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vento si era calmato, anche il topo si era stancato di rodere e si era rifugiato nella sua tana. All'orologio del paese suonarono le ore.
Allora Innocenza balzò a sedere sul letto, gettò indietro i capelli che le piovevano da tutte le parti, spense con un soffio il lume.
Cautamente, con delle mosse feline, scivolò giù dal letto, afferrò a tentoni una gonnella, strisciò verso la porta. Un cigolìo l'arrestò.
Livida, immobile, addossata al muro, guatò nel buio verso il letto di sua madre, ma il russare profondo, il respiro faticoso e greve di lei la rassicurarono. Spinse la porta, l'aperse, scivolò più che non scendesse giù dalla scaletta di legno, si trovò in cucina.
Dal focolare, presso a un monticello di cenere tiepida due occhi la fissarono, accesi e scintillanti. Era il gatto malato di cui Nanna aveva avuto pietà. Innocenza si sottrasse con un brivido a quello sguardo, e con un balzo fu alla porta d'uscita, alla porticina verde presso a cui tante volte ella e sua madre avevano fantasticato d'amore.
La porta era chiusa di dentro, asserragliata da Nanna: bisognava tirare il catenaccio, togliere la vecchia spranga arrugginita. Febbrilmente Innocenza agguantò la spranga irta di chiodi e tentò di sollevarla dagli anelli: nello sforzo un chiodo le lacerò il polso, e la spranga le sfuggì di mano e cadde con rimbombo a terra.
Il gatto balzò giù dal focolare e si appressò