Filocolo (Magheri, 1829)/Libro II
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FILOCOPO
di
GIOVANNI BOCCACCIO
LIBRO SECONDO
Adunque incominciarono con dilettevole studio i giovani, ancora ne’ primi anni puerili, a imprendere gli amorosi versi: nelle quali voci sentendosi la santa Dea, madre del volante fanciullo, nominare con tanto affetto, non poco negli alti regni con gli altri Iddii se ne gloriava. Ma non sofferse lungamente che invano fossero ne’ giovani petti sapute così alte cose come i laudevoli versi narravano, ma involti i candidi membri in una violata porpora, circondata da chiara nuvoletta, discesa sopra l’alto monte Citereo, là dove il suo caro figliuolo trovò temperare nuove saette nelle sante acque, a cui ella con benigno aspetto cominciò così: o dolce figliuolo, non molto distante agli aguti omeri d’Appennino, nell’antica città Marmorina chiamata, secondo che io ho ne’ nostri alti regni sentito, ha due giovanetti quali effettuosamente studiando i versi che le tue forze insegnano acquistare, invocano con casti cuori il nostro nome, disiderando d’essere del numero de’ nostri suggetti. E certo il loro aspetto, pieno della nostra piacevolezza, molto più s’appresta a’ nostri servigi che a cultivare i freddi fuochi di Diana. Lascia dunque la presente opera, e intendi a maggiori cose, e solo il rimanente di questo giorno in mio servigio ti spoglia le leggieri ali. E come già nella non compiuta Cartagine prendesti forma del giovane Ascanio, così ora ti vesti del senile aspetto del vecchio re, padre di Florio; e quando se’ là ove essi sono, sì come egli quando va a loro gli abbraccia e bacia costretto da pura benivolenza, così tu, abbracciandoli e baciandoli, metti in loro il tuo segreto fuoco, e infiamma sì l’un dell’altro, che mai il tuo nome de’ loro cuori per alcuno accidente non se ne spenga. E io in alcuno atto occuperò sì il re, che la tua mentita forma per sua venuta non si manifesterà.
Mossesi Amore a’ prieghi della santa madre, poi che spogliate s’ebbe le lievi penne; e pervenuto al dimandato luogo, vestitosi la falsa forma, entrò sotto i reali tetti, passando con lento passo nella segreta camera, ove egli Florio e Biancifiore trovò soletti puerilmente giuocare insieme. Essi si levarono verso lui come fare soleano, e egli primieramente preso Florio, il si recò nel santo seno, e porgendoli amorosi baci, segretamente gli accese nel cuore un nuovo disio: il quale Florio poi, guardando ne’ lucenti occhi di Biancifiore con diletto, il vi fermò. Ma poi Cupido, presa Biancifiore, e spirandole nel viso con piccolo fiato, l’accese non meno che Florio avesse davanti acceso: e dimorato alquanto con loro, rivolti i passi indietro li lasciò stare, e rivestendosi le lasciate penne, tornò al lasciato lavoro. E i giovani, rimasi pieni di nuovo disio, riguardandosi, si cominciarono a maravigliare stando muti. E da quell’ora in avanti la maggior parte del loro studio era solamente in riguardar l’un l’altro con temorosi atti; nè mai l’un dall’altro, per alcuno accidente che avvenisse, partir si volea, tanto il segreto veleno adoperò in loro subitamente.
Sì tosto come Amore dalla sua madre fu partito, così ella nella lucida nuvoletta fendendo l’aere pervenne a’ medesimi tetti, e, tacitamente preso il vecchio re, il portò in una camera sopra un ricco letto, dove d’un soave sonno l’occupò. Nel qual sonno il re vide una mirabile visione: che a lui pareva esser sopra un alto monte e quivi avere presa una cerbia bianchissima e bella, la quale a lui molto parea avere cara; la quale tenendola nelle sue braccia, gli pareva che del suo corpo uscisse un leoncello presto e visto, il quale egli insieme con questa cerbia sanza alcuna rissa nutricava per alcuno spazio. Ma, stando alquanto, vedeva discender giù dal cielo uno spirito di graziosa luce risplendente, il quale apriva con le propie mani il leoncello nel petto; e quindi traeva una cosa ardente, la quale la cerbia disiderosamente mangiava. E poi gli pareva che questo spirito facesse alla cerbia il simigliante; e fatto questo si partiva. Appresso questo, egli temendo non il leoncello volesse mangiar la cerbia, la lontanava da sè: e di ciò pareva che l’uno e l’altro si dolesse. Ma, poco stante, apparve sopra la montagna un lupo, il quale con ardente fame correva sopra la cerbia per distruggerla, e il re gliele parava davanti; ma il leoncello correndo subitamente tornò alla difesa della cerbia, e co’ propii unghioni quivi dilacerò sì fattamente il lupo, che egli il privò di vita, lasciando la paurosa cerbia a lui che dolente gliele pareva ripigliare, tornandosi all’usato luogo. Ma non dopo molto spazio gli parea vedere uscir de’ vicini mari due girfalchi, i quali portavano a’ piè sonagli lucentissimi sanza suono, i quali egli allettava; e venuti ad esso, levava loro da’ piedi i detti sonagli, e dava loro la cerbia cacciandogli da sè. E questi, presa la cerbia, la legavano con una catena d’oro, e tiravansela dietro su per le salate onde infino in Oriente: e quivi ad un grandissimo veltro così legata la lasciavano. Ma poi, sappiendo questo, il leoncello mugghiando la ricercava; e presi alquanti animali, seguitando le pedate della cerbia, n’andavano là ove ella era; e quivi gli parea che il leoncello, occultamente dal cane, si congiungesse con la cerbia amorosamente. Ma poi avedendosi il veltro di questo, l’uno e l’altro parea che divorar volesse co’ propii denti. E subitamente cadutagli la rabbia, loro rimandava là onde partiti s’erano. Ma inanzi che al monte tornassero, gli parea che essi si tuffassero in una chiara fontana, della quale il leoncello uscendone, pareva mutato in figura di nobilissimo e bel giovane, e la cerbia simigliantemente d’una bella giovine: e poi a lui tornando, lietamente li ricevea; e era tanta la letizia la quale egli con loro facea che il cuore, da troppa passione occupato, ruppe il soave sonno. E stupefatto delle vedute cose si levò, molto maravigliandosi, e lungamente pensò sopra esse; ma poi non curandosene, venne alla reale sala del suo palagio in quell’ ora che Amore s’era da’ suoi nuovi suggetti partito.
Taciti e soli lasciò Amore i due novelli amanti, i quali riguardando l’un l’altro fiso, Florio primieramente chiuse il libro, e disse: Deh, che nuova bellezza t’è egli cresciuta, o Biancifiore da poco in qua, che tu mi piaci tanto? Tu non mi solevi tanto piacere; ma ora gli occhi miei non possono saziarsi di riguardarti! -. Biancifiore rispose: Io non so, se non che di te poss’io dire che in me sia avvenuto il simigliante. Credo che la virtù de’ santi versi, che noi divotamente leggiamo, abbia accese le nostre menti di nuovo fuoco, e adoperato in noi quello già veggiamo che in altrui adoperarono -. - Veramente - disse Florio - io credo che come tu di’ sia, però che tu sola sopra tutte le cose del mondo mi piaci -. - Certo tu non piaci meno a me che io a te - rispose Biancifiore. E così stando in questi ragionamenti co’ libri serrati avanti, Racheio, che per dare a’ cari scolari dottrina andava, giunse nella camera e loro gravemente riprendendo, cominciò a dire: Questa che novità è, che io veggio i vostri libri davanti a voi chiusi? Ov’è fuggita la sollecitudine del vostro studio? -. Florio e Biancifiore, tornati i candidi visi come vermiglie rose per vergogna della non usata riprensione, apersero i libri; ma gli occhi loro più disiderosi dell’effetto che della cagione, torti, si volgeano verso le disiate bellezze, e la loro lingua, che apertamente narrare solea i mostrati versi, balbuziendo andava errando. Ma Racheio, pieno di sottile avvedimento, veggendo i loro atti, incontanente conobbe il nuovo fuoco acceso ne’ loro cuori, la qual cosa assai gli dispiacque; ma più ferma esperienza della verità volle vedere, prima che alcuna parola ne movesse ad alcuno altro, sovente sè celando in quelle parti nelle quali egli potesse lor vedere sanza essere da essi veduto. E manifestamente conoscea, come da loro partitosi, incontanente chiusi i libri, abbracciandosi si porgeano semplici baci, ma più avanti non procedeano, però che la novella età, in che erano, non conoscea i nascosi diletti. E già il venereo fuoco gli avea sì accesi, che tardi la freddezza di Diana li avrebbe potuti rattiepidare.
Poi che più volte Racheio gli ebbe veduti nella soprascritta maniera, e alcuna volta gravemente ripresigliene, egli tra se medesimo disse: "Certo questa opera potrebbe tanto andare avanti, sotto questo tacere ch’io fo, che pervenendo poi alle orecchi del mio signore, forse mi nocerebbe l’aver taciuto. Io manifestamente conosco ne’ sembianti e negli atti di costoro la fiamma di che elli hanno acceso i cuori: dunque perchè non gli lascio io ardere sotto altrui protezione, che sotto la mia? Io pur ho infino a qui fatto l’uficio mio, riprendendoli più volte, nè m’è giovato: e però per mio scarico è il meglio dirlo al re". E così ragionando Racheio, Ascalion sopravenne: il quale, in molte cose peritissimo, quando lo studio rincrescea loro, mostrava loro diversi giuochi, e tal volta cantando con essi si sollazzava, avendo già ciascuno da lui medesimo appresa l’arte del sonare diversi strumenti; e trovò Racheio pensando, a cui e’ disse: Amico, qual pensiero sì ti grava la fronte, che occupato in esso, altro che rimirare la terra non fai? -. A cui Racheio narrando il suo pensiero rispose. Quando Ascalion intese questo, niente gli piacque, ma disse: Andiamo, e sanza alcuno indugio il narriamo al re, acciò che se altro che bene n’avvenisse, noi non possiamo essere ripresi -. E dette queste parole, voltati i passi, amenduni n’andarono nella presenza del re; al quale Ascalion parlò così:
- Nella vostra presenza, o vittoriosissimo prencipe, ci presenta espressa necessità a narrarvi cose le quali, se esser potesse suto, disiderato avremmo molto che dicendole altri, agli orecchi vostri fossero pervenute. Ma però che noi, disiderosi del vostro onore, non volendo anche il nostro contaminare, conosciamo che da tenere occulte non sono, e massimamente a voi, onde acciò che il futuro danno, che seguire ne potrebbe di ciò che vi diremo, non sia a noi noia nè mancamento de’ vostri onori, vi facciamo manifesto che novello amore è generato ne’ semplici cuori del vostro caro figliuolo Florio e di Biancifiore. E questo nelli loro atti più volte abbiamo conosciuto, sì come l’iddii sanno: essi più volte effettuosamente abbracciarsi e darsi graziosi baci abbiamo veduti, e appresso sovente, guardandosi nel viso, l’un l’altro gittare sospiri accesi di gran disio. E ancora più manifesto segnale n’appare, il quale voi assai tosto potete provare, che niuna cosa è che l’uno sanza l’altro voglia fare, nè li possiamo in alcuna maniera partire, e hanno del tutto il loro studio abandonato: anzi, così tosto come noi della loro presenza siamo partiti, così incontanente chiusi i libri intendono a riguardarsi; e di ciò, come dell’altre cose, gravemente più volte ripresi gli abbiamo, credendo poterli da ciò ritrarre, ma poco giova la nostra riprensione. E però, acciò che noi per ben servire mal guiderdone non riceviamo, e acciò che subito rimedio ci sia da voi preso, v’abbiamo voluto questo palesare. Voi, sì come savio, anzi che più s’accenda il fuoco, providamente pensate di stutarlo, chè, quanto a noi, il nostro potere ci abbiamo adoperato -.
Niente piacquero al re l’ascoltate parole; ma celando il suo dolore con falso riso, rispose: Però non cessi il vostro con riprensione gastigarli e con ispaventevoli minacce impaurirli. Essi ancora per la loro giovane età sono da potere essere ritratti da ciò che l’uomo vuole; e io, quando per voi dell’incominciata follia rimaner non si volessono, prenderò in questo mezzo altro compenso, acciò che il vostro onore per vile cagione non diventi minore -. E detto questo, con l’animo turbato si partì da loro, e entrossene in una camera; e quivi da sè cacciando ogni compagnia, solo a sedere si pose, e, con la mano alla mascella, cominciò a pensare e a rivolversi per la mente quanti e quali accidenti pericolosi poteano avvenire del nuovo innamoramento; e di tale infortunio tra se medesimo cominciò a dolersi. E mentre in tal pensiero il re dimorava occupato, la reina, passando per quella camera, sopravenendo il vide, e con non poca maraviglia, fermata nel suo cospetto, gli disse: O valoroso signore, quale accidente o qual pensiero occupa sì l’animo vostro, che io, pensando, nell’aspetto vi veggo turbato? Non vi spiaccia che io il sappia, però che niuna felicità nè avversità ancora dovete sanza me sostenere: se voi ’l mi dite, forse o consiglio o conforto vi porgerò -. Rispose il re allora con voce mescolata di sospiri, e disse: E’ mi piace bene che a voi non sia la mia malinconia celata, la cagione della quale è questa: con ciò sia cosa che la fortuna infino a questo tempo ci abbia con la sua destra tirati nell’auge della sua volubile rota, accrescendo il numero de’ nostri vittoriosi triunfi, ampliando il nostro regno, multiplicando le nostre ricchezze e concedendone, insieme con gli altri iddii, cara progenie, a cui la nostra corona è riserbata, ora pensando dubito che ella, pentuta di queste cose, non s’ingegni con la sua sinistra d’avvallarci. E gl’iddii credo che ciò consentono; e la maniera è questa: niuna allegrezza fu mai maggiore a noi, che quella quando il nostro unico figliuolo dagl’iddii lungamente pregati ricevemmo; e sapete che ne’ nostri regni nella sua natività niuno altare fu sanza divoto fuoco e sanza incensi, nè niuno iddio fu che con divota voce non fosse per le nostre città ringraziato. Ora, conoscendo la fortuna quanto questo figliuolo ne sia caro per le rendute grazie, per porre noi in maggior doglia e tristizia, in vile modo s’ingegna di privarcene, minuendo i nostri onori, essendo egli in vita, dandoci manifesto essemplo che, poi che alla più cara cosa comincia, discenderà sanza fallo all’altre minori: e udite come ella s’è ingegnata di levarci Florio. Essa ha tanto il giovane figliuolo di Citerea, non meno mobile di lei, con lusinghe mosso, che egli, entrato nel giovane petto di Florio, l’ha sì infiammato della bellezza di Biancifiore, che Paris di quella di Elena non arse più; e non vede più avanti che Biancifiore, secondo che i loro maestri m’hanno detto poco avanti. E certo io non mi dolgo che egli ami, ma duolmi di colei cui egli ama, perchè alla sua nobiltà è dispari. Se una giovane di real sangue fosse da lui amata, certo tosto per matrimonio gliele giugneremmo; ma che è a pensare che egli sia innamorato d’una romana popolaresca femina, non conosciuta e nutricata nelle nostre case come una serva? Ora adunque che cercherete voi più avanti della mia malinconia? Non è questa gran cagione di dolersi, pensando che un sì fatto giovane, il quale ancora dee sotto il suo imperio governare questi regni, sia per una feminella perduto? Certo io non avria avuta alcuna malinconia se gl’iddii l’avessero al loro servigio chiamato nella sua puerizia, come Ganimede fecero. E certo la morte di Gilo non fu da Xenofonte suo padre sostenuta con sì forte animo, com’io avrei fatto o farei, se gl’iddii avessero consentito ch’io avessi per simile caso perduto Florio che Xenofonte perdè Gilo. Nè Anassagora ancora ebbe cagione di piagnere, però che saviamente aspettava cosa naturale del suo figliuolo, come io medesimo quello accidente sanza lagrime aspetterei. Ma pensando che per vile avvenimento, vivendo il mio figliuolo, io il posso più che morto chiamare, il dolore che quinci mi nasce mi trasporta quasi infino agli ultimi termini della vita. Nè so che di questo io mi faccia, chè io dubito che, se io di tal fallo il riprendo, o m’ingegno con asprezza di ritrarlo da questa cosa, che io non ve lo accenda più suso, o forse egli del tutto non m’abandoni e vada vagabundo per gli strani regni, fuggendo le mie riprensioni: e così avremmo sanza alcuno utile accresciuto il danno. E d’altra parte se io taccio questa cosa, il fuoco ognora più s’accenderà, e così mai da lei partire nol potremo -.
Molto fu la reina di quelle parole dolente, e quasi lagrimando ne ’l dimostrò; ma, dopo poco spazio, con pietoso aspetto disse: Caro signore, non è per questo accidente da disperarsi, nè degl’iddii nè della fortuna, però che non è mirabile cosa se Florio s’è della bellezza della vaga giovane inamorato, con ciò sia cosa che egli sia giovanissimo e continuamente con lei dimori, e ella sia bellissima giovane e piacevole. E non è dubbio che, se questo amore s’avanzasse, come voi dite che egli è cominciato, che noi potremmo dire che ’l nostro figliuolo fosse vivendo perduto, pensando alla piccola condizione di Biancifiore. Ma quando le piaghe sono recenti e fresche, allora si sanano con più agevolezza che le vecchie già putrefatte non fanno. Secondo le vostre parole, questo amore è molto novello, e sanza dubbio egli non può essere altramente e simigliantemente gli amanti novelli sono, nè mai altro fuoco non li scaldò; e però questo fia lieve a spegnere seguendo il parer mio, nè niuna più legger via ci è che dividere l’uno dall’altro; la qual cosa in questa maniera si può fare. Florio, già ne’ santi studii dirozzato, è da mettere a più sottili cose; e voi sapete che noi abbiamo qui vicino Ferramonte, duca di Montoro, a noi per consaguinità congiuntissimo, e in niuna parte del nostro regno più solenne studio si fa che a Montoro. Noi possiamo sotto spezie di studio mandar Florio là a lui, e quivi faccendolo per alcuno spazio dimorare, gli potrà agevolemente della memoria uscir questa giovane, non vedendola egli. E come noi vedremo che egli alquanto dimenticata l’aggia, allora noi gli potremo dare sposa di real sangue sanza alcuno indugio, e così potremo essere agevolmente fuori di cotale dubbio. E già però esso non ci sarà tanto lontano, che noi nol possiamo ben sovente vedere. Ond’io, caro signore, vi priego che questa malinconia cacciate da voi prendendo sanza indugio questo rimedio -.
Piacque al re il consiglio della reina, il quale giovare non dovea ma nuocere, però che quanto più si strigne, il fuoco con più forza cuoce; e poi ch’egli sopra ciò ebbe lungamente pensato, le rispose che ciò farebbe, però che altra via a tal pericolo fuggire non vedea. Ma, oh quanto fu tale imaginazione vana, con ciò sia cosa che durissimo sia resistere alle forze de’ superiori corpi, avvegna che possibile! Venus era nell’auge del suo epiciclo, e nella sommità del differente nel celestiale Toro, non molto lontana al sole, quando ella fu donna, sanza alcuna resistenza d’opposizione o d’aspetto o di congiunzione corporale o per orbe d’altro pianeto, dello ascendente della loro natività; il saturnino cielo, non che gli altri, pioveva amore il giorno che elli nacquero. Oimè, che mai acqua lontana non spense vicino fuoco! Ove credea il re potere mandar Florio sanza la sua Biancifiore, con ciò fosse cosa che ella era continuamente nel suo animo figurata con più bellezza che il vero viso non possedea, e quello che prende e lascia amore era sempre con Biancifiore? I corpi si doveano allontanare, ma le menti con più sollecitudine si doveano far vicine. Niuna cosa è più disiderata che quella che è impossibile, o molto malagevole, ad avere. Per quale altra cagione diventò il gelso vermiglio, se non per l’ardente fiamma costretta, la quale prese più forza ne’ due amanti costretti di non vedersi? Chi fece Biblide divenir fontana se non il sentirsi esser negato il suo disio? Ella fu femina mentre ella ne stette in forse con isperanza. O re, tu credi apparecchiare fredde acque all’ardente fuoco, e tu v’aggiugni legne. Tu t’apparecchi di dare non conosciuti pensieri a’ due amanti sanza alcuna utilità di te o di loro, e affrettiti di pervenire a quel punto il quale tu con disio ti credi più fuggire. Oh quanto più saviamente adoperresti lasciandoli semplicemente vivere nelle semplici fiamme, che voler loro a forza fare sentire quanto sieno amari o dilettevoli i sospiri che da amoroso martiro procedono! Elli amano ora tacitamente. Nè niuno disidera più avanti che solo il viso, il quale per forza conviene che per troppa copia, se stare gli lascia, rincresca, però che delle cose di che l’uomo abondevole si truova fastidiano. Ma che si può qui più dire, se non che il benigno aspetto, col quale la somma benivolenza riguarda la necessità degli abandonati, non volle che il nobile sangue, del quale Biancifiore era discesa, sotto nome d’amica divenisse vile, ma acciò che con matrimoniale nodo il suo onore si servasse, consentì che le pensate cose sanza indugio si mettessero in effetto?
Diede il giorno luogo alla sopravegnente notte, e le stelle mostrarono la lor luce, ma poi che Febo co’ tiepidi raggi recò nuovo splendore, il re fece a sè chiamare Florio, e con lieto viso ricevuto il suo saluto, a sè l’accolse, e così gli disse: Bello figliuolo, a me sopra tutte cose caro, ascoltino le tue orecchi pazientemente le mie parole; e i miei comandamenti, i quali da te debitamente deono essere osservati, per te sieno messi ad effetto. Con ciò sia cosa che niuna speranza rimasa fosse alla mia lunga età di gloria, agl’iddii piacque di donarmi te, in cui la mia speme, sanza fallo già secca, ritornò verde, e dissi: "Omai la fama del nostro antico sangue non perirà, poi che gl’iddii ci hanno conceduto degna erede"; e sopra te tutto il mio intendimento fermai, sì come sopra unico bastone della mia vecchiezza. E volendo che l’alto uficio a che gl’iddii t’hanno apparecchiato, sì come è a ornare la tua fronte di splendida corona degli occidentali regni, non patisse difetto di savio duca, ancora che io nella tua effigie conoscessi che valoroso uomo dovevi per natura pervenire, nondimeno con essaminato animo imaginai che per le accidentali scienze molto t’avanzeresti. E dalla imaginazione nel dovuto tempo venni all’effetto; e infino a questo giorno, così come la tua età è stata per la gioventudine deboletta a sostenere, così con picciole scienze t’ho fatto nutricare. Ora che in più ferma età se’ pervenuto, disidero che tu a più alti studii disponghi il tuo intelletto, e massimamente a’ santi principii di Pittagora, de’ quali venendo con l’aiuto de’ nostri iddii a perfezione, sì come io estimo, ti seguirà grandissimo onore, con ciò sia cosa che la scienza in niuna maniera di gente tanto sia lucida e risplendente quanto ne’ prencipi. E ciò puoi tu per te medesimo considerare, ricordandoti quanta fosse eccellente la fama del gran re Salamone, ancora che giudeo e lontano dalla nostra setta fosse. E per imprendere questa scienza, certo a te non converrà andare cercando Elicona, nè i solleciti studii d’Attene, nè alcuno altro lontano paese, però che qui a noi molto vicina è una città chiamata Montoro, dotata di molti diletti, la quale per noi il valoroso duca Ferramonte governa, a noi congiuntissimo parente, non molto men giovane di te, il quale continua compagnia ti sarà. Quivi con ordinato stile si leggono le sante scienze; quivi, secondo che io estimo, tu potrai in picciolo termine divenire valoroso giovane: per la qual cosa io voglio che sanza indugio vi vada. Nè ciò ti dee parer grave, considerando principalmente che tu vai a divenire valoroso uomo, per la qual cosa acquistare niuno affanno nè sconcio se ne dee rifiutare: appresso, tu non sarai però da noi diviso, però che ci se’ per picciolo spazio vicino, e sovente potremo noi venire a veder te e tu noi sanza sconcio dello studio: il quale noi non intendiamo che tu prenda in maniera che niuno tuo diletto se ne sconci dall’altra parte, tu sarai con persona che sanza fine t’ama e che disidera molto di vederti, cioè il duca. E però ora che il tempo è molto più atto allo studio che al sollazzo, però che sì come già vedi signoreggiare le stelle Pliade e la terra rivestire di bianco molto sovente avendo perduto il verde colore, prendi quella compagnia che più ti diletta, e vavvi -.
Florio, udendo queste parole, in se medesimo si turbò molto, però che nemiche le sentia al suo disio, e lasciando parlare il padre, lungamente guardando la terra, mutolo sanza niente rispondere stette, e dimandatagli più volte dal padre risposta, dopo il trarre d’un grandissimo sospiro, disse così: A me, o reverendissimo padre, è occulta la cagione per che da voi sì giovane e con tanta fretta dividere mi volete, essendo voi pieno d’età, com’io vi veggo. Voi disiderate che io per studio divenga in scienza valoroso, la qual cosa non è meno da me disiderata. Ma qual dovuto pensiero vi mostra che io debba meglio, da voi lontano, studiare, che nella vostra presenza? Non imaginate voi che io lontano da voi continuamente sarò pieno di varie sollecitudini? Io non ispesso, ma quasi continuo crederò che sconcio accidente occupi con infermità la vostra persona, o dubiterò che voi di me non dubitiate. E ancora mi si volgeranno dubbii per la mente che la vostra vita, a me molto da tener cara, non sia con insidie appostata dagli occulti nemici per la mia assenza. Queste cose non sono impossibili ad essere ogni ora del giorno pensate da me, però che io non fui generato dalle querce del monte Appennino, nè dalle dure grotte di Peloro, nè dalle fiere tigre, ma da voi, cui io amo più che niuna altra cosa: e di quelle cose che sono amate si dee dubitare. E andandomi queste sollecitudini per lo petto, qual parte di scienza vi potrà mai entrare? E ancora manifestamente veggiamo che a niuna persona i futuri casi sono palesi. Chi sa se gl’iddii, non essendo io con voi, vi chiamassero subitamente a’ loro regni? la qual cosa sia lontana per molto tempo da noi; ma se pure avvenisse, chi vi chiuderebbe con più pietosa mano gli occhi nell’ultima ora gravati, che farei io? La qual cosa, se io vi sono lontano, come la farò? E se a me lontano da voi questo accidente avvenisse, che ’l veggiamo sovente avvenire, chè più tosto si secca il giovane rampollo che il vecchio ramo, chi porterebbe a’ miei fuochi l’acceso tizzone? Certo strana mano, e non la vostra. Adunque guardate a quello che voi avete pensato, e vedete ancora s’è convenevole cosa che io, unico figliuolo di così fatto re come voi siete, vada studiando per lo mondo attorno. E però più utile e migliore consiglio mi pare il fare qui da Montoro o d’altra parte ove più sofficienti fossero, venire maestri in quella scienza la quale più v’aggrada che io appari, e qui in vostra presenza, di miglior cuore, cessando ogni dubbio, apprenderò e con più diletto studierò, vedendovi continuamente in prosperevole stato -.
Quando il re udì la risposta di Florio, ben conobbe il suo volere occulto, e che le scuse da lui porte, non da pietà che di lui padre avesse, ma sola la forza d’amore che a Biancifiore lo stringea li facea questo dire; onde egli così gli disse: Figliuolo, siano di lungi da noi gli avversi casi, i quali tu ora in forse mettevi futuri, però che se pure avvenissero, tanto ne sarai vicino, che ben potrai al pietoso uficio esser chiamato. Ma tu sanza dovere ti ramarichi, ponendolo in non convenevole cosa, che un figliuolo di tal re, quale tu se’, vada per le strane scuole studiando. Or ove ti mando io? Se tu riguardi bene, tu vai in casa tua e nella tua città e nel tuo regno a dimorare. E se non fosse che ’l troppo amore de’ padri verso i figliuoli li fa le più volte pigri alle virtù certo io m’atterrei al tuo consiglio di farti appresso di me studiare; ma acciò che niuno atto di pigrizia dal grande amore ch’io ti porto ti succedesse, mi fo io alquanto contra me medesimo rigido, dilungandoti un poco da me. E certo tu il dei aver caro, però che la tua età richiede più tosto affanno che agio: il sole, poi che Lucina chiamata dalla tua madre mi ti donò, è quattordici volte ad un medesimo punto ritornato nelle braccia di Castore e di Polluce, e è entrato nel cammino usato per compiere la quintadecima, e è già al terzo della via, o più avanti. Deh, se tu rifiuti, e dubiti d’andar così vicino a noi, come poss’io presumere che tu, per divenire valoroso, se accidente avvenisse, prendessi sopra te un grave affanno? Caro figliuolo, e’ non si disdice a’ giovani disiderosi di pervenire valorosi prencipi l’andare veggendo i costumi delle varie nazioni del mondo. Già sappiamo noi che Androgeo, giovane quasi nella tua età, solo figliuolo maschio di Minòs, re della copiosa isola di Creti, andò agli studii d’Attene, lasciando il padre pieno d’età forse più ch’io non sono, perchè in Creti non era studio sofficiente al suo valoroso intendimento. E Giansone, più disposto all’armi che a’ filosofichi studii, con nuova nave prima tentò i pericoli del mare per andare all’isola de’ Colchi a conquistare il Montone con la cara lana, e con esso etterna fama, perchè ne’ suoi paesi non potea mostrare la sua virtuosa forza, e giovanissimo abandonò i vecchi padre e ziano sanza alcuna erede: l’onore del mondo nè i celestiali regni non s’acquistano sanza affanno. Io conosco manifestamente che effettuoso amore ti strigne a essere sempre meco, e niuna altra cagione ti fa scusare l’andata; ma l’andare a Montoro non sarà allontanarsi da me. Onde, caro figliuolo, va, e sì sollecitamente con acconcio modo studia, che tu possi a me in brieve tempo sanza più avere a studiare ricongiugnerti valoroso giovane -.
Allora Florio, non potendosi quasi più celare, però che ira e amore dentro l’ardeano, rispose: Caro padre, nè Androgeo nè Giansone non seguirono l’uno lo studio e l’altro l’armi, se non per averne il glorioso fine disiderato da loro: e questo è manifesto. E veramente a me non sarebbe grave il provare le tempestose onde del mare, nè i pericoli della terra, andando molto più lontano da voi, in qualunque parte del mondo, che niuno di loro fece, credendovi io trovare la cosa da me disiata a quietare la mia volontà. Ma che andrò io adunque cercando per lo mondo? Quel ch’io amo e quel ch’io disidero è meco; voglio io andare perdendomi, e non sapere in che? Voletemi voi fare usare il contrario degli altri uomini che affannando vanno? Niuno è che affannando vada, se non a fine d’avere alcuna volta riposo: e io, partendomi di qui, fuggirò il riposo per affannare! Io non posso fare che io non mi vi scuopra: egli è qui nella nostra reale casa la nobile Biancifiore, la quale io sopra tutte le cose del mondo amo; e certo non sanza cagione: ella è l’ultimo fine de’ miei disii, e solamente vedere il suo bel viso, il quale più che matutina stella risplende, è quello che io disidero di studiare. Onde io caramente vi priego che voi della mia vita aggiate pietà sì come padre di figliuolo, la quale sanza fallo, dividendomi io da Biancifiore, si dividerà da me. E acciò che ’l tempo in lungo sermone non si occupi, vi dico che sanza lei io non sono disposto ad andare in alcuna parte del mondo, nè vicina nè lontana di qui. Se lei volete mandar meco, mandatemi ove volete, chè tutto mi parrà leggiero e grazioso l’andare. E dell’amore ch’io porto a costei vi dovete voi molto contentare, pensando che Amore abbia tanto bene per noi proveduto, che egli non ha consentito che io disiando donna lontana da’ nostri regni faccia come già fece Perseo, il quale tra li neri indiani scelse Andromeda, e similemente Paris degli altrui regni ne portò Elena insieme col fuoco che arse poi i suoi regni; e cercando lei abandoni voi vecchio. Adunque da poi che Amore in un regno, in una città e in una medesima casa m’ha conceduto dilettoso piacere, di sì grazioso dono gli siamo noi molto tenuti. E poi che così è, io vi priego che vi piaccia che graziosamente e sanza affanno voi mi lasciate questo singular bene possedere -.
Sì tosto come Florio tacque, il re, che non meno cruccioso era di lui, ben che nel sembiante allegro si mostrasse, alquanto turbato così gli rispose: Ahi, caro figliuolo, che è quello che tu di’? Io non avrei mai creduto che sì vile cagione ti ritenesse da volere andare a pervenire a così alti effetti come lo studiare nelle filosofiche scienze reca altrui. Sola pietà di me vecchio credea ti ritenesse: ora hatti già tanto insegnato Amore, che sotto spezie di verità porgi inganno a me, tuo padre? Hai tu questo appreso nel lungo studio che io sotto la correzione di Racheio t’ho fatto fare? Oimè, che ora pur conosco io manifestamente quello a che il tuo poco senno ti tira! e ben conosco che la verità da’ tuoi maestri mi fu porta poi che così parli; e sanza fine di te mi maraviglio, il quale mi vuoi dare a vedere che quello di che tu e io più ci dovremmo dolere, ne dovremo far festa e ringraziare Amore; e non pensi quanta sia la viltà, la quale ha il tuo animo occupato in disporti ad amare così fatta femina, come tu ami; della qual cosa doppiamente se’ da riprendere e principalmente d’aver avuta sì poca costanza in te, che a sì vile passione, com’è amare una femina oltre misura, hai lasciato vincere il tuo virile animo, non ponendo mente quanti e quali sieno i pericoli che da questo amare sieno già proceduti e procedano. Non udisti tu mai dire come miserabilmente Narcisso per amore si consumò, e con quanta afflizione Biblide per amore divenne fontana? E ancora gl’iddii sostennero noia di tal passione, e massimamente Apollo, il quale, di tutte cose grandissimo medico, a sè medicina non potè porgere, poi che ferire s’ebbe lasciato, forse non per viltà ma per provare; e in brieve, niuno non è a cui questo amore non dissecchi le medolle dell’ossa. E tu con disiderio il vai seguendo! Ma ancora di tutto questo, tenendo lo stile della più gente, ti potresti scusare; ma non consideri tu di cui tu ti sei innamorato, e per cui tu così faticosa passione sostieni? e ciò è d’una serva nata nelle nostre case, la quale a comparazione di te non ti si confarebbe in niuno atto. Deh! or ti fossi tu d’una valorosa e gran donna simile alla tua nobiltà innamorato! assai mi dorrebbe, ma ancora mi sarebbe alcuna consolazione. Io non ti potrei mai tanto sopra questo dire quanto io disidero; ma però ch’io so che ancora in te medesimo, sanza riprensione alcuna, ti riconoscerai del tuo errore, e rimarra’tene, mi taccio. E se io credessi che ciò non avvenisse, certo legger cosa mi sarebbe ora io medesimo ucciderti. Ma acciò che tu seguiti lo studio, io in questa parte, ancora che io conosca che manifesto biasimo ti sia menarti dietro per le strane scuole quella che tu sconciamente ami, ne seguirò il tuo volere; e sì tosto come tua madre, la quale alquanto non sana è stata, come tu puoi vedere, avrà intera sanità ricuperata, io la ti manderò a Montoro; e ora teco la ne manderei, se non fosse che sanza lei tua madre in cotale atto non vuol rimanere -.
Turbossi alquanto Florio veggendo il padre turbato, ma non pertanto quasi lagrimando così li rispose: Padre mio, sì come voi sapete, nè il sommo Giove nè il risplendente Apollo, da voi ora davanti ricordato, nè alcuno altro iddio ebbe all’amorevole passione resistenza; nè tra’ nostri predecessori fu alcuno tanto di virile forza armato, nè sì crudo, che da simile passione non fosse oppresso. Adunque, se io giovinetto contra così generale cosa non ho potuto resistere, certo non ne sono io sì gravosamente da riprendere, come voi fate, ma emmi da rimettere, pensando che il mio spirito è stato sì volgare, che per rigidezza non ha rifiutato quello che ciascuno altro gentile ha sostenuto. E la mia forma la quale mercè degl’iddii è bellissima, richiede tale uficio, più tosto che alcuno altro. E che si potrà giustamente dire a me s’io amo, poi che ad Ercule e ad Aiace uomini robusti non si disdisse? Appresso dite che gravoso vi sembra pensando la qualità della femina che io amo però che popolaresca e serva la riputate, e voi credo che in parte ignoriate di qual sangue questa giovane, cui io amo, sia discesa, sì come quegli che ingiustamente il suo padre valoroso, resistente con picciola schiera alla vostra moltitudine di gente, uccideste, il quale forse non fu di minor qualità che voi siate, pensando alla grandezza di tanto animo quanto nella sua fine mostrò. E ancora che certamente noi nol sappiamo, noi pure avemo udito che la madre di costei, la quale voi non serva prendeste, discese dell’alto sangue del vittorioso Cesare, già conquistatore de’ nostri regni per adietro. E posto che manifestamente la nazione di questa giovane esser vile si conoscesse, sì conosciamo noi lei esser tanto gentile o più, quanto se d’imperiale progenie nata fosse, se riguardiamo con debito stile che cosa gentilezza sia, la quale troveremo ch’è sola virtù d’animo. E qualunque è quelli che con animo virtuoso si truova quelli debitamente si può e dee dire gentile. E in cui si vide già mai tanta virtù, quanta in costei si truova e vede manifestamente? Ella è di tutte generalmente vera fontana. In lei pare la prudentissima evidenzia della cumana Sibilla ritornata; nè fu la casta Penolope più temperata di costei, nè Catone, più forte negli avversarii casi, nè con più equalità d’animo: liberalissima la veggiamo. La grazia della sua lingua si potrebbe adeguare alla dolcissima eloquenzia dell’antico Cicerone. A cui mai tanta grazia concessero gl’iddii? Questa è sommamente virtuosa: adunque sanza comparazione gentile. Non fanno le vili ricchezze, nè gli antichi regni, forse come voi, essendo in uno errore con molti, estimate, gli uomini gentili nè degni posseditori de’ grandi uficii: ma solamente quelle virtù che costei tutte in sè racchiude. Deh, or come mi potea o potrebbe già mai Amore di più nobil cosa fare grazia? Questa ha in sè una singular bellezza, la quale passa quella che Venus tenea, quando ignuda si mostrò nelle profonde valli dell’antica selva chiamata Ida a Paris, la quale, ognora che io la veggio, m’accende nel cuore uno ardore virtuoso sì fatto, che s’io d’un vile ribaldo nato fossi, mi faria subitamente ritornare gentile. Nè niuna volta è che io i suoi lucentissimi occhi riguardi, che da me non fugga ogni vile intendimento, se alcuno n’avessi. Adunque, poi che questa a virtuosa vita mi muove, non che ella è gentile, come di sopra detto è, ma se ella fosse la più vil feminella del mondo, sì è ella da dovere essere amata da me sopra ogni altra cosa. Ma poi che tanto v’aggrada che io studii, acciò che riputato non mi possa essere in vizio il non ubidirvi, farollo volentieri; ma se mia vergogna vi sembra che costei per le strane scuole mi venga seguendo, levate la cagione acciò che non seguiti l’effetto: non vi mandate me, il quale sono presto d’andarvi, poi che a voi piace, e impromettetemi di mandarmi lei. Sieno del loro amore ripresi la trista Mirra e lo scelerato Tireo e la lussuriosa Semiramis, i quali sconciamente e disonestamente amarono, e me più non riprendete, se la mia vita v’aggrada -.
Non rispose più il re a Florio, però che sì gli vedeva gli argomenti presti, che volendo parlare con lui avrebbe di gran lunga perduto, ma lasciandolo solo, si partì da esso e comandò che s’acconciasse l’arnese, acciò che Florio la seguente mattina n’andasse a Montoro.
Alle parole state tra ’l re e Florio non era guari lontana la misera Biancifiore, ma, celata in alcuno luogo, con intentivo animo tutte l’avea notate, ascoltando quello ch’ella non avrebbe voluto udire nè che per altrui le fosse stato raportato. E bene avea con grave doglia intese le gravi riprensioni fatte a Florio per l’amore che a lei portava, e similmente udito avea vilmente dispregiarsi dal re, dicendo che serva era e di vile nazione discesa; ma di ciò la vera e buona difensione di Florio fatta in aiuto di lei, le rendè molto il perduto conforto. Ma quando ella dire udì a Florio: Poi che mandare mi dovete Biancifiore a Montoro, io v’andrò -, allora dolore intollerabile l’assalì, però che manifestamente conobbe lo iniquo intendimento del re il quale questo impromettea per più leggiermente poter Florio allontanare da lei; e cominciò con tacito pianto a lagrimare e a dire fra sè così: "Oimè, Florio, solo conforto dell’anima mia, a cui io tutta mi donai per mia salute quel giorno che tu prima mi piacesti, ora che credi tu? Alle cui parole t’hai tu lasciato ingannare! Or non vedevi tu che mi ti prometteva di mandarmiti, perchè tu consentissi, come tu hai fatto, all’andata? Egli non mi manderà mai ove tu sii. Deh, non conosci tu la falsità del tuo padre? Certo non che egli mandi me a te, ma egli non lascerà mai te venire dove io sia. Tu ti sei lasciato ingannare con meno arte che non lasciò Isifile: ella credette alle parole e agli atti, e alla fede promessa, e alle lagrime dello ingannatore; ma tu per la menoma di queste cose se’ stato ingannato, e hai detto di sì di quella cosa che laida ti sarebbe a tornare adietro; e non hai conosciuto che egli, non disideroso del tuo studio, ma di trarre me della tua memoria, t’allontana da me, acciò che per distanza tu mi dimentichi! Oimè, or dove abandoni tu, o Florio, la tua Biancifiore? Ove n’andrai tu con la mia vita? Oimè, misera! E io come sanza vita rimarrò? E se a me vita rimarrà, come sarà ella fatta trovandomi sanza esser teco continuamente e sanza vederti? O luce degli occhi miei, perchè ti fuggi tu da me? Oimè, quale speranza mi potrà mai di te riconfortare, che con la tua bocca hai consentita e impromessa la partita? O beata Adriana, che ingannata dal sonno e da Teseo, dopo poche lagrime meritò miglior marito! E più felice Fedra, che col suocero in nome d’amante finì il disiato cammino! Or mi fosse stata licita l’una di queste felicità: o l’essere stata da te con ingegno abandonata o d’averti potuto seguire. Oimè, se quello amore il quale tu m’hai più volte con piacevole viso mostrato è vero, perchè nel cospetto della crudeltà del tuo padre non piangevi tu, veggendo che i prieghi non valeano? E’ non ti si disdicea, chè ciascuno sa che alcuno non può dar legge all’amorevole atto, però che la forza d’amore tiene l’uomo, più che alcun altro vinco, costretto. Io credo che se le tue lagrime fossero state con prieghi mescolate egli avrebbe conceduto che tu fossi avanti qua rimaso che vedutoti più lagrimare, però che la pietà, che sarebbe stata da avere di te, avrebbe vinto e rimutato il suo nuovo proponimento: chè tutti i padri non hanno gli animi feroci contra i figliuoli come ebbe Bruto, primo romano consolo, il quale giustamente per la sua crudeltà fu da riprendere. Ma, oimè!, che se ’l tuo amore non è falso, tu dovevi sofferire aspri tormenti anzi che consentire di dovervi andare, o almeno, per consolazione di me misera, farviti quasi per forza menare. Nè in questo ti si disdicea l’essere al tuo padre disubidiente, però che, quando cosa impossibile si dimanda, è lecito il disdirla. Come ti sarà egli possibile il partirti sanza me, se le tue parole a me dette per adietro non sono quali furono quelle del falso Demofonte a Filis, il quale la promessa fede e le vele della sua nave diede ad un’ora a’ volanti venti? O come potrai tu in alcuna parte sanza cuore andare? Tu mi solevi dire ch’io l’avea nelle mie mani e che io sola era l’anima e la vita tua: ora se tu sanza queste cose ti parti, come potrai vivere? Oimè misera, quanto dolore è quello che mi strigne, pensando che tu contra te medesimo sii incrudelito, nè hai avuta alcuna pietà alla tua vita! Or con che viso ti potrò io pregare che della mia t’incresca, alla quale alcuna compassione dovresti avere avuta, pensando che io per te la metterei ad ogni pericolo, credendoti da noia allontanare? Tu avrai, partendoti, guadagnata la tua morte e la mia: e se non morte, vita più dolorosa che morte non ci falla! Tu te n’andrai a Montoro col vero corpo, e io misera rimarrò seguendoti sempre con la mente; nè mai in alcuna parte sanza me sarai, e niun diletto da te ha preso, che io con lamentevole disio non ti seguiti addesso. Nè fia per te fatto alcuno studio che io similemente imaginando non studii, disiderando più tosto di convertirmi in libro per essere da te veduta, che stare nella mia forma da te lontana. Ma certo la fortuna e gl’iddii hanno ragione d’essere avversi a’ nostri disii, i quali abbiamo sì lungamente avuto spazio di potere toccare l’ultime possanze d’amore, e mai non le tentammo: la qual cosa forse, se stata fosse fatta, o più forte vinco avrebbe te meco a me teco legato, per lo quale partiti non potremmo essere stati di leggere, come ora saremo, o quello che ci strigne si sarebbe o tutto o in maggior parte soluto, nè mi dorrebbe tanto la tua partenza. Certo per le dette ragioni me ne duole, ma per la servata onestà sono contenta che la nostra età sia stata casta, alla quale ancora ben bene sì fatta cosa non si convenia. E appresso credo che forse gl’iddii ci serbano più lieti congiungimenti, e con migliore cagione: ma, oimè dolente!, che questo non so io, nè già per tale speranza il mio dolor non scema! Or volessono gl’iddii che, poi che dividere mi debbo da te, che se’ solo mio bene mia luce e mia speranza, mi fosse licito il morire! Oimè, Aretusa, quanto miseramente, fuggendo il tuo amante, divenisti fontana! e io più affannata di dolore che tu di paura, non sono da loro udita, nè però si muovono a pietà! Ahimè, Ecuba, quanto ti fu felice nel tuo ultimo dolore, poi che morte t’era negata, il convertirti in cane! Io ti porto invidia; e similmente alla tua morte, o Meleagro, la cui vita dimorava nel fatato bastone, però ch’io disidererei che i tuoi fati si fossero rivolti sopra di me! O sommi iddii, se i miseri meritano d’essere uditi, io vi priego che di me v’incresca, e che voi al mio dolore o fine o conforto sanza indugio mandiate. E tu, o più che crudele, te ne va’, chè in verità mai nel tuo aspetto non conobbi che crudeltà in te dovesse aver luogo. Ma poi che lontanandoti la dimostri, io ti giuro per l’anima della mia madre che mai sanza continua sollecitudine non sarò, sempre pensando com’io a vedere ti possa venire. E quale che modo io mi elegga, se io non sarò mandata a te, io vi pur verrò".
Florio, che malvolentieri a’ piaceri del padre avea consentito, ricevuto il comandamento del doversi partire la seguente mattina, e partitosi il re da lui, solo pensando si pose a sedere, e fra se medesimo dicea: "Oimè, or che ho io fatto? A che ho io consentito? Alla mia medesima distruzione, per ubidire il crudel padre! Or come mi potrò io mai partire sanza Biancifiore? Deh, or non poteva io almeno dicendo pur di no, aspettare quello ch’egli avesse fatto? Di che aveva io paura? Ucciso non m’avrebbe egli, chè io non m’avrei lasciato. Nè niuna peggior cosa mi potea fare che da sè cacciarmi: la qual cosa egli non avrebbe mai fatto; ma se pur fatto l’avesse, Biancifiore non ci sarebbe rimasa, però che meco ove che io fossi andato l’avrei menata; la quale io più volontieri, sanza impedimento d’alcuno, liberamente possederei, che io non farei la grande eredità del reame che m’aspetta. Ma poi che promesso l’ho, io v’andrò, acciò che non paia ch’io voglia tutto ogni cosa fare a mia maniera. Egli m’ha impromesso di mandarlami; se elli non la mi manda, io avrò legittima cagione di venirmene dicendo: "Voi non m’atteneste lo ’mpromesso dono: io non posso più sostenere di stare lontano da lei per ubidire voi". E da quella ora in avanti mai più un tal sì non mi trarrà della bocca, quale egli ha oggi fatto. Se egli me la manda, molto sono più contento d’esser con lei lontano da lui che in sua presenza stare, e più beata vita mi riputerò d’avere". E con questo pensiero si levò e andonne in quella parte ove egli ancora trovò Biancifiore, che tutta di lagrime bagnata ancora miseramente piangea; a cui egli, quasi tutto smarrito guardandola, disse: O dolce anima mia, qual è la cagione del tuo lagrimare? -. La quale prestamente dirizzata in piè, piangendo gli si fece incontro, e disse: Oimè, signor mio, tu m’hai morta: le tue parole sono sola cagione del mio pianto. O malvagio amante, non degno de’ doni della santa dea, alla quale i nostri cuori sono disposti, or come avesti tu cuore di dire tu medesimo sì di dovermi abandonare? Deh, or non pensi tu ove tu m’abandoni? Io, tenera pulcella, sono lasciata da te come la timida pecora tra la fierità de’ bramosi lupi. Manifesta cosa è che ogni onore, il quale io qui ricevea, m’era per lo tuo amore fatto, non perchè io degna ne fossi, sì come a colei che era tua sorella da molti riputata per lo nostro egual nascimento. E molti, invidiosi della mia fortuna, a me, per loro estimazione prospera e benivola tenuta per la tua presenza, ora, partendoti tu, non dubiteranno la loro nequizia dimostrare con aperto viso, avendola infino a ora per tema di te celata. Ma ora volessero gl’iddii che questo fosse il maggior male che della tua andata mi seguitasse! Ma tu mi lasci l’animo infiammato del tuo amore, per la qual cosa io spero d’avere sanza te angosciosa vita! la quale, ancora che io da te non abbia meritata, mi ha bene investita, però che, quando prima ne’ tuoi begli occhi vidi quel piacere, che poi a’ tuoi disii mi legò il cuore con amoroso nodo, sanza pensare alla mia qualità vile e popolaresca, e ancora in servitudine coatta, in niuna maniera da potere alla tua magnificenza adeguare, mi lasciai con isfrenata volontà pigliare, aggiungendo al tuo viso piacevolezza col mio pensiero. Onde se tu, ora, abandonandomi sì come cosa da te debitamente poco cara tenuta, e Amore, costringendomi di te, da me stoltamente amato, con greve doglia mi punite, faccendomi riconoscere la mia follia, questo non posso nè io nè alcuno altro dire che si sconvenga. E se non fosse che io fermamente credo che alcuna parte di quella fiamma amorosa, la qual pare che per me ti consumi, t’accenda il cuore, se vero è che ogni amore acceso da virtù, com’è il mio verso di te, sempre accese la cosa amata, sol che la sua fiamma si manifesti, io avrei sconciamente nociuto alla mia vita, però che Cupido da piccolo spazio in qua m’ha più volte posta in mano quella spada, con la quale la misera Dido nella partita di Enea si passò il petto, acciò che io quello uficio essercitassi in me: e certo io l’avrei per me volontieri fatto, ma dubitando d’offendere quella piccola particella d’amore che tu mi porti, mi ritenni, tenendo solamente la mia vita cara per piacere a te. Ma gl’iddii sanno quale ella sarà partendoti tu, però che io non credo che mai giorno nè notte sia, che io non sofferi molti più aspri dolori che il morire non è. Ma forse tu ti vuogli scusare che altro non puoi; ma non bisogna scusa al signore verso il vassallo: tanto pur udi’ io che tu con la tua bocca dicesti d’andare a Montoro! Oimè, or m’avessi tu detto davanti: "Biancifiore, pensa di morire, però che io intendo d’abandonarti", però che tu non dovevi dire sì a fidanza delle vane e false parole di tuo padre, il quale ti promise di mandarmi a te. Certo egli nol farà già mai, però che egli guarda di farti tanto da me star lontano, che io possa essere uscita della tua mente -. Queste e molte altre parole, piangendo e tal volta porgendogli molti amorosi baci, gli diceva Biancifiore, quando Florio non potendo le lagrime ritenere, rompendole il parlare, le disse così:
- Oimè, dolce anima mia, or che è quello che tu di’? Come potrei io mai consentire se non cosa che ti piacesse? Tu ti duoli della menoma parte de’ nostri danni. Principalmente già sai tu che mai per me onorata non fosti, ma sola la tua virtù è stata sempre cagione debita agli onoranti di tale onore farti: la qual virtù per la mia partita non credo che manchi, nè similemente l’onore. E chi sarebbe quelli che contra te potesse incrudelire, o per invidia o per altra cagione? certo nullo; e se pure alcuno ne fosse, io non sarò sì lontano che tu di leggieri non possi farlomi sentire, acciò che io con subita tornata qui punisca la iniquità di quelli: e però di questo vivi sicura e sanza pensiero. Ma, ohimè, che di quel fuoco, del qual tu di’ che io ti lascio l’anima accesa, io ardo tutto! E veramente mentre io starò lontano da te, la mia vita non sarà meno angosciosa che la tua: e io il sento già, però che nuova fiamma mi sento nel cuore aggiunta. Ma sanza fine mi dolgono le parole le quali tu di’, avvilendoti sanza alcuna ragione. E certo di quello che io ora dirò, nè me ne sforza amore nè me n’inganna, ma è così la verità come io estimo. In te niuna virtù pate difetto, nè belli costumi fecero mai più gentilesca creatura nell’aspetto, che i tuoi, sanza fallo buoni, fanno te. La chiarità del tuo viso passa la luce d’Appollo nè la bellezza di Venere si può adeguare alla tua. E la dolcezza della tua lingua farebbe maggiori cose che non fece la cetera del trazio poeta o del tebano Anfion. Per le quali cose lo eccelso imperador di Roma, gastigatore del mondo, ti terrebbe cara compagnia, e ancora più: ch’egli è mia oppinione che, se possibil fosse che Giunone morisse, niuna più degna compagna di te si troverebbe al sommo Giove. E tu ti reputi vile? Or che ha la mia madre più di valore di te, la quale nacque de’ ricchissimi re d’Oriente? Certo niuna cosa, nè tanto, traendone il nome, che è chiamata reina. Adunque per lo tuo valore se’ tu da me degnamente amata, sì com’io poco inanzi dissi al mio padre. E cessino gl’iddii che tu in niuno atto o per nulla cagione t’avessi offesa o t’offendessi, però che niuna persona m’avrebbe potuto ritenere, che io subitamente non mi fossi con le propie mani ucciso. Vera cosa è, e ben lo conosco, che, consentendo io l’andata mia a Montoro, io diedi a te gravoso dolore; ma certo e’ non dolfe più a te che a me. Ma che volevi tu che io facessi più avanti? Volevi tu che io con mio padre avessi sconce parole per quello che ancora si può ammendare? Se a te tanto dispiace la mia andata, comanda che io non vi vada: egli potrà assai urtare il capo al muro, che io sanza te vi vada! E se tu consenti che io vi vada, egli m’ha promesso di mandarmiti: la qual cosa se egli non fa, io volgerò tosto i passi indietro, però che io so bene che sanza te vivere non potrei io lungamente. E non pensare che mai, per lontanarmi da te, egli mi possa mai trarre te della mente, che, quanto più ti sarò col corpo lontano, tanto più ti sarò con l’anima vicino, chè certo impossibile sarebbe ch’io ti dimenticassi, se tutto Letè mi passasse per la bocca. Però, anima mia, confortati, e lascia il lagrimare; e fa ragione ch’io sia sempre teco, e non pensare che ’l mio amore sia lascivo come fu quello di Giansone e di molti altri, i quali per nuovo piacere sanza niuna costanza si piegavano. Veramente io non amerò mai altra che te, nè mai altra donna signoreggerà l’anima mia se non Biancifiore -. E dicendo queste parole, piangeano amenduni teneramente, spesso guardando l’uno l’altro nel viso, e tal volta asciugando ora col dilicato dito, ora col lembo del vestimento, le lagrime de’ chiari visi.
Nel tempo della seconda battaglia stata tra ’l magnifico giovane Scipione Africano e Annibale cartaginese tiranno, essendo già la fama del valore di Scipione grandissima, avvenne che uscito del campo d’Annibale un cavaliere in fatto d’arme virtuosissimo, chiamato Alchimede, con molti compagni per prender preda nel terreno de’ romani, acciò che ’l campo d’Annibale copioso di vittuaglia tenessero, Scipione, uscitogli incontro, dopo gran battaglia tra loro stata, gli sconfisse, e lui ferì mortalmente abbattendolo al campo. Alchimede vedendosi abbattuto e sentendosi solo, da’ suoi abandonato e ferito a morte, alzò il capo e riguardò il giovane, il quale la sua lancia avea a sè ritratta, forse per riferirlo, e videlo nel viso piacevole e bello, e niente parea robusto nè forte come i suoi colpi il facevano sentire, a cui egli gridò: O cavaliere, non ferire, però che la mia vita non ha bisogno di più colpi a essere cacciata che quelli che io ho, nè credo che il sole tocchi le sperie onde che l’anima mia fia a quelle d’Acheronta. Ma dimmi se tu se’ quel valoroso Scipione cui la gente tanto nomina virtuoso -. Il quale Scipione, riguardandolo e udita la voce, il riconobbe, però che in altra parte aveva la sua forza sentita, e disse: O Alchimede io sono Scipione -. Allora Alchimede gli porse la destra mano e con fievole voce gli disse: Disarma il già morto braccio, e quello anello il quale nella mia mano troverai, prendilo e guardalo, però che in lui mirabile virtù troverai: che a qualunque persona tu il donerai, elli, riguardando in esso, conoscerà incontanente se noioso accidente avvenuto ti fia, però che il colore dell’anello vedrà mutato, e sì tosto come egli l’avrà veduto, la pietra tornerà nel primo colore bella. E a me per tale cagione il donò Asdrubal, fratello al mio signore Annibale, a cui tu tanto se’ avverso, quando di Spagna mi partii da lui, che più che sè m’amava. Io sento al presente la mia vita fallire, e sola d’alcuno amico; onde, se io qui muoio con esso, o perderassi, o troverallo alcuno il quale forse la sua virtù non conoscerà, o che forse non sarà degno d’averlo: e però io amo meglio che tu, posto che offeso m’abbi, il tenghi in guiderdone della tua virtù, che alcuno altro il possegga per alcuno de’ detti modi -. E detto questo, la debole testa sopra il destro omero bassò; e dopo picciolo spazio si morì. Scipione, prestamente disarmata la mano del rilucente ferro, più disioso della virtù dell’anello che del valore, trovò il detto anello bellissimo, e fino oro il suo gambo, la pietra del quale era vermiglia, molto chiara e bella: il quale egli prese, e mentre che viveo con gran diligenza il guardò. Ma poi, pervenendo d’uno discendente in altro della casa, pervenne al valoroso Lelio, il quale, essendo consueto d’andare sovente per lo bene della republica, come valoroso cavaliere non tralignante da’ suoi antichi, fuori di Roma contro a’ resistenti, donò questo anello alla misera Giulia, dicendole la virtù, acciò che ella sanza cagione di lui non dubitasse. E quando lo infortunato caso da non ricordare l’avvenne, l’avea ella in mano, e per dolore il si trasse e diedelo a guardare a Glorizia, dicendo: Omai non ho io di cui io viva più in dubbio, nè per cui la virtù del presente anello più mi bisogni -. Ma dopo la morte di Giulia, Glorizia il donò a Biancifiore, dicendole come del padre di lei era stato e appresso della madre, e la virtù di lui: il quale Biancifiore lungo tempo caramente guardò. E ricordandosene allora, lo portò dove Florio era, e così cominciò piangendo a parlare:
- Deh, perchè s’affannano le nostre mani a rasciugare le lagrime de’ nostri visi nel principio del nostro dolore? Sia di lungi da me che io mai di lagrimare ristea, mentre che tu sarai lontano da me. Oimè, che tu mi dì: "Comanda che io non vada a Montoro!". Deh, or perchè bisognava egli che io il ti comandassi? Non sai tu come io volontieri vi ti vedrò andare? Tu il dovevi ben pensare. Ma volontieri i’ ’l farei, se convenevole mi paresse; ma però che io non disidero meno che ’l tuo dovere s’adempia che ’l mio volere, poi che tu promettesti d’andarvi, fa che tu vi vada, acciò che vituperevole cosa non paia, volendosene rimanere, il disdire quello che tu hai promesso. E acciò che le tue parole non paiano vento, io concedo, così volontieri come Amore mi consente, che tu vi vada, e ubidendo anzi adempi il piacere del tuo padre. Ma sopra tutte le cose del mondo ti priego che tu per assenza non mi dimentichi per alcuna altra giovane. Io so che Montoro è copioso di molti diletti: tutti ti priego che da te siano presi. Solamente a’ tuoi occhi poni freno quando le vaghe giovani scalze vedrai andare per le chiare fontane, coronate delle frondi di Cerere, cantando amorosi versi, però che a’ loro canti già molti giovani furono presi: però che se io sentissi che alcuna con la sua bellezza di nuovo t’infiammasse, come furiosa m’ingegnerei di venire dove tu e ella fosse; e se io la trovassi, con le propie mani tutta la squarcerei, nè nel suo viso lascerei parte che graffiata non fosse dalle mie unghie, nè niuno ordine varrebbe a’ composti capelli che io, tutti tirandoglieli di capo, non gli rompessi; e dopo questo, per vituperevole e etterna sua memoria, co’ propii denti del naso la priverei: e questo fatto, me medesima m’ucciderei. Questo non credo però che possibile sia di dovere avvenire: ma sì come leale amante ne dubito, e però il dico. Tu avrai molti altri diletti, e ciascuno s’ingegnerà di piacerti, acciò che io ti dispiaccia: ma io mi fido nella tua lealtà. E però che io sono certa che come tu in molti e varii diletti starai, così io in molte avversità, le quali forse io non ti potrò far note così com’io vorrei, ti voglio pregare, poi che gl’iddii adoperano verso noi tanta crudeltà, e la fortuna ne mostra le sue forze in dipartirci, che ti piaccia per amore di me portar questo anello, il quale, mentre che io sanza pericolo dimorerò, sempre nella sua bella chiarezza il vedrai, ma, come io avessi alcuna cosa contraria, tu il vedrai turbare, Io ti priego che allora sanza niuno indugio mi venghi a vedere: e priegoti che tu sovente il riguardi, ogni ora ricordandoti di me che tu il vedi. Più non ti dico, se non che sempre il tuo nome sarà nella mia bocca, sì come quello che solo è nella memoria segnato, e nello innamorato cuore col tuo bel viso figurato. Tu solo sarai i miei iddii, i quali io pregare debbo della mia felicità: a te saranno tutte le mie orazioni diritte, sì come a quelli in cui i miei pensieri tutti si fermano per aver pace. Veramente una cosa ti ricordo: che s’egli avviene che il tuo padre non mi mandi a te come promesso t’ha, che il tornare tosto facci a tuo potere, però che se troppo sanza vederti dimorassi, lagrimando mi consumerei -. E dette queste parole, piangendo gli si gittò al collo; nè prima abbracciando si giunsero, che i loro cuori, da greve doglia costretti per la futura partenza, paurosi di morire, a sè rivocarono i tementi spiriti, e ogni vena vi mandò il suo sangue a render caldo, e i membri abandonati rimasero freddi e vinti, e essi caddero semivivi, avanti che Florio potesse alcuna parola rispondere. E così, col natural colore perduto, stettero per lungo spazio, sì che chi veduti gli avesse, più tosto morti che vivi giudicati gli avrebbe. Ma dopo certo spazio, il cuore rendè le perdute forze a’ sopiti membri di Florio, e tornò in sè tutto debole e rotto, come se un gravissimo affanno avesse sostenuto, e tirando a sè le braccia, gravate dal candido collo di Biancifiore, si dirizzò, e vide che questa non si movea, nè alcun segnale di vita dimostrava. Allora elli, ripieno di smisurato dolore, appena che la seconda volta non ricadde, e disiderato avrebbe d’esser subitamente morto; ma veggendo che ’l dolore nol consentiva, piangendo forte si recò la semiviva Biancifiore in braccio, temendo forte che la misera anima non avesse abandonato il corpo e mutato mondo, e con timida mano cominciò a cercare se alcuna parte trovasse nel corpo calda, la quale di vita gli rendesse speranza. Ma poi che egli dubbioso non consentiva alla verità, chè forse caldo trovava e pareagli essere ingannato, cominciò piangendo a baciarla, e dicea: Oimè, Biancifiore, or se’ tu morta? Deh, ove è ora la tua bella anima? In quali parti va ella sanza il suo Florio errando? Oimè, or come poterono gl’iddii essere tanto crudeli ch’elli abbiano la tua morte consentita? O Biancifiore, deh, rispondimi! Oimè ch’io sono il tuo Florio che ti chiamo! Deh, or tu mi parlavi ora inanzi con tanto effetto, disiderando di mai da me non ti partire, e ora solamente non mi rispondi! Or se’ tu così tosto sazia dell’essere meco? Oimè, che gl’iddii mi manifestano bene ora che di me sono invidiosi e hannomi in odio. Ma di questo male m’ha più cagione il mio crudel padre, il quale sì subitamente ha affrettata la mia partita. O crudele padre, tu l’avrai interamente! Le parole da me dette stamattina ti saranno dolente agurio e oggi ti faranno dolente portatore del fuoco, ove tu miseramente ardere mi vedrai: la tua crudeltà è stata cagione della morte di costei, e ella e tu sarete cagione della mia. Vivere possi tu sempre dolente dopo la mia morte, e gl’iddii prolunghino gli anni tuoi in lunga miseria! Or ecco, o anima graziosa, ove che tu sii, rallegrati che io m’apparecchio di seguitarti, e quali noi fummo di qua congiunti, tali infra le non conosciute ombre in etterno amandoci staremo insieme. Una medesima ora e uno medesimo giorno perderà due amanti, e alle loro pene amare sarà principio e fine -. E già avea posto mano sopra l’aguto coltello, quando egli si chinò per prima baciare il tramortito viso di Biancifiore, e chinandosi il sentì riscaldato, e vide muovere le palpebre degli occhi, che con bieco atto riguardavano verso di lui. E già il tiepido caldo, che dal cuore rassicurato movea, entrando per li freddi membri, recando le perdute forze, addusse uno angoscioso sospiro alla bocca di Biancifiore, e disse: Oimè! -. Allora Florio, udendo questo, quasi tutto riconfortato, la riprese in braccio e disse: O anima mia dolce, or se’ tu viva? Io m’apparecchiava di seguitarti nell’altro mondo -. Allora si dirizzò Biancifiore con Florio insieme, e ricominciarono a lagrimare. Ma Florio, veggendola levata, disse: O sola speranza della vita mia, ove se’ tu infino a ora stata? Qual cagione t’ha tanto occupata? Io estimava che tu fossi morta! Oimè, perchè pigli tu tanto sconforto per la mia partita? Tu me la concedi con le parole, e poi con gli atti pieni di dolore il mi vieti. Io ti giuro per li sommi iddii che, s’io vi vado, che o tu verrai tosto a me come promesso m’ha il mio padre, o io poco vi dimorerò, che io tornerò a te; e mentre che io là dimorerò, o ancora, mentre ch’io starò in vita, mai altra giovane che te non amerò. E però confortati, e lascia tanto dolore: chè s’io credessi che questa vita dovessi tenere, io in niuno atto v’andrei; o s’io vi pure andassi credo che pensando al tuo dolore morrei. E promettoti per la leal fede che io ti porto, come a donna della mia mente, che il presente anello, il quale ora donato m’hai, sempre guarderò, tenendolo sopra tutte cose caro, e spesso riguardandolo, sempre imaginerò di veder te. E se mai accidente avviene che egli si turbi, niuno accidente mi potrà ritenere che io non sia a te sanza alcuno indugio: e però io ti priego che tu ti conforti. Queste parole, e altre molte, con amorosi baci mescolati di lagrime e di sospiri furono tra Florio e Biancifiore quanto quel giorno mostrò la sua luce; ma poi che egli chiudendola tornò tenebroso, i due amanti pensosi, teneramente dicendo "A Dio!" si partirono, tornando ciascuno sospirando alla sua camera.
Quella notte fu a’ due amanti molto gravosa, e non fu sanza molti sospiri trapassata, ancor che assai brieve la riputassero però che più tosto avrebbero quelle pene sostenute essendo così vicini che doversi il vegnente giorno partire. Ma poi che il sole sparse sopra la terra la sua luce, e i cavalli e la compagnia di Florio furono nella gran corte del real palagio apparecchiati aspettando lui, Florio si levò e con lento passo n’andò davanti al re suo padre e alla reina, dove Biancifiore similmente pensosa già era venuta; e fatta la debita riverenza al padre, e preso congedo dalla madre, la quale in vista non sana, giaceva sopra un ricco letto, prima si voltò verso il re e poi verso la madre, e caramente raccomandò loro Biancifiore, pregandoli che tosto gliele mandassero, e poi abbracciata Biancifiore, in loro presenza la baciò dicendo: A te sola rimane l’anima mia; chi onorerà te onorerà lei -; e appena così parlando, costrinse con vergogna le lagrime, che il greve dolore che il cuor sentiva si sforzava di mandar per gli occhi fuori, e appena con voce intera potè dire: Rimanetevi con Dio -; e discese le scale, salì a cavallo e sanza più indugio si partì.
Molto dolfe a tutti la partita di Florio, posto che il re e la regina contenti ne fossero, credendo che il loro avviso dovesse per quella partita venir fatto; ma sopra tutti dolfe a Biancifiore. Ella l’accompagnò infino in piè delle scale, sanza far motto l’uno all’altro; e poi che a cavallo il vide riguardato lui con torto occhio, tacita se ne tornò indietro, e salì sopra la più alta parte della real casa, e quivi, guardando dietro a Florio, stette tanto, quanto possibile le fu il vederlo. Ma poi che più veder nol potè, ella, accomandandolo agl’iddii, si tornò alla sua camera, faccendo sì gran pianto che ne sarebbe presa pietà a chiunque udita l’avesse o veduta, e dicea: Oimè, Florio, or pur te ne vai tu: or pure ho io veduto quello che io non credetti che mai gli occhi miei sostenessero di potere vedere! Deh, or quando sarà che io ti rivegga? Io non so com’io mi faccia; io non so come io sanza te possa vivere. Oimè, perchè non morii io ieri nelle tue braccia, quando io fui sì presso alla morte, che tu credesti ch’io morta fossi? Io non sentirei ora questa doglia per la tua partenza: l’anima mia ne sarebbe andata lieta, in qualunque mondo fosse ita essendo io morta in sì beato luogo -. Glorizia, la quale allato le sedea, piangea forte per pietà di lei, e piangendo la confortava quanto più potea, dicendo: O Biancifiore, deh, pon fine alle tue lagrime: vuoi tu piangendo guastare il tuo bel viso, e consumarti tutta? Tu ti dovresti ingegnare di rallegrarti, acciò che la tua bellezza, conservata, multiplicasse sì che, quando tu andrai a Montoro, tu potessi piacere a Florio, il quale, se consumata ti vede, ti rifiuterà: e io so che tu vi sarai tosto mandata, sì come io ho udito dire al re. Confortati, che se Florio sapesse che tu questa vita menassi, egli s’ucciderebbe. Or che faresti tu s’egli fosse andato molto più lontano, dove a te non fosse licito l’andare? E’ non si vuol far così! Usanza è che gli uomini e le donne innamorate spesso abbiano per partenze o per altri accidenti alcune pene: ma non tali chente tu le prendi; pensa che tu questa vita durare non potresti lungamente, e, se tu morissi, tu faresti morire lui: adunque se per amore di te non vuoi prendere conforto prendilo per amor di lui, acciò ch’e’ viva -. E con cotali parole e con molte altre appena la potè racconsolare.
Ma Florio, partito, alquanto si turbò nel viso, mostrando il dolore che l’angoscioso animo sentiva. Andavano i suoi compagni lasciando i volanti uccelli alle gridanti grue, faccendo loro fare in aria diverse battaglie. E altri con gran romore sollecitavano per terra i correnti cani dietro alle paurose bestie. E così chi in un modo e chi in un altro, andavano prendendo diletto, mostrando a Florio alcuna volta queste cose, le quali molta più noia gli davano che diletto: però che egli alcuna volta imaginando andava d’essere stretto dalle dilicate braccia di Biancifiore, come già fu, e non gli parea cavalcare; le quali imaginazioni sovente, col mostrarli le cacce, gli erano rotte. Ma egli poco a quelle riguardando, pur verso la città, la quale egli mal volontieri abandonava, si rivolgea; e così volgendo s’andò infino che licito gli fu di poterla vedere. E così andando con lento passo, costoro s’erano molto avvicinati a Montoro quando il duca Ferramonte, che la sua venuta avea saputa, contento molto di quella, con molti nobili uomini della terra s’apparecchiò di riceverlo onorevolemente. E coverti sè e i loro cavalli di sottilissimi e belli drappi di seta, rilucenti per molto oro, circundati tutti di risonanti sonagli, con bigordi in mano, accompagnati da molti strumenti e varii e coronati tutti di diverse frondi, bigordando e con la festa grande gli vennero incontro, faccendo risonare l’aere di molti suoni. Quando Florio vide questo, sforzatamente si cambiò nel viso, mostrando allegrezza e festa, quella che del tutto era di lungi da lui; e con lieto aspetto il duca e i suoi compagni ricevette, e fu da loro ricevuto. E con questa festa, la quale quanto più alla terra appressavano tanto più crescea, n’andarono infino nella città, della quale trovarono tutte le rughe ornate di ricchissimi drappi, e piena di festante popolo. Nè niuna casa v’era sanza canto e allegrezza: ogni uomo in qualunque età facea festa, e similemente le donne cantando versi d’amore e di gioia. Pervenne adunque Florio con costoro al gran palagio del duca, e quivi con tutto quello onore che pensare o fare si potesse a qualunque iddio, se alcuno in terra ne discendesse, fu Florio da’ più nobili della terra ricevuto. E, scavalcati, tutti salirono alla gran sala, e quivi per picciolo spazio riposatisi presero l’acqua e andarono a mangiare. E poi per amore di Florio, molti giorni solennemente per la città festeggiarono.
Biancifiore così rimasa, alquanto da Glorizia riconfortata, ogni giorno andava molte fiate sopra l’alta casa, in parte onde vedeva Montoro apertamente, e quello riguardando dopo molti sospiri avea alcun diletto, imaginando e dicendo fra se medesima: "Là è il mio disio e il mio bene". E tal volta avvenia che stando ella sentiva alcun soave e picciolo venticello venire da quella parte e ferirla per mezzo della fronte, il quale ella con aperte braccia ricevea nel suo petto, dicendo: "Questo venticello toccò il mio Florio, com’egli fa ora me, avanti che egli giungesse qui"; e poi, quindi partendosi, andava in tutti quelli luoghi della casa ov’ella si ricordava d’avere già veduto Florio, e tutti gli baciava, e alcuni ne bagnava alcune volte d’amare lagrime. Questi erano i templi degl’iddii e gli altari, i quali ella più visitava. E niuna persona venia da Montoro, che ella o tacitamente o in palese non dimandasse del suo Florio. Ella mai non mangiava che Florio da lei non fosse molte fiate ricordato; e s’ella andava a dormire, non sanza ricordare più volte Florio vi si ponea, e niuna cosa sanza il nome di Florio non faceva; e se ella dormendo alcun sogno vedea, sì era di Florio, e per questo sempre avrebbe di dormire disiderato, acciò che spesso in tale inganno dormendo si fosse trovata: ben che poi, trovandosi dal sonno ingannata, le fosse gravosa noia. E sempre pregava gl’iddii che ’l suo Florio da infortunoso caso guardassero e che le dessero grazia che tosto potesse andare a lui, o egli tornare a essa. Ella non si curava mai di mettere i suoi biondi capelli con sottile maestria in dilicato ordine, ma quasi tutta rabuffata sotto misero velo gli lasciava stare. Nè mai curava di lavarsi lo splendido viso, o di vestire i preziosi e belli vestimenti, però che non v’era a cui ella disiderasse di piacere. E il cantare e l’allegrezza e la festa tutta avea lasciato per intendere a sospirare. Nè niuno strumento era che allora da lei molestato fosse, ma tacitamente sperando di tosto riveder Florio prendea quel conforto che ella poteva, tenendo sempre l’anima nelle mani di Florio.
E Florio simigliantemente a niuna cosa, stando a Montoro, avea tanto lo ’ntendimento fisso quanto alla sua Biancifiore, nè era da lei una volta ricordato che egli non ricordasse lei infinite. E così come Montoro era da Biancifiore vagheggiato e rimirato spesso, così egli riguardava sovente Marmorina. Nè niuno suo ragionamento era già mai se non d’amore o della bellezza della sua Biancifiore, la quale sopra tutte le cose disiava di vedere. Egli da quel dì che Amore occultamente gli accese del suo fuoco infino a quell’ora non la baciò mai, nè fece alcun altro amoroso atto, che cento volte il dì fra sè nol ripetesse, dicendo: "Deh, ora mi fosse licito pur di vederla solamente!"; e fra sè sovente piangea il tempo il quale indarno gli parea avere perduto stando con Biancifiore sanza baciarla e abbracciarla, dicendo che se mai più con lei per tal modo si ritrovasse, come già era trovato, mai più per ozio o per vergogna non perderebbe che egli non spendesse il tempo in amorosi baci. Egli si portava saviamente molto, prendendo col duca e con Ascalion e con altri molti varii diletti, quali nel iemale tempo prendere si possono, sperando sempre che il re di giorno in giorno gli dovesse mandar Biancifiore. E con questi diletti mescolati di speranza, sempre aspettando, assai leggiermente si passò tutto quel verno sanza troppa noia, però che alquanto l’amoroso caldo per lo spiacevole tempo era nel cuore rattiepidato e ristretto. Ma poi che Febo si venne appressando al Monton frisseo, e la terra incominciò a spogliarsi le triste vestige del verno, e a rivestirsi di verdi e fresche erbette e di varie maniere di fiori, incominciarono a ritornare l’usate forze nell’amorose fiamme, e cominciarono a cuocere più che usate non erano per adietro nella mente allo innamorato Florio. Egli per lo nuovo tempo trovandosi lontano a Biancifiore, incominciò a provare nuovo dolore da lui ancora non sentito in alcun tempo, che egli dicea così: "Ora pur festeggia tutta Marmorina, e la mia Biancifiore, stando all’alte finestre della nostra casa, vede i freschi giovani sopra i correnti cavalli, adorni di bellissimi vestimenti, passarsi davanti, e ciascuno per la bellezza di lei si volge a riguardarla. Or chi sa se alcuno tra’ molti ne le piacerà, per lo quale non potendo ella veder me, e avendomi dimenticato, s’innamori di colui? Oimè, che questo m’è forte a pensare che possa essere; ma tuttavia la poca stabilità la qual nelle donne si trova, e massimamente nelle giovani, me ne fa molto dubitare; e se questo pure avvenisse che fosse niuna cosa altro che la morte mi sarebbe beata. O sommi iddii, se mai per me o per li miei antichi si fece o si dee far cosa che alla vostra deità aggradi, cessate che questo non sia". E questo pensiero più che altro gli stava nella mente. Egli non vedea alcuna giovane che ’l riguardasse, che egli immantanente non dicesse: "Oimè, così fa la mia Biancifiore; i non conosciuti giovani ella li mira tutti, così come costoro fanno me, cui esse forse mai più non videro. E qual cagione recò Elena ad innamorarsi dello straniere Paris se non la follia del suo marito, che, andandosene all’isola di Creti, lasciò lei assediata da’ piacevoli occhi dello innamorato giovane? Nè mai Clitemestra si sarebbe innamorata di Egisto, se Agamenon fosse con lei continuamente stato: il quale poi lei insieme con la vita per tale innamoramento perdè. Ma di questo non m’ha colpa se non la empia nequizia del mio padre, il quale gl’iddii consumino, così come egli fa me consumare. Egli m’impromise più volte di mandarlami sanza fallo qua brievemente, e mai mandata non me l’ha. Oimè, che ora conosco il manifesto suo inganno e truovo che vere sono le parole che Biancifiore mi disse, dicendo che mai non ce la manderebbe e che egli qua non mi mandava se non perch’ella m’uscisse di mente. Oh, come male è il suo avviso venuto al pensato fine, con ciò sia cosa che io mai del suo amore non arsi com’io ardo ora". E istando Florio in questi pensieri, in tanto gl’incominciò a crescere il disio di volere vedere Biancifiore che egli non trovava luogo, nè ad altro pensar poteva nè giorno nè notte. Egli avea per questo ogni studio abandonato, nè di mangiare nè di bere parea che gli calesse: e tanto dubitava di tornare a Marmorina sanza licenza del re, acciò che egli a far peggio non si movesse, che egli volea avanti sostenere quella vita così noiosa; e era già tale nel viso ritornato, che di sè facea ogni uomo maravigliare. E non avendo ardire di tornare in Marmorina, andava il giorno sanza alcun riposo cercando gli alti luoghi, de’ quali egli potesse meglio vedere la sua paternale casa, ove egli sapeva che Biancifiore dimorava. E similmente la notte non dormiva, ma furtivamente e solo se n’andava infino alle porti del palagio del suo padre, non dubitando d’alcun fiero animale, o d’ombra stigia, o d’insidie di ladroni, nè d’altra cosa: e quivi giunto, si ponea a sedere e con sospiri e con pianto più volte le baciava, dicendo: "O ingrate porti, perchè mi tenete voi che io non posso appressarmi al mio disio, il quale dentro da voi serrato tenete?". E certo egli più volte fu tentato o di picchiare acciò che aperto gli fosse, o di romperle per passar dentro, ma per paura della fierità del padre, il cui intendimento già apertamente conoscere gli parea, se ne rimanea, tornandosi a Montoro per l’usata via. E sì lo stringea amore, che vita ordinata non potea tenere, ma sì disordinatamente la tenea, che più volte il duca e Ascalion avedendosene il ne ripresero; ma poco giovava. E pur da amore costretto, più volte mandò a dire al re che omai il caldo era grande, e allo studio più intendere non potea, e però egli se ne volea con suo congedo tornare a Marmorina.
Il re, il quale più volte avea inteso che Florio voleva a Marmorina tornare, e similemente avea udito a molti recitare la dolorosa vita che Florio a Montoro menava, da grieve dolor costretto, sospirando se n’andò in una camera dove la reina era; il quale sì tosto come la reina il vide, il dimandò quello che egli avea, che sì pieno d’ira e di malinconia nell’aspetto si dimostrava. Il re rispose: Noi ci allegrammo molto dell’andata di Florio a Montoro, credendo che egli incontanente dimenticasse Biancifiore, ma egli m’è stato detto da più persone che la sua vita è tanto angosciosa, perchè egli non può venire a vederla, che ciò è maraviglia. E diconmi più, che egli del tutto lo studiare ha lasciato: la qual cosa fosse il maggior danno che mai seguire ce ne potesse! Ma egli ancora da grande amore costretto non mangia nè dorme, ma in pianto e in sospiri consuma la sua vita: per la qual cosa egli è nel viso tornato tale che poco più fu Erisitone quando in ira venne a Cerere: e non pare Florio, sì è impalidito, e non vuole udire d’altrui parlare che di Biancifiore, nè prendere vuole alcun conforto che porto gli sia. Nè a questo vale alcuna riprensione che fatta gli sia; e ancora m’ha mandato più volte dicendo che venir se ne vuole; ond’io non so che mi fare, se non che d’ira e di malinconia mi consumo e ardo -.
Grave parve molto alla reina udire quelle parole e accesa d’ira nel viso, subitamente rispose: Ahi, come gl’iddii giustamente ti pagano! Or che avevi tu a fare co’ romani pellegrinanti, quando tu tanti n’uccidesti. E poi che tanti n’avevi uccisi, perchè la vita ad una sola femina, che di grazia dimandava la morte, lasciasti? Certo o la morte di coloro o la vita di quella spiacque loro: per la qual cosa essi nel ventre di quella occulto fuoco ti mandarono in casa. Or chi dubita che mentre che Biancifiore viverà, Florio mai non la dimenticherà? Certo no, e questo è manifesto. E così per la vita di costei perderemo Florio; e così per una vil femina potremo dire che perduto abbiamo il nostro figliuolo. Adunque pensisi come costei muoia -. Rispose il re: E avanti oggi che domani, chè certo mi pare che, come voi dite, mai mentre ella sarà in vita, non sarà dimenticata da Florio -. Allora disse la reina: E come faremola noi subitamente morire sanza avere cagione che legittima paia? Se noi il facciamo, e’ ce ne potrà gran biasimo seguitare. E certo se Florio il risapesse, e’ sarebbe un dargli materia di disperarsi e d’uccidersi se medesimo, o di partirsi da noi, in maniera che mai nol rivedremmo. Ma, quando a voi paresse, qui sarebbe da procedere con lento passo, e, quando luogo e tempo fosse, trovarle alcuna cagione adosso, per la quale faccendola morire, ogni uomo giudicasse che ella giustamente morisse; e così saremo di mala fama e della vita di Biancifiore insieme disgravati -. E sanza guari pensare, la reina più avanti disse: E la cagione potrà essere questa. Voi sapete che il giorno, nel quale per tutto il vostro regno si fa la gran festa della vostra natività, s’appressa; e dove ch’ella si faccia grandissima, sì si fa ella qui in Marmorina. E niuno gran barone è nel vostro regno che con voi non sia a questa festa: e però quando essi saranno nella vostra gran sala assettati alle ricche tavole, ciascuno secondo il grado suo, allora ordinate col siniscalco vostro che o pollo o altra cosa in presenza di tutti vi sia da parte di Biancifiore presentato, o che Biancifiore medesima da sua parte il vi rechi davanti, acciò che paia che ella con la bellezza del suo viso venendovi davanti voglia rallegrar la festa; ma veramente abbiate ordinato col siniscalco che qual che si sia quella cosa ch’ella apporterà, celatamente di veleno sia piena. E come il presente davanti a voi sarà posato, e ella partita del vostro cospetto, fate che in alcun modo o cane o altra bestia faccia la credenza, acciò che altra persona non ne morisse: della qual cosa chiunque sarà il primo mangiatore, o subitamente morrà, o enfierà, per la potenza del veleno. E così a tutti fia manifesto che ella abbia voluto avvelenare voi; e come voi avrete questo veduto, fate che voi vi turbiate molto, e, faccendo il romore grande, la facciate prendere, e subitamente giudicare per tale offesa al fuoco. Chi sarà colui che non dica che tale morte sia ragionevole, o che, veggendovi turbato, vi prieghi per la sua salute? E certo questo non vi sarà malagevole a fare, però che il siniscalco vostro l’ha in odio molto; e la cagione è questa, che egli più volte ha voluto il suo amore, e ella sempre l’ha rifiutato faccendosi di lui beffe -. - Certo - disse il re - voi avete ben pensato, e così sanza indugio si farà, nè già pietà che la sua bellezza porga mi vincerà -.
Partissi il re dalla reina e fece chiamare a sè incontanente Massamutino, suo siniscalco, uomo iniquo e feroce, al quale egli disse così: Tu sai che mai a’ tuoi orecchi niuno mio segreto fu celato, nè mai alcuna cosa sanza il tuo fedel consiglio feci: e questo solamente è avvenuto per la gran leanza la quale io ho trovata in te. Ora, poi che gl’iddii hanno te eletto a mio segretario, più che alcuno altro, io ti voglio manifestare alcuna cosa del mio intendimento, del tutto necessaria di mettere ad effetto, la quale sanza manifestare mai ad alcuno, fa che tenghi occulta; però che se per alcun tempo fosse rivelata ad altrui, sanza fallo gran vergogna ce ne seguirebbe, e forse danno. Ciascuno, il quale vuole sua vita saviamente menare seguendo le virtù, dee i vizi abandonare, acciò che fine onorevole gli seguisca; ma quando avvenisse che viziosa via per venire a porto di salute tenere gli convenisse, non si disdice il saviamente passare per quella acciò che maggior pericolo si fugga: e fra gli altri mondani prencipi che più nelle virtuose opere si sono dilettati, sono stato io uno di quelli, e tu il sai. Ma ora nuovo accidente a forza mi conduce a cessarmi alquanto da virtuosa via, temendo di più grave pericolo che non sarà il fallo che fare intendo; e dicoti così, che a me ha la fortuna mandato tra le mani due malvagi partiti, i quali sono questi: o voglio io ingiustamente far morire Biancifiore, la quale in verità io ho amata molto e amo ancora, o voglio che Florio, mio figliuolo, per lei vilmente si perda; e sopra le due cose avendo lungamente pensato, ho preveduto che meno danno sarà la morte di Biancifiore che la perdenza di Florio, e più mio onore e di coloro che dopo la mia morte deono suoi sudditi rimanere: e ascolta il perchè. Tu sai manifestamente quanto Florio ama Biancifiore; e certo se egli, giovanissimo d’età e di senno, è di lei innamorato, ciò non è maraviglia, chè mai natura non adornò creatura di tanta bellezza, quanta è quella che nel viso a Biancifiore risplende; ma però che di picciola e popolaresca condizione, sì come io estimo, è discesa, in niuno atto è a lui, di reale progenie nato, convenevole per isposa; e io dubitando che tanto amore non l’accendesse della sua bellezza, che egli se la facesse sposa, per fargliele dimenticare il mandai a Montoro, sotto spezie di volerlo fare studiare. Ma egli già per questo non l’ha dimenticata, ma, secondo che a me è stato porto, egli per l’amore di costei si consuma, e, rimossa ogni cagione, ne vuole qua venire: onde io dubito che, tornando egli, dare non me gliele convenga per isposa, e s’io non gliele do, che egli niuna altra ne voglia prendere. E se egli avvenisse che io gliele donassi, o che egli da me occultamente la si prendesse, primieramente a me e a’ miei sanza fallo gran vergogna ne seguirebbe, pensando al nostro onore, tanto abassato per isposa discesa di sì vile nazione, come estimiamo che costei sia. Appresso, voi nol vi dovreste riputare in onore, considerando che, dopo costui, signore vi rimarrebbe nato di sì picciola condizione, come sarebbe nascendo di lei. E s’io non gliele dono per isposa, egli niun’altra ne vorrà, e non prendendone alcuna altra, sanza alcuna erede seguirà l’ultimo giorno: e così la nostra signoria mancherà, e converravvi andar cercando signore strano. Adunque, acciò che queste cose dette si cessino, è il migliore a fare che Biancifiore muoia, come detto ho, imaginando che com’ella sarà morta, egli per forza se la caccerà di cuore, dandogli noi subitamente novella sposa tale, quale noi crederemo che a lui si confaccia. Ma però che del fare subitamente morire Biancifiore ci potrebbe anzi vergogna che onore seguire, ho pensato che con sottile inganno possiamo aver cagione che parrà giusta e convenevole alla sua morte: e odi come. E’ non passeranno molti giorni che la gran festa della mia natività si farà, alla quale tutti i gran baroni del mio reame saranno a onorarmi: in quel giorno ti conviene ordinare che tu abbi fatto apparecchiare uno paone bello e grasso, e pieno di velenosi sughi, il quale fa che Biancifiore il mi presenti da sua parte, quando io e’ miei baroni staremo alla tavola. E acciò che alcuno non prendesse di questa opera men che buona presunzione, veggendolo più tosto recare a Biancifiore che ad alcuno altro scudiere o damigella, sì le dirai che a me e a tutti coloro i quali alla mia tavola meco sederanno, col paone in mano vada domandando le ragioni del paone, le quali se non da gentile pulcella possono essere adimandate. E sì tosto come questo fatto avrai, e ella avrà lasciato davanti a me il paone, io, faccendone prendere alcuna stremità, e gittarla in terra, so che alcuno cane la ricoglierà, la quale mangiando subitamente morrà. E quinci sembrerà a tutti quelli che nella sala saranno, che Biancifiore m’aggia voluto avvelenare, e imagineranno che Biancifiore abbia voluto far questo, perchè io la dovea mandare a Montoro, e non la vi ho mandata. E io mostrandomi allora di questo forte turbato, so che, secondo il giudizio di qualunque vi sarà, ella sarà giudicata a morte: la qual cosa io comanderò che sanza indugio sia messa ad essecuzione, e così saremo fuori del dubbio nel quale io al presente dimoro -. Poi che il re ebbe così detto, e egli si tacque aspettando la risposta del siniscalco; la quale fu in questo tenore:
- Signor mio, sanza dubbio conosco la gran fede, la quale in me continuamente avuta avete, la quale sempre con quella debita lealtà che buon servidore dee a naturale signore servare, ho guardata e guarderò mentre in vita dimorerò. E l’avviso, il quale fatto avete, a niuno, in cui conoscimento fosse, potrebbe altro che piacere: onde io il lodo, e dicovi che saviamente proveduto avete, con ciò sia cosa che non solamente il giudicare le preterite cose e le presenti con diritto stile è da riputare sapienza, tanto quanto è le future con perspicace intendimento riguardare. E sanza dubbio, se molto durasse la vita di Biancifiore, quello che narrato m’avete, n’avverrebbe; ma mandando inanzi cautamente le predette cose, credo sì fare che il vostro intendimento verrà fornito sanza che alcuno mai niente ne senta -. E questo detto, sanza più parlare, partirono il maladetto consiglio.
Oimè, misera Biancifiore, or dove se’ tu ora? Perchè non ti fu e’ lecito d’udire queste parole, come quelle della partenza del tuo Florio? Tu forse stai a riguardar que’ luoghi ove tu continuamente con l’animo corri e dimori disiderando d’esservi corporalmente. O tu forse con isperanza o d’andare a Montoro a veder Florio, o che Florio ritorni a veder te, nutrichi l’amorose fiamme che ti consumano, e non pensi alle gravi cose che la fortuna t’apparecchia a sostenere? A te pare ora stare nella infima parte della sua rota, nè puoi credere che maggior dolore ti potesse assalire, che quello che tu hai per l’assenza di Florio, ma tu dimori nel più alto luogo, a rispetto che tu starai. Oimè, che tu, lontana allo iniquo consiglio, spandi amare lagrime per amore, le quali più tosto per pietà di te medesima spandere dovresti, avvegna che a coloro che semplicemente vivono, gl’iddii proveggono a’ bisogni loro, e molte volte è da sperare meglio quando la fortuna si mostra molto turbata, che quando ella falsamente ride ad alcuno.
La reale sala era di marmoree colonne di diversi colori ornata, le quali sosteneano l’alte lammie che la coprivano, fatte con non picciolo artificio e gravi per molto oro, e le finestre divise da colonnelli di cristallo, i cui capitelli e d’oro e d’argento erano, per le quali la luce entrava dentro ad essa. Nelle notturne tenebre non si chiudeano con legno, ma l’ossa degl’indiani elefanti, commesse maestrevolemente e con sottili intagli lavorate, v’erano per porte; e in quella sala si vedeano ne’ rilucenti marmi intagliate l’antiche storie da ottimo maestro. Quivi si potea vedere la dispietata ruina di Tebe, e la fiamma dei due figliuoli di Iocasta, e l’altre crudeli battaglie fatte per la loro divisione, insiememente con l’una e con l’altra distruzione della superba Troia. Nè vi mancava alcuna delle gran vittorie del grande Alessandro. E con queste ancora vi si mostrava Farsalia tutta sanguinosa del romano sangue, e’ prencipi crucciati, l’uno in fuga e l’altro spogliare il ricco campo degli orientali tesori. E sopra tutte queste cose v’era intagliata la imagine di Giove, vestita di più ricca roba che quella che Dionisio fero già gli spogliò, intorniato d’alberi d’oro, le cui frondi non temevano l’autunno, e i loro pomi erano pietre lucentissime e di gran valore. In questa sala, quando il giorno della gran festa venne, furono messe le tavole, sopra le quali risplendeano copiosa quantità di vasella d’oro e d’argento; nè fu alcuno strumento che là entro quel giorno non risonasse, accompagnato da dolcissimi e diversi canti. Nè in tutta Marmorina fu alcun tempio che visitato non fosse, nè alcuno altare di qualunque iddio vi fu sanza divoto fuoco e debito sacrificio, da’ quali il re e gli altri gran baroni tornando si raunarono nella detta sala, tutti lodando la bellezza d’essa. E appressandosi l’ora del mangiare, presa l’acqua alle mani, andarono a sedere. Il re s’assettò ad una tavola, la quale per altezza sopragiudicava tutte l’altre, e con seco chiamò sei de’ più nobili e maggiori baroni che seco avesse, faccendone dalla sua destra sedere tre e altrettanti dalla sinistra, stando di reali vestimenti in mezzo di loro vestito. E quelli che dalla sua dritta mano gli sedea allato, fu un giovane chiamato Parmenione, disceso dell’antico Borea, re di Trazia; appresso del quale seguiva Ascalion, nobilissimo cavaliere e antico per età e per senno, degno d’ogni onore; e poi sedea un altro giovane chiamato Messaallino, figliuolo del gran re di Granata, piacevolissimo giovane e valoroso. Ma dalla sua sinistra Ferramonte duca di Montoro più presso gli sedea, il quale avea Florio quel giorno lasciato soletto per venire a tanta festa; appresso il quale uno chiamato Sara, ferocissimo nell’aspetto, e signore de’ monti di Barca, sedea con un giovane grazioso molto, chiamato Menedon, di Giarba re de’ Getuli disceso. Appresso, nelle più basse tavole, ciascuno secondo il grado suo fu onorato, serviti tutti da nobilissimi giovani e di gran pregio.
Massamutino, al quale non era già il comandamento del re uscito di mente, fece occultamente e con molta sollecitudine apparecchiare un bel paone, il quale egli di sugo d’una velenosa erba tutto bagnò, pensando che quello giorno per tale operazione si vedrebbe vendico di Biancifiore, che per amadore l’avea rifiutato. E fatto questo, avendo già la reale mensa e l’altre di più vivande servite, nè quasi altro v’era rimaso a fare che mandare il paone, accompagnato con più scudieri andò per Biancifiore, la quale la reina, acciò che ella non potesse niente di male pensare, avea fatta quel giorno vestire nobilmente d’un vermiglio sciamito e mettere i biondi capelli in dovuto ordine con bella treccia avolti al capo, sopra li quali una piccola coronetta ricca di preziose pietre risplendea, e ’l chiaro viso, già lungamente di lagrime bagnato, lavato quel giorno per volere della reina, dava piacevole luce a chi il vedea, posto che questo Biancifiore avea mal volontieri fatto, pensando che ’l suo Florio non v’era. Ma perchè bisognava alla reina tanto ingegno ad ingannare la semplice giovane? Ella non avrebbe mai saputo pensare quello che ella non avrebbe saputo nè ardito di fare ad alcuno. Ma venuto il siniscalco davanti alla reina, e salutata lei e la sua compagna, disse così: Madonna, oggi si celebra, sì come voi sapete, la gran festa della natività del nostro re, per la qual cosa volendo noi la nostra festa fare maggiore e più bella, provedemmo di fare apparecchiare un paone il quale noi vogliamo fare davanti al re presentare e a’ suoi baroni, acciò che ciascuno, faccendo quello che a tale uccello si richiede, si vanti di far cosa per la quale la festa divenga maggiore e più bella; nè sì fatto uccello è convenevole d’esser portato alla reale tavola se non da gentilissima e bella pulcella; nè io non ne conosco alcuna, nè qua entro nè in tutta la nostra città, che a Biancifiore si possa appareggiare in alcuno atto. E però caramente vi priego che a sì fatto servigio vi piaccia di concederle licenza, che con noi venga incontanente, però che l’ora del portarlo è venuta, nè si può più avanti indugiare -. La reina, che ben sapeva come l’opera dovea andare, sì come quella che ordinata l’avea, stette alquanto sanza rispondere; ma poi che la crudele volontà vinse la pietà che di Biancifiore le venne, udendo ch’ella era richiesta ad andare a quella cosa per la quale a morte doveva essere giudicata, e ella disse: Certo questo ci piace molto -; e voltata verso Biancifiore, le disse: Vavvi -, ammaestrandola che saviamente i debiti del paone adimandasse a tutti i baroni che alla reale tavola dimoravano, sanza andare ad alcuno altro, e poi davanti al re posasse il paone, e ritornassesene, tenendo bene a mente quello in che ciascuno si vantava. Biancifiore, disiderosa di piacere e di servire a tutti, sanza aspettare più comandamenti se n’andò col siniscalco. Il quale, poi che presso furono all’entrare della sala, le pose in mano un grande piattello d’argento, sopra ’l quale l’avvelenato paone dimorava, dicendo: Portalo avanti, però che più non è da stare -. Biancifiore, preso quello sanza farsene fare alcuna credenza, non avedendosi dello inganno, e con esso passò nella sala, nella quale, sì tosto com’ella entrò, parve che nuova e maravigliosa luce vi crescesse per la chiarezza che dal suo bel viso movea e fatta la debita reverenza al re, e con dolce saluto tutti gli altri che mangiavano salutati, s’appressò alla reale mensa, e con vergognoso atto, dipinta nel viso di quel colore che il gran pianeto, partendosi l’aurora, il cielo in diverse parti dipinge, così disse:
- Poi che gl’iddii si mostrano verso me graziosi e benigni, avendomi conceduto che io a questo onore, più tosto che alcuna altra giovane, eletta fossi a portare davanti alla vostra real presenza il santo uccello di Giunone, il quale per quella dea, al cui servigio già fu disposto, merita che qualunque alla sua mensa il dimanda si doni alcun vanto, il quale poi ad onore di lei con sollecitudine adempia: onde io per questo prendo ardire a dimandarlovi, e caramente vi priego che voi nè i vostri compagni a ciò rendere mi siate ingrati, ma con benigni aspetti continuiate la valorosa usanza. E voi, altissimo signore, sì come più degno per la real dignità, e per senno e per età, prima, se vi piace, comincerete, acciò che gli altri per essemplo di voi debitamente procedano -. E qui si tacque.
Al nuovo e mirabile splendore si voltarono tutti i dimoranti della gran sala, non meno che alla chiara voce di Biancifiore, piena di soavissima melodia; e a lei graziosamente rendero il suo saluto. E il re, il quale allegro era nell’animo però che già vedea per la pensata via appressarsi il disiderato fine, con lieto viso, poi che tutta la sala tacque, le disse: Certo, Biancifiore, la tua bellezza adorna di virtuosi costumi, e la degnità del santo uccello insieme, meritano degnamente ricchissimi vanti; nè a questi alcuno di noi può debitamente disdirsi: ond’io, sì come principale capo del nostro regno, comincerò, poi che la ragione e ’l tuo piacere l’adimanda -. E voltato verso l’antica imagine di Giove, nella sua sala riccamente effigiata, disse così: E io giuro per la deità del sommo Giove, la cui figura dimora davanti da noi, e per qualunque altro iddio insieme con lui possiede i celestiali regni, e per lo mio antico avolo Atalante, sostenitore d’essi regni, e per l’anima del mio padre, che avanti che ’l sole ritocchi un’altra volta quel grado ove egli ora dimorando ci porge lieta luce, se essi mi concedono vita, d’averti donato per marito uno de’ maggiori baroni del mio reame: e questo per amore del presente paone ti sia da ora promesso -. Assai coperse il re con queste parole il suo malvagio volere, ignorando quello che i fati gli apparecchiavano; e ella sospirando tacitamente al suono di queste parole, notò in se medesima i detti del re pigliandoli in buono agurio, fra sè dicendo: "Dunque avrò io per marito Florio, il quale io solo per marito e per amico disidero, però che nullo barone è maggiore di lui in questo regno"; poi, ringraziato il re onestamente e con sommessa voce, con picciolo passo procedette avanti, fermandosi nel cospetto di Parmenione, il quale incontanente così disse: Io prometto al paone che, se gl’iddii mi concedono che io vi vegga per matrimoniale patto donare ad alcuno, quel giorno che voi al palagio del novello sposo andrete, io con alquanti compagni, nobilissimi e valorosi giovani, vestiti di nobilissimi drappi e di molto oro rilucenti, adestreremo il vostro cavallo e voi sempre con debita reverenza e onore, infino a tanto che voi ricevuta nella nuova casa scavalcherete -. Adunque - disse Biancifiore - più che Giunone mi potrò io di conducitori gloriare -; e passò avanti ad Ascalion, che in ordine seguiva alla reale mensa, dicendo: O caro maestro, e voi che vantate al paone? -. Rispose Ascalion: Bella giovine, posto che io sia pieno d’età e che la mia destra mano già tremante possa male balire la spada, sì mi vanto io per amor di voi al paone, che quel giorno che voi novella sposa sarete, la qual cosa gl’iddii anzi la mia morte mi facciano vedere, io con qualunque cavaliere sarà nella vostra corte disideroso di combattere meco, con le taglienti spade sanza paura combatterò, obligandomi di sì saviamente combattere, che sanza offendere io lui o egli me, o voglia egli o no, io gli trarrò la spada di mano e davanti a voi la presenterò -. Ciascuno che questo udì si maravigliò molto, dicendo che veramente sarebbe da riputare valoroso chi tal vanto adempiesse. Ma Biancifiore andando avanti venne in presenza di Messaallino, il quale vedendola, quasi della sua bellezza preso, disse: Giovane graziosa, per amore di voi io vanto al paone che quel giorno che voi prima sederete alla mensa del novello sposo, io vi presenterò dieci piantoni di dattero coperti di frondi e di frutti, non d’una natura con gli altri, però che quelli, de’ quali la mia terra è copiosa, a ciascuna radice hanno appiccato un bisante d’oro -. Inchinandogli, Biancifiore il ringraziò; e volto i passi suoi verso il duca Ferramonte, che alla sinistra del re sedea, e davanti a lui posato il paone, gli richiese quello che avanti agli altri avea richiesto. A cui il duca rispondendo disse: E io imprometto al paone che per la piacevolezza vostra, il giorno che novella sposa sarete, e appresso tanto quanto la vostra festa durerà, di mia mano della coppa vi servirò quanto vi piaccia -. - Certo - disse Biancifiore - di tal servidore Giove non che io, si glorierebbe -; e passò avanti a Sara, il quale come davanti se la vide, disse: Io voto al paone che quel giorno che gl’iddii vi concederanno onore di matrimoniale compagno, io vi donerò una corona ricchissima di molte preziose pietre e di risplendente oro bellissima, e ove che io sia, se io saprò davanti la vostra festa, verrò a presentarlavi con le mie mani -. Il quale tacendo, subitamente Menedon soggiunse: E io prometto al paone che se gl’iddii mi concedono che io maritata vi veggia, tanto quanto la festa delle vostre nozze durerà, io con molti compagni, vestiti ciascuno giorno di novelli vestimenti di seta, sopra i correnti cavalli, con aste in mano e con bandiere bigordando e armeggiando, a mio potere essalterò la vostra festa -. Ringraziollo Biancifiore, e tornata indietro, davanti al re posò il paone, e così disse: Principalmente voi, o caro signore e singulare mio benefattore, e appresso questi altri baroni tutti, quanto io posso, degl’impromessi doni vi ringrazio, e priego gl’immortali iddii che, là dove la mia possa al debito guiderdone mancasse, che essi con la loro benigna mente di ciò vi meritino -. E questo detto, onestamente fatta la debita reverenza, si partì, e con lieto viso tornò alla reina narrandole gl’impromessi doni. A cui la reina disse: Ben ti puoi omai gloriare, pensando che uno sì fatto prencipe qual è il nostro re, e sei cotali baroni quali sono coloro che con lui sedeano, si sono tutti in tuo onore e piacere obligati -.
Rimase sopra la real mensa il velenoso uccello, il quale il re, come Biancifiore fu partita, comandò che tagliato fosse; per la qual cosa un nobilissimo giovane chiamato Salpadin, al re per consanguinità congiuntissimo, il quale quel giorno davanti li serviva del coltello, prese con presta mano il paone, e, gittata in terra alcuna estremità, incominciò a volere smembrare il paone; ma non prima caddero le gittate membra, che un cane piccioletto, al re molto caro, le prese, e, mangiandole, incontanente gl’incominciò a surgere una tumorosità del ventre, e venirgli alla testa, la quale tanto gliele ingrossò subitamente, che quasi era più la testa fatta grande che essere non solea tutto il corpo; e similemente discorsa per gli altri membri, oltre a’ loro termini grossi e enfiati gli fece divenire; e i suoi occhi, infiammati di laida rossezza parea che della testa schizzare gli dovessero, e con doloroso mormorio, mutandosi di più colori, disteso tal volta in terra e talora in cerchio volgendosi, in piccolo spazio scoppiando quivi morì. La qual cosa da molti veduta, la gran sala fu tutta a romore, e i soavissimi strumenti tacquero, mostrando questo al re, il quale incontanente gridò: E che può ciò essere? -. E voltato a Salpadin, il quale già volea fare la credenza, disse: Non tagliare; io dubito che noi siamo villanamente traditi: prendasi un altro membro del presente paone e gittisi ad un altro cane, però che questo qui presente morto per veleno mostra che morisse, onde che egli il prendesse, o delle stremità da te gittate in terra, o d’altra parte -. Salpadin sanza alcuno dimoro gittò la seconda volta un maggiore membro ad un altro cane, il quale non prima mangiato l’ebbe, che, con simile modo voltandosi che ’l primo, del mortale dolore affannato, cadde e quivi in presenza di tutti morì. Onde il re con furioso atto gridando: Chi ha la nostra vita con veleno voluta abreviare? -, e gittata in terra la tavola che davanti a lui era, si dirizzò, e comandò che subitamente Biancifiore e ’l siniscalco e Salpadin fossero presi, però che di loro dubitava che alcuno d’essi tre avvelenare l’avesse voluto co’ suoi compagni. O sommo Giove, or non potevi tu sostenere che quel cibo avesse ingannato lo ’ngannatore, avanti che la innocente giovane tanta persecuzione ingiustamente sostenesse? Or tu sofferesti che i tuoi compagni fossero co’ membri umani tentati alla tavola di Tantalo, quando a Pelopo, perduto l’omero, fu rifatto con uno d’avorio; e similemente sostenesti che il misero Tireo fosse sepoltura dell’unico suo figliuolo! Erati così grave per giusta vendetta abbagliare lo iniquo senso del re Felice? Ma tu forse per fare con gli avversi casi conoscere le prosperità, pruovi le forze degli umani animi, poi con maggior merito guiderdonandoli.
Furono presi i tre sanza niuno dimoro con noiosa furia, e messi in diverse prigioni. Ma poi che Biancifiore fu subitamente presa, niuno fu che mai parlare le potesse, nè ella ad altrui. Del siniscalco e di Salpadin furono le scuse diligentemente intese, e per innocenti in brieve lasciati, mostrando il siniscalco davanti a tutta gente con false menzogne Biancifiore e non altri avere tal fallo commesso. Di questo ciascuno si maravigliò, non potendo alcuno pensare nè credere che Biancifiore avesse tal malvagità pensata; ma pure il manifesto presentare del paone facea a molti non potere disdire quello che e’ medesimi non avrebbero voluto credere. Ma poi che il gran romore fu alquanto racchetato, e il siniscalco e Salpadin per le loro scuse sprigionati, il re fece chiamare a consiglio molta gente, e principalmente coloro che con lui erano quella mattina stati alla tavola, e adunato con molti in una camera, disse così: Sanza dubbio credo che a voi sia manifesto che io oggi sono stato in vostra presenza voluto avvelenare; e chi questo abbia voluto fare, ancora è apertissimo per molte ragioni che Biancifiore è stata; la qual cosa molto mi pare iniqua a sostenere che sanza debita punizione si trapassi, pensando al grande onore che io nella mia corte l’ho fatto, sì come di recarla da serva a libertate, farla ammaestrare in iscienza e continuamente vestirla di vestimenti reali col mio figliuolo, datala in compagnia alla mia sposa, credendo di lei non nimica ma cara figliuola avere. E sì come avete potuto questa mattina udire, non si finiva questo anno che io intendea di maritarla altamente, però che vedea già la sua età richiedere ciò. E di tutto questo m’è avvenuto come avviene a chi riscalda la serpe nel suo seno, quando i freddi aquiloni soffiano, che egli è il primo morso da lei. Vedete che similmente ella in guiderdone del ricevuto onore m’ha voluto uccidere: e sì avrebbe ella fatto, se ’l vostro avedimento non fosse stato. Laonde io intendo, come detto v’ho, di volerla di ciò gravemente punire, acciò che mai alcuna altra a sì fatto inganno fare non si metta. Ma però che di ciò dubito non mi seguisse più vergogna che onore, se subitamente il facessi, però che parrà a molti impossibile a credere questo per la sua falsa piacevolezza, la quale ha molto presi gli animi, n’ho voluto e voglio primieramente il vostro consiglio, e ciò tutti fidelmente porgere mi dovete, disiderando il mio onore e la mia vita, sì come membri e vero corpo di me, vostro capo.
Lungamente si tacque ciascuno, poi che il re ebbe parlato; e bene avrebbero volontieri risposto il duca e Ascalion, però che a loro parea manifestamente conoscere chi questo veleno avea mandato e ordinato; ma però che la volontà del re conobbero, ciascuno si tacque, dubitando di non dispiacergli. E similmente fecero tutti quelli che presente lui erano, fuori che Massamutino, il quale dopo lungo spazio, dimorando tutti gli altri taciti, si levò e disse: Caro signore, io so che ’l mio consiglio sarà forse tenuto da questi gentili uomini qui presenti sospetto per la presura che di me subita fare faceste sanza colpa, e so che diranno che ciò che io consiglierò, io il faccia a fine di scaricare me e di levare voi di sospezione; ma io non guarderò già a quello che alcuno possa dire o dica, che io non vi dia quello consiglio in ciò che dimandato avete, che a legittimo e vero signore donar si dee, in tutto ciò che per me conosciuto sarà, sempre riservandomi allo ammendamento di voi dov’io fallissi. E così m’aiutino gl’immortali iddii, com’io se non quello che diritta coscienza mi giudicherà non dirò; e dico così: "Il fallo, il quale Biancifiore ha fatto, è tanto manifesto, che in alcuno atto ricoprire non si puote, nè simigliantemente si può occultare il grande onore da voi fatto a lei: per lo quale avendo ella voluto sì fatto fallo fare, merita maggiore pena. E certo, se quello che in effetto s’ingegnò di mettere, avesse solamente pensato, merita di morire". Onde per mio consiglio dico e giudico che misurando giustamente la pena col fallo che ella muoia: e sì come ella volle che la vostra vita per la focosa forza del veleno si consumasse, così la sua con ardente fuoco consumata sia. E certo tale giudicio pare a me medesimo crudele; e non volontieri il dono per consiglio che si dea, però che per la sua piacevole bellezza assai l’amava; ma nella giustizia, nè amore, nè pietà, nè parentado, nè amistà dee alcuno piegare dalla diritta via della verità. Non per tanto, voi siete savio, e appresso di molti più savii uomini che io non sono avete, e sì come signore potete ogni mio detto indietro rivocare e mettere ad essecuzione. Però là ove nel mio consiglio, il quale giusto al mio albitrio v’ho donato, si contenesse fallo, saviamente l’ammendate -. E più non disse.
Non fu alcuno degli altri nobili uomini, che nel consiglio del re sedeano, che si levasse a parlare contro a Biancifiore, ma tacendo tutti, di questa opera stupefatti, dierono segno di consentire al detto del siniscalco, posto che a molti sanza comparazione dispiacesse, sentendo che Biancifiore era in prigione, per maniera che sua ragione scusandosi non potea usare: e volontieri per difender lei avrebbero parlato, ma quasi ciascuno s’era aveduto che al re piaceano queste cose e che con sua volontà eran fatte, onde per non spiacerli ciascuno taceva. Perchè vedendo questo il re, che oltre al detto del siniscalco niuno dicea, nè a quello era alcuno che apponesse, disse: Adunque, signori, per mio avviso pare che consigliate che Biancifiore di fuoco deggia morire, e certo in tal parere n’era io medesimo; e però vengano immantanente i giudici, i quali di presente la giudichino, che sanza giudiciale sentenza io non intendo di farla di fatto morire, acciò che alcuno non potesse dire che io i termini della ragione in ciò trapassassi, nè similemente voglio a fare la giustizia dare troppo indugio, però che le troppo indugiate giustizie molte volte sono da pietà impedite, nè hanno poi loro compimento -. Furono di presente i giudici al cospetto del re, il quale loro comandò che sanza dimoro la crudele sentenza dessero contro a Biancifiore. Al quale i giudici risposero: Signore, le leggi ne vietano di dover dare in dì solenne mortale sentenza contro ad alcuna persona, e oggi è giorno di tanta solennità, quanta voi sapete; ma noi scriveremo il processo ordinatamente, e al nuovo giorno la daremo sanza fallo, e la faremo mettere in essecuzione -. A’ quali il re disse: Poi che oggi le leggi il ne vietano, domattina per tempo sanza dimoro si faccia -. E questo detto, si partì dallo iniquo consiglio. Ma il duca e Ascalion sanza prendere alcun congedo si partirono, non volendo udire la iniqua sentenza; e avanti che ’l sole le sue luci messe avesse sotto l’onde occidentali, giunsero a Montoro, ove smontarono, faccendo a Florio gran festa, il quale solo e con molti pensieri trovarono.
Era Biancifiore con la reina ancora recitando i vanti de’ gran baroni, quando i furiosi sergenti vennero impetuosamente sanza niuno ordine a prenderla e lei piangendo, sanza dire per che presa l’avessero, la ne portarono. O misera fortuna, subita rivolgitrice de’ mondani onori e beni, poco davanti niuno barone era nella real corte, che a Biancifiore avesse avuto ardire di porre la mano adosso, o di farne sembiante, ma ciascuno s’ingegnava di piacerle, e ora a vilissimi ribaldi sì disprezzare consentisti la sua grandezza, che, sanza narrare il perchè, presala oltraggiosamente, la menaron via. Certo con poco senno si regge chi in te ferma alcuna speranza. Di questo mostrò la reina grandissimo dolore, e molto ne pianse, ricoprendo con quelle lagrime il suo tradimento davanti ordinato. E veramente e’ ne le pur dolfe, posto che assai tosto di tal doglia prendesse consolazione imaginando che per la morte di lei, già messa in ordine da non poter fallire al suo parere, l’ardente amore si partirebbe del petto di Florio. Ma i fati non serbavano a sì leale amore, quale era quello intra’ due amanti, sì corta fine nè sì turpissima, come costoro loro voleano sanza cagione apparecchiare.
Quel giorno nel quale la gran festa si facea in Marmorina, era Florio rimaso tutto soletto di quella compagnia che più gli piacea, ciò era del duca e di Ascalion, a Montoro; e molto pensoso e carico di malinconia, ricordandosi che in così fatto giorno egli con la sua Biancifiore, vestiti d’una medesima roba, soleano servire alla reale tavola, e avere insieme molta festa e allegrezza di canti e d’altri sollazzi. Ond’egli sospirando, così cominciò a dire: O anima mia, dolce Biancifiore, che fai tu ora? Deh, ora ricorditi tu di me, sì come io fo di te? Io dubito molto che altro piacere non ti pigli per la mia assenza. Oimè, perchè non è egli licito solamente di poterti vedere a me, il quale mi ricordo che in sì fatto giorno più volte t’ho già abbracciata, porgendoti puerili e onesti baci? Ove sono ora fuggiti i verdi prati, ne’ quali Priapo più volte ci coronò di diversi fiori, cogliendoli noi con le nostre mani? E ove sono le ricche camere, le quali de’ nostri dimoramenti si rallegravano? Deh, perchè non sono io con teco, così come io soleva, continuamente, o almeno di tanti quanti giorni l’anno volge uno solo? O perchè non mi se’ tu mandata come tu mi fosti promessa? Io credo che ’l mio padre m’inganna, come tu mi dicesti. E tu ora credo che dimori nella gran sala, e dai col tuo bel viso nuova luce a molti, di tal grazia indegni, e a me misero, che più che altra cosa ti disidero, m’è tolto il vederti. Maladetta sia quella deità che sì m’ha fatto vile, che io per paura di mio padre dubito di venirti a vedere, e ora ch’io possa o vederti o esser veduto. Oimè, quanto m’offende quella piccola quantità di via che ci divide! Deh, maladetto sia quel giorno ch’io da te mi partii, che mai alcuno diletto non sentii, posto che tu alcuna volta dormendo io, essendomi tu con benigno aspetto apparita, m’hai alquanto consolato: la qual consolazione in gravoso tormento s’è voltata, sì tosto com’io mi sveglio dallo ingannevole sonno, pensando che veder non ti possa con gli occhi della fronte. O sola sollecitudine della mia mente, gl’iddii mi concedano che io alcuna volta anzi la mia morte veder ti possa; la qual cosa converrà che sia, se io dovessi muovere aspre battaglie contro al vecchio padre, o furtivamente rapirti delle sue case. E a questo, se egli non mi ti manda o non mi fa dove tu sia tornare, non porrò lungo indugio, però che più sostenere non posso l’esserti lontano -. E mentre che Florio queste parole e molte altre sospirando dicea, continuamente al caro anello porgea amorosi baci, sempre riguardandolo per amor di quella che donato glielo avea. E in tal maniera dimorando pensoso, soave sonno gli gravò la testa, e, chiusi gli occhi, s’addormentò; e dormendo nuova e mirabile visione gli apparve.
A Florio parve subitamente vedere l’aere piena di turbamento, e i popoli d’Eolo, usciti del cavato sasso, sanza niuno ordine furiosi recare da ogni parte nuvoli, e commuovere con sottili entramenti le lievi arene sopra la faccia della terra, mandandole più alte che la loro ragione, e fare sconci e spaventevoli soffiamenti, ingegnandosi ciascuno di possedere il luogo dell’altro e cacciar quello; e appresso mirabili corruscazioni e diversi suoni per isquarciate nuvole, le quali parea che accendere volessero la tenebrosa terra; e le stelle gli parea che avessero mutata legge e luoghi, e pareali che ’l freddo Arturo si volesse tuffare nelle salate onde, e la corona della abandonata Adriana fosse del suo luogo fuggita, e lo spaventevole Orione avesse gittata la sua spada nelle parti di ponente; e dopo questo gli parve vedere i regni di Giove pieni di sconforto, e gl’iddii piangendo visitare le sedie l’uno dell’altro; e pareali che gli oscuri fiumi di Stige si fossero posti nella figura del sole, però che più non porgea luce; e la luna impalidita avea perduti i suoi raggi, e similmente tutti gli altari di Marmorina gli pareano ripieni d’innocente sangue umano, e tutti i cittadini piangere con altissimi guai sopr’essi. I paurosi animali e feroci insiememente per paura gli parevano fuggir nelle caverne della terra, e gli uccelli ad ora ad ora cader morti, nè parea che albero ne potesse uno sostenere. E poi che queste cose a Florio, che di paura piangea, si mostrarono, gli parea veder davanti a sè la santa dea Venus, in abito sanza comparazione dolente, e vestita di neri e vilissimi vestimenti tutta stracciata piangendo, alla quale Florio disse: O santa dea qual è la cagione della tua tristizia, la quale movendomi a pietà mi costringe a piagnere, come tu fai? E dimmi, perchè è il subito mutamento de’ cieli e della terra avvenuto? Intende Giove di fare l’universo tornare in caos come già fu? Nol mi celare, io te ne priego, per la virtù del potente arco del tuo figliuolo -. - Oimè misera - rispose Venus, - or etti occulta la cagione del pianto degli uomini, dell’aere e degl’iddii? Levati su, che io la ti mostrerò -; e preso Florio, involtolo seco in una oscura nuvola, sopra Marmorina il portò, e quivi gli fece vedere l’avvelenato paone posto in mano a Biancifiore dal siniscalco, e ’l pensato inganno, e la subita presura, e ’l crudele rinchiudimento, e la malvagia sentenza della morte ordinata di dare contro a Biancifiore: le quali cose mostrategli, riposatolo piangendo di vere lagrime nella sua camera, gli disse: Ora t’è manifesta la cagione del nostro pianto -. - Oimè! - rispose Florio, - quando io ti vidi, santa madre del mio signore, sanza la risplendente luce degli occhi tuoi e sanza gli adorni vestimenti, privata della bella corona delle amate frondi da Febo, incontanente mi corse all’animo la cagione la quale tu hai ora fatta visibile agli occhi miei: ond’io ti priego che mi dichi qual morte più crudele io posso eleggere, poi che Biancifiore muore. Insegnalami, chè io non voglio vivere appresso la sua morte. Io sono disposto a volere seguire la sua anima graziosa ovunque ella andrà, e essere così congiunto a lei nella seconda vita come nella prima sono stato: o tu mi mostra qual via c’è alla difensione della sua vita, se alcuna ce n’è, però che nullo sì alto nè sì grande pericolo fia, al quale io non mi sottometta per amore di lei, e che tutto non mi paia leggerissimo -. A cui Citerea così rispose: Florio, non credere che il pianto mio e degli altri dei sia perchè noi crediamo che Biancifiore deggia morire, chè noi abbiamo già la sua morte cacciata con deliberato consiglio, e proveduto al suo scampo, come appresso udirai; ma noi piangiamo però che la natura, vedendosi sopra sì bella creatura, come è Biancifiore, offendere dalla crudeltà del tuo padre, quando a morte ordinò che sentenziata fosse, ci si mostrò sagliendo a’ nostri scanni, sì mesta e dolorosa, che a lagrimare ci mosse tutti, e fececi intenti alla sua diliberazione. E similmente l’aria e la terra e le stelle a mostrar dolore con diversi atti costrinse. E però che tu per lei verrai a maggiori fatti, che tu medesimo non estimi, dopo molte avversità vogliamo che in questa maniera al suo scampo t’esserciti. Tu, sì tosto come il sole avrà i raggi suoi compiendo l’usato cammino nascosi, occultamente di queste case ti partirai, e andranne a quelle di Ascalion, a te fidelissimo amico e maestro, e fidandoti sicuramente a lui, di tutto il tuo intendimento ti farai armare di fortissime armi e buone, e fara’ti prestare un corrente cavallo e forte; e quando questo fatto avrai, sanza alcuna compagnia fuori che della sua, se egli la ti profferrà, celatamente prendi il cammino verso la Braa, però che in quel luogo sarà la tua Biancifiore menata da coloro che d’ucciderla intendono. La sorella di colui che mena i poderosi cavalli portanti l’etterna luce, la quale, ancora pochi dì sono, vi si mostrò sanza alcuno corno tutta nella figura del celestiale Ganimede, m’ha promesso di porgerti sicuro cammino con la sua fredda luce; quivi con questa spada la quale io ti dono, fatta per le mani del mio marito Vulcano, quando bisognò alla battaglia degl’ingrati figliuoli della terra, a me prestata da Marte, mio carissimo amante, aspetterai chetamente insino a tanto che la tua Biancifiore vedrai menare per esserle data l’ultima ora. E allora, sanza alcuno indugio, cacciata da te ogni paura, con ardito cuore ti trai avanti sanza farti a nullo conoscere, e contradì a tutto il presente popolo che Biancifiore ragionevolemente non è stata condannata a morte, nè dee morire, e che ciò tu se’ acconcio a provare contro a qualunque cavaliere o altra persona di questo volesse dire altro; e non dubitare d’assalire tutto il piano pieno del marmorino popolazzo, se bisogno ti pare che ti faccia, però che contro a questa spada che io ti dono, niuna arme potrà durare, e il mio Marte m’ha giurato e promesso per li fiumi di Stige di mai non abandonarti. Nè v’è alcuno iddio che al tuo aiuto non sia prontissimo e volonteroso, e io mai non ti abandonerò: però sicuramente ti metti al suo scampo chè la fortuna graziosamente t’apparecchia onorevole vittoria. La quale quando avrai avuta, e levata Biancifiore dal mortal pericolo, prendera’la per mano e rendera’la al tuo padre, raccomandandogliele tutt’ora sanza farti conoscere; e ritornando a Montoro fa che sopra gli altari di Marte e sopra i miei accenda luminosi fuochi con graziosi sacrificii, e quivi mi vedrai essere venuta del mio antico monte, della mia natività glorioso, con gli usati vestimenti significanti letizia, circundata di mortine e coronata delle liete frondi di Pennea, e stare sopra li miei altari a te manifestamente visibile; e coronerotti della acquistata vittoria; e di queste cose dette, fa che in alcuna non falli per alcuno accidente; nè per parole che Ascalion ti dicesse, da questa impresa ti rimanghi -. E dette queste parole, lasciata nella destra mano di Florio la sopradetta spada, si partì subitamente tornando al cielo.
Tanto fu a Florio più il dolore delle vedute cose che l’allegrezza della futura vittoria a lui promessa da Venere, che piangendo elli forte, e veggendo partire la santa dea, rompendosi il debile sonno, si destò, e subitamente si dirizzò in piè, trovandosi il petto e ’l viso tutto d’amare lagrime bagnato, e nella destra mano la celestiale spada: di che quasi tutto stupefatto, conobbe essere vero ciò che veduto avea nella preterita visione. E tornandogli a mente la sua Biancifiore e della cagione per che da lei avea ricevuto il bello anello, e della virtù d’esso, piangendo il riguardò dicendo: Questo fia infallibile testimonio alla verità -; e riguardandolo, il vide turbatissimo e sanza alcuna chiarezza. Allora cominciò Florio il più doloroso pianto che mai veduto o udito fosse, mescolato con molte angosciose voci, dicendo: O dolce speranza mia, per la quale io infino a qui in doglia e in tormenti mi sono contentato di vivere sperando di rivederti in quella allegrezza e festa che io già molte volte ti vidi, quale avversità ti si volge al presente sopra? Or non bastava alla invidiosa fortuna d’averci dati tanti affannosi sospiri allontanandoci, se ella ancora con mortal sentenza non ci vuole dividere, e porgerci maggiore angoscia? Oimè, or chi è colui che cerca falsamente di volerti levare la vita, e a me insiememente? Chi è quegli che ingiustamente ti fa nocente il mio vecchio padre? Oimè, or crede egli far morire te sanza me? Vano pensiero lo ’nganna. Oimè, è questa la festa ch’io soglio in tal giorno avere con teco? Ahi, dolorosa la vita mia, da quante tribulazioni è circundata! Certo, cara giovane, niuno a mio potere ti torrà la vita: o questa spada la racquisterà a te e a me come promesso m’è stato, tenendola io nella mia mano combattendo, o ella si bagnerà nel mio cuore cacciandovela io, o io diverrò cenere con teco in uno medesimo fuoco, come Campaneo con la sua amante donna divenne a piè di Tebe -. E dicendo Florio queste parole piangendo, il duca, che dalla dolente festa tornava, venne; il quale come Florio sentì, celando il nuovo dolore, nel viso allegrezza mostrando, e andatogli incontro lietamente nelle sue braccia il ricevette, faccendosi festa insieme, però che di perfetto amore amavano e come essi insieme furono nella sala montati, Florio domandò il duca della festa, se era stata bella e se egli avea veduta Biancifiore. Il duca rispose che la festa era stata bella e grande, e che niuna cosa v’era fallita, fuori solamente la sua presenza; e tutto per ordine gli narrò ciò che fatto vi s’era, e de’ vanti che dati s’aveano al paone che Biancifiore avea portato. Ma ben si guardò di non dire l’ultima cosa che avvenuta v’era, cioè dell’avvelenato paone, per lo quale Biancifiore dovea morire, per tema che Florio non se ne desse troppa malinconia, e di ciò s’avvide ben Florio, che ’l duca si guardava di dirgli quello che egli non avrebbe voluto che avvenuto fosse: però, sanza più adimandare, disse che ben gli piaceva che la festa era stata bella e grande, e che volontieri vi sarebbe stato se agl’iddii fosse piaciuto.
Già aveva Febo nascosi i suoi raggi nelle marine onde, quando, preso il cibo, il duca insiememente con Florio cercarono i notturni riposi. Ma Florio porta nell’animo maggiore sollecitudine che di dormire, e sanza adormentarsi aspetta che gli altri s’addormentino della casa; i quali non così tosto come Florio avrebbe voluto s’andarono a letto, ma ridendo e gabbando e con diversi ragionamenti gran parte della notte passarono, la quale Florio tutta divise per ore, con angosciosa cura dubitando non s’appressasse l’ora che andare di necessità gli convenisse, e fosse veduto. Ma poi che ciascuno pose silenzio e la casa fu d’ogni parte ripiena d’oscurità, Florio con cheto passo, aperte le porti del gran palagio con sottile ingegno, sanza farsi sentire passò di fuori, e tutto soletto pervenne all’ostiere di Ascalion, ove più voci chiamò acciò che aperto gli fosse. E ’l primo che alla sua voce svegliato si levò fu Ascalion, il quale sanza niuno indugio corse ad aprirgli, maravigliandosi forte della sua venuta, e del modo e dell’ora non meno. E poi che essi furono dentro alla fidata camera sanza altra compagnia, Ascalion disse: Dimmi, quale è stata la cagione della tua venuta a sì fatta ora, e perchè se’ venuto solo? -. E mentre che queste parole dicea, dubitava molto non il duca gli avesse detto lo ’nfortunio di Biancifiore. Ma Florio rispose: La cagione della mia venuta è questa. A me fa mestiere d’essere tutto armato e d’avere un buon cavallo. Onde io non sappiendo ove di tale bisogna fossi più fedelmente nè meglio servito che qui, qui a venire mi dirizzai più tosto che in altra parte: priegovi che vi piaccia di questo tacitamente servirmi incontanente -. E mentre che diceva queste cose, con gran fatica riteneva le lagrime, le quali dal premuto cuore, ricordandosi perchè queste cose volea, si moveano. Disse Ascalion: Niuna cosa ho nè potrei fare che al tuo piacere non sia; ma qual è la cagione di sì subita volontà d’armarti? Perchè non aspetti tu il nuovo giorno? Armandosi l’uomo a questa ora, non veggendo alcuna necessità espressa, parrebbe un volere matto e subito, sì come sogliono essere quelli degli uomini poco savi e che hanno il natural senno perduto; ma se tu mi di’ perchè a questo se’ mosso, la cagione potrebbe essere tale che io loderei che la tua impresa si mettesse avanti. Già sai tu bene che di me tu ti puoi interamente fidare, con ciò sia cosa che io lungamente in diverse cose ti sia stato maestro fedelissimo, e amatoti come se caro figliuolo mi fossi stato: dunque non ti guardar da me -. Florio rispose: Caro maestro, veramente se alcuna virtù è in me, dagl’iddii e da voi la riconosco; e sanza dubbio, se io non avessi avuto in voi somma fede, niuno accidente per tal cosa mi ci avrebbe potuto tirare; ma poi che vi piace di sapere il perchè a questa ora per l’armi io sia venuto, io il vi dico. A voi non è stato occulto l’ardente amore che io ho a Biancifiore portato e porto, della quale, oggi, dormendo io, mi furon mostrate dalla santa Venus di lei dolorose cose: però che io stando con lei sopra a Marmorina in una oscura nuvola, vidi chiamare la mia semplice giovane, e porle uno avvelenato paone in mano, e vidiglielo portare per comandamento altrui alla reale mensa ove voi sedevate; e dopo questo vidi e udii il gran romore che si fece, aveggendosi la gente dello avvelenato paone, e lei vidi furiosamente mettere in uno cieco carcere; e ancora dopo lungo consiglio vidi scrivere il processo della iniqua sentenza, che dare si dee domattina contra di lei. E queste cose tutte vedeste voi, nè me ne dicevate niente. Ma io ne ringrazio gl’iddii che mostrate le m’hanno, e datomi vero aiuto e buono argumento a resistere alla crudel sentenza e ad annullarla, sì com’io credo fare con questa spada in mano, la quale Venere mi donò per la difensione di Biancifiore. E se il potere mi fallisse, intendo di volere anzi con esso lei in un medesimo fuoco morire, che dopo la sua morte dolorosamente vivendo stentare -. - Oimè, dolce figliuolo - disse Ascalion, - che è quello che tu vuoi fare? Per cui vuoi tu mettere la tua vita in avventura? Deh, pensa che la tua giovane età ancora è impossibile a queste cose, e massimamente a sostenere l’affanno delle gravanti armi. Deh, riguarda la tua vita in servigio di noi, che per signore t’aspettiamo, e lascia dare i popolareschi uomini a’ fati. Tu vuoi combattere per Biancifiore, la quale è femina di piccola condizione, figliuola d’una romana giovane, alla quale essendo stato ucciso il suo marito, per serva fu donata alla tua madre. Ma tu forse guardi al grande onore che tuo padre l’ha fatto per adietro, e quinci credi forse ch’ella sia nobilissima giovane: tu se’ ingannato, però che questo non le fu fatto se non perchè ella fu tua compagna nel nascimento. Non è convenevole a te amare femina di sì piccola condizione; e però lasciala andare e compiere i doveri della giustizia, e poi che ella ha fatta l’offesa, lasciala punire. Non ti recare nella mente sì fatte cose, nè dare speranza a’ sogni, i quali per poco o per soperchio mangiare, o per imaginazione avuta davanti d’una cosa, sogliono le più volte avvenire, nè mai però se ne vide uno vero; e se pur fai quello che proposto hai, nullo fia che non te ne tenga poco savio, e al tuo padre darai materia di crucciarsi e d’infiammarsi più verso di lei: onde lascia stare questa impresa, io te ne priego -. Allora Florio, con turbato viso riguardandolo nella faccia disse: Ahi, villano cavaliere, e sconoscente e malvagio, qual cagione licita o ancora verisimile vi muove a biasimare Biancifiore e chiamarla figliuola di serva? Non v’ho io più volte udito raccontare che ’l padre di Biancifiore fu nobilissimo uomo di Roma, e d’altissimo sangue disceso? Certo si ho. E quando questo non fosse mai vero, natura mai non formò sì nobile creatura com’ella è, però che non le ricchezze o il nascere de’ possenti e valorosi uomini fanno l’uomo e la femina gentile, ma l’animo virtuoso con le operazioni buone. Essa per la sua virtù si confarebbe a molto maggior prencipe che io non sarò mai; e posto che di quello che io intendo di fare, la vil gente ne parli men che bene, i valorosi me ne loderanno, avvegna che io sì segretamente lo ’ntendo di fare, che alcuno nol saprà già mai. E se si pur sapesse e parlassesene, il robusto cerro cura poco i sottili zeffiri, e il giovane poppio non può resistere a veloci aquiloni. Faccia l’uomo suo dovere, parli chi vuole. E sanza dubbio del cruccio del mio padre io mi curo poco, ch’è uomo di sì vile animo come io il sento, che s’è posto a volere con falsità vendicare le sue ire sopra una giovane donzella e innocente, sua benivolenza o amistà si dee poco curare, e in gran grazia mi terrei dagl’iddii che egli mi uscisse davanti a contradire la salute di Biancifiore, acciò che io con quel braccio, col quale ancora, se fosse quell’uomo quale esser dovrebbe il dovrei aver sostenuto, gli levi la vita mandandolo ai fiumi d’Acheronta, ove la sua crudeltà avrebbe luogo: vecchio iniquissimo ch’egli è, che nell’ultima parte de’ suoi giorni, alla quale quando gli altri, che sono stati in giovinezza malvagi pervengono, si sogliono col bene operare riconciliare agl’iddii, incomincia a divenire crudele e a fare opere ingiuste. E di ciò che o piacere o dispiacere ch’io gliene faccia, mai della mia mente non si partirà Biancifiore, nè altra donna avrò già mai; nè mi parrà grave il peso dell’armi in servigio di lei. E certo Achille non avea molto più tempo ch’io abbia ora, quando egli abandonando i veli insieme con Deidamia, venne armato a sostenere i gravi colpi d’Ettore fortissimo combattitore, nè Niso era di tanto tempo quanto io sono, quando sotto l’armi incominciò a seguire gli ammaestramenti d’Euriello. Io sono giovane di buona età, volonteroso alle nuove cose, innamorato e difenditore della ragione, e emmi stata promessa vittoria dagl’iddii, e veggo la fortuna disposta a recarmi a grandi cose, la quale noi preghiamo tutto tempo che in più alto luogo ci ponga della sua rota. Ora poi che ella con benigno viso mi porge i dimandati doni, follia sarebbe a rifiutarli, chè l’uomo non sa quando più a tal punto ritorni. Io m’abandonerò a prendere ora che mi par tempo, e salirò sopra la sua rota; quivi, sanza insuperbire, quanto potrò in alto mantenermi, mi manterrò. E se avviene che alcuna volta scendere mi convenga, con quella pazienza che io potrò, sosterrò l’affanno. Nè mi vogliate fare discredere quello che la vera visione m’ha mostrato, dicendo che i sogni sieno fallaci e voti d’ogni verità: poi che voi non me lo voleste dire, tacete del farmelo discredere, però che io n’ho più testimoni a questa verità, chè principalmente il mio anello con la perduta chiarezza mi mostrò l’affanno di Biancifiore: la celestiale spada, ritrovandomela nella destra mano quando mi svegliai, m’affermò la credenza delle vedute cose e la speranza della futura vittoria. Ma forse voi dubitate di farmi il servigio, e però con tante contrarietà v’andate al mio intendimento opponendo. Onde io vi priego, sanza più andarmi con cotali circustanze faccendomi perder tempo, mi rispondiate se fare lo volete o no: ch’io vi prometto che mai io non sarò lieto, nè dalla mia impresa mi partirò, infino a tanto che io con la destra mano non avrò liberata Biancifiore dal fuoco, e da qualunque altro pericolo le soprastesse -. Quando Ascalion udì così parlare Florio e videlo pur fermo in voler difendere Biancifiore, assai se ne maravigliò del gran cuore che in lui sentiva, e più della nuova visione e della spada a lui donata, la quale non gli parea opera fatta per mano d’uomo, e fra sè disse: "Veramente la fortuna ti vuole recare a grandissime cose, delle quali forse questa fia il principio, e gl’iddii mostra che ’l consentano". E poi rispose a lui: Florio, sanza ragione mi chiami villano e malvagio, però che quel ch’io ti dicea, io nol ti dicea che io non conoscessi bene ch’io non dicea vero, ma io il dicea acciò che da questa impresa ti ritraessi, se potuto avessi ritrartene. E se io avessi dal principio conosciuto che così fermamente t’avessi posto in cuore di far questo, certo sanza niuna altra parola io t’avrei detto: "andiamo"; ma io volea provare altressì con che animo ci eri disposto. E non dire ch’io dubiti di servirti, ch’io voglio che manifesto ti sia che alcuno disio non è in me tanto quanto quello fervente. Ond’io caramente ti priego, poi che del tutto alla difensione di Biancifiore se’ fermo, che, se ti piace, lasci a me questo peso, perchè tu non sai chi avanti ti dee uscire a resistere al tuo intendimento. E nella corte del tuo padre sanza fallo ha molti valorosi cavalieri, e espertissimi e usati in fatto d’arme lungamente, a quali tu ora, novello in questo mestiero, non sapresti forse così resistere come si converrebbe. E non ti voler rifidare in sola la forza della tua giovanezza, chè non solamente i forti bracci vincono le battaglie, ma i buoni e savi provedimenti danno vittoria le più volte. Posto che io, già vecchio, non ho forse i membri guari più poderosi di te, io pur so meglio di te quel colpo che è da fuggire e quello che è da aspettare e quando è da ferire e quando è da sostenere, sì come colui che dalla mia puerizia in qua mai altra cosa non feci. E d’altra parte, se io fossi soperchiato, a te non manca il potere allora combattere, e combattendo provarti, e soccorrere me e Biancifiore -. A cui Florio rispose brievemente: Maestro, io ora novellamente porterò arme; io come detto v’ho, sono giovane, e amore mi sospinge, e la buona speranza: io voglio sanza niuno fallo essere il difenditore di quella cosa che io più amo, chè non m’è avviso che alcuno cavaliere, non tanto fosse valoroso e dotto in opera d’arme, potesse qui adoperare quanto potrò io. E se io consentissi che voi v’andaste voi a combattere, e foste vinto, a me non si converrebbe d’andare a volere racconciare quello che voi aveste guasto nè potrei nè mi sarebbe sofferto. Io voglio incominciare a provare quello affanno che l’armi porgono. Io ho tanto sofferto amore, che ben credo poter sofferire l’armi a una picciola battaglia. E nella giovanezza si deono i grandi affanni sostenere, acciò che famoso vecchio si possa divenire. E se pure avvenisse che la speranza della vittoria mi fallisse, io farò sì che la vita e la battaglia perderò a un’ora, la qual cosa mi fia molto più cara che se io, dopo la morte di Biancifiore, rimanessi in vita; del vostro aiuto so che poi Biancifiore non si curerebbe, sì che più ch’uno non bisognerà che combatta -. Disse Ascalion: Poi ch’elli ti piace che così sia, e io ne son contento, ma veramente io non ti abandonerò mai; e se io vedessi che il peggio della battaglia avessi mai, chiunque ucciderà te, ucciderà me altressì, avanti che io la tua morte vedere voglia. Ma io priego gl’iddii, se mai alcuna cosa appo loro meritai, che ti donino la disiderata vittoria, come promesso t’hanno, acciò che io teco insieme, riprovata la iniquità del tuo padre e scampata Biancifiore, mi possa di sì prospero principio rallegrare -.
Veduta Ascalion la ferma volontà di Florio, sanza più parlare, egli lo ’ncominciò ad armare di bella e buona arme; e poi ch’egli gli ebbe fatto vestire una grossa giubba di zendado vermiglio, gli fece calzare due bellissime calze di maglia, e appresso i pungenti speroni; e sopra le calze gli mise un paio di gambiere lucenti come se fossero di bianco argento, e un paio di cosciali; e similemente fattegli mettere le maniche e cignere le falde, gli mise la gorgiera; e appresso gli vestì un paio di leggierissime piatte, coperte d’un vermiglio sciamito, guarnite di quanto bisognava nobilmente e fini ad ogni pruova. E poi che gli ebbe armate le braccia di be’ bracciali e musacchini, gli fece cingere la celestiale spada, dandogli poi un bacinetto a camaglio bello e forte, sopra ’l quale un fortissimo elmo rilucente e leggiero, ornato di ricchissime pietre preziose, sopra ’l quale un’aquila con l’alie aperte di fino oro risplendeva, gli mise, donandoli un paio di guanti quali a tanta e tale armadura si richiedevano, e appresso il sinistro omero gli armò d’un bello scudetto e forte e ben fatto, tutto risplendente di fino oro, nel quale sei rosette vermiglie campeggiavano. E sì come il tenero padre i suoi figliuoli ammonisce e insegna, così Ascalion dicea a Florio: Caro figliuolo mio, non schifare gli ammaestramenti di me vecchio, ma sì come nell’altre cose gli hai avuti cari e osservatigli, così fa che in questa maggiormente gli abbia, però che è cosa, che, non osservandola, porta più pericolo. Quando tu verrai sopra il campo contra ’l disiderato nimico, quanto più puoi prendi la più alta parte del campo, acciò che andando verso lui, anzi il sopragiudichi che tu sii da lui sopragiudicato; però che gran danno tornò a’ greci la poca altezza, chè i troiani aveano vantaggio allo ’ncominciare le battaglie. E guarti non ti opporre a’ solari raggi, però che essi dando altrui negli occhi nocciono molto. Annibale in Puglia per tale ingegno ebbe sopra i romani vittoria, volgendo le reni al sole, al quale costrinse i romani di tenervi il viso. Nè contro al polveroso vento ti metterai, però che dandoti negli occhi t’occuperebbe la vista. Nè moverai il corrente cavallo con veloce corso lontano al tuo nimico, ma il principio del suo movimento sia a picciolo passo, acciò che quando sarai presso al nimico, spronando forte, elli il suo corso impetuosamente cominci: però che le forze del volonteroso cavallo sono molto maggiori nel cominciare dello aringo che nel mezzo, quando col disteso capo corre alla distesa. Nè ancora gli darai tutto il freno, però che con meno forza dilungando il collo andrebbe. Allora sono le cose disposte ad andar forte, quand’elle truovano alcun ritegno e trapassanlo. E chi fece Protesilao più volonteroso che ’l dovere, se non l’essere ritenuto contro alla calda volontà? Se Aulide non avesse ritenute le sue navi, egli andava più temperatamente. Nè non basserai la lancia nel principio dello aringo, però che il savio nimico prenderebbe riparo al tuo avvisato colpo, e il tuo braccio del peso sarebbe stanco avanti che tu a lui giugnessi; ma ponendo mente prima a lui, t’ingegna, se puoi, di prendere al suo colpo riparo, e appressandoti a lui prestamente con forte braccio abassa la tua lancia, e fa che avanti nella gola che nella sommità dell’elmo ti ponghi: i bassi colpi nuocciono, posto che gli alti sieno belli. E s’egli avviene che con lui urtare ti convenga col petto del tuo cavallo, guarda bene che col petto del suo non si scontri, se non fossi già molto meglio a cavallo di lui, però che il danno potrebbe essere comune, ma faccendo con maestrevole mano un poco di cerchio, fa che il petto del tuo cavallo alla spalla sinistra del suo si dirizzi, e quivi fieri se puoi, chè tal ferire sarà sanza danno di te. Ma poi che le lance più non adoperranno, non esser lento a trar fuori la spada; ma non voglio però che tu meni molti colpi, ma maestrevolemente, quando luogo e tempo ti pare di ferire a scoperto, copertamente fieri, sempre intendendo a coprire bene te, più che al ferire molto l’avversario, infino a tanto che tu vegga lui stanco e fievole, e al di sotto di te, chè allora non si vogliono i colpi risparmiare. E guardera’ti bene che per tutto questo niente di campo ti lasci torre, però che con vergogna sarebbe danno. Nè ti lasciare abbracciare, se forte non ti senti sopra le gambe: la qual cosa s’avviene, non volere troppo tosto sforzarti d’abbatterlo in terra, ma tenendoti ben forte lascia affannar lui, il quale quando alquanto affannato vedrai più leggiermente potrai allora mettere le tue forze e abbattere lui. E sopra tutte cose ti guarda degli occulti inganni: i tuoi occhi e il buono avviso continuamente te ne ammaestrino. Nè niuno romore o di lui o del circustante popolo ti sgomenti, ma sanza niuna paura ti mostra vigoroso; incontanente la tua parte fia aiutata dal grido: e il nimico vedendoti ognora più vigoroso, dubiterà della tua vittoria, però che bene ti seggono l’armi indosso e bellissimo e ardito ti mostrano, più che altro cavaliere già è gran tempo vedessi -. Florio con disiderio ascoltava queste parole, notandole tutte, e volontieri vorrebbe allora essere stato a’ fatti, e molto gli noiava il picciolo spazio di tempo che a volgere era, e in se medesimo molto si gloriava veggendosi armato; e disse ad Ascalion: Caro maestro, niuna vostra parola è caduta, ma da me debitamente ritenute, le credo, ove il bisogno sarà, mettere in effetto; ma caramente vi priego che v’armiate, e vengano i cavalli, e andiamo, però che già mi pare che le stelle, che sopra l’orizonte orientale salivano nel coricare del sole, abbiano passato il cerchio della mezza notte -.
Armossi Ascalion; e mentre che egli s’armava, e Florio andava per l’ostiere ora correndo, ora saltava d’una parte in altra, e tal volta con la celestiale spada faceva diversi assalti. Alcuna volta prendeva la lancia per vedere com’egli la potesse alzare e bassare al bisogno, lanciandola talora; e queste cose così destramente faceva, come se alcuna arme impedito non l’avesse, avvegna che Amore la maggior parte gli dava della sua forza. Di che Ascalion, lodando la sua leggerezza, si maravigliò molto e essendo già egli medesimo armato, tutto solo se n’andò alla stalla, e messe le selle e’ freni a due forti cavalli, li menò nella sua corte; e quivi vestito Florio e sè di due sopraveste verdi, e prese due grosse lance con due pennoncelli ad oro lavorati e seminati di vermiglie rose, ciascuno la sua, montarono i cavalli e sanza più dimorare presero il cammino verso la Braa.
Già Febea con iscema ritondità tenea mezzo il cielo, quando Florio e Ascalion, lasciata la città, cominciarono a cavalcare per li solinghi campi. Ella porgea loro col freddo raggio grande aiuto, però ch’ella mitigava il caldo che le gravi armi porgeano, e massimamente a Florio, il quale di tal peso non era usato, poi facea loro la via aperta e manifesta: di che Florio molto si rallegrava però che già gli parea incominciato avere a ricevere lo ’mpromesso aiuto degl’iddii. E più si rallegrava imaginando che egli s’appressava al luogo ove egli vedrebbe la sua Biancifiore in pericolo, e scampata da quello per la sua virtù. Ma non volendosi tanto alle sue forze rifidare, quanto all’aiuto degl’iddii, volto verso la figlia di Latona, così cominciò a dire: O graziosa dea, i cui beneficii io sento continuamente, lodata sii tu; tu alleviando la mia madre di me, piegandoti a’ suoi prieghi, le mi donasti, degna allegrezza dopo il ricevuto affanno. Dunque, poi che per te nel tempestoso mondo venni, aiutami nelle mie avversità, e priegoti per li tuoi casti fuochi, i quali io già ne’ miei teneri anni debitamente cultivai, che come tu hai nel mio aiuto incominciato, così perseveri. E ricordati quanto tu, già ferita di quello strale che io ora sono, ardesti di quel fuoco che io ardo! e priegoti per le oscure potenze de’ tuoi regni, ne’ quali mezzi i tempi dimori, che tu domane, dopo la mia vittoria, prieghi il tuo fratello che col suo luminoso e fervente raggio mi renda alle abandonate case, onde tu ora col tuo freddo mi togli. Tu m’hai porta speranza del futuro soccorso degl’iddii col tuo principio, onde io con più ardita fronte il dimanderò. E te, o sommo prencipe delle celestiali armi, priego per quella vittoria che tu già sopra i figliuoli della terra avesti, e per tutte l’altre, che tu sii a me favorevole aiutatore, però che io non cerco, sì come tu vedi, di volere per la presente battaglia possedere nè acquistare le vostre celestiali case, nè intendo di levare a Giove la santa Giunone; nè similemente è mio intendimento d’occupare la fama delle tue grandi opere col tuo medesimo aiuto, ma d’accrescerla, e solamente cerco di difendere la vita di Biancifiore ingiustamente condannata a morte. E tu, o santa Venus, nel cui servigio io sono, aiutami. Io vo più ardito per la promessa che con la tua santa bocca mi facesti. Non mi dimenticare: mostrisi qui quanto la tua forza possa adoperare. E similmente tu, o santa Giunone, donandomi il tuo aiuto, consenti che io vincendo faccia manifesto il malvagio inganno, il quale questi iniqui, contra i quali io ora vo, copersero col tuo santo uccello, non servandoti la debita reverenza. E voi, o qualunque deità abitate le celestiali regioni, siate al mio soccorso intente; e massimamente tu, Astrea, la cui giusta spada mio padre intende di sozzare con innocente sangue, aiutami -. E così dicendo e tutt’ora cavalcando, pervennero al dolente luogo per lungo spazio avanti dì: e quivi il nuovo giorno aspettarono.
La misera Biancifiore, non sappiendo perchè con tanto furore nè sì subitamente presa fosse, quasi tutta stupefatta, sanza alcuna parola sostenne la grave ingiuria, entrando nell’oscurissima e tenebrosa carcere; la quale serrata, acciò che alcuna persona materia non avesse di poterle in alcuno atto parlare, a cui ella scusandosi poi la sua scusa ad altri porgesse, il re prese a sè la chiave. E dimorando là entro Biancifiore, niuno sì picciolo movimento v’era che forte non la spaventasse, e varie imaginazioni, che la fantasia le recava avanti, le porgeano molta paura, e ’l suo viso impalidito e smorto non dava alcuna luce nella cieca prigione; onde ella per greve doglia incominciò a piangere e a dire: Oimè misera, quale può essere la cagione di tanta ingiuria? In che ho io offeso? Certo in niuna cosa, ch’io sappia. Io mai nè con parole nè con operazioni non lesi la reale maestà, e la reina mia cara donna sempre onorai, nè mai rubando nè spogliando i santi templi e gli altari degl’iddii commisi sacrilegio, nè mai si tinsero le mie mani nè l’altrui per me d’alcun sangue: dunque questo perchè m’è fatto? Oimè, iniqua fortuna, maladetta sii tu! Or non ti potevi tu chiamare sazia delle mie avversità, pensando che divisa m’avevi da quella cosa nella quale ogni mia prosperità e allegrezza dimorava, sanza volermi ancora fare ora questa vergogna d’essere messa in prigione sanza averlo meritato? Deh, se tu avevi volontà di nuocermi, perchè avanti non mi uccidevi? Credo che conosci che la morte mi sarebbe stata somma felicità, però che i miei sospiri avrebbe terminati. Stiano adunque i miseri sicuri contra i tagli delle spade e contra le punte delle agute lance, infino a tanto che il cielo avrà il loro tempo volto, però che fortunoso caso di vita non li priverebbe. Oimè, or tu mi ti mostrasti poco avanti così lieta, faccendomi più degna che alcuna altra giovane della real casa di portare il santo paone alla mensa dove il re sedea, accompagnato da quelli baroni, i quali tutti in mio onore e servigio si vantarono! E questa la fine che tu vuoi a’ loro vanti porre? Oimè, com’è laida e vituperevole! Tosto hai mutato viso a mio dannaggio! Maladetto sia il giorno del mio nascimento! Io fui cagione di sforzata morte al mio padre e alla mia madre, i quali io già mai non vidi, e ora, non so come, la mi pare avere a me meritata. Oimè, che gl’iddii e ’l mondo m’hanno abandonata, e massimamente tu, o Florio, in cui io solamente portava speranza! Deh, or dove se’ tu ora o che fai tu? Forse pensi che il tuo padre m’acconci per mandare a te, però che dimandata me gli hai, e io sto in prigione piena di varie sollecitudini, e non so per che nè a che fine, nè se il tuo padre intende di farmi morire! Deh, or non t’è egli la mia avversità palese? Non riguardi tu il caro anello da me ricevuto, il quale apertamente la ti significherebbe? Oimè, che io dubito che tu più nol riguardi, sì come cosa la quale credo che poco cara ti sia! Immantanente io imagino che tu m’abbia dimenticata! E chi sarebbe quel giovane sì costante e tanto innamorato, che vedendo tante belle giovani, quante io ho inteso che costà ha, scalze dintorno alle fredde fontane sopra i verdi prati, coronate di diverse frondi cantare e fare maravigliose feste, non lasciasse il primo obietto pigliandone un secondo? E se tu non m’hai dimenticata, perchè non mi soccorri? Chi sa se io dopo questa prigione avrò peggio? E chi sa se io ci sarò di fame lasciata morire entro, o se di me fia fatta altra cosa? Oimè, ora se io morissi, come faresti tu? Io per me mi curerei poco di morire, se io solamente una volta veder ti potessi avanti, e se io non credessi che a te fosse il mio morire gravoso a sostenere. Oimè, che io credo che se tu sapessi che io fossi qui, la mia liberazione sarebbe incontanente. E se io potessi questo in alcun modo farloti sentire, ben lo farei; ma io non posso. Oimè! ora ove sono tanti amici tuoi, a quanti di me solea per amor di te calere, quando tu c’eri? Non ce ne ha egli alcuno il quale tel venisse a dire? Io credo di no, però che gli amici della prosperità insieme con essa sono fuggiti. Ma l’anello ch’io ti donai ha egli perduta la virtù? Io credo di sì, però che alle mie avversità niuna speranza è lasciata. O santa Venus, al cui servigio l’animo mio è tutto disposto, per la tua somma deità non mi abandonare, e per quello amore che tu portasti al tuo dolce Adone, aiutami. Io sono giovane usata nelle reali case, dove io nacqui, con molte compagne continuamente stata: ora non so perchè sia sì vilmente rinchiusa. Sola la paura mi confonde: a me pare che quante ombre vanno per la nera città di Dite, tutte mi si parino davanti agli occhi con terribili e spaventevoli atti. Mandami alcuno de’ tuoi santi raggi in compagnia; e in bene della mia vita adopera quello che tu meglio di me conosci che bisogna, chè tu vedi bene che io aiutare non mi posso -. Non avea Biancifiore ancora compiute di dire queste parole, che nella prigione subitamente apparve una gran luce e maravigliosa, dentro alla quale Venere ignuda, fuor solamente involta in uno porporino velo, coronata d’alloro, con un ramo delle frondi di Pallade in mano dimorava. La quale, quivi giunta, subitamente disse: Ahi, bella giovane, non ti sconfortare. Noi già mai non ti abandoneremo: confortati. Credi tu che la nostra deità abandoni così di leggiere i suoi suggetti? Le tue voci ci percossero gli orecchi infino nel nostro cielo, al pietoso suono delle quali io subitamente a te sono discesa, e mai non ti lascierò sola. E non dubitare di cosa che stata ti sia infino a qui fatta, che da questa ora avanti niuna cosa ti sarà fatta, per la quale altra offesa che sola un poco di paura te ne seguisca -. Quando Biancifiore vide questo lume e la bella donna dentro alla prigione, tutta riconfortata, si gittò ginocchione in terra davanti ad essa, dicendo: O misericordiosa dea, lodata sia la tua potenza. Niuno conforto era a me misera rimaso, se tu venendo non m’avessi riconfortata. Ahi, quanto ti dobbiamo essere tenuti pensando alla tua benignità, la quale non isdegnò di venire de’ gloriosi regni in questa oscurità e solitudine a darmi conforto, non avendo io tanta grazia già mai meritata. Ma dimmi, pietosa dea, poi che con le tue parole m’hai renduto alquanto del perduto conforto, se licito m’è a saperlo, quale è la cagione per che fatta m’è questa ingiuria? -. A cui la dea rispose: Niuna altra cagione ci è, se non per che tu e Florio siete al mio servigio disposti; ma non sotto questa spezie s’ingegna il re di nuocerti, ma il modo trovato da lui, col quale egli si ricuopre, è falso e malvagio: ma egli è ben conosciuto tanto avanti, che alla tua fama non può nuocere, e ancora sarà più manifesto. E d’altra parte, io poco avanti discesa giù dal cielo, ordinai la tua diliberazione, in maniera che, avanti che il sole venga domane al meridiano cerchio, tu sarai renduta al re e tornata in quella grazia che solevi. Più avanti non te ne dirò ora, però che tutto vedrai e saprai domane -. Con questi ragionamenti e con molti altri si rimase Biancifiore con la santa dea infino al seguente giorno, quasi rassicurata, sanza prendere alcuno cibo, infino che tratta fu di prigione per menare alla morte.
Cominciossi per la corte un gran mormorio, poi che il re fu partito dal gran consiglio che tenuto avea del fallo che dovea aver fatto Biancifiore: e tutti i baroni e l’altra gente, chi in una parte e chi in un’altra ne ragionavano; e a tutti parea impossibile il credere che Biancifiore avesse già mai tanta malvagità pensata, con ciò sia cosa che semplice e pura e di diritta fede la sentivano. E altri diceano che veramente mai Biancifiore non avrebbe tal fallo commesso nè pensato, ma questo era fattura del re, il quale ordinato avea ciò per farla morire, perciò che Florio più che altra femina l’amava, e ’l re che egli non la prendesse per isposa, o a vita di lei non ne volesse prendere alcuna altra. Alcuni diceano ciò non porria essere, chè, se il re l’avesse avuto animo adosso, per altro modo l’avria fatta morire, nè mai si sarebbe vantato di maritarla, come la mattina avea fatto, affermando d’attenere il suo vanto con tanti saramenti: aggiungendo a questo che essi credevano che ciò fosse fattura del siniscalco, però che l’avea in odio perchè rifiutato l’avea per marito. E altri ne ragionavano in altra maniera: chi difendea il re e chi Biancifiore ma a tutti generalmente ne dolea, e niuno potea credere che difetto di Biancifiore fosse mai stato. E molti ve n’avea che, se non fosse stato per tema di dispiacere al re, avrebbero parlato molto avanti in difesa di Biancifiore, e ancora prese l’arme, se bisognato fosse, chi per amor di lei e chi per amor di Florio. E così d’uno ragionamento in altro il giorno passò, e sopravennero le stelle, mostrandosi tutto quel giorno, quanto durò, il re e la reina molto turbati nel viso, avvegna che contenti e allegri fossero nell’animo, sperando che il seguente giorno per la morte di Biancifiore terminerebbero il loro disio.
Il re dormì poco quella notte, tanto il costringea l’ardente disio che il nuovo giorno venisse; e sollecitando le maladette cure il suo petto, più volte quella notte eccitato, disse: O notte, come sono lunghe le tue dimoranze più che essere non sogliono! O il sole è contra ’l suo corso ritornato, poi che egli si celò in Capricorno, allora che tu la maggior parte del tempo nel nostro emisperio possiedi, o Biancifiore credo che con le sue orazioni priega gl’iddii che rallungare ti facciano, quasi indovina al suo futuro danno. Ma folle è quello iddio che per lei di niente s’inframette, chè a lui non fia mai per lei acceso fuoco sopra altare nè visitato tempio. Di se medesima gli può ben promettere sacrificio, però che quando tu ti partirai del nostro emisperio, io la farò ardere nelle cocenti fiamme, nè di ciò alcuno pregato iddio la potrà aiutare, nè trarla delle mie mani: adunque partiti, e lasciami tosto vedere l’apparecchiato fine al mio disire. E tu, o dolcissimo Apollo, il quale disideroso suoli sì prestamente tornare nelle braccia della rosseggiante Aurora, che fai? Perchè dimori tanto? Vienne, non dubitar di venire sopra l’orizonte, per che io deggia fare per la tua venuta ardere la non colpevole giovane. Questo non è l’acerbissimo peccato del comune figliuolo de’ due fratelli mangiato da essi, porto dalla crudel madre, per lo quale tu tirasti i carri dello splendore indietro, e non volesti dare quel giorno luce alla terra, perchè sopra sè sì fatta crudeltà avea sostenuta. Tu desti più volte luce a Licaon, operatore di maggior crudeltà che questa non è; e sofferisti che Progne, dopo l’ucciso figliuolo, dandole tu lume, si fuggisse dalla giusta crudeltà di Tireo; nè si celò la tua luce nella morte de’ due tebani fratelli. Adunque, poi che a Licaon, a Progne e ad Etiocle ne’ loro falli il tuo splendore concedesti, è così mirabile cosa se tu a me ne porgi? Questa non è la prima femina che muore ingiustamente, nè sarà l’ultima, nè a te più che un’altra cara. Dunque vieni! Deh, non dimorare più! Fuggano omai le stelle per la tua luce. Non mi fare più disiderare quello che tu naturalmente suogli a tutti donare -. Così parlava il re, ora vegghiando e ora non fermamente dormendo: e in tale maniera passò tutta quella notte. Ma poi che il giorno apparì, subito si levò, e fece chiamare i giudici, e loro comandò che sanza indugio fosse giudicata Biancifiore.
Quella mattina il sole coperto da oscure nuvole non mostrò il suo viso, e l’aria da noiosa nebbia impedita parea che piangesse, quasi pietosa degli affanni di Biancifiore. Ma poi che i chiamati giudici furono davanti al re e ebbero il comandamento ricevuto, stettero quasi stupefatti davanti al re. E conoscendo quasi il volere degl’iddii, e la ingiusta sentenza che dare doveano temendo, e mossi a pietà, s’ingegnarono d’aiutare Biancifiore, e dissero: Altissimo signore, niuna persona può da noi essere giudicata, se quella, cui giudicare dobbiamo, prima a’ nostri orecchi non confessa con la propia bocca il fallo per lo quale al nostro giudicio è tratta. Noi non abbiamo udito ancora da Biancifiore alcuna cosa, o s’è vero o non vero quello di che voi volete che a morte la sentenziamo. E voi volendo fare quest’opera secondo il giudiciale ordine, come dite, e non di fatto, conviene che ce la facciate udire sè aver commesso questo fallo, però che noi dubitiamo che, sanza fare il debito modo, la sentenza non torni sopra i nostri capi -. Assai si turbò il re di queste parole, e temendo forte che Biancifiore ascoltata non fosse, e per quello che il suo inganno si manifestasse, o che per indugiare non pervenisse a orecchie a Florio, rispose: Questo fallo fatto da costei non ha bisogno di confessagione alcuna, però che è sì manifesto, che, se negare lo volesse, non potrebbe, e però sopra l’anima mia e de’ miei figliuoli la giudicate incontanente -. Comandarono adunque i giudici che Biancifiore fosse incontanente tratta di prigione e menata davanti da loro, vedendo essi la volontà del re essere disposta pur a volere che sanza alcuno indugio giudicata fosse.
Fu adunque Biancifiore tratta fuori di prigione quella mattina, e la chiara luce che accompagnata l’avea da lei subito si partì, e questa vestita di neri drappi, i quali la reina mandati le avea, acciò che come nobile femina andasse a morire, venne tacitamente dinanzi a’ giudici, quasi perdendo ogni speranza che ricevuta avea dalla santa dea il preterito giorno; e quivi fermata, uno de’ giudici levato in piè con empia voce così disse: Sia a tutti manifesto che la presente iniqua giovane Biancifiore per suo inganno e tradimento volle, il giorno passato, il nostro e suo signore re Felice avvelenare con un paone, sotto spezie d’onorarlo; e perciò, acciò che nullo uomo o altra femina a sì fatto fallo mai s’ausi, noi condanniamo lei, ch’ella sia arsa e fatta divenire cenere trita, e poi al vento gittata -. E questo detto, comandò che al fuoco sanza indugio menata fosse.
Biancifiore avea perduto il naturale colore per la paura e per lo digiuno; e il suo bel viso era tornato palido e smorto come secca terra; ma ancora il nero vestimento le dava alle non guaste bellezze gran vista. E udendo ella il miserabile giudicio contra lei dato sanza ragione, forte incominciò a piangere e a dire fra se medesima: "Oimè misera, or convienmi elli morire? Or che ho io fatto?". E se non fosse che le sue dilicate mani erano con istretto legame congiunte, ella s’avrebbe i biondi capelli dilaniati e guasti, e ’l bel viso sanza niuna pietà lacerato con crudeli unghie, stracciando i nuovi drappi significanti la futura morte, e avrebbe riempiuta l’aere di dolorose e alte voci; ma vedendosi impedita e circundata da innumerabile popolo, costretta da savio proponimento, raffrenò le sue voci, e sanza nullo romore fra sè tacitamente ricominciò a dire: "Ahi, sfortunato giorno e noiosa ora del mio nascimento, maladetti siate voi! Oimè, morte, quanto mi saresti tu stata più graziosa nelle braccia di Florio, com’io credetti già che tu mi venissi! Deh, ora mi fossi tu almeno venuta in quell’ora ch’io chiamata fui a portare il male avventuroso uccello per me, però che io allora sarei morta onestamente e sanza vergogna d’alcuna infamia. Ahi, anime del mio misero padre e de’ suoi compagni e della mia dolente madre, i quali per me acerba morte sosteneste, rallegratevi, che io, stata di sì crudel cosa cagione, sono punita degnamente. Niuna altra cosa credo che nuoccia a me misera, se non questa, insieme con l’aver portata troppa lealtà e onore a colui che ora mi fa morire. O crudelissimo re, perchè mi rechi a sì vile fine? Che t’ho io fatto? Certo niuna colpa ho commessa, se non che io ho troppo amore portato al tuo figliuolo. Deh, or che mi faresti tu, o più crudele che Fisistrato, se io l’avessi odiato? Quale tormento m’avresti tu trovato maggiore? Io, misera, mai nol ti dimandai, nè lui pregai ch’egli di me s’innamorasse. Se gl’iddii concedettero al mio viso tanta di piacevolezza che il suo gentile cuore fosse per quella preso, ho io però meritata la morte? Se io avessi creduto che la mia bellezza mi fosse stata agurio di sì doloroso fine, io con le mie mani l’avrei deturpata, seguendo l’essemplo di Spurima, romano giovane. Ma fuggano omai gli uomini i doni degl’iddii, poi che essi sono cagione di vituperevole fine. Io, misera, avrei già potuto con le mie parole tirare Florio in qualunque parte la volontà più m’avesse giudicato, o congiugnerlo meco per matrimoniale nodo, se io avessi voluto, se non fosse stata la pietà che ’l mio leale cuore ti portava. O vecchio re, per l’onore che io da te ricevea non ti volli mai del tuo unico figliuolo privare, e io del bene operare sono così meritata. A questo fine possano venire i servidori de’ crudeli, che io veggio venir me! O sommo Giove, il quale io conosco per mio creatore, aiutami. Tu sai la verità di questo fatto, e conosci che io non fallii mai: non consentire adunque che le pietose opere abbiano tale guiderdone. La mia speranza chiede solo il tuo aiuto, fermandosi nella tua misericordia. Non sostenere che oggi il nome degli effetti del tuo cielo ricuopra la iniquità del re Felice contra di me, ma manifestamente fa nota la verità. E tu, o santa Giunone, nel cui uccello tanta falsità fu nascosa per conducermi a questo fine, vendica la tua onta, fa che questa cosa non rimanga inulta ma sia letta ancora tra l’altre vendette da te fatte, acciò che la tebana Semelè o la misera Ecco non si possano di te giustamente piangere. E tu, o sacratissima Venere, soccorri tosto col promesso aiuto; non indugiar più, però che, non vedendolo, a me fugge la speranza delle tue parole da tutte parti, però che io al fuoco mi sento condannare. Veggiomi i feroci sergenti dintorno armati, come se io fierissima nimica delle leggi mi dovessi torre loro per forza, e veggo il siniscalco, a me crudelissimo nimico, sollecitare i miei danni con altissime voci e con furiosi andamenti, nè più nè meno come se egli della mia salute dubitasse. Nè veggio che per pietà di me cambi aspetto. Tutte queste cose mi danno paura e tolgonmi speranza. Dunque soccorri tosto, che io dubito che se troppo indugi, io non muoia di contraria morte che quella che apparecchiata m’hanno costoro, però che la molta paura m’ha già sì raffreddato il cuore, che egli gli è poco sentimento rimaso".
Mentre che Biancifiore, ascoltando la crudele sentenza sì tacitamente fra sè si ramaricava piangendo, il re insieme con la reina e con molta altra compagnia vennero a vederla, già volendola i sergenti menare via. Ma Biancifiore col viso pieno di lagrime voltata al reale palagio, il quale ella mai rivedere non credea, vide ad un’alta finestra il re e la reina riguardanti lei: allora più la costrinse il dolore, e con più amare lagrime s’incominciò a bagnare il petto. Ma non per tanto così, com’ella potè, si sforzò di parlare, e con debole voce, rotta da molti singhiozzi di pianto disse: O carissimo padre, re Felice, da cui io conosco l’onore e ’l bene che io per adietro ho ricevuto in casa tua e quello che ricevette la mia misera madre, essendo noi stranieri, rimani con la grazia degli iddii, tu e la tua compagna, i quali io priego che ti perdonino la ingiusta morte alla quale tu mi mandi sanza ragione. E certo più onore vi tornava a tutti l’essere degnamente stati pietosi, che ingiustamente crudeli verso me, che mai a’ vostri onori non ruppi fede; e ancora li priego che essi sieno a voi più prosperevoli che a me non sono stati -. E dicendo Biancifiore queste parole, il siniscalco su un alto cavallo, con un bastone in mano sopravenne, e dando su per le spalle a’ sergenti che la menavano, e a lei disse: Via avanti, non bisognano al presente queste parole: priega per te, non per loro -. Onde Biancifiore piangendo bassò la testa, andando oltre sanza più parlare. Il re e la reina, che quelle parole aveano udite, alquanto più che l’usato modo costretti da pietà, cominciarono a lagrimare: e in tanto ne dolfe alla reina, che molto si pentì del malvagio consiglio che al re donato avea, e volontieri avrebbe tutto tornato adietro, se con onore del re e di lei fare l’avesse potuto. I sergenti tiravano forte e vituperosamente Biancifiore verso la Braa, ove il fuoco apparecchiato già era; e ella che del cospetto dello iniquo re s’era piangendo partita, andava col capo basso, pianamente dicendo: "Oimè, Florio, ove se’ tu ora? Deh, se tu m’amassi come tu già m’amasti e come io amo te, e sapessi che la mia vituperevole morte mi fosse sì vicina, che faresti tu? Certo io credo che tu porteresti grandissimo dolore: ma tu non m’ami più. Io conosco veramente il tuo amore essere stato fallace e falso; che se perfetto e buono fosse stato, come è stato il mio verso di te, niun legame t’avrebbe potuto tenere a Montoro, che almeno non avessi al mio soccorso cercato alcuno rimedio, volendo sapere la cagione della mia morte da me, se lecita è o no; o solamente saresti venuto a vedermi inanzi ch’io morissi, mostrando che della mia morte portassi gravissimo dolore. Oimè, che tu forse aspetti che io il ti mandi a dire, ma tu non pensi com’io posso, che non che mandare a dirtelo mi fosse lasciato, ma una picciola scusa non è voluta ascoltare da me, nè consentito che ascoltata sia; avvegna che tu il sai, nè ti potresti scusare che tu nol sapessi, però che, poi che io misera fui tratta di prigione, io ho tacitamente udito ragionare a molti che il duca e Ascalione per non vedere la mia morte se ne sono venuti costà, e so che essi t’hanno contato tutto il mio disaventurato caso, come coloro che ’l sanno interamente. Dunque perchè non mi vieni ad aiutare? Chi aspetti tu che si lievi in mio aiuto, se tu non vi ti lievi? Forse tu dubiti d’aiutarmi, dicendo: "Ella muore giustamente: leverommi io a volere difendere la ingiustizia?". Certo tu se’ ingannato, che non che gli uomini ma i bruti animali pare che ne parlino che la morte ch’io vo a prendere m’è ingiustamente data, e tu me ne se’ principale cagione. E se pur giustamente la ricevessi, pensando al grande amore che io t’ho sempre portato, non mi dovresti tu ragionevolmente aiutare e difendere da sì sozza morte, acciò che la gente non dicesse: "Colei, cui Florio amava cotanto, fu arsa"? E ancora ho udito affermare ad alcuni che per niuna altra cosa si partì Ascalion di qua, se non per venirloti a dire. Ma quando egli mai non te l’avesse detto, il mio anello, il quale io ti donai quando da me ti partisti, non te lo dee aver celato, ma manifestamente col suo turbare ti dee aver mostrato le mie avversità; e credo che egli, del mio aiuto più sollecito di te, già te l’abbia mostrato. Ma io dubito che tu negligente al mio soccorso ti stai costà, forse contento d’abbracciare o di vedere alcun’altra giovane, e, dimenticata me, hai de’ miei impedimenti poca cura. Onde io, dolorosa, sanza conforto per te mi morrò, avvegna che uno solo ne porterà l’anima mia agl’infernali iddii, o altrove che ella vada, che io veggio manifestamente ad ogni persona dolere della mia morte, e dire che io muoio per te, e per altra cosa no. Ma se gl’iddii mi volessero tanta grazia concedere, ch’io ti potessi solamente un poco vedere anzi la mia morte, molto mi sarebbe a grado, e il morire meno noioso. Dunque, o dispietato, che fai? Deh, vieni solamente a porgermi questa ultima consolazione, se l’aiutarmi in altro t’è noia". Queste e molte altre parole andava fra sè dicendo Biancifiore, menata continuamente con istudioso passo alla sua fine. Niuno era in Marmorina tanto crudele che di tale accidente non piangesse, e l’aere era ripieno di dolenti voci. Ma ciascuno, non potendola più oltre che ’l piangere mostrare che di lei gli dolesse, dicea: Gl’iddii ti mandino utile e tostano soccorso, o dopo la tua morte alloghino la tua graziosa anima nella pace de’ loro regni -. E giunti i sergenti al misero luogo dove era il fuoco acceso e ragunato infinito popolo per vedere, il siniscalco fece fare grandissimo cerchio, acciò che sanza impedimento i sergenti potessero il loro uficio fare. Ma a Biancifiore corse agli occhi molto di lontano i due cavalieri, che già a lei s’avvicinavano per la sua difesa: e sanza sapere più avanti di loro essere che gli altri che quivi erano, imaginò che l’uno di costoro fosse Florio, il quale quivi alla diliberazione di lei fosse venuto. Per la qual cosa, ricordandosi della ’mpromessa della santa dea, alquanto il naturale colore le ritornò nel viso, e cacciando da sè alquanto di paura, s’incominciò a riconfortare e a prendere speranza della sua salute.
Florio e Ascalion, pervenuti al tristo luogo per grande spazio avanti che il giorno apparisse, affannati per lo perduto sonno, vaghi di riposarsi, Florio perchè era giovane e non uso d’alcuna asprezza, e Ascalion per lunga età già tutto bianco, smontati ciascuno del suo cavallo, e legatolo a uno albero, dissero: Qui alquanto ci riposiamo, infino a tanto che il nuovo giorno appaia -. E cavatisi gli elmi e messisi gli scudi sotto il capo, cominciarono soavemente a dormire ciascuno di loro.
O Florio, or che fai tu? Tu fai contro all’amorose leggi. Niuno sonno si conviene al sollecito amadore. Deh, or non pensi tu che cosa è il sonno, e come egli sottilmente sottentra ne’ disiderosi occhi e negli affannati petti? Or ove sono fuggite le sollecite cure, che stringevano il tuo animo poco avanti? Ora elli ti soleva essere impossibile il dormire sopra i dilicati letti: ora come con l’armi indosso sopra la dura terra ti se’ addormentato? Credi tu forse Biancifiore aver tratta di pericolo perchè tu sii armato? Ella è ancora in quel pericolo che ella si fu avanti che tu t’armassi. Ma forse tu credi il sonno a tua posta cacciare da te: ma pensa che tu dormendo niuna signoria hai: adunque porre non gli puoi termine, ma egli a sua posta si partirà. E se alquanto ti tiene più che a Biancifiore non bisogna, a che sarà ella? Certo alla morte! Forse tu ti fidi che gl’iddii ogni volta ti deggiano con nuovi sogni destare? Forse non ti desteranno; e se ti destano, che grado alla tua sollecitudine, più tosto da dire pigrizia? Venus ha infino a qui fatto il suo dovere: se tu a quello ch’ella t’ha detto sarai pigro, ella si riderà di te, e terratti vile, e scherniratti con dovute beffe. Deh, come tu male, se tu soperchio dormi, avrai adoperata la ricevuta spada! Ora non ti stringe amore? Or non t’è a mente Biancifiore? Ogni sollecitudine è testè da te lontana! Ma la misera Biancifiore, forse già fuori della cieca prigione, ode la non giusta sentenza data contro di lei, o forse è vilmente menata allo acceso fuoco; e ripetendo tutte quelle parole che a lei si convengono verso di te dire, va piangendo. Or s’ella muore, che varrà la tua vita? Ella si potrà più tosto dire ombra di morte. Ora se Biancifiore sapesse che un poco di sonno, sopravenuto ne’ tuoi occhi, t’avesse fatto dimenticare li suoi affanni, or non avrebbe ella cagione di non amarti già mai, ma degnamente odiarti? E s’ella morisse, potendola tu aiutare, gran vergogna ti sarebbe, e veramente mai viver lieto non dovresti. Dunque levati su, non vinca il sonno la debita sollecitudine, però che mai nullo pigro guadagnerà i graziosi doni.
Nel piccolo spazio che Florio quivi adormentato stette, gli fu la fortuna molto graziosa, però che a lui parea, così dormendo, con le sue forze avere liberata Biancifiore da ogni pericolo, e con lei essere in un piacevole giardino, pieno d’erbe e di fiori, e di varii frutti copioso, allato a una chiara fontana coperta e circuita da giovanetti albuscelli, in maniera che appena i chiari raggi del sole vi potevano trapassare. E quivi gli parea con lei sedere con due strumenti in mano sonando: e cantando amorosi versi, insieme si traevano allegra festa, talora recitando i loro fortunosi casi, e tal volta disiderosamente gli pareva abbracciar lei, e ch’ella abbracciasse lui, e dessorsi amorosi baci. E già non lo allegrava tanto la gioiosa festa, quanto il parergli averla tratta di tanto pericolo, in quanto ella medesima gli avea nel sogno narrato ch’era stata. E così Florio, che dormendo disiderava di non dormire, si stava, quando il giorno s’incominciò alquanto a rischiarare. Allora l’altissimo prencipe delle battaglie, sollecitato dalla sua amica, discese del suo cielo, e sopra un rosso cavallo, armato quanto alcun cavaliere fosse mai, sopragiunse a costoro; e ismontato da cavallo, prese per lo braccio Florio, che ancora dormiva, e disse: Ahi, cavaliere, non dormire, leva su: vedi colui, il cui figliuolo seppe sì mal guidare l’ardente carro della luce, che ancora si pare nelle nostre regioni, che già co’ suoi raggi ha cacciate le stelle! -. Allora Florio, tutto stupefatto subitamente si dirizzò in piè guardandosi dintorno, e forte si maravigliò, quando vide il cavaliere, che chiamato l’avea, che della rossa luce di che era coperto tutto parea che ardesse, e disse: Cavaliere, chi siete voi che queste parole mi dite e che m’avete il dolce sonno rotto? -. - Io sono guidatore e maestro delle celestiali armi - rispose Marte - e insieme sono in cielo iddio con gli altri, e sono qui venuto al tuo soccorso, però che novello cavaliere se’ entrato sotto la mia guida. Non dubitare, fatti sicuro, e te’ questo arco con questa saetta: niuno tuo nimico ti sarà sì lontano, che con questa non l’aggiunghi, solamente che tu il vegga: folle è chi l’aspetta, ardito chi la saetta, e iddio è chi le fabrica; però tieni caro e l’uno e l’altro, acciò che donandoli non te ne avvenisse come alla misera Pocris, la quale molto più lunga vita aspettava, se guardata avesse la saetta che donò a Cefalo. E quella spada, che la mia carissima amica ti recò, non dispregiare, chè niuna arme, fuori che le nostre, è che a’ suoi colpi possa resistere. L’ora s’appressa che noi dobbiamo cavalcare; chiama il tuo compagno, e andiamo -.
Di questo cavaliere si maravigliò molto Florio, però che oltre alla misura degli uomini grandissimo il vedea, ferocissimo nel viso, e tutto rosso, con una grandissima barba, e sì lucente, che appena potea sostenere di mirarlo. Ma udite le sue parole, rallegratosi molto di tale aiuto, quale era il suo, bassatosi in terra gli s’inginocchiò davanti, dicendo: O sommo iddio, sempre sia il tuo valore essaltato, com’è degno; quanto per me si può, tanto più ti ringrazio del caro e buono arco che donato m’hai, e della tua compagnia, la quale a me indegno t’è piaciuto di farmi in questa necessità. Per che io ti priego che tu, come promesso hai, così al mio aiuto sii avvisato in non abandonarmi, acciò che io, tornando a Montoro con l’acquistata vittoria, le mie armi nel tuo santissimo tempio divotamente doni -. E questo detto, si dirizzò in piè, e chiamato Ascalion, disse: Cavalchiamo, che tempo è, e a me pare già vedere empiere il tristo luogo di molta gente, e parmi vedere l’accese fiamme risplendere in mezzo di loro -. Ascalion sanza indugio si levò, e vide ch’egli dicea vero. Allora messisi gli elmi e presi gli scudi e le lance, montarono a cavallo seguendo Marte, che avanti loro cavalcava, verso quella parte dove Biancifiore dovea essere menata. Ascalion che a Florio vedea portare il forte arco, disse: O Florio, e chi t’ha donato questo arco, poi che noi venimmo qui? -. - Certo - rispose Florio - l’alto duca delle battaglie, che qui davanti a noi cavalca, poco fa, dormendo io, mi chiamò, e donommi questo arco e questa saetta, e dissemi che noi cavalcassimo, allora che io ti chiamai -. Disse Ascalion: Dove è quel duca che tu di’ che ’l ti donò? Io non veggio davanti a noi se non uno splendore molto vermiglio, del quale io t’ho voluto più volte domandare se tu il vedevi tu -. Disse Florio: Quegli è desso; io veggo lo splendore e lo iddio che dentro vi dimora -. Allora disse Ascalion: Ben ti dico che ora veggo che gl’iddii t’amano, e che tu dei pervenire a grandissimi fatti. Quale vuo’ tu della tua futura vittoria più manifesto segnale? Certo quella fiamma che apparve a Lucio Marzio sopra la testa, aringando elli a’ disolati cavalieri in Ispagna per la morte di Publio Gneo Scipione, non fu più manifesto segno del futuro triunfo. Nè quella ancora che apparve a Tulio, ancora picciolo fanciullo, dormendo, nel cospetto di Tanaquila, fu più manifesto segnale del futuro imperio, che questo sia della diliberazione di Biancifiore. Adunque confortati e prendi vigoroso ardire, seguendo le vestige del forte iddio. E ora ciò che stanotte mi dicesti, sanza dubbio ti credo, ben che infino a qui molto dubitato n’abbia che vere non fossero le tue parole -.
Così parlando e seguendo il celestiale cavaliere, pervennero al luogo dove le calde fiamme erano accese; e passati nel gran cerchio che il siniscalco avea già fatto fare dintorno al fuoco, si fermarono per vedere se alcuno dicesse loro alcuna cosa. Ciascuno che nel piano era, veduta questa rossezza nel piano subitamente venuta, e non sappiendo che si fosse, dubitava, e niuno ardiva d’appressarsi; ma chi nel piano entrava, non sappiendo di che, avea paura. Ma il siniscalco, che con rivolta redina avea ripreso il secondo cerchio maggiore per dare maggiore spazio a’ sergenti, veduta la nuova luce, cominciò ad aver paura, molto in sè maravigliandosi e dubitando non questo fosse alcun segnale che gl’iddii avessero mandato in significanza della salute di Biancifiore. Ma pure per non parere meno che ardito e per non isgomentare gli altri, passò avanti con non più sicuro animo che Cassio in Macedonia contra Ottaviano, veduta la figura di Cesare vestita di porpore venire contro a lui, tanto che pervenne ad esso sanza far motto, e a’ due cavalieri che appresso gli stavano i quali Biancifiore molto di lontano avea veduti, e’ con rabbiosa voce disse: Signori, traetevi adietro -. Allora Marte, rivolto a Florio, disse: O giovane coperto delle nuove armi, ecco colui il quale tu dei oggi recare a villana fine; questi fia campione contra la verità: e veramente ha meritato ciò che da te riceverà, però che egli è colui che mise in effetto l’ordinato male da’ tuoi parenti: rispondigli, nè per lui di questo luogo ti muovere -. Allora Florio si trasse avanti con tanta fierezza, quanta se quivi uccidere l’avesse sanza indugio voluto, e disse: Cavalier traditore, nè tu nè altri mi farà di qui mutare, più che mi piaccia -. Il siniscalco, crucciato e impaurito per la compagnia che con lui vedea, si tirò indietro con intendimento di tornargli adosso con più compagni; ma Florio, alzata la testa, e rimirando il piano, vide Biancifiore assai presso del fuoco, già da alcuno sergente presa per volerlavi gittare; e vedendola Florio vestita di nero, colei che solea essere perfetta luce del suo cuore, e vedendo i begli occhi pieni di lagrime, e i biondi capelli sanza alcuno maestrevole legamento attorti e avviluppati al capo, e le dilicate mani legate con forte legame, e lei in mezzo di vile e disutile gente, incominciò per pietà sotto il lucente elmo il più dirotto pianto del mondo, dicendo: Oimè, dolcissima Biancifiore, mai non fu mio intendimento che nel mio padre tanta di crudeltà regnasse, che verso di te potesse men che bene adoperare, nè mai credetti vederti a tal partito. Ma unque gli iddii non m’aiutino, se tu non se’ da me aiutata, o io insieme teco prenderò la morte, o tu e io insieme lietamente viveremo -. E queste parole fra sè dette, ferì il cavallo degli sproni fieramente, rompendo la calcata gente, la quale già per la partita del siniscalco aveano riempiuta l’ampiezza del fatto cerchio da lui; e rifatto col poderoso cavallo nuovo e maggiore spazio, comandò a’ sergenti, che già Biancifiore voleano gittare nel fuoco, che incontanente sciogliendole le mani la dovessero lasciare, nè più avanti toccarla, per quanto il vivere fosse loro a grado. Egli fu ubidito sanza dimoro; e i sergenti per tema tutti indietro si tirarono. Allora Florio rivolto a lei con alta voce disse: Giovane damigella, fugga da te ogni paura, chè gl’iddii, pietosi di te, vogliono che io ti difenda: dimmi qual sia la cagione per che il re t’ha fatta giudicare a sì crudele morte, come è questa che apparecchiata ti veggio, chè io ti prometto, che ragione o non ragione che il re abbia, infino che i miei compagni e io avremo della vita, per amore di Florio, cui io amo quanto me medesimo, e per amor della tua piacevolezza, ti difenderemo -.
Vedendosi Biancifiore confortare dal cavaliere, lasciata da’ sergenti, alzò il viso con gli occhi pieni di lagrime, e dopo uno amaro sospiro così disse: O cavaliere, chi che tu sii, o mandato dagl’iddii in mio aiuto o no, come può egli essere che occulto ti sia il torto che fatto m’è? Oh, e’ pare che le insensibili pietre, non che gli uomini, ne ragionino, per quello che io misera n’ho potuto comprendere venendo qua; ma poi che a voi è occulto, e piacevi di saperlo, io il vi dirò. Ieri si celebrò in Marmorina la gran festa della natività del re Felice, al quale, con alquanti baroni sedendo a una tavola, io fui mandata dal siniscalco con un paone, il quale era avvelenato; e io di ciò non sappiendo niente, fatto quello d’esso che comandato mi fu, io il lasciai davanti al re, e torna’mene alla camera della reina: ove essendo ancora poco dimorata, io fui presa e messa in prigione con grandissimo furore. E sanza volere essere in alcuno atto ascoltata, fui poco inanzi sentenziata a questa morte. Ma se a’ miseri si dee alcuna fede, io vi giuro per la potenza de’ sommi iddii che questo peccato io non commisi, e sanza colpa mi conviene patire la pena. Ma io vi priego, se voi siete amico di Florio, per amore del quale io credo che io sono fatta morire, che voi m’aiutiate e difendiate, acciò che io sì vilmente non muoia -. Florio, il quale insieme riguardava e ascoltava intentivamente Biancifiore, piangendo continuamente sotto l’elmo, e guardandosi bene che del suo pianto niuno s’avvedesse, molto disiderava di farsi conoscere; poi per l’amaestramento della santa dea ne dubitava, ma finalmente così le rispose: Bella giovane, confortati, che io ti prometto che tu non morrai, mentre che gl’iddii mi presteranno vita -. E alzata la visiera dell’elmo, voltato verso il gran popolo che a vedere era venuto, disse così:
- Signori, i quali qui adunati siete per vedere il disonesto e ingiusto strazio che di questa giovane alcuni vogliono fare, il quale, se spirito di pietà alcuno fosse in voi rimaso, dovreste fuggire di ciò vedere, a me brievemente pare, per le parole che io ho da lei intese, le quali io credo, e manifestamente appare quelle essere vere, che la sentenza data contro a lei sia nella presenza degli uomini e degl’iddii, falsa e iniquamente data, però che ella semplicemente portò quello che comandato le fu; ma il siniscalco, il quale gliel comandò, è colui che del male è stato cagione; per la qual cagione sopra lui e non sopra costei, cade questa sentenza. E chi altro che questo ne volesse dire, o il siniscalco o altri per lui, io sono presto e apparecchiato di difendere che quello ch’io ho detto sia la verità, e in ciò arrischierò la persona e la vita, imperciò che la manifesta ragione mi stringe ad essere pietoso della ingiusta ingiuria fatta a costei; e, d’altra parte, io sono distrettissimo e caro amico di Florio, e ella per amore di lui mi priega ch’io l’aiuti e difenda nella ragione: e io così son presto di fare, e in ragione e in torto, contro a chiunque la vuol far morire, però che se altro ne facessi, molto alla cara amistà mi parrebbe fallire, e ogni uomo mi potrebbe di ciò giustamente riprendere -.
Assai nobili uomini erano ivi presenti, e massimamente v’erano la maggior parte di quelli che vantati s’erano al paone, a’ quali molto di Biancifiore dolea: i quali queste parole udendo, tutti dissero che il cavaliere dicea bene, e che ragionevole cosa era che ’l siniscalco, o altri per lui, sua ragione, contro a quelli che la contradicea, difendesse. E di ciò mandarono al re sofficienti messaggeri subitamente, contenti tutti sanza fine di tale accidente, favoreggiando Biancifiore in quanto poteano. E alcuno di quelli giudici che sentenziata l’aveano, trovandosi ivi presente, udite le parole di Florio, comandò che più avanti non si procedesse, infino a tanto che ’l cavaliere non avesse suo intendimento provato. Ma il siniscalco, che dentro di rabbiosa ira tutto si rodea, veggendo che Biancifiore aveva aiuto e che di consentimento di tutti all’opera si dava indugio e che il cavaliere sì vituperose parole aveva dette di lui, incominciò a bestemiare quella deità che avuto avea potere d’indugiare tanto la morte di Biancifiore, e che per inanzi se ne inframettesse in non lasciarla morire e così bestemiando si trasse avanti, e disse: Il cavaliere mente per la gola di tutto ciò che ha detto; chè Biancifiore dee ragionevolemente morire, e sì morrà ella in dispetto di lui e di Florio, per cui richiamata s’è, e di qualunque iddio la ne volesse aiutare -. E comandò a’ sergenti che incontanente la mettessero nel fuoco, e lasciassero dire il cavaliere: che, se difendere la volea, fosse venuto avanti che la sentenza fosse data, chè omai tornare non si può ella indietro per cosa che alcuno dica. Florio si volse subito a’ sergenti, dicendo: Nullo di voi la tocchi per quanto la vita gli è cara: lasciate abbaiare questo cane quanto egli vuole; se egli disidera di farla morire venga avanti egli a toccarla -. Allora Massamutino, enfiato e pieno di mal talento, spronò il cavallo adosso a Florio, e disse: Villan cavaliere, chi se’ tu che sì contrari la nostra potenza con sì oltraggiose parole? Poco che tu parli più avanti, io ti farò prendere e ardere con lei insieme. Via, levati di qui incontanente -. Florio non potendo più sostenere, alzò allora la mano, e diedegli sì gran pugno in su la testa, che quasi cadere lo fece sopra l’arcione della sella tutto stordito; e questo fatto rizzatosi sopra le strieve, e accostatosi a lui, preso l’avea sotto le braccia per gittarlo dentro all’acceso fuoco; ma molti furono gli aiutatori, quasi più per iscusa di loro che per buona volontà, i quali se stati non fossero, finita era quivi la rabbia del siniscalco. Ma trovandosi egli dilibero da Florio, voltate le redini del corrente destriere, avacciandosi n’andò al real palagio; e venuto nella presenza del re vi trovò alcuni mandati da’ nobili uomini che udite aveano le parole di Florio, i quali da parte loro gli recitavano l’accidente. A costoro ruppe il siniscalco il parlamento, giungendo furioso, e così disse: Ahi, signor mio, ascolta le mie parole. Là alla Braa è venuto il più villan cavaliere che unque portasse arme, insieme con un compagno, tutti armati, e dice che provare mi vuole per forza d’arme che la sentenza, da’ vostri giudici data contro a Biancifiore, sia falsa, e ch’ella non debbia morire intende, e a me, che disarmato a’ suoi intendimenti resistea, ha fatto villania e oltraggio; e certo ivi era presente Parmenione, Sara, e altri uomini a voi suggetti sì com’io, i quali più tosto disaiuto che soccorso mi porsero, svergognando voi e la vostra potenza, favoreggiando Biancifiore. E il cavaliere ha detto ch’è fedelissimo e distretto amico di Florio, onde Biancifiore per parte di lui gli s’è richiamata: per la qual cosa è del tutto fermo di mai sanza battaglia non partirsi, e di scampar lei o di morire egli. Onde io vi priego carissimamente che a me voi concediate questo dono della battaglia, rinnovandomi arme e cavallo, acciò ch’io possa principalmente con la mia spada il vostro onore e intendimento servare, e appresso vendicare la ricevuta onta. Io porto speranza negl’iddii e nelle mie forze che sanza dubbio con vittoria vi menerò preso il villan cavaliere, che tanto ha oggi vostra potenza dispregiata -.
Niente piaceano al re tali novelle, ma con dolente animo l’ascoltava, e fra sè dice: "Deh! or chi ha sì tosto a Florio queste cose rivelate, che egli sì subito soccorso mandato l’ha? E chi potrebbe essere stato amico di Florio tanto stretto, che per lui a tal pericolo si mettesse? Non so. O iddii, maladetta sia la vostra potenza, la quale non ha potuto sostenere ch’io rechi a perfezione un mio intendimento!". E poi che egli ebbe per lungo spazio rivolte per la mente le non piacevoli cose, sospirando rispose: Non so chi si sia questi che il mio intendimento s’ingegna d’impedire; ma sia chi vuole, che forse egli morrà e Biancifiore non camperà -. E poi soggiunse: Siniscalco, a me pare l’ora molto alta a volere combattere, e te sento oggi molto affannato, e però rimangasi per questo giorno la battaglia. Va, e fa convitare il cavaliere e onorarlo infino al mattino; poi, quando il sole con più tiepido lume ritornerà, combatterete, poi che negare non gli possiamo la battaglia -. - Sire - rispose il siniscalco, - in niuna maniera può oggi rimanere la battaglia, però che il cavaliere che là dimora è di sì fiero coraggio e ardimento, che con qualunque persona volesse Biancifiore toccare, converrebbe che con lui combattesse, o lei lasciasse stare; nè alcuno v’è a cui della morte di Biancifiore non incresca, nè che più tosto in aiuto di lei non mettesse la persona, che in suo danno dicesse una sola parola, fuori solamente io, che da’ vostri piaceri e comandamenti mai non mi partii nè partirò; e però se voi mi concedete che io oggi combatta, io combatterò, e se non, se io ne vorrò far venire Biancifiore alla prigione, io so che combattere mi converrà. Priegovi che adunque voi la mi concediate ora, poi che io sopra lui sono animoso -.
Rispose allora il re: Poi ch’egli è come tu mi di’, e la battaglia non si può oggi cessare, va e prendi l’arme e qualunque de’ nostri cavalli più ti piace, e fa che onore acquisti con vittoria: pensa che nelle tue mani dee stare oggi la perfezione del nostro avviso, e la verità delle nostre bocche si dee con la forza del tuo braccio osservare. Ma acciò che la fortuna con non pensato infortunio il nostro intendimento non recida, se ti parrà di potere fare, comanderai a’ tuoi sergenti che mentre la gente attenta dimora a vedere la vostra battaglia, che essi subitamente gittino Biancifiore nell’acceso fuoco; poi, questo fatto, della tua vittoria non ti curare guari -. - Questo sarà a mio potere fornito - rispose il siniscalco, e partissi da lui.
Prese adunque il siniscalco quelle armi e quel cavallo che migliore si credette che fosse per tornare al campo; ma la dolente Biancifiore, nè campata nè al tutto dannata rimasa, quivi si stava intra’ due continuamente piangendo; e poco valeva che Florio, il quale dal suo lato mai non si partiva, la confortasse, posto che se saputo avesse che colui che sì pietosamente la confortava fosse stato Florio, ella avrebbe tosto mutato il doloroso pianto in amoroso riso, non curandosi del pericolo nel quale esser le parea. Ella dimandava sovente: O cavaliere, che è di Florio? Quanto è che voi il vedeste? -. E ogni volta al nominar Florio, più forte piangea. E Florio le rispondea: Giovane donzella, in verità che la passata sera il vidi e con lui dimorai per grande spazio a Montoro, là ove io poi il lasciai faccendo sì grandissimo pianto e duolo di ciò che avvenuto t’è, che niuna persona il potea nè può racconsolare. Egli caramente mi pregò che io dovessi qui sanza dimoro venire a liberarti di questo pericolo; e egli sanza fallo ci sarebbe venuto, se non che io nol lasciai, però che io credo fermamente che se egli ti vedesse in tale maniera, forte sarebbe che egli o per grieve doglia non morisse, o per quella il natural senno perdesse. Ma molto ti manda pregando che tu ti conforti per amore di lui e che tu il tenghi a mente, come egli fa te, che mai per bellezza d’alcuna altra giovane non ti potè nè crede poter dimenticare -. Assai piacevano a Biancifiore queste parole, e molto in sè se ne confortava, e poi fra sè dicea: "Deh, chi è questo sì caro amico di Florio, che qui al mio soccorso è venuto? Or nol conosco io? Io soglio conoscere tutti coloro che amano Florio". E mentre questo fra sè ragionava, sempre guardava l’armato cavaliere nel viso, e quasi alcuna ricordanza le tornava d’averlo altre volte veduto; ma l’angoscia e la paura che per lo petto e per la mente le si volgeano, non lasciavano alla estimativa comprendere niuna vera fazione di Florio: e, d’altra parte, Florio per l’armi e per le lagrime aveva nel turato viso perduto il bel colore, il quale mai, avanti che a Montoro andasse, non s’era nel cospetto di Biancifiore cambiato. E volendolo ella domandare del nome, Massamutino apparve sopra il campo tutto armato con due compagni, ciascuno sopra altissimo destriere a cavallo, l’uno de’ quali li portava uno forte scudo avanti, nel quale un leone rampante d’oro in uno azzurro campo risplendea, e l’altro una corta lancia e grossa con un pennoncello a simigliante arme: per la qual cosa la gente tutta cominciò a gridare e a dare luogo, dicendo: Ora vedremo che fine avrà l’orgoglio del siniscalco -; e questo tolse a Biancifiore con subito tremore il non potere più parlare col cavaliere. Ma Florio sì tosto come questo udì, bassata la visiera dell’elmo, disse: O giovane, fatti sicura che ’l tempo della tua liberazione è venuto - e voltato al forte iddio e ad Ascalion, disse: O somma deità nascosa nella vermiglia luce, e tu, caro compagno, ecco il mio avversario: alla battaglia non può essere più indugio. Io vi priego che questa giovane vi sia raccomandata, sì che, mentre che io combatterò, alcuna ingiuria fatta non le fosse -. E dette queste parole, ripresa la sua lancia, si fermò, quivi aspettando Massamutino con sicuro cuore.
Massamutino non fu prima in sul campo, che egli si fece chiamare alquanti de’ sergenti, quelli in cui più si fidava, e così pianamente disse loro: Sì tosto come voi vedrete che la gente starà tutta attenta a vedermi combattere col cavaliere, che difender vuole questa falsa femina, e voi allora prestamente la prenderete e gitteretela nel fuoco, acciò che, se io ho vittoria, noi ce ne siamo più tosto spediti, e se io non avessi vittoria, che per la mia poca forza non perisca la giustizia -. I sergenti risposero che ciò sanza alcuno fallo sarà fatto. Allora il siniscalco prese lo scudo e la lancia, e cavalcò avanti tanto che davanti a Florio pervenne, a cui egli disse così: O villan cavaliere, ecco chi abasserà la tua superbia; e se tu contro alla vera sentenza, data giustamente sopra la persona di questa iniqua e vil femina qui presente, vuoi dire alcuna cosa, io sono venuto per farti con la mia spada riconoscere il tuo errore -. A cui Florio rispose: Iniquo traditore, la mia spada non taglia peggio che la tua, e quella gola per la quale tu menti oggi il proverà, sì come io credo; e a ciò gl’iddii m’aiutino, sì come campione e difenditore della verità, e però tra’ti adietro, e, quanto vuoi, del campo prendi, chè poi che armato se’, l’offenderti non mi si disdirà -.
Sanza più parole ciascuno si trasse adietro quanto a lui piacque, acconciandosi ciascuno per offendere l’altro. Ma certo la paura del misero Icaro, volante più alto che il mezzo termine posto dal maestro padre, non fu tale quando sentì la scaldata cera lasciare le commesse penne, quale fu quella di Biancifiore, quando il grande grido si levò: Ecco il siniscalco! -. Ella non morì, e non rimase viva: se alcuno colore l’era nel viso ritornato, o rimaso, tutto si fuggì, e quasi ogni sentimento del corpo abandonò le sue parti, e l’anima si ristrinse nell’ultime parti del cuore, e quasi la volle abandonare; ma poi che la vita tornò igualmente per tutti i membri, ella, inginocchiata in terra, incominciò a dire, alzato il viso verso il cielo: O sommo Giove, il quale con le tue mani formasti i cieli insieme con tutte l’altre creature, e in cui ogni potenza è fermamente, se tu ad alcuni prieghi ti pieghi, riguarda in me misera, e se io alcuna pietà merito, porgimi il tuo aiuto, sì come facesti al vecchio Anchise, quando sano sanza alcuno impedimento de’ crudeli fuochi dell’antica Troia il traesti. Deh, non volgere i tuoi pietosi occhi in altra parte, riguarda a me: io sono tua creatura, e nella tua misericordia spero. A te niuna cosa è nascosa: tu sai se io ho avuta colpa in ciò che costoro ingiustamente m’appongono. O signor mio, aiutami e aiuta chi per me s’affanna; non si tinga oggi la spada d’Astrea nello innocente sangue. Dà vigore al mio cavaliere, il quale forse più per lei, che per amore di me o d’altrui, s’ingegna di avere vittoria; e non abandonare me misera posta in tanta tribulazione -.
Quando i due cavalieri si furono allungati ciascuno l’uno dall’altro quanto a loro parve, e voltate le teste de’ cavalli con presta mano l’uno verso l’altro, allora s’accostò Marte a Florio, e disse: Giovane cavaliere, qui si parrà quanto sia il valore del tuo ardito cuore: fa che tu seguiti nelle tue battaglie gli amaestramenti del tuo compagno -. E questo detto, con la sua mano gli alzò la visiera dell’elmo, e alitogli nel viso, e poi gliele richiuse, e acconciandogli in mano la forte lancia, disse: Muovi, che già il tuo nemico è mosso -. Florio sospirando riguardò verso quella parte dove Biancifiore dimorava, e appresso ferì il corrente destriere con i pungenti sproni, dirizzandosi verso Massamutino, che inver di lui correndo veniva con la lancia bassata. Ma già non parve alla circustante gente che un cavaliere si movesse, ma una celestiale folgore. Egli nella sua mossa fece tutto il campo risonare e fremire, e giugnendo sopra il siniscalco, sì forte con la sua lancia il ferì nella gola, che quella ruppe, e lui miseramente abbattè nel campo sopra la nuova erbetta, passando avanti. E appena avea ancora il colpo fornito, quando i sergenti, veggendo la gente attenta più a riguardar loro che Biancifiore, s’accostarono per voler prendere lei e farne come il siniscalco avea comandato. Ma Marte, che di ciò si accorse, sfavillando corse in quella parte, e lei nella sua luce nascose, faccendo loro impauriti tutti di quindi fuggire. Il romore fu sì grande nel campo per la caduta del siniscalco, che lui stordito fece risentire: il quale ritrovandosi in terra ancora con la sua lancia in mano sanza avere ferito, e riguardandosi intorno, e vedendo il nimico suo a cavallo tornare verso di lui, tutto isbigottì, dicendo: Oimè, or con cui combatto io? Quelli non mi pare uomo: voglio io provare le forze mie con gl’iddii? Già mi manifestò il cuore stamane, incontanente che io vidi la vermiglia luce, che quello era segno di soccorso divino a Biancifiore. Io veggio costui che d’iniquità o d’altro arde tutto nel primo aringo: or che farà egli quando più sarà riscaldato nella battaglia? S’egli è iddio, io non gli potrò resistere; s’egli è uomo, molto mi sarà duro alla sua fierezza contrastare. Volontieri vorrei di tale impresa esser digiuno, ma più non posso -. E così dicendo, prestamente si dirizzò, e volontieri si saria partito se potuto avesse; e, traendo fuori la spada, disse: Faccino di me gl’iddii che loro piace: io pur proverò s’egli è così fiero con la spada in mano come con la pungente lancia, avanti che io, sanza aver bagnata la terra del mio sangue, mi voglia vituperosamente chiamare vinto -. In questo Florio s’appressò verso di lui e disse: Cavaliere, certo mala pruova ci fa il tuo orgoglio, e già del primo assalto stai male -. Disse il siniscalco: Niente sto peggio di te, se io fossi a cavallo; ma già questo vantaggio non avrai tu da me -. E questo dicendo, subitamente alzò la spada per ferire Florio sopra la testa, ma il colpo fu corto e discese sopra il collo del buon cavallo, al quale niuna resistenza valse che non partisse la testa dal busto, e cadde morto. Florio, vedendo il colpo, saltò tantosto a terra del cavallo, e acceso d’ira, tratta fuori la celestiale spada, andò verso di lui, e sì forte col petto l’urtò, che fatto il credette avere cadere, ma egli forte si ritenne pettoreggiando lui, non lasciandoselo da quella volta inanzi più accostare, ma ferendolo continuamente di gravi e spessi colpi. Florio ricevea sopra il rilucente scudo le molte percosse, quasi lui poco o niente ferendo; ma, stando sempre a riguardo, intendea di volere tutti i suoi colpi in uno recare, acciò che per molto ferire la celestiale spada non fosse avvilita. E quando luogo e tempo gli parve, avvisandolo in quella parte nella gola là ove la lancia avea le armi guastate, alzato il braccio sì forte il ferì, che alcuna arme non gli giovò che egli non gli ficcasse la spada assai nelle nude carni: e se il colpo fosse stato traverso, come fu diritto, oppinione fu di tutti che tagliata gli avrebbe la testa. Per questo colpo cadde il siniscalco, e tutti fermamente credettero che egli fosse morto: per la qual cosa il romore si levò grande: Morto è il siniscalco, e liberata è Biancifiore -; e di ciò tutti rendeano grazie agl’iddii e faceano festa. Mentre il gran romore si facea, il siniscalco, che per quel colpo morto no, ma istordito era, si dirizzò tacitamente, e salito sopra un cavallo, il quale apparecchiato gli fu, incominciò a fuggire. Ma Florio, che verso Biancifiore se n’era andato, voltato per lo romore che la gente gli facea dietro, vedendolo fuggire, quasi niente gli parve avere fatto, però che morto il credeva avere lasciato: allora mise mano al suo arco, un poco in se medesimo turbato, e postavi la saetta, l’aperse, saettandogli appresso, e disse: Sanza nostro affanno questa ti giugnerà più tosto che tu non credi -. E lui fuggente ferì di dietro nelle reni: niuna arme fece alcuna resistenza a quel colpo, ma passando dentro, mortalmente il piagò. Onde il siniscalco, sentendo il duolo, quivi si fermò, dove Florio tutto a piè venuto il prese per la irsuta barba e tirandolo villanamente a terra del cavallo, infino all’acceso fuoco, nel cospetto di Biancifiore, cui Marte avea già della sua luce tratta, lo strascinò, insanguinando il piano con le sue piaghe; al quale, quivi giunto, disse: Malvagio e iniquo traditore, se tu vuoi a noi di te porgere alcuna pietà, narra davanti a tutto questo popolo in che maniera il veleno, del quale questa innocente giovane fu accagionata, fu mandato davanti al re -. A cui il siniscalco così rispose: Poi che gl’iddii v’hanno questa vittoria conceduta, e piace loro che la verità sia manifesta, io, la cui vita è nelle vostre mani, avvegna che poca rimasa me ne sia, il vi dirò come io potrò. Fatemi dirizzare in piè e sostenere ad alcuni, acciò che io stando alquanto alto possa da tutti essere udito e veduto -. Fecelo Florio sostenere a’ suoi sergenti medesimi, e egli così incominciò a dire:
- Egli è vero, o signori, che ancora non ha gran tempo, io amai sopra tutte le cose del mondo Biancifiore, e amandola molto, pregai il re, mio naturale signore, che gli piacesse di congiungerla meco per matrimonial legge, il quale liberamente mi promise di farlo; ma poi dicendo ad essa che me per marito donare le volea, ella rispose che sì vile uomo com’io era mai a suo potere non l’avrebbe, e che da ciò la dilungassero gl’iddii; e poi piangendo, gittandoglisi a’ piedi il pregò che gli piacesse che egli non la mi desse: onde egli mosso a pietà di lei, che come figliuola l’amava, disse: "Non piangere, che io nol ti donerò". Io, risappiendo queste cose, molto mi turbai, e quello amore ch’io le portava si convertì in odio, e sempre pensai come io vituperosamente la potessi o far morire o far che cacciata fosse; onde iermattina celebrandosi la gran festa della natività del re, io feci cuocere e segretamente avvelenare quel paone, il quale io poi a lei feci portare alla real mensa; e questo feci acciò che ella venisse a questa morte, dalla quale questo cavaliere vincendo l’ha scampata -.
Guardossi assai il siniscalco di non dire alcuna cosa del re, però che campare credea, chè non volea rimanere nella disgrazia sua; e di ciò fu ben contento Florio, che la nequizia del suo padre non fosse sì manifestamente saputa. Ma sì tosto come Massamutino tacque, ogni gente cominciò a gridare: Muoia, muoia! -. E Marte, che udite avea queste cose, con alta voce, non essendo da alcuno veduto se non da Florio, disse: Sia questa l’ultima ora della sua vita: gittalo in quel fuoco ove egli fatta avea giudicare Biancifiore, acciò che la giustizia per noi non patisca difetto. Di così fatti uomini niuna pietà si vuole avere -. Florio, udita questa voce, ripresolo per la barba, il gittò nel presente fuoco. Quivi con grandissime grida e con grieve doglia finì il siniscalco miseramente la sua vita ardendo.
Fu da molti la novella portata con lieto viso al re Felice della morte del siniscalco e della liberazione di Biancifiore: e chi la vi portò credendolo rallegrare, e chi per lo contrario. E narrandogli molti per ordine ciò che stato era nel campo tra’ due cavalieri, e ancora il miracolo della vermiglia luce, e ciò che confessato avea il siniscalco avanti la sua morte, il re in atto fece vista di maravigliarsene molto, ma gravosa e sanza comparazione noiosa gli era all’animo tal novella; ma per non scoprire ciò che infino a quell’ora avea con fermo viso tenuto celato, con atto lieto si mostrò contento di ciò che avvenuto era, e così disse: In verità che a me molto è a grado che Biancifiore sia da tal pericolo scampata, poi che colpabile non era, però che io l’amo quanto cara figliuola, avvegna che assai mi duole della morte del mio siniscalco, il quale io infino le io per infino a qui per leale uomo e valoroso aveva tenuto, ma poichè tanta malvagità occultamente in lui regnava, alquanto mi contento che a tal fine sia pervenuto. E s'io voglio ben considerare tutto ciò che da voi m’è stato detto, io veggo manifestamente me essere molto tenuto a'nostri Iddii, e similmente conosco me da loro molto essere amato, veggendo che essi in ver di me tanta benevolenza dimostrano, che essi non soffrano che nella mia corte alcuna iniqua cosa senza punizione si faccia, per la quale la mia eterna fama potesse da alcuno ragionevolmente essere contaminata -.
Avendo Florio gittato il siniscalco nelle ardenti fiamme, fece Biancofiore montare sopra un bel palafreno, accompagnandola il grande Dio, e egli e Ascalione, con molti altri compagni verso il reale palagio. Ella ancora quasi paurosa, che appena potea credere d'essere ancora fuori del tristo pericolo, si voltò tutta tremante a Florio, e disse: o signor mio, ora dove mi menate voi? Voi m’avete tratta d’un pericolo, e riportatemi in luogo che è pieno di molti. Deh perchè volete voi avere perduta la vostra fatica? Io non sarò prima là, che come voi vi sarete partito io mi sarò a quel pericolo che io m’era quando io molto di lontano vi vidi, avvisando che in mio aiuto foste venuto. Deh se voi siete così amico di Florio come voi dite, e come l’operazioni dimostrano, perchè non me ne menate voi a lui a Montorio? Io non dubiterò di venir con voi ovunque voi mi menerete, solo ch’io creda trovar lui. Egli sarà più contento che voi mi rendiate a lui, che se mi rendete al suo padre. A cui Florio rispose: piacevole donzella, non dubitare: che e Florio vogliono che tu sii renduta ora al re Felice, acciò che del suo fallo egli si riconosca; ma renditi sicura che più da lui tu non avrai altro che onore. E io, quando tornerò a Montoro, farò sì che Florio verrà tosto a vederti, o egli manderà per te -. E mentre che così ragionando andavano, pervennero al reale palagio in Marmorina. Quivi smontati nella gran corte, Florio prese Biancifiore per mano, e così la menò nella sala davanti allo iniquissimo re, che ancora parlava con coloro che raportate gli aveano le novelle della morte del siniscalco. Il quale, vedendogli venire, si fece loro incontro, a cui Florio disse: Sire, io vi raccomando questa giovane, la quale io, con la forza dell’iddii e con la mia, della iniqua sentenza ho liberata; e per parte di Florio, per amore di cui io a questo pericolo, aiutando la ragione, mi sono messo, ve la raccomando e vi priego che più sopra di lei non troviate cagioni che faccino ingiustamente la morte parere giusta, come ora faceste, però che la verità pur si conosce infine, e degna infamia ve ne cresce: e appresso, quando la morte di colei, la quale innocente e giusta da tutti è conosciuta, e da voi più che da alcuno altro, cercate, insieme quella di Florio domandate: però tenetela omai più cara che infino a qui fatto non avete -; e datagliele in sua mano si tirò adietro.
Con lieto viso la prese il re, e abbracciatala come cara figliuola la baciò in fronte, e ella, savissima, incontanente piangendo si gittò in terra, e baciogli i piedi, e poi in ginocchie levata disse: Padre e signore mio, io ti priego che se mai in alcuna cosa ti offesi, che tu mi perdoni, chè semplicità e non malizia m’ha fatto in ciò peccare; e priegoti che del tutto dell’animo ti fugga che io in questo fallo, per lo quale condannata fui, avessi colpa: e avanti che mai tal pensiero mi venisse, mi mandino gl’iddii subitana morte. Chi fu quelli che in ciò fallì, a tutto il tuo popolo è manifesto, e però, caro padre e signore, rivestimi della tua grazia, della quale ingiustamente fui spogliata -. Il re la prese per la mano e fecela dirizzare in piè, e la seconda volta con segno di molto amore l’abbracciò, dicendo: Mai a me non fosti graziosa e cara quanto ora se’, e però ti conforta -. E rivolto a Florio, disse: Cavaliere, ignoto m’è chi tu sia, ma però che di’ che amico se’ di Florio, nostro figliuolo, e ciò per le tue opere è ben manifesto, e per amore, chè n’hai con la tua spada illuminato e fattaci conoscere la verità, la quale a’ nostri occhi sanza dubbio era occulta, e hai per questa chiarezza levata da tanto e tale pericolo costei, la quale quanto figliuola amo, tu mi se’ molto caro, e sanza fine disidererei di conoscerti, quando noia non ti fosse; e dicoti che a me tu hai troppo piaciuto, avendo chi il peccato avea commesso così debitamente punito, dando acerba pena allo iniquo fallo, per la qual cosa sempre tenuto ti sarò; e promettoti per quella fede che io debbo agl’iddii, che per amore di Florio e di te la giovane sempre mi fia raccomandata. E non voglio che nell’animo ti cappia che io della giudicata morte non fossi molto dolente; e certo a tutti costoro potè essere manifesto il mio viso e ’l petto pieno di lagrime, quando sentenziare la udii; e se la pietà si dovesse antiporre alla giustizia, certo ella non sarebbe mai di qua entro per sì fatta cagione uscita -.
- A me - rispose Florio - non è al presente licito di dirvi chi io sia, e però perdonatemi; e quando vostro piacere fosse, io volontieri mi partirei co’ miei compagni -. - Poi che sapere non posso chi tu se’, va, che gl’iddii ognora in meglio ti prosperino -. Allora Florio piangendo guardò Biancifiore, che ancora piangea, e disse: Bella giovane, io ti priego per amor di Florio che tu ti conforti, e rimanti con la grazia degl’iddii -. E detto questo, e preso commiato dal re, smontò le scale, e risaliti sopra i loro cavalli, egli e Marte e Ascalion, de’ quali nullo era stato conosciuto, si misero al camino. E pervenuti che furono a quel luogo dove Marte destato avea Florio, e Marte, voltato verso di lui, si fermò e disse: Omai tu hai fatto quello per che io discesi ad aiutarti; però io intendo di tornare ond’io discesi, e tu col tuo compagno ve n’andrete a Montoro -. Florio e Ascalion, udite queste parole, incontanente smontati da cavallo gli si gittarono a’ piedi, ringraziandolo quanto a tanto servigio si convenia; e porgendogli divote orazioni, egli subitamente loro sparve davanti. Rimontarono adunque costoro a cavallo e porgendo loro il sole chiara luce, in brieve ritornarono a Montoro.
Poi che pervenuti furono a Montoro, i due cavalieri, sanza alcuno romore o pompa, quanto più poterono celatamente al tempio di Marte smontarono, e passati dentro a quello fecero accendere fuochi sopra i suoi altari, ne’ quali divotamente misero graziosi incensi: e fattisi disarmare, le loro armi offersero a’ santi altari in riverenza e perpetuo onore del valoroso iddio. E appresso rivestiti di bianchissimi vestimenti se n’andarono al tempio di Venere, ivi molto vicino, tutti soletti e quello fatto aprire, uccise con la sua mano un giovane vitello, le cui interiora con divota mano ad onor di Venere mise negli accesi fuochi. Le quali cose faccendo Florio, per tutto il tempio si sentì un tacito mormorio dopo il quale fu sopra i santi altari veduta la santa dea coronata d’alloro, e tanto lieta nel suo aspetto, quanto mai per alcuno accidente fosse veduta, e con sommessa voce così cominciò a dire: O tu, giovane sollecito difenditore delle nostre ragioni, agl’iddii è piaciuto che io ti debbia porgere la corona del tuo triunfo, acciò che tu per inanzi ne’ nostri servigii e nelle virtuose opere prenda migliore speranza, e più ferma fede nelle nostre parole -; e detto questo, con le propie mani presa la corona del suo capo, ne coronò Florio. Allora Florio, in sè di tanta grazia molto allegro, cominciò così a dire: O santa dea, per la cui pietà tutti coloro che a’ loro cuori sentono i dardi del tuo figliuolo, come io fo, sono mitigati, quanto il mio potere si stende, tanto ti ringrazio di questo onore, il quale tu con la divina mano porto m’hai. Ma però che più la tua potenza che ’l mio valore adoperò nella odierna battaglia, io di questa corona al tuo onore ornerò i tuoi altari -. E questo detto, trattasi la corona della testa, sopra i santi altari con grandissima reverenza la pose, e dirizzossi; e uscito del santo tempio, niuno altro in Montoro ne rimase che da lui visitato non fosse, e onorato con degni sacrificii. La qual cosa fatta, egli e Ascalion, tornati al palagio del duca così freschi come se mai arme portate non avessero, montarono nella sala, ove trovarono il duca con molti altri, i quali tutti si maravigliavano e ragionavano quello che di Florio potesse essere, che veduto non l’aveano quel giorno. Il quale quando il duca il vide, lietamente andandogli incontro l’accolse, dicendo: Dolce amico, e dove è oggi vostra dimora stata, che veduto non v’abbiamo? Certo noi eravamo tutti in pensiero di voi -. A cui Florio faccendo grandissima festa disse: In verità io sono stato, e Ascalion con meco, in un bellissimo giardino con donne e con piacevoli damigelle in amorosa festa tutto questo giorno -. - Ciò mi piace - disse il duca, - e questa è la vita che i valorosi giovani innamorati deono menare, e non darsi in su gli accidiosi pensieri, consumandosi e perdendo il tempo sanza utilità alcuna -.
Il re Felice, che con altro cuore avea Biancifiore da Florio ricevuta che il viso non mostrava, la menò alla reina, e disse: Donna, te, ecco la tua Biancifiore, la cui morte agl’iddii non è piaciuta. Guardala e siati cara, poi che i fati l’aiutano: forse che essi serbano costei a maggior fatti che noi non veggiamo -. La reina con lieto viso e animo la prese, contenta molto che diliberata era da quella morte; e fattole grandissimo onore e festa, e rivestitala di reali vestimenti, con lei insieme visitò tutti i templi di Marmorina, rendendo debite grazie e faccendo divoti sacrificii a ciascuno iddio o dea che da tal pericolo campata l’aveano. E così, avanti che al real palagio tornassero, niuno iddio sanza sacrificii rimase, se non Diana, la quale ignorantemente dimenticata aveano. Ma ritornati a’ palagi, Biancifiore in quella benivolenza e grazia ritornò del re e della reina, e di tutti, che mai era stata, ognora in meglio accrescendo, con loro non mostrando che di ciò che ricevuto avea ingiustamente si curasse o ne portasse animo ad alcuno, ma ancora, sanza farne alcuna menzione o ricordanza, pianamente e benignamente si passava con tutti.