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Morire, doveva: morire.

A metà del terzo giorno la Superiora prese una decisione gravissima.

Tolse la bambina in braccio, l'avvolse in una flanella, e traversò rapidamente il lungo corridoio che separava il reparto «Lattanti» dalla Clinica ostetrica.

Si affacciò all'uscio della stanzetta di Nanna, e dalla soglia, senza avanzare, alzò sulle braccia il povero essere moribondo.

— Nanna, — disse con voce calma, dominando l'inferma coi suoi chiari occhi freddi, — ecco la tua bambina. Se tu non le dai il tuo latte, muore di fame.

Allora, davanti agli occhi ansiosi e meravigliati delle suore e delle infermiere accorse in punta di piedi, uno spettacolo profondamente pietoso e inaspettato si svolse.

La donna che giaceva sul letto, coi capelli grigiastri scompigliati sul guanciale, coi lineamenti rilassati in atto d'indifferenza e d'incoscienza profonda, balzava a sedere; i suoi occhi smisuratamente si aprivano per abbracciare d'un colpo le forme incerte della sua creatura, e un grido rauco, più selvaggio che umano, usciva dalla sua bocca.

Poi le sue braccia si tendevano verso la creatura, e le labbra, inutilmente cercando un nome, una parola, per chiamarla, balbettavano disperatamente e tremavano.

La Superiora non avanzava; teneva sempre la bimba sollevata in alto verso la madre.

— Non le farai del male?...