La Fortuna/La barba di Dürer
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LA BARBA DI DÜRER I.
Il treno entrò sbuffando e anelando sotto la tettoia e si arrestò violentemente con un fischio acutissimo.
Nell'angolo d'uno scompartimento di terza classe un ragazzetto in lutto che dormiva profondamente, imbacuccato in un logoro scialle, si destò di soprassalto, spalancò gli occhi, domandò con visibile ansietà:
— Norimberga?...
Nessuno dei compagni rispose: nessuno comprendeva. Non erano più i tre viaggiatori partiti da Monaco cui il console d'Italia l'aveva raccomandato, erano altri, saliti lungo la linea mentre egli dormiva: grossi tedeschi indifferenti carichi di pacchi, col dorso curvo sotto il «reisesack», colle villane scarpe ferrate; ed ora se ne andavano tutti, e si urtavano e si pigiavano nel corridoio, presi dalla sgarbata febbre del discendere che è la malattia dei viaggiatori d'ogni classe. Fuori, lungo il treno, era un affollarsi di gente che arrivava, che aspettava, che ripartiva; alcuni fendevano violentemente la corrente, altri, incagliati fra cataste di valigie, gesticolavano con disperazione chiamando: — «Träger! Träger!» — qualche funzionario passava impettito colle mani dietro la schiena dominando la folla coll'ampio torace, ma nessuno guardava su verso il finestrino cui stava affacciato lo spaurito ragazzetto vestito a lutto, nessuno dava ascolto all'esile vocina ansiosa che seguitava ad interrogare:
— Norimberga?... Norimberga?...
Ad un tratto il fanciullo ricordò che a Monaco il console d'Italia gli aveva detto:
— All'arrivo, ti affaccerai allo sportello e sventolerai questa bandierina italiana; non te ne scordare, è il segno di riconoscimento.
Ed egli l'aveva piegata e riposta nella tasca della giacca, e vi aveva sempre tenuto la mano sopra, dormendo, per paura che qualcuno gliela rubasse: ora, nella confusione del brusco arrivo se n'era completamente dimenticato. Forse non c'era più?...
Con un sorriso di sollievo pescò dalla tasca lo sgualcito cencio dai tre colori, protese nuovamente fuor dal finestrino la testa e la mano, sventolando la bandiera.
Ed ecco tra la folla già molto diradata, una vecchia signora si fa largo; è alta, è grassa, è vestita di nero, ha i capelli bianchi, e gli occhi azzurri dietro le lenti, pare che cerchi, corre verso la bandierina....È lei? la nonna? Ella alza il faccione verso gli occhi ansiosi e il visetto pallido del bimbo, afferra manina e bandiera, domanda:
— Hans Hubner?...
E il piccolo con voce strangolata risponde:
— Sì, sono io: Hubner.
Allora la nonna lo aiuta a discendere, l'abbraccia, piange, prende il magro fagotto di lui, gli aggiusta sulle spalle lo scialletto, gli dà la mano, lo protegge col suo largo corpo dagli urti della folla, lo conduce fuori della stazione, su di un gran piazzale. E lì si ferma un istante, lo bacia ancora, piange nuovamente.
Egli no, non piange. Batte i denti di freddo e si guarda intorno trasognato.
Vede una città strana, nera: alte case scure coi tetti che finiscono in punta, strade tortuose e ripide, balconi carichi di geranei fiammanti, chiese color del bronzo e traforate come merletti, e, su tutta quell'ombra, su quella fosca patina greve, l'immacolata bianchezza della neve, che ha già coperto le case, le torri, le strade, che cade silenziosa soffice e lenta, come se non dovesse smetter mai più.
Non è maggio?... La Sicilia, tre giorni innanzi, quand'egli era partito, era tutto un profumo di mandorli in fiore, un trillar di rondini reduci ai nidi, ed il mare era così azzurro laggiù, e c'erano già tante rose.... Perfino sulle recenti rovine di Messina, sui sinistri minacciosi cumuli, esse si arrampicavano insolenti e sorridenti, e verso sera gli effluvii della tiepida primavera si mescevano al fetor dei cadaveri.... Ma qui c'è la neve. Non è maggio qui?...
La nonna dice:
— Hans....- e incomincia un lungo discorso; pare che lo interroghi, che domandi.
Ma il piccolo non risponde. Egli non capisce il tedesco, ha tanto freddo, e non vuol essere Hans. Egli è Giovanni, Giovannino; ed in casa lo chiamavano Nennè: la mamma l'ha sempre chiamato così, ed anche il babbo, benchè fosse tedesco, piccolo impiegato d'una fabbrica di liquori calato a Messina dove aveva conosciuto e sposato Concetta, la pallida e ardente siciliana, che gli aveva fatto dimenticare la patria, la madre, la lingua nativa, soggiogandolo, bruciandolo col suo amore, come sanno bruciare le donne e le lave dell'Etna.
Quante volte Nennè non aveva udito la mamma, dopo qualche lite passeggera e violenta, lanciare al babbo l'ingiuriosa sprezzante parola:
— Croato!
Ed egli rispondere, col biondo faccione impallidito, con quell'atroce pronuncia che, suo malgrado, gli era rimasta:
— Io sono biù italiano di foi!
In una sola tragica notte il terremoto aveva inghiottito mamma e babbo sotto le macerie di cinque piani, e Nennè, tratto illeso per un prodigio di sotto ad una grossa trave, era rimasto solo al mondo. Per tre mesi l'avevano ricoverato in un orfanotrofio insieme a un centinaio di ragazzi colpiti dalla sua stessa sventura, poi, esaurite le indagini, assodata la parentela, e la condizione morale e sociale dei parenti, l'avevano spedito come un pacco in Germania, di tappa in tappa sorvegliato dalle autorità italiane, fino a Norimberga, dove l'attendeva l'unica parente che gli restava, la vecchia nonna tedesca, di cui egli aveva sentito così poco parlare dal padre, di cui dalla madre aveva vagamente intuito che le era nemica.
....La nonna finì il suo discorso, sospirò. Il fanciullo tacque ancora, ostile. E seguitarono a camminare sotto la neve per strade tortuose e ripide, traversarono una gran piazza dove c'era una chiesa color della notte, ed una fontana acuminata, altissima, tutta dorata che pareva un tabernacolo. La nonna disse con una voce diversa dalla solita, nasale e trascicata come quella d'un maestro di scuola:
— Frauenkirche.... Schöner Brunnen....
E costeggiarono un'altra gran chiesa nera, salirono ancora, sotto la neve, fra nere case. Non si arrivava mai; finalmente sbucarono in un piazzaletto, la nonna si fermò presso un basso portoncino, lasciò la mano di Nennè, trasse una chiave, ma prima di aprire disse, colla voce nasale di poc'anzi, ma più bassa, più devota, e più umile:
— Dürerhaus.
E questa volta Nennè afferrò finalmente quello che ella intendeva dire, o meglio ricordò: quello che il babbo, che pure aveva tutto dimenticato, e tutto ostentava di dimenticare, gli aveva più di una volta confidato con accento di mistero e d'orgoglio: «la nonna era custode della casa di Dürer». Chi fosse precisamente questo Dürer, Nennè non sapeva, e nessuno gliel'aveva spiegato; ma egli aveva ben capito che il custodirne e l'abitarne la casa costituiva già per la nonna, e per la famiglia, un onore. Forse essa conteneva un tesoro, forse ci stavano le fate, forse la figlia del re....
Mentre la chiave girava nella toppa, il fanciullo alzò gli occhi timidamente sulla facciata, e vide una piccola casa, forse più vecchia di tutte le altre, forse più scura, forse più affumicata, ma che nulla diceva ai suoi occhi di meglio e di diverso delle mille altre che aveva incontrato. Soltanto, sopra il portone, appesa al muro come su di una pietra tombale, una ghirlanda di foglie e di fiori avvizziti rabbrividiva sotto il vento e sotto la neve.
— Dürerhaus....- ripetè la nonna, varcando la soglia, inchinandosi, coll'atto di chi si fa il segno della croce.
E Nennè, intimidito e curioso, traversò l'andito umido e oscuro, salii dietro a lei in punta dei piedi per la soricchiolante scala di legno, si arrestò col batticuore in una piccola saletta dove un'immensa stufa di maiolica grigiastra qua e là sgretolata brontolava e russava, completamente dimentica che doveva esser Maggio.
....Dov'era il tesoro?... dov'erano le fate?... e la figlia del re?...
La luce scendeva triste e lattiginosa dalle chiuse impannate di piccoli vetri rotondi, l'aria odorava di muffa, un topo rodeva la parete sulla cassapanca tarlata un gattone fulvo si raggomitolava freddolso: tutto era vecchiaia, malinconia, solitudine. La nonna passò in cucina a cercare i fiammiferi: Nennè restò solo, immobile, col cuore stretto, nel mezzo della piccola sala.
E ad un tratto trasalì violentemente e tremò, come se una mano invisibile l'avesse toccato. Dalle spalancate porte che dalla saletta mettevano alle stanze cento occhi lo guardavano: uomini, donne, vecchi, bambini, immobili nella penombra, gli uni accanto agli altri, allineati lungo le pareti; ilari, tristi, pensosi, sprezzanti, indifferenti; tutti quegli sconosciuti lo squadravano ostinatamente, implacabilmente, silenziosamente, col fisso sguardo di cadaveri vivi, e si stupivano dei suoi ricci neri, del suo viso olivastro, dei suoi occhi profondi, e senza voce tutti insieme gli domandavano:
— Chi sei?... Che vuoi tu qui? che vuoi tu qui?...
Con un urlo, Nennè si precipitò verso l'uscio della cucina, cadde fra le braccia della nonna, scoppiò in disperati singhiozzi.
Allora, fra i due che non si capivano, fu un incrociarsi comico e affannoso di domande, di esclamazioni, di sospiri.
L'uno parlava e si disperava nel più veemente dialetto siciliano, l'altra confortava, s'inquietava e interrogava nel suo aspro tedesco.
— Ho paura! Voglio andar via! voglio andar via!... — urlava Nennè fra i singhiozzi.
E la nonna, curva su di lui, guardandolo inquieta coi suoi miti occhi azzurri dietro le lenti: — «Bist du hungrig?... Bist du durstig?...»
— e gli offriva una fetta di torta, un bicchiere d'acqua zuccherata, gli tastava il ventre, e gli sussurrava all'orecchio:
— «Abort?...»
Urli e strilli e lagrime più copiose risposero a quell'obbrobriosa parola, l'unica di cui Nennè fosse ben certo perchè l'aveva vista scritta a grosse lettere in tutte le stazioni del suo viaggio sopra edifici di cui lo stile non ammetteva dubbii.
— «Non! non!... Il y a dehors de vilaines têtes qui me régardent!... Je veux m'en aller! je veux m'en aller!...» — spiegò egli irato ed offeso, ripescando nella sua memoria, per avvicinarsi a quella donna straniera, l'unica lingua straniera che conosceva, il povero francese racimolato dai ragazzi svizzeri delle fabbriche.
— Oh?!... — disse allora la nonna. E benchè egli urlasse e si dibattesse, lo prese a forza tra le braccia, attraversò con passo energico la saletta e le stanze terribili, lo depose sul lettino già preparato. Egli teneva i pugni serrati sugli occhi, buttava le gambe di qua e di là, tentava di mordere le mani della nonna, ma i singhiozzi si facevano sempre più languidi. Il tepore del letto, il suo morbido invito, agivano già sulla stanca fanciullezza come un fulmineo filtro benefico; e la nonna poteva incominciare a spogliarlo, gli toglieva le scarpe, gli asciugava le lagrime che rigavano di solchi chiari il visetto sporco e convulso, lo metteva sotto le coltri, lo copriva fino al naso, gli si sedeva accanto, gli prendeva la manina.
— «Tors, tors, mon enfant» — diceva ella in francese, soddisfatta di poter finalmente arrivar fino a lui. — «Tu tois être pien fatigué, paufre. Tu as fait un pien long foyage».
E, come egli sussultava ancora, nervoso e turbato, ella si curvò al suo orecchio, continuò sottovoce:
— «N'aie bas beur, mon enfant. Ce sont les grafures de Dürer les têtes que tu as fues. Elles sont pien pelles, tu ferras, temain. C'était un crant beintre, Dürer, mon enfant. De tous les gotés du monde on vient le foir. De l'Amerique, de l'Ancleterre, de la Russie, de la France.... Tu ferras, tu ferras, temain. Il ne faut bas en avoir beur».
Poi, come se raccontasse una fiaba, proseguì a voce sempre più lenta, sempre più bassa, con cantilena sempre più marcata, con pause sempre più lunghe:
— «Tu ferras.... Il y a Saint Cheorches à geval.... et Saint Cherome dans sa gellule.... et les drois lansguenets.... et Erasme de Rotterdam....»
Ma Nennè si era già profondamente addormentato.
La nonna con un sospiro baciò la piccola zampetta sudicia che stringeva ancora languidamente la sua, si spogliò anch'ella, si cacciò sotto le coltri.
La mattina dipoi, quando Nennè si svegliò non nevicava più. C'era il sole, un sóle pallido e pigro che scendeva da un grigio cielo ventoso, e sotto quel sole e quel vento le case parevano ancora più nere, i geranei più rossi, la neve più bianca.
Fosca e turrita sotto il suo manto d'ermellino, la città si destava.
La nonna, già in piedi, andava e veniva per la casa, aveva già spazzato la cucina, accesa la gran stufa di maiolica, ed ora fregava energicamente il pavimento del «quartierino di Dürer», il salotto ancora intatto, le quattro stanzette dove sono raccolte e bene ordinate le collezioni di stampe originali e riprodotte.
Bisognava che tutto fosse all'ordine per le dieci: d'inverno come d'estate la casa era continuamente visitata da forestieri di passaggio.
Infatti alle undici: — Triiiin! — il campanello trillò, un signore e una signora imbacuccati nelle pellicce, due russi, salirono, pagarono la tassa d'ingresso. La nonna se ne andò con loro, e intraprese un'interminabile spiegazione.
Nennè, seduto presso alla tavola fra la finestra e la stufa, con un gran tovagliolo annodato sotto il mento, aveva appena finito di ingoiare le ultime cucchiaiate di un'immensa tazza di caffè e latte e faceva con occhi desolati l'inventario della sua prigione. L'inventario era presto fatto: c'era il gatto e un merlo in gabbia: la stufa di maiolica e una cassapanca. Il gatto, fulvo, grasso, freddoloso, sempre addormentato, pareva un filosofo; il merlo, irrequieto, rabbioso, continuamente in lite coi ferri della sua gabbia: un critico.
— «Le chat s'abbelle Wagner, le merle, Beethoven», — aveva detto la nonna. Ma questo non rappresentava per Nennè nulla d'interessante.
Qualche altra cosa c'era, nella penombra, che l'attirava come una calamita.... verso cui i suoi occhi andavano e venivano senza posa...: la scala.... facile, tentatrice, semioscura.... e conduceva alla piazza.
Perchè no?...
Cominciava davvero per Nennè la vita di tutti i giorni.
Monello avvezzo alla strada, alla libertà, avvezzo a vivere sulla banchina, al molo, fra marinai, facchini, ragazzi, gente libera e spensierata, che va viene arriva riparte in una città di mare come Messina, piena di risa e di canzoni, egli non poteva resistere nella chiusa afa d'una prigione senza sole.
Un passo alla volta, un gradino alla volta, guardandosi indietro, arrivò in fondo alla scala, schiuse il portoncino, fu sul piazzale. Così ogni giorno. Come certi gatti randagi che non si ricordano della casa se non quando hanno fame, la nonna lo vedeva comparire soltanto alle ore dei pasti, pieno di freddo, ispido e arruffato, silenzioso e stanco.
Ed invano, in tedesco, in francese, con una disperata mimica cosmopolita, ella tentava di persuaderlo a desistere da quel perpetuo vagabondaggio, tentava di attaccarlo alla catena: il falchetto era troppo selvaggio, non si poteva addomesticare.
Sì, qualche volta, tocco dalla terribile minaccia:
— «Je vais afertir les audorités.... On te renfermera dans un gollege.... Il y en a de très pons à Nuremberg...» — egli si faceva violenza, tentava di assoggettarsi alla schiavitù, restava in casa qualche mezza giornata, ozioso e taciturno fra la finestra e la stufa, con Wagner tra le braccia.
Il gatto dormiva; Nennè guardava fuori coi grandi occhi appassionati; e c'era tanta malinconia, tanta nostalgia, tanta disperazione in quegli occhi di fanciullo che la nonna stessa ne avëva pietà:
— «Sors! sors! Bromène toi!» — Ed egli non rientrava che a sera.
Ma la sera portava a Nennè un nuovo supplizio. La sera venivano le visite. E non erano visite per Dürer, erano per la nonna.
Frau Minna, Frau Elsa, e Fraulein Gretchen, le sue tre intime amiche, capitavano a tenerle compagnia.
Intorno alla tavola, con un vecchio mazzo di carte in mano e quattro monumentali shops di birra davanti, le quattro donne giocavano e chiacchieravano. Nennè stava a guardarle immobile, in silenzio: Wagner e Beethoven dormivano.
Frau Minna aveva sessant'anni ed era enormemente grossa, rubiconda, paffuta: un ridente faccione di luna piena su di un corpo di virago, ma si vestiva come una giovinetta, prediligeva i colori delicati: il rosa e l'azzurro per le bluse, il verde pisello per le gonne; e cambiava toilette quasi ogni sera. Un elemento però del suo vestiario restava immutato ed immutabile: il cappellino di feltro verdastro colla penna di gallo, piantato ben saldo su una spelacchiata treccia un po' grigia, un po' gialla, un po' rossa, che le faceva rapidamente il giro della nuca.
Frau Elsa aveva un'altra particolarità: l'irrequietudine e l'odore. L'insopportabile odore d'aglio, di cipolla, di lardo, che emanava da lei, dai suoi indumenti, da tutti i pori della sua minuscola e irrequieta persona, animata da due piccoli occhi di topo, secca e striminzita come una castagna troppo cotta.
E colei che rispondeva al dolce nome di Gretchen, — Fraulein Gretchen, — pareva un granatiere: alta, quadrata, tarchiata, con larghi denti e larghi piedi, e fumava come un turco e beveva per quattro. Nennè si aspettava ogni sera di sentirla battere i pugni sul tavolo e bestemmiare, invece ella sospirava come un mantice quando le sue amiche nominavano «l'Amore», e cantava cogli occhi rivolti al cielo e un'atroce voce in falsetto i più sentimentali «Lieders» di Hans Sachs.
Nennè le odiava con tutto l'odio di cui era capace il suo piccolo cuore. Tutto lo urtava in loro: il formidabile appetito, il colore delle bluse di Frau Minna, il continuo agitarsi di Frau Elsa, la schiena da carrettiere di Fraulein Gretchen e la sua mania di ricamare a punto croce toccanti frasi sui più comuni oggetti d'uso quotidiano. Su un paio di babbucce? — «Gute nacht». — Sul comodino della nonna? — «Gott vergelte es euch»! — Sulla mantellina di Wagner? — «Mein lieb»!
Nennè le odiava. Ed esse, — oh esse erano molto dignitose! — fingevano di ignorare il piccolo italiano selvaggio e silenzioso, di non vedere, rannicchiato tra la finestra e la stufa, quell'osservatore spietato che preferiva il gatto alle donne. Ma, quando erano certe che la nonna non udiva, ridevano di lui a tutto spiano, ed avevano cura di domandarsi l'una all'altra, in francese, ammiccando:
— «Où est-il ce soir le bétit degoudant?»
Una sera Nennè, stanco e snervato dallo spettacolo sempre uguale, prese il suo lumicino, salutò la nonna, e si diresse verso la sua cameretta. Wagner lo seguì colla coda per aria. Bisognava traversare le stanze dove le «vilaines têtes pendues aux murs» gli avevano fatto tanta paura la sera del suo arrivo, ma ormai egli era più grande (erano passati sei mesi), più calmo, e sapeva bene che quelle povere imagini non potevano fargli del male. Con tranquillità e con fierezza egli passò fra di loro alzando il lume, gettando a destra e a manca uno sguardo spavaldo, di saluto e di sfida. E a un tratto trasalì vivamente e si arrestò facendosi schermo agli occhi colla mano.
— La Nemesi!... Fraulein Gretchen! Fraulein Gretchen!...
Nennè la riconosceva: non v'era dubbio, era lei; attraverso i secoli, nella stampa di Dürer rivivevano le linee, il corpo, l'espressione della poderosa amica della sua nonna.
Soltanto, la Nemesi della nonna aveva una blusa scozzese ed una gonna color pistacchio, la Nemesi di Dürer era nuda, completamente nuda, e passeggiava tranquilla su di un nastro di nubi teso da una montagna all'altra.
Il piccolo scoppiò in una risata e tirò fuori mezzo metro di lingua. Wagner lo guardò scandalizzato e sorpreso. Ma Nennè continuò a ridere e a piroettare sulla punta di un piede e a far inchini e boccacce alla stampa vendicatrice.
Dopo quella scoperta, le incisioni raccolte nella casa incominciarono a interessarlo vivissimamente.
Non passava giorno — adesso — che nélle sue corse attraverso ai mercati, le piazze e i sobborghi di Norimberga, egli non incontrasse qualcuno che gli pareva d'avere «già visto», o che rientrando in casa egli non «riconoscesse» qualche figura che aveva appena incontrata. Qualche vecchio popolano venditore d'uova e di pesce, qualche soldato angoloso e poderoso, qualche sgraziata donna dalle guance rosse e paffute, qualche signore dal profilo tagliente, dallo sguardo duro...: la vita, quale egli la vedeva intorno a sè; i tipi vivi, eterni, della razza tedesca, tradotti sulle carte con un rilievo ed una verità che li faceva immortali. Poichè, Nennè non sapeva bene se «il tipo» l'avesse inventato il pittore, o la natura; se «il modello» fosse la stampa incisa, o l'uomo vivo che oggi era lo stesso di cinque secoli fa....
E quell'Albrecht Dürer, scomparso e onnipresente, quel meraviglioso animatore di un popolo, ch'egli vedeva là, nel suo autoritratto, biondo come un Cristo, coi lunghi capelli spioventi sulle spalle, gli occhi assorti e la bocca volontaria e triste, lo faceva curioso e pensoso.
Grossi libri che raccontavano di lui giacevano nella cassapanca tarlata; bisognava cercare, qualcuno forse era francese.... Ma la sua vita non era già là, nella sua casa, raccontata da lui stesso con parole immortali? Nennè non conosceva già sua madre, scarnita dalle sofferenze e strabica, suo padre, dall'aria austera e dall'occhio acuto, due dei suoi diciassette fratelli, Hans ed Andrea? E il vecchio maestro Michele Wolgemut, e il grande amico Wilibald Pirkeimer?... Non conosceva il ritratto di Erasmo di Rotterdam, ricordo di un viaggio a Bruxelles, ed i dolci paesaggi del Tirolo, nostalgia della primavera italiana?...
Ormai il fanciullo vedeva senza terrore arrivare la sera e le tre amiche della nonna, pensava senza sgomento che si sarebbero trattenute fino a mezzanotte.
Non appena esse entravano, accendeva il lumicino e se ne andava. Egli si appartava col gatto, ma si famigliarizzava con un popolo intero.
II.
Nondimeno quel popolo, quella terra, egli non l'amava.
Come una cocente ferita, come una ferita eternamente sanguinante, il pensiero della sua terra abbandonata lo torturava, gravava sulle sue spalle infantili come un plumbeo peso di tristezza.
S'avvicinava l'estate, la gran stagione per Norimberga, quando i forestieri da Monaco e da Bayreuth calano a frotte, e tutti quelli che passano diretti a Karlsbad e a Karlsruhe sostano qualche giorno nella vecchia città tedesca; il Burg e la casa di Dürer diventano la meta di un più o meno devoto pellegrinaggio.
Proprio allora, la nonna ammalò. I reumatismi, la gotta, la coglievano già da qualche anno con insistenza, e questa volta l'abbatterono a letto. Frau Minna, Frau Elsa e Fraulein Gretchen si davano il turno al suo capezzale, ma chi avrebbe ricevuto i visitatori?...
La nonna chiamò Nennè, e colle lagrime agli occhi gli disse: — «Sois pon, mon enfant. Ce sera suffisant que tu oufre la borte. Sois pon, pendant que ta paufre vieille est malate».
Ed egli aveva giurato di non uscire, di non scappare, di aprire la porta, e da piccolo italiano d'onore manteneva il suo giuramento.
....Quanta gente!... Da due settimane, da mattina a sera l'andirivieni non cessava un minuto. Francesi, americani, inglesi, tedeschi.... e poi ancora tedeschi, inglesi, americani.... Quel giorno Nennè era stanco e snervato; ad ogni squillar di campanello tirava fuori mezzo metro di lingua: per fortuna l'orologio segnava le quattro: ancora un'ora, e poi si chiudeva baracca.
— Trrriiiin!... — Il campanello trillò, ed egli corse ad aprire.
I visitatori erano tre: una signora alta e bruna, una signora piccola, e un ragazzetto vestito alla marinara. Ridevano, erano eleganti, parevano francesi.
E infatti, a un tratto:
— «....Pas allemand?» — chiese la signora bruna colpita dal tipo del fanciullo che la scortava.
— «Je suis italien, madame» — rispose egli arrossendo fino ai capelli.
— «J'aurais parié qu'il l'était!» — esclamò ridendo la signora rivolta alla sua compagna; e: — Paolo, Paolo! — chiamò verso il piccolo marinaio che l'aveva preceduta lungo la scala, — trovi qui un compatriota: questo fanciullo è italiano.
Il marinaretto si arrestò curioso aspettando, e Nennè pure si arrestò: pallido, colle labbra bianche, come se tutto il sangue gli fosse dalle vene affluito al cuore.
Italiani!... Erano italiani!
Infine egli si mosse e salì due gradini. Sul pianerottolo, i due piccoli compatrioti si trovarono di fronte. L' uno coi ricci arruffati, i grandi occhi di passione, e l' ardente pallore della sua Sicilia, l'altro biondo, corretto, cogli occhi grigi e serî, un profilo acuto, e in tutta l' elegante figurina la gracile delicatezza dei bimbi troppo amati.
Entrambi si guardarono con molta timidezza. Nennè si sentiva sporco e mal vestito, l'altro non sapeva che cosa dirgli.
— Ci accompagni? — chiese la signora a Nennè, troncando così la pausa e l'imbarazzo.
— Sì, signora, — rispose egli, pallido, a occhi bassi; e li precedette lentamente su per la scala.
— Ci sapresti dire qualche cosa? — chiese ancora la signora entrando nelle stanzette delle raccolte. — Non abbiamo catalogo, — aggiunse ella, e gli sorrise.
— Sì, signora, — rispose ancora il ragazzetto, come in sogno.
Allora la nonna, che dal letto tendeva l'orecchio al suono dei passi, inquieta sulla pazienza di Nennè dopo una così faticosa giornata, fu l'invisibile testimone di un miracolo.
La vocetta timida incominciava a parlare.... tremula sul principio; esitante; poi più sicura, più energica, più ferma. E parlava italiano, rapidissimamente: pareva che additasse, enumerasse, spiegasse. Che cosa mai?...
Ed ecco che la stessa vocetta traduceva tutto in francese per qualcuno dei visitatori che evidentemente non capiva l'italiano, e la nonna udiva trasecolata l'eterna storia che per lei non aveva quasi più senso, tanto la sapeva a memoria, la storia delle incisioni di Dürer, rifiorire dalle labbra del nipotino, resa più viva e più fresca da una grazia ingenua di narrazione e di commento che ne sollevava e ne abbelliva la monotona aridità.
Sapeva tutto, il piccolo, meglio di lei che da quarant'anni abitava la casa, da settanta viveva a Norimberga.... Anche la vita di Dürer conosceva, ed ora insegnava agli stranieri i musei e le chiese di Norimberga dove avrebbero trovati altri suoi quadri, ed alla storia già nota mesceva qualche osservazione personale, qualche piccola notizia raccolta, dove, come, la nonna non sapeva.
Quando aveva egli visto, imparato, letto?... Se, dopo la sera del suo arrivo, non aveva mai fatto cenno a lei, nè mai chiesto nulla delle «vilaines têtes pendues aux murs?» Forse aveva letto qualche libro.... il Baedeker?
Ma Nennè diceva più e meglio dei libri; e colla rapida intuizione, colla mirabile genialità della sua razza, illeggiadriva e rendeva svelta e agile la convenzionale storia compilata ad uso dei viaggiatori frettolosi.
Lembi di discorso arrivavano alla nonna. — Sì, signora, è il Cavaliere, il Diavolo e la Morte, una delle stampe più famose.
— ....E questo è il suo ritratto, disegnato da lui a tredici anni, prima di entrare nell' «atelier» di Michele Wolgemut. L'originale è all'Albertina di Vienna.
— «....La passion verte.... on l'a appelée comme ça parce qu'elle a été gravée sur papier d'un ton vert».
— ....È sepolto nel vecchio cimitero di San Giovanni, signora, ed ha sempre fiori freschi sulla sua tomba, dopo tanti secoli.... Qualcuno gliene porta sempre....
— ....No, signora. Egli andò in Italia più tardi. Dipinse la Festa del Rosario per il Fondaco dei tedeschi; questa serie di stampe è posteriore al suo viaggio in Italia, e sono forse lepiù belle.
— ....La Nemesi. Prima del suo viaggio in Italia. Après, il n'a plus fait des pareilles laideurs.
Uno scoppio di risa. Ridono i forestieri, ride anche Nennè. Perchè? La nona fortunatamente non ha capito. E non sa neppure che Nennè parlando non stacca dalla signora italiana i suoi ardenti occhi pieni di nostalgia, che la guarda sorridere, muoversi qua e là per le piccole stanze, rabbrividire nel gran boa di volpe bianca, con una gioia, con un benessere, con una felicità, che gli fanno dimenticare che presto la visita sarà finita, che non ci sarà più nulla, ahimè, da vedere, più nulla da dire. E la signora lo ascolta: divertita, interessata, e sorpresa, di non trovare in lui il solito piccolo pappagallo ammaestrato, rattrappito nell'aria dei musei, ma un ometto intelligente e vivace, un fanciullo, che comprende quello che dice, e che nell'aridità delle date e dei nomi insinua ingenuamente la nota comica e originale della sua piccola personalità e un istintivo senso d'arte, ed uno spumeggiar d'arguzia prettamente italiana, anzi siciliana.
— «Il est très, très intelligent», — diss' ella alla sua compagna, non così piano che Nennè non udisse, e una fiamma di gioia e d'orgoglio lo avviluppò come una lingua di fuoco.
Entrarono nel salotto di Dürer, tuttora intatto. La signora sedette nel vecchio seggiolone, si rannicchiò tutta nel gran boa.
....Che freddo, in pieno agosto, in quella piccola stanza triste che sapeva tante cose passate! presso a quella tavola che ricordava le dispute della bisbetica moglie di Dürer, e lo spegnersi lento e doloroso della madre di lui, mentre egli ne segnava il mirabile ritratto!... Eppure le pareti erano rivestite di legno, e la finestra dai lattiginosi vetri rotondi era ben chiusa, chiusa la porta che tanti secoli innanzi si era forse più di una volta scostata per lasciar passare, pallida e ardente, l'alta figura di Martin Lutero.
L'istitutrice e il piccolo marinaio sfogliavano l'album delle riproduzioni. La signora interrogava Nennè.
— Faceva sempre così freddo a Norimberga?... Egli era in Germania da molto?... Non sarebbe più tornato in Italia?... Come si chiamava?...
Ella sorrideva, e sotto quel sorriso — era dolce? era distratto? era indifferente?... Nennè non sapeva, ma gli pareva un lembo di cielo della sua Italia, ma gli pareva qualche cosa della sua mamma, — egli a poco a poco si faceva coraggio, disserrava il suo cuore, raccontava.... e fra le vecchie cose straniere le bizzarre parole «terremoto, Messina, morte», passavano con un fremito di pianto trattenuto, colle visioni dolci e terribili di un altro cielo.
— Povero, povero ometto....- mormorò la signora quand'egli ebbe finito, e non aggiunse altro, quasi avesse compreso lo sforzo e il dolore di lui, e la migliore pietà del silenzio.
— Paolo, — disse a suo figlio, — dagli la mano.
Poi aggiunse: — Restiamo qui ancora qualche giorno. Torneremo. Addio, Nennè. — Ed uscirono.
Egli, immobile sulla soglia del basso portoncino, li guardò allontanarsi, vide il piccolo marinaio all'angolo della strada volgersi, e salutare agitando il berretto.
Rosso, cogli occhi sfavillanti, si precipitò dalla nonna:
— «Oh grand'mère, grand'mère! Ils étaient italiens! Ils réviendront! J'ai tout expliqué! très bien expliqué! Ils réviendront!...» Ma la nonna a cui la visita era sembrata troppo lunga, e che per l'Italia conservava una sacra diffidenza:
— «As-tu pien fermé la borte?... Es-tu sur?... Ils ne seront bas restés dans la maison, tes idaliens?... Il ne seront pas des foleurs?...»
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
«Des voleurs!...» Quella dolce signora che era stata così buona con lui, quella sua compagna semplice e modesta, quel piccolo marinaio che gli aveva stretta la mano con tanta gentilezza!... «Des voleurs!...»
Colpito in pieno petto da quell'ingiuria che lo feriva come se fosse rivolta a lui stesso, Nennè non rispose ed uscì sbatacchiando la porta.
— Infamia! infamia!
Ma che gli importava ormai, che gli importava di nulla e di nessuno, poichè essi sarebbero ritornati? poichè l'immensa, l'inesprimibile felicità si sarebbe rinnovata?...
— Torneremo, — ella gli aveva detto. Ed il fanciullo fidava in lei ciecamente come nella Madonna.
Quante, quante cose aveva dimenticato d'insegnar loro, e voleva, quando tornavano!... Quanti angoli di Norimberga, ignoti agli stranieri, dimenticati dalle guide, piccoli angoli remoti o abbandonati, dove il silenzio la vecchiaia la solitudine parlavano un più forte e più aspro linguaggio!... Cortili di povere case in vecchi quartieri solitari, gemme, che i forestieri non discernevano perchè soffocate sotto la povertà e lo squallore, linee mirabili e pure d'un'architettura quasi scomparsa, neri torrioni lungo le fortificazioni, ringhiere in ferro battuto di cui l'edera aggrappandosi tenace quasi celava il leggiadro disegno, malinconico fascino di una campagna pallida, gaiezza di un nero balcone sporgente sotto una pioggia di geranei rossi!... Tutta, tutta la poesia che il piccolo vagabondo aveva sentito di quella terra straniera, voleva dire a loro della sua Italia, sicuro che l'avrebbero compreso.
— Li condurrò io, — pensava Nennè. — La nonna sta per guarire. Io uscirò con loro. — E intanto con un'ingenua matita si accaniva a copiare «il mazzolino di violette», l'indimenticabile mazzolino che tutto il mondo conosce, a cui Dürer come a un volto, come a uno sguardo, ha dato anima e vita: il celebre mazzolino che pare appena raccolto, appunto da una mano infantile, sotto un ciuffo di felci, umido e fresco, per esser dato a qualeuno cui si voglia bene.
— Lo darò alla signora quando tornerà. Le chiederò di Messina....
Ma essi non tornavano. Passavano i giorni; ad una primavera capricciosa seguiva una pazza estate; pioveva a dirotto, un gran vento turbinava notte e giorno e strappava i fiori e le foglie della corona appesa sulla facciata della casa di Dürer come su di una pietra tombale.
Wagner non lasciava quasi più la cesta da lavoro della nonna; la gabbia di Beethoven era stata ritirata in cucina dalla prudente mano di Frau Elsa.
E Nennè trasaliva ad ogni squillar di campanello e colla tenace fede dei fanciulli continuava ad aspettare.
— Forse sono andati a Bayreuth, forse ad Oberamergau....
Quel forestiero, un dinoccolato americano, lungo, col monocolo, e i denti di cavallo, era capitato assai più tardi, quando tutti se n'erano andati, già si stava per chiudere, e nella casetta faceva quasi buio.
Aveva fatto un giro frettoloso e distratto, guardandosi intorno, tendendo l'orecchio alle voci di Fraulein Gretchen e di Frau Minna che cinguettavano nella camera della nonna. E prima di uscire, in fondo alla scala, presso al portoncino socchiuso, aveva chiamato Nennè con un cenno, gli aveva messo una magra adunca mano sulla spalla, gli aveva sussurrato all'orecchio:
— «Peux-tu me ceder quelq'un de ces croquis? Je les payerai très bien. Si tu veux, je réviendrai demain à cette heure».
Impennandosi come un cavallo di sangue sotto una sferzata, Nennè con un balzo si era liberato dalla stretta, gli aveva sferrato un calcio, gettata la porta sul naso. — Villano! vigliacco! mascalzone!... Credermi un ladro!... Fare di quelle proposte a me!... — inveiva il fanciullo cogli occhi annebbiati di rabbia, e stava per risalire le scale, ricoverarsi dalla nonna, quando il campanello trillò nuovamente.
Per paura che fosse ancora l'americano tornato sui suoi passi, Nennè non aperse, ma aspetò, trepidando, che la suonata si ripetesse. Forse era qualche altro visitatore, forse il postino....
Infatti udì un piccolo fruscìo di sotto all'uscio, e vide che qualcuno aveva passato dallo spiraglio una lettera. Si chinò a raccoglierla; il sangue gli diede un tuffo. Non era una lettera: era una cartolina, e veniva dall'Italia. Una mano infantile aveva scritto:
A Nennè, custode della Casa di Dürer, Norimberga.
Un saluto da Venezia. Se torni in Italia vieni a trovarci.
Paolo.
Seguiva il nome e l'indirizzo.
Essi!... Se n'erano andati.
Seduto sul primo gradino della scala, col lumicino allato, Nennè girava e rigirava quel quadratino di carta, quel piccolo indifferente addio, e lo rileggeva per la centesima volta, e ne contava le sillabe.
Poi le lagrime finalmente: fitte, cocenti, disperate, gli colarono giù per le guancie.
Se n'erano andati.
E d'improvviso gli pareva che tutto gli fosse crollato d'intorno, che non gli restasse più che morire.
Come un profumo portato dal vento ricorda al triste viandante tutta una storia, tutta una vita, una voce di fanciullo, un sorriso di donna — anch'essi portati dal vento! — avevano risollevato in lui un turbine d'amore, di dolore, di desiderio. Come le lave giungono sulle nevi, improvvise, veementi, travolgendo, bruciando, mettendo a nudo la terra arsa e ferita, ed ogni solco ne sanguina e ne trema, essi erano passati sul suo chiuso dolore, sulla sua animuccia intirizzita, e l'avevano fatta fremere e ricordare.... E aspettarli, aspettarli, era stato per lui il sorso d'acqua che basta all'assetato per non morire, il filo di speranza necessaria al prigioniero, lo spiraglio di luce che illude colui che anela, che spasima verso il sole.
Ed ora?... Egli non li accusava, no. Era tanto freddo; la signora rabbrividiva tutta nel suo gran boa. Ma anch'egli aveva freddo, anch'egli rabbrividiva da mesi, da anni, anch'egli soffriva, anch'egli voleva il suo sole, la sua terra, la sua Messina....
Messina!... Quand'egli era partito, essa non era che rovine, squallore, desolazione; mucchi di macerie su cui ululavano i cani, immense tombe senza croce in mezzo a cui i superstiti vagavano attoniti senza più lagrime per piangere, senza più forza per cercare, ma ora forse, in due anni.... l'avevano ricostruita, fatta nuovamente ricca e bella, ed essa si adagiava forse già sorridente e obliosa fra gli aranceti in fiore, lungo il mare dalle spume d'argento.... Ora forse sul luogo stesso dove suo padre e sua madre avevano cacciato l'ultimo urlo, una palazzina sorgeva, cinta di rose, abitata da gente felice.... forse un bar, un teatro, dove la sera si rideva, si ballava, e si cantavano canzonette napoletane....
Ah, se era una viltà aver abbandonata la patria, così misera, così perduta, quale castigo, non ritornare, non sapere, non vedere mai, com'era, com'era risorta, non poter con essa rinascere e dimenticare!... Non sentire mai più gli effluvi degli aranceti, non aspettare più le barche cariche di pesce approdanti al porto verso sera come stanche farfalle!... non ascoltare più le canzoni dei marinai seduti in semicerchio, colla testa volta verso il rosso tramonto!...
Ah, perchè, perchè, erano essi venuti?... Il suo male era sopito: essi l'avevano risvegliato, ed ora non poteva più guarire, non gli restava che morire!... Perchè erano venuti?... Come ora vivere? come dimenticare?...
«Se torni....», gli avevano scritto. — Se torni! — Come tornare? Egli non aveva denaro, e la nonna era povera, non si sarebbe commossa alle sue preghiere, non avrebbe capito il suo atroce soffrire. Per lei l'Italia era pur sempre la nemica, l'infida, che due volte le aveva rapito il figliolo.
Come tornare?... Il biglietto non costava molto, il viaggio non era tanto lungo,....un viaggio verso paesi caldi, per cui non era neppur necessario portare bagaglio.... ed egli si sarebbe accontentato di restare laggiù poco, poco.... risalutare Messina, il mare.... il suo mare.... Ah, se avesse avuto il denaro per il biglietto!... Se avesse potuto procurarselo!... Dopo, sarebbe rientrato a Norimberga, pago, tranquillo, ad aiutare la povera nonna malata, ad aspettare i visitatori della casa di Dürer, a conversare con Wagner e con Beethoven nelle lunghe sere d'inverno. Ma prima tornare, tornare!... Egli moriva, se non tornava: la malìa della sua terra adorata l'abbatteva e lo travolgeva come una febbre, come una follia....
— «Se torni...», gli avevano scritto....
Sì, egli sarebbe tornato!
Dove, come, procurarsi il denaro per il biglietto?... Bisognava far qualche cosa.... pensare, inventare, vendere....
Ah, non già le stampe!... Egli era italiano, non era ladro; e per nulla al mondo avrebbe manomesso le mirabili collezioni affidate all'onore della vecchia nonna. Far denaro.... Ma come? Come?... Egli non aveva contatto che coi visitatori della casa e da quelli soltanto poteva sperare qualche risorsa, ma pochi di essi erano generosi, e quell'anno la stagione era rovinata dal mal tempo. Non passavano quasi più che degli americani, eterni vagabondi, boriosi e pettoruti a fianco di ragazze che parevan serpenti, di signore che parevano corazzate, se ne andavano senza dargli nulla, e senza salutarlo. Ed uno di essi l'aveva creduto un ladro! un ladro!... Ah, vendicarsi di loro, obbligarli a dare il denaro per tornare in Italia! Ma come?... Egli aveva in consegna le cartoline illustrate, ma la nonna le contava regolarmente ogni sera e registrava le vendite, eppoi Nennè non voleva a nessun costo imbrogliare la nonna. Bisognava trovare altro.... altro.
Fulmineamente, gli attraversò la mente il ricordo di certi ragazzi di Messina, gemelli, Antonico e Fifillo Gargiù, custodi di un piccolo santuario sul lido, che vendevano ai forestieri minuscoli pezzetti d'unghia accuratamente condizionati battezzandola per l'unghia di San Criseldo, unghia miracolosa cui bastava accostare le labbra per guarire il mal di denti. Ed avevano fatto fortuna, quei due, e in pochi anni avevano comperato un campo e una casetta, senza far male a nessuno, senza rubare.... Tutti li rispettavano nell'isola, e le madri li citavano ai figli come modelli di ingegnosa saggezza....
Se anch'egli avesse potuto avere una reliquia!... Inventarla.... fabbricarla.... per ottenere da quella gente ricca che veniva da tanto lontano, per cui pochi marchi non erano nulla, il misero prezzo d'un biglietto di terza classe per la sua Sicilia!...
Una voce stridula chiamò dall'alto:
— Hans!
Qualcuno passando pestò la coda di Wagner, e Frau Minna e Frau Elsa, l'una grande grande e grossa, l'altra piccola piccola e magra, entrambe armate di un identico verde cappellino alla tirolese con penna di gallo, scesero rumorosamente facendo scricchiolare tutta la scala.
Nennè si scansò senza salutarle, ed esse borbottarono qualche cosa fra i denti, in tedesco, mentr'egli saliva tre gradini per volta, giungeva in saletta.
— Fabbricare una reliquia!... vendere agli americani... chissà mai che cosa?... Anch'egli, come Antonico e Fifillo, le unghie.... o i capelli.... o la barba.... di qualche santo.... la barba.... la barba di Dürer!... La barba di Dürer!!...
Con un fremito di terrore e di rimorso, gli occhi di Nennè si posarono sul ritratto di lui, biondo, ieratico, malinconico, poi, folli di audacia e di speranza, discesero su Wagner che grasso e freddoloso si raggomitolava come sempre accanto alla stufa. Il gatto era fulvo e russava; russava l'immensa stufa di maiolica grigia, e nel suo letto, sotto una montagna di cuscini di piuma, russava anche la nonna.
Allora, cautamente, movendosi senza rumore, scivolando come un serpe fra la cassapanca e la stufa, Nennè afferrò la forbice tra i gomitoli di lana rossa e, gentilmente accarezzando Wagner con una mano, coll'altra gli recise sulla schiena un grosso ciuffo di pelo, poi un secondo, un terzo, un quarto.
— La barba di Dürer!...
Il tradito socchiuse appena gli occhi. Nennè fuggì nella sua stanza portando seco il prezioso tesoro. Il giorno dopo, subito, con un'audacia, un sangue freddo ed una prontezza meravigliosi, il piano fu ideato ed eseguito. La barba di Dürer fu divisa in venti eleganti ciuffetti graziosamente legati colla seta azzurra con cui Fraulein Gretchen ricamava un paio di pantofole, e collocata in venti scatoline che prima avevano contenuto ignobili pillole per la nonna. Nennè ebbe cura di incollarvi sopra una piccola marca réclame collo stemma di Norimberga che serviva anche per le cartoline.
E quasi a favorire la sua impresa, il cielo si fece sgombro di nubi, il sole riapparve, i forestieri tornarono ad affluire.
Nennè, serio, corretto, dignitoso, apriva la porta, guidava le comitive, riconosceva tosto la nazionalità degli ospiti, aveva adottato un sistema infallibile.
Colpiva di preferenza gli americani, per una sua personale vendetta, e perchè aveva intuito la psicologia della più fanfarona delle razze.
Dal vile americano che gli aveva suggerito di rubare le stampe, egli aveva imparato il procedimento per burlarsi di tutta l'America: accompagnava i visitatori in fondo alla scala, e là, nell'andito semioscuro dove era ben certo di non esser visto se arrossiva troppo, presso al portone che era facile richiudere sul naso ai diffidenti, tirava fuori una delle sue scatoline, e, con aria di mistero e d'importanza gentilmente offriva:
— «Un véritable souvenir de Dürer, messieurs dames?... quelque chose de très rare?... quelques poils de sa barbe?...»
— «Aho?!...»
Tutti abboccavano all'amo, ed i marchi piovevano: le signore, specialmente, facevano pazzie per quelle scatoline e partivano raggianti di gioia pregustando già l'ammirazione e l'invidia delle amiche collezioniste, al loro ritorno a New York o a Rio.
— Sono contenti, — pensava Nennè mentre li guardava allontanarsi tronfi e pettoruti come fossero i padroni del mondo. — Sono sempre gli stessi che comprano le unghie di San Criseldo.
Ma bisognava affrettarsi. La cosa poteva venire scoperta; la nonna avere dei dispiaceri. Povera vecchia nonna tradita! Ella ringraziava ogni sera Nennè:
— «Tu es très pon», — gli diceva con affetto. E poi, guardando il gatto: — «Wagner va tomper malate: il perd tout son boil». — E il rimorso addentava il cuore del fanciullo.
Bisognava affrettarsi, partire, racimolar presto la somma necessaria. Il pericolo era sul suo capo come una spada sempre balenante.
Un giorno un signore che a Nennè pareva d'aver già visto altrove — forse a Messina guidando un cab?....- un gran signore, rosso, calvo, poderoso, sprezzante, gli aveva detto fissandolo con un grosso riso:
— «Est-ce qu'il avait la barbe très longue, ce Dürer?... Ah ah!...» — e gli aveva gettato cinque marchi, ma aveva respinto la scatolina. Nennè aveva risalito le scale battendo i denti di paura e di vergogna. O Italia! Italia!... Ancora venti marchi....
L'ultima settimana fu affannosa, tragica. Nennè non dormiva quasi più durante la notte, ma quando riusciva ad assopirsi sognava continuamente il viso e il riso del poderoso uomo che gli aveva sghignazzato in faccia:
— «Est-ce qu'il avait la barbe très longue? Ah ah!...»
Febbricitante, sconvolto, sfinito, roso dalla fretta e dall'inquietudine, Nennè raddoppiò di audacia come l'equilibrista che, prossimo a cadere affranto dalla corda tesa sul precipizio, corre per arrivare. Ormai le vendite si succedevano alle vendite, senza più prudenza, senza scelta d'individui e di nazionalità. L'ultimo giorno egli vendette sei scatoline, compì i sessanta marchi.
Gli parve di esser liberato da un incubo: uscito illeso per un prodigio da un pericolo immane: libero, salvo.
Aveva seppellito trenta marchi nel cortiletto, li disseppellì, li raccolse nel nodo del fazzoletto, si cacciò a letto, tentò di ordinare i suoi pensieri, si disse: — Finalmente! — e volle aggiungere: — Ora sono felice! — Ma tosto si accorse che tutta la sua febbre era caduta.
....Nonna, nonna! povera nonna buona, sola, vecchia e malata in una vecchia casa di morti!...
E nondimeno bisognava partire, lasciarla, fuggire.... con rimorso, piangendo.... ma tornare là di dove si era venuti, come le rondini tornano al nido per una legge più forte d'ogni legge, più sacra della parentela; per quel bene, per quel male, che ha nome nostalgia, che ritorna alla sua terra il vagabondo dalle più lontane contrade, che ridona i figli alla madre anche se non li ha nutriti, anche se li ha percossi e traditi; per quella febbre che della terra infida rammenta solo le dolci primavere e le notti serene come una donna perfida e adorata alla memoria dell'amante ridice solo i brevi istanti d'amore....
— ... Per non morire, per non morire, nonna!...
Suonavano le quattro. Nennè scese di letto, e, in camicia e a piedi nudi, reggendo con mano tremante il lumicino, prese un grosso vocabolario e lo scartabellò. Poi esitando e riflettendo, e ad ogni lettera rituffando il nasetto nel libro, scrisse su di un foglio, a grossi caratteri incerti:
«Grossmutter verzeihe mir. Ich werde zurück kommen. Hans».
Per la prima volta egli le parlava in tedesco.
Prese il foglietto e lo mise in una busta, vi unì il mazzolino di viole copiato per chi non aveva voluto ritornare, e posò la lettera bene in vista sulla cesta da lavoro.
— Perdono, perdono!...
Poi si vestì velocissimamente, colla cautela e la rapidità di una scimmia, intascò i sessanta marchi, scivolò giù per le scale, fu sul piazzaletto immerso nella notte. Fosca e turrita, cinta dal suo monile di geranei rossi, Norimberga dormiva; ma nella stazione il primo treno per l'Italia scuoteva già i freni, e con uno stridore di catene e di ruote, gettando un fischio, si lanciava in corsa verso la patria.
Norimberga, autunno 1912.
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L'AMORE
....Car ces êtres sont de la race Du Vice et de la Pauvreté.... Qui font les enfances sans grâce Et les tristesses sans beauté.
François Coppée.
Quando in paese si raccontava che Nanna, la sciancata che domandava l'elemosina sulla porta della chiesa, era stata trovata in mezzo a un campo «in istato d'ubbriachezza ripugnante», e perciò trasportata all'ospitale e poi in carcere, nessuno se ne meravigliava.
Regolarmente ogni anno, al principio d'ottobre, all'epoca della pigiatura, Nanna si ubbriacava.
Che volete?... Verso sera, al tempo delle vendemmie, tutti sono allegri, un po' esaltati dalle canzoni e dai fumi del vino; le ragazze arrivano cogli ultimi cesti carichi d'uva bionda; sotto il portico gli uomini pigiano a piedi nudi e cantano; il mosto corre torbido e dolciastro: in cucina arde un gran fuoco: chi potrebbe rifiutare qualche cosa a un poverello? Appunto verso sera l'accattona ronzava intorno alle fattorie,