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si rovinava, non dormiva quasi più. Giorno e notte contemplava la sua creatura, la covava collo sguardo, l'adorava.
I suoi occhi torbidi e grossi si facevano dolci di una pietosa e tragica dolcezza posandosi sul piccolo mostriciattolo giallastro che poppava debolmente ma ogni giorno più si attaccava alla vita; la volgarità sfrontata e repugnante dei suoi lineamenti appariva mitigata, ammorbidita, in una bontà, in una compostezza nuova.
Quelle labbra che non avevano mai sorriso, talvolta sorridevano; quella bocca che non si era mai schiusa ad una gentilezza balbettava con voce rauca piccole parole nuove, inventate «per lei»; e le mani venose e adunche tentavano timide carezze, e il rossore, — il rossore! — saliva su quel volto dianzi aspro e indifferente come la pietra su cui tutti posano il piede. Il rossore, il pudore, la timidezza!... Il pugno chiuso della creaturina portava tutto questo a sua madre.
La Superiora stimò esser giunto il momento opportuno.
— Bisogna confessarsi e comunicarsi.
— Sì, tutto, tutto.
Nanna acconsentiva colla docilità d'un agnello. Pareva non rammentarsi neppure della resistenza feroce opposta pochi mesi innanzi.
Soltanto, al momento di lasciare per la prima volta la figlia per recarsi alla chiesa, un improvviso dubbio le balenò, e il terrore trasfigurò il suo volto. Posando le mani sul braccio della Superiora: