunta la sera, non apparve più alcuno.
Cominciava a far freddo; una banda di saltimbanchi aveva piantato le sue tende nella piazza di Cernedo; avevano due scimmie, un cane ammaestrato, il nano Bagonghi; le belle ragazze e i giovanotti accorrevano in frotta. Si era stufi di far la corte alla gobbetta; se ne aveva riso abbastanza: per il momento lo spettacolo era sostituito.
Ed ella aspettò, aspettò; dapprima fiduciosa e impettita nei suoi ricci, nelle sue gale; poi inquieta, sporgendosi alla finestra, smaniando, rabbrividendo di freddo e d'ansia, aprendo e chiudendo l'impannata, arrivando fino a scender sulla strada, ad attendere accovacciata per terra fino a tarda ora nella notte.
Nessuno, nessuno più!... La strada era deserta; il fiume frusciava appena tra le sponde; la luna splendeva fredda sui campi, sulle siepi immobili; tutto era silenzio.
Qualche tempo dopo il suo disgusto con Pasquetta, Innocenza aveva legato amicizia con altre tre ragazze: Rosina e Teresa, operaie delle filande, e Ninetta, loro cugina, che le raggiungeva ogni sera dal paese dove prestava servizio dall'alba al tramonto. Ma verso Rosina e Teresa l'amicizia d'Innocenza non era che un nome: era piuttosto ammirazione, diffidenza ed invidia. Rassomigliavano troppo a Pasquetta, entrambe avevano il fidanzato, e non facevano che connettere le dolcezze del loro amore coll'inconscia crudeltà delle creature sane e felici.
Ma verso Ninetta, silenziosa, timida, vestita a lutto, verso Ninetta che non pensava all'amore e non ne parlava mai perchè doveva ogni dì lottar colla fame e sgobbare per sè e per i suoi piccoli fratelli, Innocenza sentiva tenerezza e simpatia, forse perchè la vedeva così diversa da lei, forse per un inconscio bisogno della miseria di consolarsi col pensiero di un'altra miseria.
Ella l'aspettò una sera, la colse sola, le si confidò.
— Ninetta, Ninetta mia, io impazzisco di dolore!... Sono abbandonata, sono abbandonata!... Mi hanno lasciata tutti e tre!...
Ninetta la guardò. Innocenza era così stravolta e consunta da non lasciar dubbio che non soffrisse davvero, che non avesse preso sul serio l'indecente gazzarra: le sue lagrime erano lagrime vere.
Una sincera pietà e un acuto rimorso punsero il cuore di Ninetta. Ella era buona, e, non appena Rosina e Teresa le avevano svelato ridendo la trama ordita ai danni dell'amica, si era ripromessa di metterla subito sull'avviso; ma poi.... un fratellino malato, la necessità di lasciare il servizio per curarlo, nulla da mangiare per sè e per le creature.... come trovar tempo di pensare agli altri?...
Ella aveva lasciato correre, o meglio aveva completamente dimenticato il suo proposito, ed ora l'amica si confidava proprio a lei, con tanto dolore, con tanto visibile spasimo: a Ninetta pareva di essere complice del tradimento.
Tosto, ella pensò che era necessario impedire almeno che Innocenza ricadesse nell'inganno, che si prestasse nuovamente alla farsa umiliante.
Ma non appena ebbe incominciato con parole timide ed esitanti a far intravedere la verità ad Innocenza, il furore che si dipinse sul volto di lei fu tale, e ne fu così contraffatta, che Ninetta non ebbe più coraggio di continuare.
— Per.... per ridere?... Tu dici.... tu dici.. che venivano.... per ridere?... Ma ripetilo, se sei capace, ripetilo davanti a questi occhi che li hanno veduti, gettarmi dei baci, divorarmi cogli sguardi!... Ripetilo!...
E le si avvicinava con tanto furore, con tanto astio; con tanto livore le soffiava in viso le sue smentite, e con tale lacerante spavento della verità, che la povera Ninetta tacque per non farla soffrire di più, e si allontanò in fretta per non esser battuta.
Ma ormai il veleno del dubbio si era infiltrato nel cuore di Innocenza, ed il bene che Ninetta aveva voluto farle si era tramutato in una nuova tortura; la timida parola ammonitrice era diventata un mostro dalle cento teste, implacabile, feroce, che le divorava l'anima di continuo.
— Per.... per ridere?... No, non può esser vero!... Non deve esser vero!
E nuovamente ella si acconciava alla finestra tra i due vasi di garofani, livida e infarinata, colla monumentale pettinatura a rigonfi, con un enorme nastro color rubino intorno al collo: sembrava una di quelle grottesche figure di cera, spettrali e variopinte, che attirano i villani fuori delle baracche da fiera.
Ma nessuno, nessuno più tornava!...
Qualche carrettiere passava a lato del suo barroccio, senza alzare gli occhi, facendo schioccare la frusta; un merlo fischiettava con ironia:
— Per.... per.... per.... per ridere!
E allora ella nascondeva il volto fra le braccia e bagnava di lagrime il bel vestito a righe verdi, il nastro color rubino; oppure si gettava sul letto, si torceva come una furia, si mordeva le mani, si strappava i capelli, singhiozzava così forte che Nanna l'udiva dal pianterreno.
Una sera la madre non resse più, e faticosamente salì la scaletta di legno, si chinò sulla figlia, le posò la mano sul capo, chiese con umile timidezza:
— Perchè piangi, Innocenza?
Quella balzò:
— Non piango! Non piango! Perchè dovrei piangere?... Vattene!
E in quel momento sentì di odiare sua madre.
Sì, di odiare sua madre.
Ormai un sordo rancore, un'acre invidia, una perfida gelosia l'inasprivano anche contro di lei.
«Ella», «ella», sapeva che cos'era l'amore!... Ella era stata amata, scelta, voluta a forza, accarezzata da un uomo innamorato. Che importava il resto?... Che importava il dolore, la miseria, il sacrificio «di tutta una vita», dipoi?... Fosse pure per un'ora, ella era stata amata, era stata felice: nella sua esistenza e'era questo lume!...
Mentre Nanna faticosamente si aggirava per la cucinetta intenta a preparare la cena, oppure nel piccolo giardino ad annaffiare le violacciocche dell'unica aiuola, la figlia la seguiva cogli occhi, notava — per la prima volta, dopo tanti anni!... — il corpo deforme di lei, i grigi ispidi capelli, la goffa e cascante grassezza, il penoso trascicare della gamba sciancata, e non guardava con occhi di figlia, ma con cattivi occhi di donna, di rivale. — Tutte, tutte, perfino «lei»!...
E dinanzi a sua madre un'atroce vergogna la prendeva, un atroce furore, d'esser così brutta, così disprezzata, così sola; e sospettava «anche nei suoi occhi» l'ironia, nelle sue parole l'offesa, nella sua pietà la condanna.
— Lasciami sola! Non guardarmi! Va!...
Una sera udì la povera sua madre ridere con una vicina sulla porta del giardinetto, e sobbalzò come sotto un colpo di staffile.
— Ridono di me!...
Un'altra volta Nanna le portò a vedere un gatto, un povero gatto malato, spelacchiato, irto e tremante nei suoi peli, un povero gatto randagio che i monelli avevano ferito, percosso, rincorso a sassate fino alla loro capanna abbandonandolo poi per morto in mezzo alla strada. Nanna l'aveva raccolto, medicato, nutrito.
— Ma sarebbe meglio che morisse....- diss'ella, — non ha padrone, nessuno lo vuole, tutti gli fanno del male...
E Innocenza nelle tenebre del suo cuore:
— Dice a me!... Dice a me, perchè nessuno mi vuole!...
Ah, tortura, tortura!...
Così fu che ella incominciò un giorno, durante l'assenza di Nanna, a scriversi una lunga lettera d'amore: la scrisse, la lesse palpitando, tracciò l'indirizzo tendendo l'orecchio ai rumori, e, calata la sera, corse al paese ad impostarla.
Il giorno dopo il postino gliela riportò, ed ella l'aperse con ostentazione, la scorse, se la nascose in seno, ma poi Nanna la rinvenne sulle scale, come smarrita.
Due giorni appresso, ecco un'altra lettera; e i giorni seguenti un'altra, un'altra, ed una terza ancora.
Ormai il postino arrivava quasi ogni sera, e Innocenza lo attendeva impaziente. Gli occhi materni la seguivano trepidando, sperando.
Ma ormai la convinzione della madre non bastava più ad appagare la fanciulla; ora bisognava mostrare le lettere alle amiche: a Rosina, a Teresa, che erano così fiere degli scarabocchi dei loro fidanzati, che avevano troppe volte sogghignato fra loro quando alla posta tutte e due ritiravano lettere ornate di un cuore trafitto, mentre ella rimaneva in un canto a mani vuote.
Le ragazze ascoltarono la lettura di quelle lettere a bocca aperta. Poi Innocenza mostrò loro la busta, il timbro, l'indirizzo. Le lettere erano firmate: «Fernando Altoviti».
— Ma chi è?... — chiesero le amiche non potendo credere ai loro occhi.
Innocenza rispose con sussiego:
— Io non lo conosco, sarà un forestiero, ma egli mi conosce, mi ha vista, mi ama, e un giorno o l'altro verrà a chiedermi in isposa.
Le ragazze si guardarono in silenzio. Poi si congedarono in fretta, ed Innocenza udì per un buon pezzo le loro voci e le loro risate.
— Non credono, — fremette ella mordendosi le labbra. Ma due sere dopo le fanciulle si fermarono nuovamente davanti alla capanna.
— Ti ha più scritto?... — chiese con aria di mistero Teresa.
— Sì, un'altra lettera, — rispose Innocenza fissandola; e la cavò dal seno.
— Vuoi farcela leggere? — disse Rosina.
Innocenza uscì sull'argine, e, a bassa voce, al lume della luna, circondata dalle fanciulle che curvavano sulla carta le teste bionde, incominciò la lettura, con enfasi contenuta, sottolineando le frasi più dolci, abbassando la voce trucemente sulle più cupe, commovendosi sinceramente alle più patetiche.
Sopraggiunse Tarquinia, la sorella di Teresa, ed anch'ella si unì al crocchio ed ascoltò. La sera dopo vennero anche Caterina e Gigetta, le gemelle che abitavano verso Cernedo, e poi anche Giovanna, sorellastra di Pasqua, col suo fratellino.
E tutte ascoltarono. I saltimbanchi se n'erano andati; il crocchio si faceva ogni sera più numeroso.
— Ormai credono, — disse fra sè Innocenza; e si guardò allo specchio.
Del resto, perchè non poteva esser vero?... Ella si ricordò che in convento nell'ultima recita di carnevale aveva sostenuto la parte di Duchessa Ildegonda.
— Tre principi mi volevano sposare... — mormorò ella.
E suor Agata, provandole il vestito di seta azzurra a festoni d'oro, non le aveva detto: Sembri una vera duchessa?... Con un pezzo di specchio rotto ella si guardò di profilo.
Perchè non poteva essere vero?...
Era pallidissima, di un pallore verdastro e triste, magra come se un fuoco interno la divorasse, cogli occhi cerchiati, le labbra bianche. Ella sciolse i capelli, i meravigliosi capelli, flosci, molli, smorti, malati, che la coprirono come un manto.
— Perchè non potrebbe esser vero?... Fernando Altoviti!... — mormorò ella come in sogno.
E con un cencio di stoffa rossa si strofinò le guancie e le labbra, con un piccolo carbone calcò la linea delle sopraeiglia.
Così fu che una sera il postino, anzichè una, portò due lettere a lnnocenza. L'una aveva il solito formato, la solita calligrafia, la solita firma: «Fernando Altoviti»; l'altra era più grande, di color rosa acceso, colla busta adorna di una colomba recante nel becco un ramoscello di «non ti scordar di me».
La lettera rosa diceva:
«Signorina!
«Nutro per Lei da lungo tempo un vero amore, un'indomabile passione, ispiratami dal suo gentil sembiante e dalle sue rare doti di educazione. Sì, signorina, Io l'amo, e spero di poter renderla felice. Da tanto tempo ammiro i suoi occhi dolcissimi e i suoi magnifici capelli d'oro; L'amo, signorina!... E spero di essere da Lei riamato!... Venga, La supplico, giovedì a sera verso le ore otto al vecchio cimitero di Sant' Eusebio, presso al castagno, lungo il muro di tramontana dove occhi indiscreti non disturberanno il nostro primo colloquio d'amore. L'aspetto trepidando, col cuore in tempesta, speranzoso di poter presto baciare appassionatamente quella mano che agogno di far mia per sempre.
«R. S.»
P.S. Non vedendola giovedì, l'aspetterò anche venerdì, alla stessa ora, allo stesso posto. Avrò una cravatta rossa e un mazzolino di gaggie all'occhiello.
Innocenza si appoggiò al letto per non cadere.
Era vero?! Era vero!!!... Questa volta, questa volta, era vero!!...
Le pareti, gli oggetti, le rotearono vertiginosamente dintorno; il cuore le batteva fino in gola; gli orecchi le ronzavano.
Era vero!... Era vero!... Qualcuno l'amava!... Era giunta anche per lei la felicità!...
Diceva giovedì....giovedì....alle otto.... dunque quel giorno stesso.... tra un'ora.... sì, tra un'ora.... perchè aspettar domani?...
Febbrilmente ella tirò il catenaccio all'uscio della sua stanza; si strappò di dosso le vesti, corse all'armadio, ne trasse il vestito a righe bianche e verdi, si cambiò dalla testa ai piedi, si arricciò i capelli, si strofinò le guance e le labbra col cencio rosso, si cosparse il volto di cipria, si spruzzò d'acqua di rosa.
Nanna che lavorava a maglia presso alla finestra della cucina se la vide sguisciar dinnanzi così agghindata, cogli occhi luccicanti, una sciarpa sul braccio, una rosa sul petto. Non osò chiederle: — Dove vai? — (ormai ella tremava continuamente di fronte alla figlia) ma l'aspetto di lei, l'abbigliamento, tutto le disse che qualche cosa di grave e d'insolito avveniva, c questa certezza l'attenagliò d'inquietudine.
Un inesplicabile sentimento la spinse a seguirla, cauta nell'ombra nebbiosa che saliva dal fiume.
Aveva ricevuto due lettere quella sera.... Dove andava?... Forse....
Ah, se andava a un appuntamento, Nanna non l'avrebbe trattenuta!... No!... Purchè fosse felice, purchè fosse tranquilla, ella avrebbe accolto «anche un amante» per sua figlia come un salvatore, l'avrebbe ringraziato in ginocchio.... Il senso morale, il rispetto di sè, il pudore, così tardi ed incompletamente formatisi in lei durante gli anni di convento, quello strato incerto e malfermo che aveva come avvolto la sua oscura coscienza, e si era sovraposto ai tristi istinti, alle inconfessabili abitudini della vita randagia, crollava in frantumi: sommerso, dissolto, annientato in un baleno, davanti al pensiero di sua figlia, «alla necessità» che sua figlia fosse felice.... Andava a trovare un amante?... Ed ella le avrebbe fatto la guardia da lontano, l'avrebbe vigilata, protetta e difesa dalla curiosità altrui. Occorreva tacere, ignorare?... Ed ella avrebbe taciuto, ignorato. Occorreva ascoltare, consigliare, aiutare?... Ed ella non si sarebbe sottratta. Tutto, tutto, tutto, le più abbiette cose.... Ma che Innocenza fosse felice, che non piangesse più!...
Così, le due donne l'una dietro l'altra arrivarono al vecchio cimitero abbandonato.
La madre rimase fuori e si nascose dietro un mucchio di ghiaia; Innocenza procedette svelta fra i tumuli coperti di alta erba, segnati da qualche croce malferma. Ella andava verso l'uomo, verso l'amore, come l'uccello va verso il serpe che l'ha affascinato, con occhi aperti e ciechi, per una fatalità inesorabile del suo destino e del suo sangue che rendeva inutile ognidelusione, che esasperava nel suo corpo deforme la sete inesausta, la torbida attesa. «Ebbra, ansietata, affocata d'amore»....
Alla vecchia torre di Cernedo l'orologio suonò otto ore; un uccello spaurito si sollevò nell'aria con un rapido batter d'ala; la luna sbucò livida da un groviglio di nuvoloni.
Innocenza aspettò, ritta fra due croci, nell'angolo a tramontana dove agonizzava il vecchio castagno, e per darsi un contegno staccò la rosa dal seno e l'odorò.
Ad un tratto, lungo il lato esterno del muricciolo cadente che chiudeva da quella parte il cimitero, si udì come uno stridìo di sassi. uno sgretolar di calce, e, sulla sommità del muro, una forma nera apparve.
Una voce in falsetto gridò:
— Ecco lo sposooo!... — e un cagnuolo nero, tutto rabbuffato di peli, col collo attorto da una cravatta rossa e un mazzolino di gaggie legato alla coda, balzò giù ai piedi di Innocenza e si mise disperatamente ad abbaiare.
Innocenza si guardò intorno smarrita, sferrò un calcio al cagnuolo inviperito che l'afferrava alle gonne, alzò gli occhi, e vacillò.
Il muricciolo di cinta si era popolato come per incanto di teste di ragazzacci, e da venti, da trenta bocche, fra risate, fischi e battimani, prorompeva frenetico il grido:
— Viva gli sposi! Viva gli sposi!!...
Il cagnolino seguitava furiosamente ad abbaiare.
Allora Innocenza, raccolta in sè stessa come una belva ferita, afferrò un grosso sasso e lo seagliò con tutta la sua forza verso la cresta del muro.
Qualche po' di calce si sgretolò con un rumore secco; le teste degli schernitori sparirono in un baleno, si udì lo schianto di rami spezzati, rotolìo di pietre, risate e fischi repressi, scalpitìo di piedi fuggenti. Qualche voce gridò ancora:
— Viva gli sposi!!...
Innocenza raccolse le gonne colle due mani e saltando fra le tombe traversò il camposanto correndo come una pazza, ed uscì.
Nanna, accovacciata dietro il mucchio di ghiaia, al confuso vocìo si era rizzata in piedi, tendendo l'orecchio, alzando istintivamente il bastone, ma in quel momento la figlia le passò dinnanzi senza vederla, cogli occhi fiammeggianti e folli, e il viso così livido che pareva quello d'un morto.
La madre rabbrividì e, lasciato il bastone, si slanciò sui passi di lei.
Innocenza correva come il vento verso casa, e la sciancata affannosamente la seguiva, inciampando, scivolando, cogli occhi disperatamente fissi sulla veste chiara che pareva quella di un fantasma.
Giunta alla capanna, trovò la porta spalancata; nella cucinetta, nessuno, su per le scale, nessuno.... Sulla soglia della camera da letto inciampò nel corpo di sua figlia.
Innocenza era là, per terra, colle vesti scomposte, le treccie disfatte, scossa da terribili tremiti. Tutta rattrappita e contorta su sè stessa, colla testa che penzolava dal gradino e nelle scosse urtava la pietra, ella rideva.... Una terribile smorfia le contraeva il viso aguzzo, il petto scarno si sollevava con furore, i denti battevano sinistramente nel singhiozzo dell'atroce riso.... Ed ella era venuta ad abbattersi, a cadere, nella sua casa, a rifugiarsi, a nascondersi, a nascondersi....
La madre barricò la porta della cucina, accese un lumicino ad olio, slacciò il corpetto e le gonne della fanciulla, le bagnò le tempie, la trascinò sul letto. Le lagrime materne colavano sul gramo corpo convulso. — Innocenza!... Innocenza!...
Ma la sciagurata rideva, rideva sempre, con occhi di pazza... L'acqua aveva disciolto il rossetto sulle sue guancie e colava in un rivoletto rosso fin sul mento, la linea delle sopraciglia si allungava in uno sconcio baffo sulla fronte, le mani lunghe adunche tremanti afferravano spasmodicamente le lenzuola, piantavano le unghie sul guanciale.
— Innocenza!... Innocenza!...
Alfine il terribile riso si quetò; il tremito si fece meno aspro; le mani stancamente disserrarono la stretta, si apersero gialle e molli di sudore sulle coperte sconvolte.
Innocenza chiuse gli occhi e si voltò verso il muro.
Nanna non si mosse.
Fuori si era levato un gran vento, la fiamma del lumicino ad olio vacillava, un topo rodeva la parete.
Gli occhi di Nanna, sbarrati nella penombra, non lasciavano la testa di sua figlia, la forma grama che si delineava sotto le coltri.
A un tratto la ragazza sobbalzò, spalancò gli occhi in faccia a sua madre, la fissò come se non la riconoscesse, poi le disse, con voce d'odio e di comando:
— Va a letto.
Nanna si alzò penosamente e obbedì.
Passarono alcune ore. Nanna si era addormentata. Il suo russare profondo, ed il respiro faticoso e greve, sembravano piuttosto di qualche grossa bestia che di un essere umano. Il vento si era calmato, anche il topo si era stancato di rodere e si era rifugiato nella sua tana. All'orologio del paese suonarono le ore.
Allora Innocenza balzò a sedere sul letto, gettò indietro i capelli che le piovevano da tutte le parti, spense con un soffio il lume.
Cautamente, con delle mosse feline, scivolò giù dal letto, afferrò a tentoni una gonnella, strisciò verso la porta. Un cigolìo l'arrestò.
Livida, immobile, addossata al muro, guatò nel buio verso il letto di sua madre, ma il russare profondo, il respiro faticoso e greve di lei la rassicurarono. Spinse la porta, l'aperse, scivolò più che non scendesse giù dalla scaletta di legno, si trovò in cucina.
Dal focolare, presso a un monticello di cenere tiepida due occhi la fissarono, accesi e scintillanti. Era il gatto malato di cui Nanna aveva avuto pietà. Innocenza si sottrasse con un brivido a quello sguardo, e con un balzo fu alla porta d'uscita, alla porticina verde presso a cui tante volte ella e sua madre avevano fantasticato d'amore.
La porta era chiusa di dentro, asserragliata da Nanna: bisognava tirare il catenaccio, togliere la vecchia spranga arrugginita. Febbrilmente Innocenza agguantò la spranga irta di chiodi e tentò di sollevarla dagli anelli: nello sforzo un chiodo le lacerò il polso, e la spranga le sfuggì di mano e cadde con rimbombo a terra.
Il gatto balzò giù dal focolare e si appressò miagolando alla ragazza. E al tempo stesso due gridi laceravano l'aria.
— Innocenza! Innocenza!
Si sentì il tonfo di un corpo pesante sul pavimento, un passo irregolare, traballante e precipitoso, qualche cosa che inciampava, rotolava, e precipitava nel buio giù per le scale.
Innocenza tirò violentemente il catenaccio, si gettò nel giardino, l'attraversò di corsa senza voltarsi, squassò disperatamente il cancelletto, uscì, fu sulla riva viscida dell'argine al di là del quale scorreva il fiume.
Era una notte nera, ed ella non riesciva a discernere il viottolo che conduceva alla strada; cominciò a salire carponi su per l'erta, ma le alte erbe umide cui si aggrappava le tagliavano le mani e si rompevano, ed ella sdrucciolava, cadeva, e si rialzava con disperata febbre, e già dietro a sè sentiva un ansimare paurose, già due mani l'afferravano alle vesti, ai capelli, ed un corpo si aggrappava al suo corpo, ed una bocca convulsa sfiorava il suo orecchio dicendole con una voce che non aveva più nulla d'umano:
— Dove vai? dove vai?
Senza una parola Innocenza si svincolò, ritrasse violentemente il volto, riguadagnò distanza, riprese ad arrampicarsi su per la costa senza voltarsi.
Ma la madre non la lasciava; le sue mani l'avevano ora attenagliata alle cosce, e tutto un corpo poderoso e disperato si trascinava su per la riva viscida, fatto tutt'uno col corpo della figlia, greve come il piombo, tenace come una piovra.
Ora anche Innocenza ansimava; ansimava e batteva i denti; aveva il volto graffiato, i capelli strappati e scarmigliati, dal polso ferito le colava il sangue, era molle di sudore dalla testa ai piedi. E Nanna dietro a lei.
A un tratto Innocenza si voltò, cercò nelle tenebre il volto di sua madre. Le soffiò in volto:
— Lasciami.
Nanna non rispose, e l'agguantò più forte.
Allora, nella notte nera, sulla riva viscida, madre e figlia selvaggiamente si misero a lottare.
L'una cercando di liberarsi, di sfuggire, di guadagnare la costa, con morsi e graffi respingendo la disperata, che senza un lamento, senza difendersi, seminuda, coi bianchi cernecchi irti sul capo, perdutamente afferrava la figlia, e la ghermiva come una preda.
Frasi disperate e roventi, coll'ululo del vento, empivano le pause del duello tragico.
— Perchè mi hai messa al mondo?... Lasciami che me ne vada! Lasciami morire!... Tu devi odiarmi, se vuoi farmi vivere ancora!
E l'accusa inconfessata, l'umiliante invidiosa accusa, sulla soglia della morte, sibilava finalmente fra le labbra bianche:
— Tu, non sai che cosa sia la mia vita! Tu!... Devi ridere di me! tu, che sei stata amata! Tutte sono state amate! Perfino tu!... Lasciami, ti dico, lasciami morire! Assassina, sci, se non mi lasci morire!
La notte nera, il cielo indifferente, guardavano quel groviglio umano, quelle due miserie in guerra.
Avevano raggiunto il ciglio della strada.
Allora Innocenza cessò di lottare, e senza forze si abbattè sull'erba. Lagrime disperate le scesero lungo le guancie.
La madre le si inginocchiò accanto e le baciò le mani; le accarezzò le guancie, i capelli, prese i piedi di lei fra le palme, e col fiato tentò di riscaldarli.
Un interminabile tempo passò. La mezza suonò all'orologio del paese. Innocenza si rizzò a sedere e fissò sua madre in volto, senza più furore.
— Mamma, bisogna che io vada.
E tale era il suo accento che la madre comprese che nessuna forza umana avrebbe potuto più trattenerla.
Allora, in ginocchio, a mani giunte, con una voce nuova, colla voce bassa e lieve che aveva trovato improvvisamente per lei quando l'aveva accolta per la prima volta fra le braccia piccola moribonda, curva al suo orecchio, tremante, la madre parlò. (Forse le parole non furono queste, ma il senso.)
— Sentimi, Innocenza. Se vuoi proprio morire, se assolutamente hai deciso, lasciami venire con te. Io non ho che te, non ho avuto che te al mondo che mi sia caro. Che ti ho fatto, perchè tu voglia andartene senza di me?... Credi che la vita mi sia dolce? Che sia stata diversa dalla tua?... Ascoltami, guardami. Non si mente sull'orlo dell'abisso come stiamo tu edio. Ascoltami! Ti dico ora la verità. Anch'io, come te, come te, anch'io sono stata derisa e calpestata da tutti, anch'io, come te, non ho da ricordare un attimo, un solo attimo, di felicità, d'amore. Senti: ascolta: credimi. In ginocchio ti supplico: credimi!... Chi sia tuo padre non so, non lo conobbi: non mi amò, non mi sposò. Vagabondavo di cascina in cascina.... ero ubbriaca.... mi prese come il cane prende la cagna randagia, e mi abbandonò. Ti lasciai credere tutto quello che hai voluto per vergogna, per rispetto di te.... inventai.... non so.... forse per esserti più vicina.... Ed invece ti ho fatto del male!... Perdono! Perdono, Innocenza!... Mia Innocenza, mia figlia, amor mio, non scacciarmi, non fuggirmi, prendimi con te, se vuoi davvero morire! Lasciami venire con te!...
E le mani della madre brancolando accarezzarono ancora il misero corpo contorto della figlia, e nuove lagrime caddero sull'unica bellezza di lei, sui capelli; e tremando e supplicando la madre si avviticchiò ancora al suo unico bene.
E Innocenza più non la respinse, ma pianamente si abbandonò....Quelle braccia che l'avevano cullata, la cullavano ancora; quel dolore e quella miseria che l'imploravano erano il suo dolore, la sua miseria.... Unica certezza che non poteva mentire: il volto di sua madre presso al suo, colla guancia che le sfiorava la guancia.... NULL'ALTRO AL MONDO ERA VERO. Un barroccio passò sull'argine.
Madre e figlia in ginocchio, strette l'una contro l'altra, attesero immote.
Poi si cercarono tacitamente la mano, ed insieme scivolarono verso il mistero.