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— Tutte, tutte, perfino «lei»!...

E dinanzi a sua madre un'atroce vergogna la prendeva, un atroce furore, d'esser così brutta, così disprezzata, così sola; e sospettava «anche nei suoi occhi» l'ironia, nelle sue parole l'offesa, nella sua pietà la condanna.

— Lasciami sola! Non guardarmi! Va!...

Una sera udì la povera sua madre ridere con una vicina sulla porta del giardinetto, e sobbalzò come sotto un colpo di staffile.

— Ridono di me!...

Un'altra volta Nanna le portò a vedere un gatto, un povero gatto malato, spelacchiato, irto e tremante nei suoi peli, un povero gatto randagio che i monelli avevano ferito, percosso, rincorso a sassate fino alla loro capanna abbandonandolo poi per morto in mezzo alla strada. Nanna l'aveva raccolto, medicato, nutrito.

— Ma sarebbe meglio che morisse....- diss'ella, — non ha padrone, nessuno lo vuole, tutti gli fanno del male...

E Innocenza nelle tenebre del suo cuore:

— Dice a me!... Dice a me, perchè nessuno mi vuole!...

Ah, tortura, tortura!...

Così fu che ella incominciò un giorno, durante l'assenza di Nanna, a scriversi una lunga lettera d'amore: la scrisse, la lesse palpitando, tracciò l'indirizzo tendendo l'orecchio ai rumori, e, calata la sera, corse al paese ad impostarla.

Il giorno dopo il postino gliela riportò, ed