Compendio de le istorie del Regno di Napoli/Libro V
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LIBRO QUINTO
del Compendio de le istorie del regno di Napoli
a lo illustrissimo principe Ercule inclito Duca di Ferrara.
In questo quinto libro primieramente seguita li altri fatti del re Carlo, e la calamitá de la Puglia in que’ tempi, e come il re di Tunisi fu fatto tributario al re Carlo. Séguita dipoi la rebellione de la Sicilia e la guerra che ebbe il re Carlo col re Piero di Aragona, e la presa di Carlo figliuolo del re Carlo e la passata del re Filippo di Francia in Aragona, e la guerra fra la casa di Aragona e i re di Napoli; seguitando dipoi i fatti del re Roberto di Napoli, e de la passata di Enrico imperatore, e i fatti de la regina Giovanna I, e la passata del re Lodovico di Ungaria nel reame, e come ancora passasse il duca d’Angiò; seguitando i fatti di Ladislao re di Napoli e la passata del conte Luigi secondo duca di Angiò nel reame; seguitando i fatti de la regina Giovanna II e del re Alfonso di Aragona chiamato nel regno contra Luigi secondo duca di Angiò, e i fatti di Sforza.
Carlo vittorioso e ormai senza alcun sospetto pienamente signore del reame, dappoi tanta vittoria tutto pieno di spirito di vendetta, tornando a Napoli con Corradino prigione, per via lasciò Pandolfo da Fasanella governatore di Capua e disfece A versa da’ fondamenti per la rebellione di casa Rebursa, la quale estinse in tutto. Ridotto a Napoli, in remunerazione del buon consiglio ricevuto da Alardo, li donò Malfi e Surrento, facendo ogni instanza che ’l volesse rimanere appresso di sé; ma Alardo né volse stare né il dono volse accettare, ma ringraziando Carlo disse che non per premio, ma per rispetto e amore del re di Francia aveva fatto quello che li era piaciuto: onde niuna cosa togliendo, eccetto che le sue arme e arnesi e compagni, se ne tornò in Francia al suo viaggio.
Li baroni e terre di Puglia, che a la fama de la venuta di Corradino nel regno erano rebellati, intesa la subita sua ruina, volendo poi rivoltarsi a Carlo né sapendo in che modo, reputandosi loro medesimi indegni di venia, cominciorno a tumultuare, e li baroni in diversi lochi a fortificarsi. Da l’altra parte li capitani e li officiali di Carlo tutti dati a la inquisizione e persecuzione loro ne la vita e ne la robba, ogni cosa miseno sottosopra, e di morte e di rapina riempirono la misera Puglia; in modo che non fu terra né castello in Puglia né in Basilicata, che non sentisse occisione e rapina de’ suoi primati, eccetto quelle sopradette che non rebellorono, quantunque ancora alcune di esse, per avere accettato de li gentiluomini de l’altre terre che fuggivano, sentissino qualche danno. Lungo saria a raccontare particolarmente le miserie di tutte: di due sole pili notabilmente scellerate diremo per memoria. Potenza fu la prima, in Basilicata, la quale credendo con la perfidia ristorar la perfidia c acquistar grazia, levò il popolo in arme, e andando a casa de li gentiluomini primi de la terra, tutti li tagliorno a pezzi, e tra li altri estinseno due casate notabili, Grassinelli eTurrachi, e altri che li erano ricorsi preseno, per gratificarsi a Carlo; né li giovò, imperocché fu saccheggiata e le mura buttate per terra.
Corneto, piccolo castel di Puglia soggetto a una abbazia di monachi negri, rebellò ne la venuta di Corradino, e diede li cavalli che aveva de’ francesi in mano a li amici di Corradino; ora vinto Corradino, per ricoprire il loro fallo con un altro maggiore, feceno in questo modo. Erano ad Ascoli di Puglia Piero conte di Belmonte e Roggero da San Severino, condottieri di Carlo mandati in Puglia per domare i ribelli; i cornetani, sapendo che volevano venire a trovarli e vedendosi a mal termine, chiamorono aiuto da quelli baroni, che erano stati capi de la rebellione, offerendoli la terra comoda e piena di vittuaglie e il favor suo a la lor difesa. Parendo a questi baroni la terra comoda, accettorono l’invito e messisi insieme tutti li primi e migliori, tra li quali furono Roberto da Santa Sofia et Enrico Petrapalomba todesco, entrorono in Corneto, dandosi a preparare tutte le cose opportune a la difesa; come furono a tavola per cenare, levatisi li cornetani in arme, secondo l’ordine tra lor dato, li presono e legorno (eccetti alcuni pochi che fuggirno) e li presentorono nudi a li condottieri di Carlo. Furono li presi cento e sei, de li quali cento e tre ne furono impiccati li; li altri tre furono mandati a Melfi e li furono decapitati. Molti simili casi e grandi esempli di crudeltá e di sevizia sostenne in quell’anno, tra la vittoria e la morte di Corradino, la Puglia e la Basilicata, in modo che non fu casa, per quanto si legge, che per robba o per sangue, lacrime e dolore non sentisse. Simili calamitá, direpzioni e incendi e ruine senti ancora l’isola di Sicilia, tanto che in fine l’una e l’altra ben castigate e mal contente deposeno le armi e a Carlo il regno pacifico lasciorono. Fece poi molte cavalcate Carlo a Roma e a Viterbo e in Toscana, per componere le cose de la Chiesa e de li amici suoi. Andò con l’armata in Africa al soccorso del re Lodovico di Francia suo fratello, che assediava Tunisi di Barbaria; e il di che arrivò in terra, Lodovico passò di questa vita. E credendo Carlo trovarlo infermo, come lo vide morto, si pose inginocchione e prostrato in terra orò brevemente a Dio; poi levato senza segno alcuno di mestizia, confortò l’esercito a stare di buon animo, e diedesi a continuare l’impresa. Fece dui fatti d’arme co’ saracini: nel primo ne ammazzò tre mila, nel secondo li cacciò e mésseli a saccomanno il campo. Al fine, venuta la pestilenza in Tunisi e nel campo, feciono tregua per dieci anni con onorevoli condizioni: e tra le altre, che li saracini pagassino le spese di quella guerra e che a Carlo rispondessino ogni anno il tributo, il quale erano consueti a pagare al re di Sicilia. Il che fatto, Carlo se ne tornò nel reame, ove ne l’anno 1276 la damigella Maria, figliuola del principe di Antiochia, li rassegnò e détte tutte le ragioni che lei aveva nel regno di Hierusalein. E cosi fu coronato re di Hierusalem; e mandò in Soria per governatore del regno Roggero da San Severino, il quale pose officiali in nome di Carlo e ricevette la fedeltá e li giuramenti de l’omaggio da li cavalieri e baroni che erano ne la provincia, col favore ancora di Albertin Moresini bailo de’ veneziani in Acri. E per questa ragione è da estimare che li successori di Carlo predetto, tutti insino a la seconda Giovanna de la quale diremo innanzi, e anche li altri re di Napoli si sono sempre intitolati re di Hierusalem. Ma chi fusse il padre de la damigella Maria e per qual capo ella pretendesse ragione nel regno ierosolimitano, per ancora non l’ho trovato: umano officio sará di chi lo troverá, aggiungerlo a questa istoria. Stando Carlo in Napoli pacifico, non contento ancora de li regni che aveva, sotto speranza di alcune poche terre che aveva ne l’Acaia detta Morea, deliberò conquistare il regno constantinopolitano e cacciarne Michele Paleologo, allora imperatore; ma la fortuna li oppose maggior faccende in casa propria. Imperocché portandosi male li prefetti, giudici e officiali e soldati francesi in Sicilia, si circa la pudicizia de le donne, come circa le robbe e sangue de li uomini, un messer Giovanni da Procida salernitano, giá medico del re Manfredi, tenuto pratica con li primi uomini di Sicilia, deliberò levare quell’isola da la servitú de’ francesi. Onde prima andò in Constantinopoli a fare intendere a l’imperatore la deliberazione di Carlo e incaparrare il favore de’ greci; poi andò in Catalogna ad offerire il regno di quella isola al re Piero di Aragona, che aveva per donna Constanza figliuola giá del re Manfredi; andò a Roma due volte a Nicolò III pontefice, e tanto operò, che Piero accettò l’impresa e funne investito dal pontefice per ragion di detta Constanza. E insomma con tanta sagacitá e secreto operò questo medico, che condusse in diciotto mesi la pratica ad effetto, con tal ordine (che fu mirabil cosa stesse tra tanti secreto) che ad un giorno deputato, al primo suono de le campane di vespero, tutte le terre di Sicilia pigliassino l’arme e quanti francesi trovavano am mazzassino senza rispetto. Il di e l’ora venne: fu mandato ad effetto il trattato. Li francesi sprovveduti senza riparo furono morti in grandissimo numero, et era si incrudelita quell’ isola ne l’odio de’ francesi, che non ne campò uno; anzi ove seppeno che fussino donne gravide di francesi, li passavano con li stocchi il ventre, e la gravida e la creatura in un tratto occidevano. Cosi spogliata l’isola di francesi, e occupata da Piero d’Aragona, si interruppe il disegno di Carlo: di qui nacque il proverbio del Vespero siciliano che ancora si usa, e fu ne l’anno 1282, undici anni poi che Carlo ebbe il regno pacifico.
Molte gran cose furono tra quelli re dappoi la perdita di Sicilia, de le quali noi brevemente toccaremo quelle sole che appartengono al regno di Napoli, non lasciando però qualche cosa notabile ancor che esterna fusse, si come ne la prefazione dicemmo. Carlo fece armata contra Sicilia e andò a campo a Messina e funne levato per forza e ributtato in Calabria: onde andò a Roma a dolersi col papa de la investitura fatta al re Piero d’Aragona, e in quel mezzo Piero si fece coronare solennemente a Palermo. Per questa cagione pendendo la controversia di ragione tra questi dui re né si potendo decidere, fu determinato il duello tra loro, ancor con consentimento de la Sedia apostolica (se bene parse cosa enorme), e funne fatto giudice il re d’Inghilterra, e li dui re si disfidomo e per loco del combattere elesseno Bordeò in Guascogna. Il re Carlo si condusse al di deputato, il re Piero stette ascoso, talmente che ’l di de la battaglia non si sapeva dove ’1 fusse, ma si sapeva bene per li di precedenti che l’era in loco che li era impossibile secondo le comuni cavalcate, e massime d’un re, trovarsi quel di a Bordeò; onde Carlo, essendo stato per la maggior parte del di in sul campo nel steccato, si parti e andossene. Il re Piero, che con cavalli velocissimi disposti in piú lochi correndo era venuto incognito e stato ascoso, comparse in sul tardi innanzi ’l passar del giorno a la presenza del presidente del duello, che era un locotenente del re d’Inghilterra, e parlò con esso e si dolse di Carlo ed accusò la contumacia sua. E stato insino a l’apparizione de le stelle, montò a cavallo e con la medesima celeritá si condusse in loco salvo, lasciando Carlo in questo modo deluso, e dicesi che in quella notte fece novanta miglia. Per la qual cosa Martino IV allora pontefice escomunicò il re Piero e conferí il suo regno di Catalogna al secondogenito di Filippo re di Francia, chiamato Carlo conte di Valois, e dispensando il grado proibito, li fece dar per donna Clemenza figliuola di Carlo principe di Salerno, unico figliuolo del re Carlo predetto, e fece predicare la croce contra ’l re Piero. Questo Carlo principe di Salerno fu quello che fu poi re di Napoli e fu detto Carlo II, del quale a suo loco parlaremo. In quel mezzo che ’l re Carlo era a Bordeò e per ritorno di Guascogna, Roggero di Loria calabrese, ammiraglio del re Piero, uomo esperientissimo, animoso e prudente sopra tutti li capitani di mare di quel tempo, con quarantacinque galee e altri legni venne in Principato e scorrendo la marina per terra facea gran danni; venendo a l’incontra di Napoli tirava saettarne ne la cittá e improperando la ignavia di quelli del re Carlo li instigava ad uscir fuora. Per la qual cosa Carlo principe di Salerno contra l’esortazione del legato apostolico e contra li precetti del re suo padre (il quale partendo da Napoli li aveva comandato che solamente attendesse a la guardia di Napoli né mai venisse a le mani con li inimici) stimolato da indignazione e appetito di gloria, usci del porto con trentasei galee e altri legni e assaltò l’armata di Roggero sopra Napoli. E fatta una gran battaglia, Roggero fu vincitore e prese nove galee e gran numero di baroni, e tra tutti Carlo principe di Salerno predetto, unigenito del re Carlo; e riservato lui con nove compagni, i quali elesse a suo arbitrio, tutti li altri prigioni furono mandati in Sicilia, e per vendetta de la morte di Corradino fu tagliata la testa a ducento gentiluomini e piú ne la cittá di Messina. Il di sequente de la sua cattura, il re Carlo, che tornava di Guascogna, arrivò a Gaeta con sessanta galee e tre navi grosse piene d’uomini d’arme e di cavalli, e li intese la mala novella de la rotta e prigionia del figliuolo e che ’1 popolo di Napoli giá faceva tumulto e gridava: — Mora Carlo e viva Roggero di Loria; — il perché, indignato de la levitá e infedeltá de’ napolitani, andò irato a Napoli e non volse smontare al porto, ma sopra la chiesa del Carmine con intenzione di bruciare Napoli. E stette assai in questo pensiero; pur vinto da le preghiere del legato apostolico e di alcuni buoni e innocenti cittadini, perdonò a la terra: ma de li altri ne fece impiccare cento e cinquanta piú colpevoli di quello eccesso. Poi si diede con tutto il pensiere ad armare a Napoli e Brundusio per passare in Sicilia, e tanta armata fece che al tempo de l’autunno si ritrovò a Crotone 120 galee oltra li altri navigli; ma vedendosi venire l’inverno addosso e non avere vittuaglie né denari abbastanza, fece disarmare a Brundusio, con intenzione di uscir fuora potente a la primavera sequente, e in questo mezzo far provvisione a denari e vittuaglie opportunamente. Cosi tornando a Brundusio per sollecitare quello era ordinato, essendo a Foggia in Puglia, da affanno e malinconia oppresso si ammalò; e tolti li debiti sacramenti, passò di questa vita il di settimo di febraro 1285, avendo vissuto anni cinquantasei e regnato diciannove. Il suo corpo portato a Napoli fu con regali esequie e con immensi onori ne l’Arcivescovato sepolto. In quel tempo dui cardinali, che erano stati mandati in Sicilia da Martino IV per trattar la concordia col re Piero, non lo potendo indurre a cosa alcuna che a loro piacesse, aggravorono la escomunicazione contra il re Piero, e non solo contra lui, ma ancora contra siciliani con incredibil loro displicenza, e partirono di Sicilia. I siciliani tutti accesi d’ira, avendo in quello sentita la morte del re Carlo, corseno a le prigioni ove erano il resto de’ francesi presi da Roggero, per ammazzarli, ma difendendosi virilmente i francesi, per minor fatica e pericolo misono fuoco ne le prigioni e tutti li bruciorono; convocorno poi li sindici di tutte le terre di Sicilia a giudicare Carlo principe di Salerno, che era prigione con li suoi nove compagni, ad imitazione del re Carlo quando fece giudicar Corradino. Tutti di comune concordia giudicorono che al principe Carlo si dovesse tagliar la testa, secondo aveva Carlo re suo padre giudicato il giovinetto Corradino. Per la qual cosa la regina Constanza mandò un venere la mattina a denunciare la morte al principe, con ricordarli che dovesse provvedere a l’anima, perché il corpo, a similitudine di Corradino, bisognava mandarlo a la morte. Il principe rispose queste parole: — Son contento portar questa morte con buon animo in pazienza, ricordandomi che anche il nostro Signore Iesú Cristo ebbe in simil di la sua morte e passione. — Intesa questa risposta la regina, donna religiosa e prudente, disse:—Se il principe per il rispetto di questo di con animo si paziente e mansueto vuol morire, e io ancora per rispetto di Colui che in questo giorno sostenne morte e passione, delibero averli misericordia. — E questo detto, comandò che fusse conservato senza farli dispiacere alcuno; e per satisfare al popolo che instava per la morte, li fece intendere che in una cosa di tanta importanza, de la quale ne porriano seguitar molti mali e scandali, non era da fare deliberazione alcuna senza saputa del re. Però comandò che ’l principe fusse mandato in Catalogna e li fusse lasciato ad arbitrio e iudicio del re Piero suo marito, e cosi fu fatto. La qual cosa non tanta laude a la savia donna aggiunge, quanta infamia al re Carlo, il quale seguitando lo appetito volse piú presto nel puerile e regai sangue incrudelire, che usando clemenza immortai gloria acquistare.
Fu Carlo, duca d’Angiò e primo di tal nome re di Napoli, uomo di persona grande e diritto, con viso rubicondo e naso grande e di feroce aspetto, animoso, severo e aspro nel punire, molto piú eccellente ne le cose militari che ne le civili e pacifiche; modesto in mangiare e bere e ne le cose veneree, quasi di vita religiosa; dormiva poco e parlava poco, ma faceva cose assai e operava piú che non diceva. Largo era a’ soldati e molto fermo ne le sue promesse, ma ambiziosissimo e cupido di stato e di denari, senza curare onde venissino, per espedire le sue imprese. Non si dilettò mai di buffoni né di volteggiatori e simil gente di corte, ma di soldati solamente: portava per sua arma li gigli di Francia in campo azzurro e di sopra un castello vermiglio a differenza di quella del re di Francia. Maculò assai la fama sua de le vittorie ricevute con lasciar troppa licenza a li suoi soldati nel tempo de la pace in danno de li sudditi. Fece edificare chiese e monasteri e molti altri suntuosi edifici, e tra li altri il Castel nuovo di Napoli nel loco qual’è ora, ove era un monasterio di frati minori, il quale lui fece ruinare per porvi il castello, e in emenda di quello fece Santa Maria de la neve. Morendo, altro figliuolo non lasciò che Carlo predetto principe di Salerno allora prigione, a chi molti anni innanzi aveva dato per donna una figliuola del re Stefano di Ungaria chiamata Maria, de la quale aveva giá avuto e ancora ebbe poi molti figliuoli. Intesa la morte del re Carlo, il papa mandò subito messer Girardo cardinale di Parma legato a Napoli, e Filippo re di Francia mandò Roberto suo figliuolo conte di Arrasse con molti cavalieri e madonna Maria principessa di Salerno con un figliuolo di tredici anni chiamato Carlo Martello, tutti al governo e conservazione del regno di Napoli in nome di Carlo incarcerato. Stando Napoli e il regno sotto li governatori predetti, Filippo re di Francia per terra e il conte Carlo di Valois suo figliuolo per mare con 120 galee nel medesimo anno 1284 con potenti eserciti entrorno in Catalogna per acquistare il regno del re Piero d’Aragona, del quale era investito il Valois, come è detto di sopra, e preseno Gierona; e il re Piero mori d’una ferita, lasciando per testamento Anfus suo primogenito re di Aragona e don Iacomo secondogenito re di Sicilia. E in quel mezzo Roggero di Loria partito di Sicilia a la volta di Catalogna al soccorso del re Piero suo signore, intendendo che una parte de l’armata francese era rimasta nel porto di Roses e l’altra era tornata in Nerbona per vittuaglia, assaltò quella del porto di Roses e parte ne bruciò e parte prese, pigliando ancor con essa messer Enghirano ammiraglio di Francia; poi voltatosi a quella di Nerbona, che era oziosa in porto, la ruppe e fece il simile. Per le quali cose il re Filippo di Francia, che era infermo a Perpignano, aggravato da l’avviso di queste rotte, mori; e circa quel tempo Martino IV pontefice a Roma ancor lui passò di questa vita. Il perché si raccoglie che in termine di un anno, che fu il 1285, il papa e tre re, Carlo di Sicilia e Piero d’Aragona e Filippo di Francia, morirno.
In questo mezzo che per tante morti le cose stavano alquanto quiete, Odoardo re di Inghilterra venuto in Guascogna trattava la pace tra questi dui re giovini Iacomo e Carlo II che era prigione in Catalogna, a questo effetto di liberarlo e rimandarlo nel regno suo di Napoli; et era per concludersi con buone condizioni, ma fu interrotta per questa cagione. Il cardinale legato a Napoli e il conte di Arrasse governatore del regno deliberorno tentare la recuperazione di Sicilia, e condotte a loro stipendio alcune galee veneziane e altre che avevano al numero di cinquanta, con genti chiamate di Toscana, francesi e regnicoli, feceno un grosso esercito e lo mandorno in Sicilia, facendone capitano Ranaldo del Balzo, conte di Avellino: il quale in pochi giorni presa Catania e in quella fattosi forte, rimandò l’armata indrieto a Napoli a levare buona parte de l’esercito che in terra era rimasto. E nel medesimo tempo il conte Guido di Monforte vicario di Toscana e li compagni del conte di Arrasse, cioè il conte di Bologna e Filippo figliuolo del conte di Fiandra, i quali erano in quel di Siena, avevano ancor loro fatto un buono esercito e con un’altra armata di sessanta galee partiti di Maremma di Siena andavano a la volta di Sicilia, avendo fatto loro ammiraglio un messer Arrighino da Genova. Roggero di Loria ammiraglio del re Iacomo, avendo inteso lo insulto fatto in Sicilia dal conte di Avellino a Catania, partito da la vittoria di Nerbona, se ne veniva al soccorso di Sicilia, e vedendo da lontano l’armata del conte di Avellino che andava a Napoli, li diede la caccia e come vacua di difensori facilmente la prese. Dipoi fattosi incontra a l’altra armata del conte Guido di Monforte, che di Toscana andava pur in Sicilia, fatto virilmente fatto d’arme con loro la ruppe, e prese li tre capitani: de li quali il conte di Bologna e quel di Fiandra riscotendosi per denari tornorono a Napoli, e il conte Guido di Monforte ritenuto in prigione si mori. 11 perché quelli di Catania disperati di soccorso, assediati da aragonesi, si rendetteno, salve le persone del conte di Avellino e compagni, che a Napoli in Italia tornorono. Per queste cagioni adunque la pace trattata da Odoardo si interruppe; poi essendo ridotte le cose prospere ad aragonesi, essendo creato giá pontefice Nicolò IV, continuando la pratica Odoardo in fine la concluse, ma con peggior condizioni assai che prima conclusa non saria. Imperocché Carlo li promise fare e curare che ’l conte di Valois rinunciaria a le ragioni del regno di Aragona avute da Martino IV e a sue spese operaria che ’l re Iacomo saria investito e coronato del regno di Sicilia; avendo termine tre anni a far queste cose, e non si facendo nel termine giurò di tornare nel medesimo loco prigione. E per osservazione di questo diede tre suoi figliuoli al re Iacomo per ostaggi, cioè Lodovico secondogenito, che fu poi vescovo di Tolosa canonizzato per santo, e Roberto terzogenito, il quale poi regnò a Napoli, e Giovanni principe de la Morea, il quale poi mori giovine: appresso questi tre figliuoli ostaggi, lasciò Carlo cinquanta cavalieri de li migliori de li suoi, e pagò trenta mila marche d’argento in carlini. Con queste condizioni infine liberato Carlo, essendo stato quattro anni in prigione, del 1288 in Francia se ne venne per operare che ’l conte di Valois renunziasse, la qual cosa non possette ottenere; il perché partito di Francia, accompagnato da dui squadroni di francesi sotto il governo di Amerigo di Nerbona, venne in Italia e per mezzo Lombardia venne a Fiorenza e di li volendo schivare Arezzo per rispetto de la parte ghibellina, facendo la via del Casentino andò a Poppi e di li per il giogo de l’Apennino a la Cittá di Castello e poi a Perosa, ove Nicolò IV pontefice si trovava. Ivi trattò la rinnovazione e confermazione del suo regno; il papa, o per errore o per malizia (ché l’uno e l’altro si scrive), lo intitolò re de Luna e l’altra Sicilia citra et ultra il Faro ne l’anno 1289: il che fatto, a Napoli se ne andette. Carlo II adunque re di Napoli ne l’anno predetto cominciò a governare il suo regno. Ma con il re Iacomo rinnovorono le inimicizie e li odii per aver inteso che Carlo si aveva fatto investire de le due Sicilie: per la qual cosa tentando movimenti e rebellioni nel regno di Napoli, Catanzano in Calabria si rebellò a Carlo e si détte al re Iacomo. Per il che Carlo mandò il conte di Arrasse a recuperarlo, e standoli in assedio, il re Iacomo con cinquanta galee e cinquanta uomini d’arme catalani col suo ammiraglio Roggero di Loria venne per soccorrerlo, e non possette; anzi essendo smontato in terra e combattendo fu ributtato e sforzato ridursi alle galee: e quella sola volta fu vinto Roggero, essendo sempre stato invitto. Onde il re Iacomo partito da Catanzano, data la volta per divertire l’esercito di Carlo, venne a Gaeta, e smontato in terra e occupato il monte di sopra la assediò, dandoli spesso aspre battaglie; ma i gaetani virilmente resisterno, finché il conte di Arrasse, che lasciò sufficiente esercito a l’assedio di Catanzano, e prima Carlo proprio con gente ancor mandate da terra di Roma, li vennero al soccorso. Per la qual cosa il re Incorno dimandò tregua et ebbela per dui anni dal re Carlo, benché assai li contradicesse il conte di Arrasse, parendoli avere la vittoria in mano: onde per quel sdegno si parti da Carlo e tornò in Francia con tutti li suoi.
Partito il re Iacomo da Gaeta e tornato in Sicilia, il re Carlo in remunerazione de la fede de’ gaetani li fece per dieci anni liberi et esenti da ogni gravezza, e tornato a Napoli fece gran feste e solennitá. E fece cavaliero Carlo Martello suo primogenito figliuolo, et essendo morto quell’anno il re Stefano di Ungaria senza altri figliuoli di madonna Maria, sua mogliere et erede di Ungaria, lo fece coronare dal legato apostolico re di detto regno, volendo che in esso per la persona de la madre succedesse, non ostante che un certo Andreasso transversale de la stirpe de li re di Ungaria fusse entrato nel detto regno e parte d’esso ne avesse occupato.
Essendo poi morto Nicolò IV pontefice e vacata la sede apostolica per discordia del collegio dui anni e tre mesi, final mente ne l’anno 1294 fu eletto per instanza di Carlo a Perosa un eremita regnicolo, il quale stava in uno eremitorio due miglia lontano da Sulmona, et era per patria da Esernia terra de’ sanniti, per nome chiamato Piero da Murrone, uomo di santa vita, il quale a’ preghi di Carlo accettò e fu chiamato Celestino V. Né volse andare a Perosa, ancorché ’l fusse chiamato da’ cardinali, ma si fermò a l’Aquila e 11 fece venire il collegio e li fu coronato. E scrivono alcuni autori, che piú di ducento mila uomini si ritrovorono a la sua coronazione: la cagione credono che fusse la lunga vacazione de la sede, la opinione de la santitá de l’uomo, la novitá de la cosa per essere eletto un eremita fuor del collegio de’ cardinali. Creò Celestino ne l’Aquila dodici cardinali, poi essendo fama che ’l voleva renunziare al papato, ovvero per sentirsi inesperto e inetto al governo, ovvero che pur per coscienza dubitasse di non potere in tanto e si pericoloso officio salvar l’anima, ovvero che pur alcuni maligni con arte esquisita a questo il sollecitavano, il re Carlo operò che ’l transferisse la corte a Napoli: ove stando, il re in persona liberamente e con ogni diligenza praticò di rimoverlo da questa opinione di rinunzia, etiam con farglielo dire in pubblico da l’arcivescovo di Napoli, al fine di una processione dappo’ una solenne benedizione che fece al popolo. Infine, spinta questa sua opinione da l’astuzia e malignitá di rnesser Benedetto Gaetano cardinale di Anagni, essendo stato sei mesi o circa ne la sedia, renunziò al papato, lasciando libera facoltá al collegio di eleggere un altro pontefice. E cosi in Napoli fu eletto detto rnesser Benedetto e chiamato Bonifacio VIII, il quale stato un anno in Napoli, a Roma se ne andò, e fece incarcerare e crudelmente in prigione morire detto Piero Celestino, dubitando che li popoli per la sua santitá al papato non lo revocassino. Ne l’anno poi 1295, essendo morto il re Anfus, lasciati dappo* lui Iacomo re di Aragona e Federico suoi fratelli, cercò Iacomo, poi che si vidde re di Aragona, pacificarsi con la Chiesa e con Carlo. E cosi mediante Bonifacio pontefice fu fatto; e promise Iacomo rilasciare l’isola di Sicilia e tórre per donna una figliuola del re Carlo e rilasciare li suoi figliuoli che erano ostaggi in Catalogna, e il papa con Carlo promise fare che ’l conte di Valois rinunziaria a la investitura del regno d’Aragona avuta da Martino IV. E fatta la pace, il re Carlo in persona andò in Francia a concluderla, ove ancora di commissione del papa trattò e concluse la concordia tra il re di Francia e d’Inghilterra; dappoi tornò con li figliuoli in Italia per la via di Fiorenza, ove trovò Carlo Martello suo primogenito, che con ducento uomini d’arme li era venuto incontra, e di li per Roma con gran festa a Napoli si ridusse. Ridotto a Napoli Carlo con opinione di avere pacifica la possessione di Sicilia, trovò che Federico, fratello del re Iacomo, l’aveva giá occupata: per la qual cosa citati a Roma il re Iacomo e Federico, Iacomo comparse e menò con seco Constanza giá figliuola di Manfredi sua madre e Roggero di Loria suo ammiraglio, e furono molto onorati. E a la presenza di Carlo, Iacomo si escusò, con giuramento affermando che senza sua volontá e saputa Federico aveva occupata l’isola di Sicilia, e in segno e comprobazione di questo si offerse esser con Carlo ad aiutarlo a la recuperazione de l’isola. Onde il re Carlo li remise l’offesa, e ancora perdonò a Roggero de la cattura fece di lui e condusselo a li suoi stipendi. Il papa fece confaloniero de la Chiesa Iacomo ad ogni impresa che per Terra Santa si avesse a fare contra saracini e l’investi del regno di Sardegna, dandoli licenza che lo recuperasse di mano de’ pisani e di ogni altro occupatore di quello: per la quale investitura poi Alfonso suo primogenito figliuolo con una armata di settanta galee e di molti altri legni tutta quella isola ottenne. Federico, come intese Roggero essersi condotto e accordato con Carlo, li tolse tutti li stati, robbe e dignitá che aveva in Sicilia e ad un suo nepote, di tradimento imputandolo, fece tagliar la testa. Ne l’anno poi 1298 avendo apparecchiato Carlo quaranta galee, e capitano d’esse Roggero, per andare in Sicilia, richiese il re Iacomo de la promessa: il quale subito fu a Napoli con trenta galee, e giunte, insieme ne andorono in Sicilia. Federico con sessanta galee e con messer Federico D’Oria suo ammiraglio li venne incontra, e fatto aspro fatto d’arme, fu rotto Federico e presi sei mila uomini e ventidue galee de le sue; e lui ancora aria potuto essere preso, se non che da’ catalani li fu dato largo al fuggire. E nondimeno non ebbe per tal rotta Carlo la Sicilia.
L’anno sequente Roberto terzogenito di Carlo, e duca di Calabria, di commissione del padre passò in Sicilia e prese Catania, e drieto a lui con una grande armata di sessanta galee andò Filippo principe di Taranto suo fratello: incontra ’1 quale andando per onorarlo l’armata di Roberto, che vacua stava a Catania, Tarmata de’ siciliani, intesa l’occasione, l’assaltò e prese e dissipò innanzi a li occhi di Filippo, in modo che poche galee a Catania si salvorno; e poi in un subito voltatasi a l’armata di Filippo, fatta una gran battaglia fu superiore, e Filippo fu preso e mandato in prigione a Palermo. Per le quali rotte non parendo a Roberto star ben securo in Sicilia, intendendo che Federico chiamato da’ siciliani veniva con un’altra armata di Catalogna, con quelle poche galee che erano rimaste lasciando Catania, passò in Italia.
Federico che per via aveva inteso la rotta data da li suoi siciliani a due armate de’ francesi, se ne tirò dritto a Messina, ove fatto convenire tutto il sforzo de l’isola, per terra e per mare «ad una determinata giornata passò in Calabria e in pochi di tutta quella provincia subiugò. Scrive bene alcuno autore che a questa seconda rotta di Filippo si trovò Federico, e fu a Trapani, il quale assediando per terra, Filippo fu rotto e preso da Federico: come la cosa si fusse, questo è certo che Filippo fu preso e le armate rotte, e Roberto in Italia tornò. In quel tempo che queste cose in Sicilia si faceano, il re Carlo, il padre del quale Carlo I e lui avevano tollerato circa cinquant’anni li saracini in Luceria sotto pagamento di tributo, deliberò non tollerarli pivi: onde propose un editto che qualunque saracino non voleva farsi cristiano potesse senza alcuna pena da ciascheduno essere morto, e chi voleva battezzarsi potesse ritenere la robba e restare. Questo editto inteso, quasi tutti si levorno e partirno di Italia, e una minima parte ne rimase e tolse il battesimo: i quali però di mente, di animo e di costumi e di ogni atto occultamente insino a li nostri tempi presenti ne la perfidia saracinesca dimorano, e sono quelli, per quanto estimo, che oggidí sono chiamati marrani, che molti ne sono in piú lochi di Puglia. Ne l’anno poi 1302 Carlo di Valois, che di commissione del papa e del re di Francia era in Toscana per le difficoltá di quella provincia, a favore de’ fiorentini, passò nel regno di Napoli per aiutare Carlo II suo parente: onde con li suoi e con quelli del re entrò in Calabria e fece gran preda d’uomini e di animali. Non ebbe mai però alcuno a l’incontra; né Federico volse fare fatto d’arme, ma fu il primo che cominciò a parlare di pace, la quale fu fatta in questo modo, che Federico rilasciò tutti li prigioni e le terre occupate in Italia, e il re Carlo e li figliuoli e il conte di Valois con giuramento promiseno lasciarli godere in vita Sicilia, né mai sin che ’l viveva molestarlo.
In quest’anno medesimo la sulfurara di Ischia, isola vicina a Napoli, buttò fuora foco si grande, che sino al girone de l’isola ne andorno le onde de le fiamme: per la qual cosa molti uomini e animali de l’isola perirno, e molti che piú presto furono accorti, montati sopra ogni barchetta che li occorse, chi a Procida, chi a Capri e chi a Baia e a Pozzuoli e a Napoli si ridusseno, lasciando l’isola deserta, ne la quale per dui di continui il detto vomito di foco durò. Stette, dappo’ la pace fatta con Federico, il re Carlo quieto nel stato, e visse con grande autoritá in Italia. Mandò Roberto suo figliuolo e duca di Calabria in Toscana dimandato da’ fiorentini, il quale come proprio signore con somma fede la governò; poi lo mandò in Avignone a far reverenza a Clemente V fatto pontefice. Diede ancor per donna l’anno 1305 una sua figliuola chiamata Beatrice ad Azzo estense, che aveva il dominio di Ferrara, e in fine essendo di etá di sessant’anni, ne l’anno 1309 del mese di maggio passò di questa vita in Napoli, avendo regnato ventiquattro anni, e UBRO QUINTO 193 fu sepolto ne la chiesa di San Domenico. Dappoi fu il suo corpo portato in Provenza e nel monasterio di santa Maria di Nazareth, edificato in Arles da lui, fu collocato. Fu Carlo II uomo benigno e grazioso e giusto e molto liberale, in modo che scrivono lui essere stato tenuto un altro Alessandro per liberalitá. Fu nobile principe ne le cose civili e pacifiche, ma ne le militari né fortunato né esperto: fu de la persona alquanto torto e zoppo e, si come scrivono alcuni a la napolitana, fu sciancato. Ebbe per donna, vivente il padre, come è detto, madonna Maria figliuola del re Stefano di Ungaria, de la quale ebbe nove figliuoli maschi e cinque feinine. Li maschi furono: Carlo Martello primogenito, re di Ungaria per successione de la madre, Lodovico secondogenito, frate minore e vescovo di Tolosa, canonizzato santo da Giovanni XXII pontefice, Roberto terzogenito che fu re di Napoli dappo’ lui, Filippo principe di Taranto che fu prigione in Palermo, Giovanni principe de la Morea, Tristano che nascette stando lui in Catalogna, Raimondo Bellingeri che fu reggente de la Vicaria, Lodovico II duca di Durazzo, Piero conte di Gravina; le cinque figliuole femine furono queste: Clemenza, donna di Carlo fratello di Filippo Bello re di Francia, Bianca, donna del re Iacomo di Aragona, Eleanora, che fu donna del re Federico di Sicilia, Maria, donna del re di Maiorica, Beatrice, che fu donna di Azzo marchese da Este e signor di Ferrara, poi di messer Beltramo del Balzo, poi di Roberto delfin di Vienna, essendo in breve tempo morti li dui primi mariti. Fece ancora Carlo molti nobili edifici in Provenza e in Italia e massimamente monasteri e chiese, le quali ancor dotò di molte ricchezze. Edificò il molo di Napoli e rimise la còlta a li cittadini; onorò molti uomini di baronie e in somma fu tenuto ottimo principe e amator di pace. Fu nondimeno imputato da alcuno scrittore di essere stato alquanto troppo in vecchiezza lascivo. Roberto, terzogenito del re Carlo II, essendo in Avignone nel tempo de la morte del padre, fu chiamato successor nel regno e da Clemente V prima che partisse di Provenza confermato re. Ebbe però controversia in detta successione, però che Carlo, chiamato Umberto, suo nepote e re di Ungaria, nato di Carlo Martello primogenito di Carlo II re di Napoli e fratello del re Roberto, e di Clemenza figliuola di Rodolfo imperatore, pretendeva per rispetto de la persona di suo padre (il quale però era morto prima che Carlo II suo avo) che detta successione nel regno di Napoli spettasse a lui. Per la qual cosa per li iurisconsulti di quel tempo fu disputata quella famosa questione di iuristi con le sue appendici: cioè chi deve succedere ne li feudi e ne li regni semplicemente concessi, o il fratello ovvero il figliuolo del fratello stato re. Infine dichiarò il papa che Roberto succedesse; e dice Baldo perusino, illustre dottore nostro, che la ragione che mosse il papa fu la utilitá pubblica del regno, per la immensa sapienza del detto re Roberto, che fu reputato un altro Salomone, e perché al suo nepote doveva bastare il regno di Ungaria. Et è da sapere, per schivare la confusione de’ nomi, che questo Carlo nepote del re Roberto ebbe nome a battesimo Caroberto, nome composto di Carlo e di Roberto, ma li ungari lo chiamorono semplicemente Carlo: li italiani corrottamente Carlo Umberto. Tornò adunque Roberto a Napoli re, e con qualche contradizione con la spada in mano tolse la possessione del regno, e nel suo ritorno passando per Bologna, il cardinale messer Egidio Pelagrua, legato apostolico in Italia, li raccomandò Ferrara, imponendoli che la dovesse far governare e guardar per la Chiesa. Onde Roberto allora li mandò Diego da la Rapta spagnuolo, che aveva un contado in quel di Benevento, con una compagnia di catalani al governo di Ferrara, facendolo in quella terra presidente.
Ne la medesima tornata fece stare di buon animo e confortò i fiorentini impauriti per la venuta di Enrico VII in Italia, promettendoli dare ogni aiuto contra di lui. Il che fece, stringendo insieme tutti li guelfi di Toscana e di Lombardia, facendosi lor capo; e intendendo che Enrico era in campo a Brescia, mandò gente d’arme in Toscana e in Romagna, che avesse a tenere unite le parti e porgere aiuto a Ferrara e a Bologna e a Fiorenza, ove bisognasse. Per la qual cosa Enrico, essendo a Genova, promise occultamente a l’oratore del re Federico di Sicilia far lega con lui contra il re Roberto: la qual cosa dissimulando Roberto, non stette che non mandasse a Roma Giovanni principe de la Morea suo fratello ad onorar la sua coronazione. Et essendo poi a Tibure, Enrico concluse detta lega con li ambasciatori di Federico e li offerse dare una sua figliuola per donna per fare parentado con lui e ordinò che armasse per entrare in Calabria, promettendoli aggiungere l’armata de’ genovesi e de* pisani: le quali cose circa lo apparato de l’armi fumo subito fatte, in modo che andando poi Enrico a campo a Fiorenza, Roberto molto requisito da’ fiorentini non li mandò alcuno aiuto, allegando d’essere occupato a la difesa propria, per essere entrato in Calabria Federico con potente armata; né possette soccorrerli ancorché i fiorentini li déssino allora il libero dominio de la loro cittá.
Ma partito Enrico da Fiorenza, parendoli quella dura impresa, si condusse a Pisa e li fece citare solennemente Roberto, il quale non essendo comparso, lo pronunziò recaduto del regno di Napoli: la qual sentenza poi in Avignone fu da Clemente V revocata e annullata, si come ancora nel volume de le Clementine scritto si vede. Infermato poi Enrico a Bonconvento nel contado di Siena e li attossicato ne la eucaristia da un frate di san Domenico per opera e arte de’ fiorentini (si come la piú parte de li scrittori dicono) passò di questa vita: se bene solo Mussato da Padua, diligente scrittore de le cose di questo Enrico, di tal generazione di morte non parla.
Per la morte di Enrico, Federico levò l’esercito di Calabria e in Sicilia si ridusse, e Roberto, libero da l’inimico, mandò a l’aiuto de’ lucchesi e de li altri guelfi in Toscana, contra Uguccion Fasola allora nobile capitano, Piero cognominato Tempesta, duca di Gravina, suo fratei minore di etá de li altri, con alcune poche genti, e dappo’ lui Filippo quartogenito suo fratello principe di Taranto con Carlo suo figliuolo e un’altra comitiva di gente: li quali poi mal capitorno, imperocché in quella gran battaglia che l’ultimo giorno di agosto nel 1315 fu fatta a Monte Catino, ove per la parte de’ ghibellini fu vincitore Uguccione predetto e Castruccio Castracane che con lui militava, Piero duca di Gravina fuggendo si annegò in certe paludi, Carlo figliuolo di Filippo fu morto e Filippo principe di Taranto fu prigione.
Et essendo poi oppressa Genova da li suoi ghibellini, li guelfi donorno la cittá a Roberto ne l’anno 1318, con questo, che la soccorresse; onde subito li mandò le genti ch’ el aveva in Toscana, e lui per mare con mille e ducento combattenti e con Filippo e Giovanni suoi fratelli e molti baroni si condusse a Genova: ne la quale fu onoratamente ricevuto, e per se e per il papa la tenne. Tutti li ghibellini con le loro famiglie si ridusseno a Savona, e nondimeno fatto lega col re Federico di Sicilia e con Marco Visconte da Milano vennero a le mura di Genova combattendo in modo, che ’l re Roberto stette quasi sei mesi assediato; e bisognava che lui in persona e li suoi baroni fussino ogni di sopra le mura con le spade in mano, e fu necessario che mandasse per aiuto a Fiorenza e a Bologna: et ebbelo di molti fanti e cavalli. E messer Marco Visconte lo richiese di battaglia, e per non essere pari le condizioni de le persone, lui li dette repulsa. Usci poi con quaranta galee di Genova e andò a Sestria, ove smontato in terra ruppe li inimici; poi andò in Avignone a invitare Giovanni XXII fatto pontefice, col quale stette piú giorni: e li si scoperse un trattato di alcuni mandati da Castruccio per ammazzarlo, ovvero, non succedendo questo, per farli bruciare la galea nel ritorno, i quali furono debitamente puniti. Li suoi rimasti a Genova in quel mezzo con gran fatica per dui anni sostennerno lo assedio e finalmente rimaseno superiori l’anno 1320.
L’anno sequente infestando pur li ghibellini tutta Lombardia e ancor Genova, Giovanni pontefice e Roberto cercorono di far tregua con Federico di Sicilia per tre anni per poter meglio attendere a l’impresa di Genova. Ma P’ederico non volse, perché la voleva per dieci anni e voleva li russino restituite Regio e alcune altre terre di Calabria che ’1 papa aveva tolto in deposito; onde non potendo ottenerla, disfidò il re Roberto, e il papa indignato lo escomunicò. Nel 1322 poi Carlo Senzaterra, figliuolo di Roberto, mandò diciasette galee a’ danni di Sicilia e bruciò Lipari; Federico con ventisei galee e altri legni usci fuora e cacciò Tarmata di Carlo, poi smontò in Calabria e senza pigliare alcuna terra fece grandissima preda.
Perseverando nondimeno ancora Castruccio capo de’ ghibellini a li danni de’ fiorentini, et essendo li soccorsi del re Roberto pochi e lenti, si ridusseno i fiorentini a dimandarli per aiuto Carlo cognominato Senzaterra suo figliuolo, al quale donorono il dominio di Fiorenza. Andò adunque Carlo a Fiorenza e prese in sul principio due ovvero tre picciole castellette de’ lucchesi; intendendo che Castruccio era andato incontra a Lodovico di Baviera imperatore, che veniva per via di Lunisana verso Pisa con intenzione di passare nel reame contra Roberto suo padre, ritirò in Fiorenza tutte le sue genti d’arme e dappoi si parti, lasciandoli in suo loco Filippo di Ciare. E in somma si male aiutò i fiorentini, che essendo arrivato a Napoli, e morto, ne ebbeno letizia ascrivendo a non poca felicitá Tesser liberati da signore; né mai piú poi favore alcuno notabile ebbeno da Roberto suo padre, anzi e del figliuolo e di lui sempre si dolseno, per essere stati insaziabili di denari, e uomini per li quali gran quantitá d’oro con poco frutto avevano speso. E dicevano in quel tempo fiorentini, che non sapevano in che modo possibil fusse che la loro cittá avesse potuto bastare a la grandezza de la spesa fatta per francesi, da Carlo I insino a questo Carlo ora morto.
Rimase nondimeno Roberto, morto Carlo Senzaterra suo figliuolo, in lega de’ fiorentini, li quali implicati in molti modi con pisani e lucchesi e ghibellini, non si spiccavano dal favore di Roberto, ancor che poco se ne valessino, massimamente essendo venuto in Italia ne Tanno 1329 il re Giovanni di Boemia, figliuolo di Enrico VII giá detto e padre di Carlo IV che fu poi imperatore; e aveva avuto il dominio di Parma e di Reggio e di Modena e di molte altre terre, e dimonstrava non aver buon animo verso fiorentini: il perché da la intelligenza di Roberto non si scostavano. E partito di Italia il re Giovanni senza aver fatto alcun’altra memorabil cosa, dappoi molte rivoluzioni, avendo i fiorentini occupato Lucca e perdutola, rotti da’ pisani circa l’anno 1340, Roberto in cosa alcuna non li volse aiutare, ancora che molto ne fusse ricercato; e finalmente standosi a Napoli ne l’anno 1343 senza figliuoli maschi morendo lasciò questa vita. Rimaseno solamente tre sue nepoti, figliuole di Carlo predetto suo figliuolo, cioè Giovanna primogenita e Maria e Margarita. Lasciò per testamento Giovanna regina del regno di Napoli, con condizione che togliesse per marito Andreasso suo secondo consobrino, figliuolo che fu di Carlo Umberto e nepote di Carlo Martello fratello di esso Roberto, e che ambi dui insieme regnassino.
Fu reputato Roberto signore molto prudente e dotto e religioso e liberale, amatore sommo di uomini dotti e virtuosi; né scrittore alcuno si trova che di lui onoratamente non parli. Ebbe per donna Sancia regina di Maiorica, figliuola del re di Aragona, santissima donna de la quale nacque Carlo predetto e per la quale edificò molte chiese e monasteri, e tra li altri quello di Santa Croce di Napoli, ove detta regina è seppellita, e il monastero di Santa Chiara. In Provenza ancora edificò chiese, e in Hierusalem la chiesa di Santa Maria del monte Syon, e una cappella nobilissima per l’anima di Carlo suo figliuolo; e amplificò li edifici di Castel nuovo et edificò il castel di Sant’ Eremo. E dappoi molte cose ben fatte lasciò di sé dolce e desiderata memoria, massimamente celebrato da messer Francesco Petrarca e da messer Giovanni Boccaccio da Certaldo, i quali da lui furono assai familiarmente amati: e in somma fu tale, che tra li buoni principi meritamente è connumerato. Ora a narrare de li suoi successori procederemo. Giovanna nepote del re Roberto, cognominata Giovanna prima, rimasta nel modo predetto regina di Napoli, per osservanza del testamento di suo avo tolse Andreasso suo secondo consobrino per marito: il quale venne in Italia e copulato con lei, essendo stato tre anni nel regno e trovandosi ambi dui in Aversa, la regina lo mandò una notte a chiamare sotto specie di alcune importanti occorrenze, e come fu ad un certo verone, ovvero poggiuolo, fu preso e, postoli il laccio al collo, a quel poggiuolo impiccato, di volontá e commissione de la regina. La cagione per molti si dice che fu perché detto Andreasso, ancor che fusse molto giovine, non era si ben sufficiente a le opere veneree, come lo sfrenato appetito de la regina aria voluto; e narrasi pubblicamente per Napoli ancora al di d’oggi che la regina Giovanna, lavorando un di un cordon d’oro assai grosso, Andreasso domesticamente, come sogliono li mariti, li dimandò perché essa faceva quel cordone si grosso, e lei sorridendo li rispose che lo faceva per impiccarlo: a tanto vilipendio l’avea, che non temeva di dirli cotali parole. Le quali Andreasso, come semplice, poco curò, ma infine l’efTetto ne seguitò, perché con quel cordone si dice che lei il fece impiccare facendoli il laccio, col quale fini la sua vita. Morto il detto Andreasso, lei tolse incontinente per marito un altro suo secondo consobrino chiamato Lodovico tarentino, bellissimo giovine, che fu figliuolo di Filippo principe di Taranto, fratello che fu del re Roberto suo avo: la qual cosa tanto disonesta e vituperosa parse a tutto il mondo, che il nome di Giovanna quasi faceva ad ogni uomo odioso. Per la qual cosa Lodovico re di Ungaria, fratello del detto Andreasso, mosso da se medesimo e infiammato da molti che in Italia lo chiamavano a vendetta, fatto un potente esercito, passò nel regno di Napoli ne l’anno 1348; e benché la regina Giovanna li scrivesse molte cose a sua escusazione, nondimeno con una sua sola e breve lettera il re Lodovico li dimostrò di quanto momento fussino le sue escusazioni. La qual lettera ancor si trova e dice queste parole: Inordinata vita praccedens, retentio potestatis in regno, neglecta vindicta, vir alter suscepius et excusatio subseqnuta, necis viri lui te probant fuisse participem et consortem. In lingua vulgare dice questa lettera: ’ La disordinata vita precedente, la ritenzione del dominio nel regno, la vendetta non fatta, l’altro marito tolto e la escusazione sequente sono probazione che de la morte del tuo marito tu sei stata partecipe e consorte \ Venuto nel regno Lodovico ungaro, prese per forza Sulmona, la quale ebbe ordine di resisterli, e quella acquistata, tutto il reame a la sua podestá si rendette. Onde la regina impaurita se ne fuggi in Provenza e drieto a lei Lodovico suo nuovo marito, lasciando in suo loco Carlo detto di Durazzo, il qual fu figliuolo di Gianni duca di Durazzo, fratello del re Roberto; e con tanto disfavore fuggirono la regina e il tarentino, che i fiorentini, molto richiesti da loro per l’antica amicizia con Francia e con la casa d’Angiò, non solamente non li volsono dare qualche aiuto e soccorso per paura de l’Ungaro, ma non volsono pur che entrassino in Fiorenza. Giunto adunque a Napoli il re Lodovico ungaro, Carlo di Durazzo, il quale si ritrovava aver le genti d’arme de la regina et era stato conscio e consenziente a la morte di Andreasso (et era opinione che ancor lui avesse avuto commercio venereo con la regina), volse farli resistenza; ma essendo vinto e preso, di commissione di Lodovico per dette cagioni li fu tagliata la testa. E lasciò dappo’ sé un figliuolo giovinetto, similmente chiamato poi Carlo di Durazzo. E cosi di Napoli e di tutto il regno rimase l’Ungaro signore.
Sopragiungendo poi quella orribile pestilenza per tutta Italia (la quale ancor ne le cose spaventose in proverbio si ricorda, somigliandole a la moria del *48) de la quale diffusamente scrive Giovanni Boccaccio nel principio del suo Decamerone , Lodovico tornò in Ungaria menando con seco detto Carlo di Durazzo, non essendo stato piú che tre mesi nel reame: lasciò però a Napoli una buona e gagliarda compagnia de li suoi ungari.
Per la qual cosa Clemente VI pontefice, che era in Avignone, mosso forse per instanza de la regina Giovanna, prese cura del regno di Napoli e mandò in Italia messer Guido Lemovicense cardinale Portuense, suo congiunto, il quale in modo trattò le cose, che concluse la pace tra il re Lodovico di Ungaria e la regina Giovanna in questo modo: che la Giovanna tornasse nel regno e usasse il titolo di regina, ma Lodovico suo marito non tenesse altro titolo che principe di Taranto; e a sé riservò tutte le ragioni ch’el aveva nel regno dappoi la morte de la regina. E cosi ambidui, la regina Giovanna e Lodovico principe di Taranto, tornorno nel regno; né molto poi, instando la regina ancora con Clemente VI, ne l’anno 1352 fece coronare in Napoli ancor Lodovico predetto tarentino del reame di Napoli e fece che Lodovico ungaro rinnovò la pace con lui e con la regina; e in premio di questo la regina diede in titolo di vendita la cittá di Avignone, che era suo patrimonio, al papa, scontando il prezzo ne li denari del censo non pagato del regno, dal di che la Giovanna ne fu coronata: e da quel tempo sino ad oggi Avignone è stato et è de la Chiesa. Circa tre anni stette il re Lodovico tarentino in signoria, et estenuato per l’inordinato e frequente uso de le cose veneree con la regina, che di quella sola cosa era vaga, finalmente mori. Né molto stette la regina dappoi la sua morte, che prese il terzo marito chiamato Iacomo tarraconese infante di Maiorica, il quale era tenuto il piú leggiadro e bell’uomo che in quel tempo si trovasse: e quello lei non tenne con titolo di re, ma solo di duca di Calabria. Mori questo Iacomo infra pochi anni, chi dice per morte naturale, e chi dice che la regina li fece tagliar la testa per aver usato con un’altra femina: quello si sia, morto lui, la regina Giovanna tolse il quarto marito, che fu Ottone di Bransvich di nobilissima stirpe di Sassonia, il quale in quel tempo militava in Italia al stipendio de la Chiesa e si trovava a Ferrara, ne l’anno 1376. Col quale Ottone stando pacificamente, accadette che Gregorio XI pontefice, il quale aveva ridotto in Roma la corte gran tempo stata in Francia con grandissimo danno d’Italia circa 74 anni, cioè da Clemente V insino a lui, passò di questa vita a’ di 26 di marzo l’anno 1378: per la qual morte nacque quel gran scisma, che durò circa quarantanni e poi, come a suo loco diremo, nel concilio di Constanza fu terminato. E fu la origine del scisma in questo modo. Li baroni e nobili romani, morto Gregorio, pregorno il collegio de’ cardinali strettamente, che li piacesse eleggere un papa che fusse romano, o almeno italiano, acciò che la corte romana non si transferisse piú in Francia; e il popolo per le piazze pubblicamente gridava: — Romano lo volemo, italiano lo volemo ! — Il perché dubitando li cardinali di tumulti e di violenze, convennero tra loro di eleggere un italiano nominatamente, con intenzione poi a loco e a tempo, cessato il tumulto, in libera elezione creare un altro che effettualmente fusse pontefice: onde entrati in conclave e perseverando il rumor del popolo e la moltitudine insino a rompere le porte del conclave, elesseno a li di io del mese di aprile del detto anno messer Bartolomeo da Napoli arcivescovo di Bari e lo chiamorno Urbano VI; e scrivono alcuni che con espressa condizione lo elesseno, che a loco e tempo lui l’avesse a rinunziare, e cosi dicono che solennemente e con giuramento promise. E dappoi la elezione il collegio scrisse a li potentati sopra la detta elezione come legittimamente fatta, e anche per alcuni mesi lo adororno e recognobbeno per vero papa. Dipoi sotto pretesto di mutar aere per li caldi estivi, essendo di luglio, impetrorno licenza di partirsi da la corte quattordici cardinali (ovvero solamente otto, secondo alcuni scrittori) per la maggior parte oltramontani, essendo il papa a Tibure; e loro per diverse vie, prima ad Alagnia, poi a Fondi tutti insieme si trovorno, con trattato e piena scienza de la regina Giovanna, la quale secretamente aveva offerto a detti cardinali piena securtá ne le sue terre, avendo loro intenzione di fare altro papa: e questo perché lei, non stando ancor sicura del re di Ungaria, desiderava aver un papa che fusse francese. E finalmente dappoi molti trattati d’accordo non conclusi tra li detti cardinali e Urbano, lo feceno solennemente citare a Fondi e governorono la cosa con atti iuridici e per la maggior parte con consiglio di messer Nicola da Napoli, allora famosissimo iurista e consigliere de la regina Giovanna, e inimico di Urbano. E Urbano fece citare et escomunicò loro, e finalmente, non curando l’uno de l’altro e pretendendo questi che la sede vacasse, il settembre sequente elesseno a Fondi con le debite cerimonie un altro papa, cioè il cardinale di Ginevra, e fu chiamato Clemente VII; e poi scrisseno a tutte le potenze cristiane che non Urbano, ma Clemente era il vero papa. Urbano rimase a Roma e con lui si accostò Italia, Alemagna e Ungaria: Clemente andò in Avignone e la sua parte seguitorono Francia e Spagna; e cosi fu fatto lo scisma, al quale solo la regina Giovanna avea dato favore, come è detto. Per piú notizia de le cose passate et esempio de le future, è da sapere la cagione de la inimicizia che aveva messer Nicola da Napoli, consiglierò de la regina, con papa Urbano. Era messer Nicola un gran iurista e in molte liti le quali in corte di Roma avea avuto, Urbano, essendo in minor gradi, li era stato contra, come accade ne le avvocazioni; essendo poi fatto papa Urbano e mandando li potentati a farli reverenza e prestarli obedienza, la regina Giovanna ancor lei mandò Otto di Bransvich suo marito e messer Nicola predetto suoi oratori a Roma, ove essendo gran numero di ambasciatori, fece Urbano un pubblico e magnifico convito, ove molti signori e tutti li ambasciatori furono convocati. Posti a tavola al suo ordine, messer Nicola, come uomo dottissimo e nobile oratore de la regina Giovanna, fu posto in loco bene onorato; ma poi che tutti furono assettati, il papa comandò al maestro di sala che facesse levare messer Nicola e lo ponesse in loco piú basso, e cosi fu fatto con carico di messer Nicola. Il quale dissimulando nel viso tale iniuria, la portò in pazienza; ma partendosi dappo’ il convito disse ad un cardinale che con lui si doleva di quell’atto e confortavalo ad aspettar tempo, che l’aveva due anime in corpo, una ne aveva deputata a Dio, l’altra la daria a chi la voleva: e da quell’ora in poi indusse la regina a l’odio di Urbano e fu consultore di tutto il processo a la elezione di Clemente, come di sopra avemo detto. Urbano stando a Roma creò diciotto cardinali di diverse nazioni e fece pace con fiorentini e perusini e tutti quelli che erano stati ribelli de la Chiesa al tempo di Gregorio XI. Poi tutto vólto a vendetta, per sentenza privò del regno di Napoli la regina Giovanna per molti delitti, ma massime per avere prestato loco e favore a lo scisma e avere prestato obedienza a Clemente VII; e investi del regno Carlo di Durazzo che stava col re di Ungaria giá detto di sopra e scrisse al re che li mandasse detto Carlo, che lo coronaria del regno di Napoli. Da l’altra parte Clemente stando in Anagnia, fatto venire un suo nepote di Francia, detto monsignor di Monzoia, e fattolo capitano di molta gente d’arme, lo mandò per il stato ecclesiastico, acquistando le terre e riducendole ad obedienza sua, con commissione ancora di andare a Roma et espugnare Urbano e ridurla a la sua devozione; e venendo monsignor di Monzoia vittoriosamente contra Roma, si pose a campo a Marino, castello lontano da Roma dodici miglia, per espugnarlo. Urbano confortato da’ romani a mandarli incontra, e invitato dal valore e virtú del conte Alberico da Barbiano suo capitano, datali la benedizione, con quelle genti che ’l si trovava e col popolo usci una sera di Roma a’ di 28 di aprile 1379 e fece il suo alloggiamento appresso a li inimici. La mattina sequente in su l’aurora fece dui squadroni, e-uno ne tolse per sé, l’altro diede a Galeazzo da Pepoli, e fece sonare a la battaglia, inviandosi verso li inimici. Monsignor di Monzoia da l’altra parte fece tre squadroni: il primo tolse per sé, il secondo diede a messer Berardo da Sala, il terzo a messer Piero da la Sagra; e fecesi incontra al conte Alberico. E attaccato un fiero fatto d’arme, fu rotto il squadrone di Galeazzo da Pepoli nel primo assalto; ma andando al suo soccorso il conte Alberico fece si terribile e impetuoso assalto contra li inimici, che ruppe il squadrone di messer Berardo da Sala e fecelo prigione: poi passando per forza il secondo, e ristorato Galeazzo, andorno a ferire nel terzo e ne le bandiere proprie di monsignor di Monzoia. E fracassato il squadrone e preso lui e le bandiere, in poco d’ora rimase vincitore; e quel di proprio, che fu a li 29 d’aprile, entrò in Roma in modo di trionfante con tutto l’esercito suo e con li capitani inimici prigioni, strascinando le loro bandiere per terra con gran letizia di tutta Roma e di papa Urbano, il quale fece nel di medesimo cavaliere il conte Alberico e messer Galeazzo da Pepoli. Finite le feste e le processioni per tanta vittoria, Urbano fece ingrossare l’esercito e mandò il conte a recuperare le terre che si erano rebellate da lui e vòlte a compiacenza de l’altro papa; il che fatto, si condusse con li veneziani, che allora avevano guerra col re Luigi d’Ungaria e genovesi e con il signore di Padua.
Clemente dubitando de l’esercito di Urbano non si voltasse contra di lui, non si tenendo sicuro in Alagnia, mandò a la regina Giovanna che li mandasse gente che li fusse scorta a condurlo a Napoli, e cosi fu fatto. Ma li napolitani sentendo la sua venuta, si levorno in arme dicendo che non volevano dui papi addosso e la guerra per lui, per la qual cosa la regina con Clemente si ridusseno nel castello e in quello si feceno forti; e dappoi pochi giorni non li parendo dovere star li, la regina fece armare tre galee, e sopra due pose Clemente con li suoi cardinali, sopra l’altra montò lei, e mossi da Napoli con prospero vento, in pochi giorni furono in Avignone. Clemente fu visitato e onorato da tutta Francia, e fatto vedere tutti li processi di ambidui nel parlamento di Parise, fu pronunciato lui essere vero papa e Urbano esser scismatico e falso papa: e cosi il re di Francia e d’Aragona li renderono obedienza. La regina Giovanna ancor lei fu sommamente onorata e donata, e massimamente da Luigi figliuolo secondogenito di Giovanni re di Francia, e duca di Angiò: per la qual cosa vedendosi lei senza figliuoli e sola, e intendendo moltiplicar le pratiche di Carlo di Durazzo e Urbano, adottò per figliuolo il detto Luigi duca d’Angiò e li fece donazione del reame di Napoli e di Sicilia dappoi la morte sua con l’autoritá di papa Clemente. E di detta donazione, che fu nel detto anno 1372, ne furono fatte pubbliche e autentiche scritture e instrumenti: e fu la prima origine de le ragioni che pretendette sempre, e ancor pretende, la seconda linea de la casa di Angiò nel reame di Napoli, si come piú chiaramente innanzi dimonstraremo. Le quali cose fatte e fermate, la regina Giovanna tornò a Napoli.
Continuando in questo mezzo Urbano, a privazione de la regina Giovanna, ne la opinione di volere investire di quel regno Carlo di Durazzo, sollecitava suoi messi e lettere in Ungaria a re Lodovico per tal materia. Era in quel tempo Carlo di Durazzo con un grosso esercito di ungari nel territorio di Treviso, mandato dal prefato re Lodovico collegato con genovesi e con il signore di Padoa contra veneziani: onde certificato di ogni cosa dal re e anche da un ambasciatore proprio, il quale Urbano li mandò insino a Padoa, ove allora si trovava la persona sua, avido di vendicare la morte di Carlo suo padre e di Andreasso, i quali per cagion de la regina erano si mal capitati, e appresso desideroso di acquistare il regno debito al suo sangue, accettò senza pensarvi questa impresa e lasciò subito quella di Treviso. E tutto il suo pensiero scoperse a li oratori veneziani, che allora erano con lui; e sotto pretesto di volere andare in Ungaria per trattar pace, con tanta celeritá si parti, che non aspettò che la Piave, fiume del Trevisano allora ingrossato, calasse, ma si mise a passarlo con danno di circa ottanta de li suoi, che in esso s’annegorno. Lui adunque passò in Ungaria a mettersi in ordine e verso Toscana inviò con li suoi ungari e altra gente un suo capitano, detto Giannotto da Salerno. I veneziani, non avendo piú bisogno di gente in Trevisana, poiché l’inimico d’accordo era partito, cassorno il conte Alberico da Barbiano lor capitano e un Ferrebach todesco, che con lui era con quattrocento uomini d’arme, li quali ridottisi in Romagna furono condotti da Giannotto al stipendio di Carlo di Durazzo suo signore; e Giannotto giunto ad Arimino, di li passò l’Apennino e andò nel territorio di Siena e li si fermò, riscotendo denari da senesi e da pisani e da lucchesi, i quali per non esser vessati né molestati da lui lo aiutorono a sostener le sue genti insino a la tornata di Carlo di Durazzo in Italia.
Tornò Carlo ne l’anno 1380, circa il mezzo de l’anno, in Italia e aiutato dal re Lodovico menò con seco otto mila ungari sotto il governo di Giovanni Bano di Ungaria e circa mille italiani; et essendo ad Arimino, fu chiamato in Toscana da aretini per discordie civili tra loro, e li détteno il dominio de la cittá. Li fiorentini, che non avevano dato denari a Giannotto, benché avessino condotto messer Giovanni Aguto inglese e per molte vie si fussino ingegnati di non si impacciare de la guerra di Carlo e de la regina Giovanna, pur avendo gran paura di non irritare contra loro un potente re, al quale giá erano ricorsi tutti li loro fuor’ usciti, e di verso Staggia, castello de’ fiorentini, avevan giá cominciato a muover guerra, li détteno quaranta mila ducati, i quali tutti furono dati a Bano per la compagnia de li ungari; e altri quaranta mila, debiti a la sede apostolica per la investitura del reame, promiseno pagare al papa per il termine di tre mesi: e lui fu contento non favorire li usciti loro né darli molestia. Fatta adunque la pace con fiorentini, parti da Arezzo, lasciandoli al governo un vescovo di Varadino di nazione francese, e con un grosso esercito se ne andò a Roma ne l’anno 1380. Giunto a Roma e ricevuto con grande onore da Urbano, non essendo ancora tempo di campeggiare né essendo preparato tutto il bisogno per cominciare la guerra, acciò che in quel mezzo non fusse senza dignitá in Roma, il papa lo creò senatore; e mentre stette li, che furono pochi mesi, ordinò tutte le sue pratiche con li regnicoli amici suoi che l’aspettavano, e fece venire a sé il conte Alberico con la sua Compagnia di San Giorgio e condusse oltra lui a li suoi stipendi messer Villanuccio con ducento lance e il conte Giovanni d’Azzo de li Ubaldini e molte altre lance spezzate. Poi sollecitato da li amici che lo chiamavano, con la benedizione del papa, e con le sue bandiere e quelle di Santa Chiesa, usci di Roma l’anno sequente 1381, e per la via diritta se n’andò a Napoli, non trovando alcuna resistenza. Contra Carlo per una porta di Napoli con sue genti usci per far fatto d’arme Ottone duca di Bransvich, marito de la regina Giovanna, ma Carlo con occulta intelligenza per un’altra porta chiamato da cittadini entrò in Napoli, gridando il popolo: —Viva, viva il re Carlo! — E subito si pose a l’assedio del Castel nuovo, nel quale si era ridotta la regina, e in modo lo strinse che né entrare né uscir d’esso si potea, e cominciollo a combattere. Ottone, che vedendosi tradito dai cittadini assediava la terra di fuora e la combatteva, un di fece armare il campo per entrar dentro ne la cittá per forza: il che come Carlo intese, usci fuora per due vie a la campagna facendo due parti de li suoi e fece fatto d’arme ferendo da dui canti le genti di Ottone. E dappoi un aspro fatto d’arme, il quale per virtú e gagliardia di Ottone fu un buon pezzo sostenuto, al fine la vittoria fu dal canto di Carlo; e Ottone, il quale sopra un possente corsiero faceva fatto d’arme, essendoli stato ferito il cavallo e cadutoli addosso, fu preso e menato a Carlo, e a lui si rese. Vedendo questo la regina, e che senza speranza era e che ogni soccorso li era mancato, impetrò da Carlo di poter venire a parlamento con lui; il perché venuto Carlo ne l’orto del castello, la regina li fece reverenza come a re, poi li disse queste parole: — Io ti ho avuto insino ad ora in loco di figliuolo, ma ora, poiché cosi piace a Dio, io ti riconosco e tengo per mio signore: per la qual cosa e l’onor mio e del mio marito Ottone ti raccomando. — A le quali parole Carlo rispose: — Io ti ho sempre amata come madre e cosi intendo fare per l’avvenire. L’onor tuo e di messer Ottone l’arò raccomandato. — Allora la Giovanna se li détte e onorevolmente accompagnata fu mandata in un altro loco e ben guardata, e con lei furono presi molti baroni e gentiluomini e dui cardinali creati da Clemente VII antipapa. Presa la regina Giovanna e acquistato Napoli, tutto il resto del reame in un subito si détte a Carlo, il quale rilasciò in libertá Ottone con condizione che uscisse del regno; e scrivendo in Ungaria de la sua felice vittoria, dimandò ancora il parere del re Lodovico quello avesse a fare de la persona de la regina. 11 re Lodovico li mandò dui baroni per la congratulazione de la vittoria e per risposta a la sua domanda circa la regina Giovanna: la qual fu che la dovesse far menare nel loco proprio ove aveva fatto impiccare Andreasso suo primo marito e fratello di esso re Lodovico, e che in quel medesimo loco e modo la facesse impiccare. Cosi fu fatto: e ’l corpo suo poi fu portato a Santa Chiara di Napoli, ove stato che fu tre di sopra terra, fu seppellita, e li dui baroni veduta la esecuzione de la sentenza del loro re, se ne tornorno in Ungaria.
Appresso fu tagliata la testa a madonna Maria seconda sorella de la regina Giovanna, donna poco pudica e infamata d’esser stata partecipe de la morte di Andreasso. Questa è quella Maria, la qual fu giá sorella di Carlo conte di Artois e fu amata da messer Giovanni Boccaccio da Certaldo, che in quelli tempi fioriva, per la quale quelli dui eleganti libri vulgari, Fiammetta e Filocolo , compose. Quello disponesse il re Carlo de li gentiluomini e de li dui cardinali de l’antipapa non ho trovato appresso alcuno autore descritto.
Questo fine ebbe la regina Giovanna prima nepote del re Roberto, molto predicata di prudenza e di valore da molti scrittori et esaltata da Baldo e Angelo fratelli, illustri dottori nostri in alcuni suoi trattati e consigli; benché un alto iurisconsulto napolitano di quel tempo la chiami ruina e non reina del regno di Napoli, ponendovi questi dui versi in biasmo del feminil governo: Regna regunt vulvae, gens tota clamat simul: Oh, vae ! Interitus regni est a ntulicre regi.
I quali versi in lingua vulgare ridotti al meglio che si può cosi dicono: Se vulva regge: Ohimè ! — gridan le lingue — il feminil governo il regno estingue.
P. Co li.kn uccio. Opere -1. M Composte le cose di Napoli e del regno in pacifico stato, l’anno medesimo Carlo III di Durazzo onoratamente in compagnia de’ suoi baroni e con dua mila cavalli venne a Roma a visitare e ringraziare papa Urbano, dove fu con gran pompa e trionfi ricevuto e solennemente unto e coronato re del reame di Puglia. E dappoi molte giostre e feste fatte piú giorni in Roma, col papa se ne tornò a Napoli.
E non mancorono per questo le turbazioni nel regno di Napoli; imperocché nel principio che li movimenti di Urbano VI e di Carlo di Durazzo si inteseno, la regina Giovanna per aiutarsi tolse per figliuolo adottivo Luigi cognominato primo duca d’Angiò, figliuolo secondogenito di Giovanni re di Francia e lo institui suo successore nel regno di Napoli, di volontá e consentimento di Clemente VII antipapa, come di sopra avemo detto. Onde il detto Luigi, il qual giá era in procinto per esser stato sollecitato da la regina Giovanna a 10 aiuto contra Carlo III, aiutato da Clemente e da tutta la Francia, con esercito di trenta mila persone, e secondo alcuni di cinquanta mila, entrò in Italia l’anno 1382, continuando la sua impresa nonostante la morte de la regina Giovanna; e non solamente per recuperare il regno di Napoli, il quale lui pretendeva li fusse debito, ma ancora per cacciare Urbano e far Clemente universale pontefice. Io ho veduto e ho ancora appresso di me una lista de la campagna di Luigi mandata da messer Bernabò Visconte a messer Lodovico da Gonzaga marchese di Mantoa, ne la quale avvisa esser con Luigi duca d’Angiò ventisei baroni, de li quali pone li nomi, e avevano fra tutti otto mila lance e dua mila balestrieri e arcieri a cavallo, che senza dubbio cinquanta mila persone passavano. Carlo di Durazzo da l’altra parte, fatto venire nel reame il Ferrebach e il conte Alberico, i quali aveva mandati in Toscana dappoi l’acquisto del regno, si preparava a la difesa; e Urbano a la difesa di Carlo ebbe da’ fiorentini messer Giovanni Aguto lor capitano con le sue genti in loco de 11 quaranta mila ducati, i quali dicemo disopra li doveano dare: in modo che Carlo oggimai ingrossato poco temeva li inimici, quantunque li fusse mancato il re Lodovico di Ungaria sua speranza, il quale in quelli di passò di questa vita ne l’anno 1382, onde incredibil passione ne sostenea. Luigi I duca di Angiò adunque nel detto anno per Lombardia e per Romagna e per la Marca pervenne a Norsa, poi voltato a la via de’ Marsi giunse a l’Aquila; e benché ricevesse danni e molestie assai dal conte Alberico, nondimeno ottenne l’Aquila per forza circa il fine di agosto. E trovandosi in quel loco, secondo l’usanza de’ regnicoli Raimondo del Balzo e molti baroni e cittá si voltorono e rebellando al re Carlo, a Luigi si détteno: il quale vedendo li passi di Terra di Lavoro esser molto ben forniti e difficili a passare, voltò a la via di Puglia e acquistò molte terre, e fermò la sua stanza a Barletta.
L’anno sequente la sua venuta, li venne drieto un altro esercito di dodici mila uomini a cavallo, mandati di Francia per supplimento de l’impresa, sotto il governo del conte Enghirano francese, il quale vulgarmente chiamavano il sire di Cossi; e lui, aiutato di denari e di vittuaglie da Bernabò Visconte, non fece la via del duca d’Angiò, ma voltatosi per Piacenza passò in Toscana e per il territorio di Pisa e di Fiorenza pervenne ad Arezzo e prese la terra e assediò la rocca, ne la quale era Iacobo Caracciolo napolitano mandato locotenente dal re Carlo ad Arezzo, rimosso il vescovo di Varadino.
In questo mezzo che monsignore di Cossi, attendendo a le pratiche di Arezzo, poco curava d’andare al sussidio del duca d’Angiò, il conte Alberico con le genti del re Carlo III, detto da Durazzo e da la Pace, il seguitava in Puglia e li faceva di gran danni e recuperava le terre rebellate, et era quasi sempre vittorioso ne la scaramuccia per virtú de li militi italiani, ammazzando e pigliando de li uomini assai; e stringendolo in terra di Bari, lo ridusse a termini, che l’era forza al duca Luigi, ovvero tentare la fortuna de la battaglia col far fatto d’arme, ovvero con ignominia e vergogna rendersi al conte. Per la qual cosa deliberato far fatto d’arme, armato l’esercito, volse far prova di farsi benevolo il conte con parole e promesse ovvero impaurirlo con minacce. Onde mandatoli un suo barone, lo pregò volesse venir solo a parlarli confidatamente in mezzo a la campagna, ché ancor lui solo li veneria. Non ricusò il conte; il perché condottisi ambidui armati tutti de la persona da la testa in fuora, il duca fece assai offerte e promesse al conte, acciò che s’accordasse con lui: il quale ricusando e confortando il duca a lasciare l’impresa e partirsi del reame, il duca con alterezza francese cominciò a minacciarlo, con dirli che lo romperia e lo averia ne le mani e che lo faria morire, sapendo che con la morte sua acquistarebbe la grazia di tutto il reame, e massime de li suoi baroni, che lo avevano in odio per esser favorito dal re Carlo. Il conte Alberico, come uomo fedele e senza paura, sentendolo minacciare li disse che li bastaria l’animo pigliarlo lui e rompere il suo esercito, e da quel di glielo mostraria. Onde lasciandolo senza altro commiato, si voltò a li suoi e fece sonare a la battaglia; il duca ancor lui, che per esser l’ora tarda non credeva che quel di si dovesse far fatto d’arme, subitamente ordinò li suoi e feceli far innanzi. Cosi il fatto d’arme si cominciò aspro e crudele da una parte e da l’altra, nel quale il duca fece meravigliose prove de la sua persona e dui cavalli li furono morti sotto, e rimontato sopra il terzo, si scontrò alcuna volta col conte, il quale non meno arditamente lo affrontava. Finalmente stringendosi forte li italiani addosso ai francesi, cominciorno quelli del duca a voltare le spalle; il duca vedendo li suoi vólti in fuga e lui ferito di cinque ferite, deliberò ancor lui con alcuni suoi baroni con la fuga salvarsi, e si ridusse dentro a Bari. Il conte rimasto vittorioso a la campagna seguitò la vittoria, e li suoi tutta la notte mai atteseno ad altro che a pigliare prigioni e ammazzare e trattare miserabilmente i francesi; e il di sequente si pose in assedio intorno a Bari, si che niuno né poteva entrare né uscire. Il duca ferito si fece per acqua portare a Bisegli, ove per le ferite, de le quali, ancora che non fussino mortali, era uscito sangue assai, e per lo affanno insopporta bile di mente de la rotta e morte de li suoi, non potendo esser aiutato da medici, passò di questa vita l’anno 1384 a’ di 21 di settembre. L’allegrezza di questa vittoria fu fatta grandissima per tutto il reame e a Roma da papa Urbano; e sentita la morte del duca, il re Carlo si vesti con tutta la sua corte di panni negri e fece fare a Napoli onoratissime esequie a la memoria sua, e comandò che ’l suo corpo fusse con ogni onore seppellito: e cosi perseverò trenta di vestito di negro. Dipoi levatosi li abiti oscuri, lui in persona cavalcò per il reame, riducendo le terre a l’obedienza per amore o per forza, secondo fu bisogno, e tutte le ridusse a sua devozione e pacifico stato.
11 conte Enghirano, il quale ancora era in Arezzo, e giá stato circa sessanta giorni a combattere la rocca, intesa la rotta e morte del duca d’Angiò, deliberò con li suoi di non andare piú in Puglia, ma tornare in Francia, e bisognandoli denari si voltò a’ fiorentini come piú vicini e piú atti a lo spendere, e trattorno di venderli Arezzo. Li fiorentini presa l’occasione di acquistare Arezzo, détteno quaranta mila ducati a la Compagnia, cinque mila al conte Enghirano e circa quindici mila dispensorno a piú persone, et ebbeno la terra da li francesi, li quali in suo paese tornorno. Restava la rocca che ancora era in potere del re Carlo: onde i fiorentini donorno a Iacobo Caracciolo diciotto mila ducati, e lui li diede la rocca. In questo modo ebbeno i fiorentini Arezzo, il quale ancora possedeno.
L’altre genti del duca d’Angiò tutte disperse partirono del reame, e concordano li scrittori che mai nel lor ritorno ne furono veduti piú che dui o tre al piú insieme: de li quali la maggior parte andavano dimandando per elemosina il vivere a li usci de le case per tutte le terre d’Italia, finché ne furono fuora. E in questo modo rimase Carlo di Durazzo pienamente signore del reame di Napoli.
Stando il regno in questo modo pacifico, venne voglia ad Urbano pontefice di andare a Napoli e partecipare ancor lui qualche frutto de la vittoria del re Carlo. Onde condotta li la corte ne l’anno 1385 et essendo uomo assai dispiacevole, inurbano e sinistro di costumi, cominciò a praticar con Carlo che facesse un suo nepote, chiamato Butillo, uomo vilissimo e senza alcuna virtú, principe di Capua, e che li désse il ducato di Durazzo, pretendendo questo esserli stato promesso da Carlo a Roma, prima che entrasse nel reame. Il che non piacendo a Carlo, anzi con molta destrezza differendo la cosa, importunamente tentò Urbano con minacce ottenere il suo intento; e non li giovando, vennero a suspicione e inimicizia tra loro, talmente che il re lo faceva onestamente guardare, che non avesse libertá di andare dove li piacesse. Urbano che pensava di levarsi, impetrò destramente di poter andare a Nocera de’ pagani per mutar aere, nel qual loco cominciò a trattare di privare e deponere Carlo del régno, e cominciò a citarlo per farli contra il processo; e il re Carlo cominciò a trattare con alcuni cardinali amici di deponere lui del papato. Per la qual cosa il re andò con l’esercito a campo a Nocera e l’assediò, dicendo che l’era andato a l’obedienza per comparire e per esser piú prossimo e piú comodo al giudizio che si aveva a fare contra di lui. E in quell’assedio facendosi alcuna volta fatto d’arme e di gran scaramucce tra quelli del re Carlo e li fautori del papa, furono rotti li ecclesiastici e fu preso Butillo nepote del papa e mandato in prigione in Castel de l’Ovo sotto buona guardia e custodia. Da l’altro canto il papa, non potendo sfogar l’odio e le forze contra Carlo, esercitava l’iracondia sua contra alcuni cardinali, de’ quali sette ne fece pigliare e ponere in prigione e darli de la corda, come scismatici e conspiratori con Carlo contra di lui. Essendo in questo modo inimici Urbano e Carlo, tentorono alcuni ambasciatori genovesi, mandati a Napoli con galee, di concordarli, e non li succedendo, il conte Tomaso da San Severino e Raimondo Ursino figliuolo del conte di Nola, che fu poi principe di Taranto, con alcuni altri baroni, essendoli promesso molti denari da Urbano, lo cavorono di Nocera con tutta la corte e lo condusseno a Benevento, e di li a Bari, ove trovate le galee genovesi apparecchiate per questo, li montò sopra e andossene a Genova, avendo escomunicato Carlo con molti altri. Et essendo per viaggio, de li sette cardinali i quali seco menava prigioni, cinque ne fece mettere in sacchi e buttarli in mare, li altri convinti iudicialmente in Genova in presenza del clero e del popolo li fece ammazzare con una accetta, poi li fece seccare li corpi in un forno e cosi seccati li fece riporre in certi valisoni: i quali caricati sopra muli, quando cavalcava se li faceva portare avanti con li cappelli rossi sopra li valisoni, per ammonizione e memoria e terrore di quelli che contra di lui volessino alcuna cosa macchinare.
In questo mezzo essendo molto sollecitato il re Carlo da li baroni del regno di Ungaria di andare a tórre la corona di quel regno, vacato per la morte del re Lodovico senza figliuoli maschi; benché avesse lasciato madonna Isabetta regina e madonna Maria sua figliuola, la quale li ungari come re maschio et erede del re Lodovico chiamavano ’ il re Maria’, perché non volevano essere soggetti a femine; deliberò Carlo di andarvi, vedendosi ora libero da la molestia del papa, e per aver denari fece mettere a sacco tutti li mercatanti fiorentini che erano in Napoli e per quel regno, tanto che raccolse quarantacinque mila ducati, allegando a’ fiorentini che si dolevano, che tutto aveva fatto per necessitá, per poter condurre seco le sue genti d’arme. Aveva giá avuto Carlo per donna madonna Margarita minor sorella de la regina Giovanna e ancor lei nepote del re Roberto, la quale il re Lodovico di Ungaria ne la sua tornata di Puglia in Ungaria li avea dato per donna, e di lei avea dui figliuoli piccioli, uno maschio chiamato Ladislao, l’altra femina detta Giovanna; e partendo da Napoli per Ungaria, lasciò Margarita sua donna con questi dui figliuoli e alcuni baroni al governo del regno. Giunto in Ungaria e accolto con grandissimo onore, fu per opera di uno chiamato Giovanni Bano, allora primo barone e partigiano suo, coronato in Alba Regale di volontá de la regina Isabetta e del f re Maria ’ sua figliuola, le quali ogni loro ragione li renunziorno; ma poi andato a Buda e con finte blandizie de la regina invitato ad un convito, mentre beveva li fu dato di una scure ne la coppa per ordinazione de la regina, e fu morto de l’anno 1386 a’di 3 di giugno. Scrivono però alcuni gravi autori che essendo in camera e vedendo danzare, presente e consenziente la regina, fu ferito con una spada da uno chiamato Frogamblaso, che in lingua ungaresca vuol dire Biasio da la stella, e condotto in un’altra terra chiamata Visgra per essere medicato, li fu la ferita attossicata e mori, avendo solamente quattro anni tenuto il regno di Napoli. E fu allora opinione, s’el avesse avuto piú lunga vita, ch’el averia di sapienza e di grandezza di gesti qualunque degno re trapassato.
Intesa la morte di Carlo, Urbano ne prese molto piacere, et essendoli portata la spada ancora insanguinata, con la quale fu occiso, la mirò e contemplò con somma voluttá. Li napolitani avuta la certezza de la morte, prima di tutto feceno novitá e tumulto contra la regina Margarita e li figliuoli, e feceno levare alcune gabelle e certi dazi; poi costituirono sei uomini governatori de la cittá di Napoli, sollecitando Urbano che venisse a Napoli perché loro intenzione era darli il dominio de la terra. La qual cosa Urbano per paura de la vita non volse accettare, conoscendo la instabilitá de’ napolitani e sapendo che pur erano nel regno de’ partigiani de la regina: la quale con li figliuoli si ridusse a Gaeta, .come in cittá fedelissima, e quella sola cittá servò sempre inviolatamente la fede a li eredi di Carlo contra quello che ’l resto del reame aveva fatto, e fu cagione di conservarli lo stato.
Non fu però impunita la morte di Carlo; imperocché volendo la regina Isabetta e f il re Maria 5 sua figliuola e Frogamblaso levarsi d’innanzi Giovanni Bano con farlo ammazzare, e per questo essendo assaltato da li provvisionati de la regina, quantunque si ritrovasse con poca compagnia, nondimeno si virilmente si difese, che non che non ebbe male o lesione alcuna, ma feriti e morti molti di quelli lo avevano assaltato, e tra li altri Frogamblaso, si liberò da le mani loro; e convocati suoi amici e partigiani, con potente esercito scorse V Ungaria, pigliando terre e ammazzando uomini in vendetta del re Carlo. Per la qual cosa fu forza al ’re Maria’ mettere esercito insieme e ovviare a l’impeto del Bano; cosi condottasi con circa trenta mila persone su le campagne di Agria lei e la madre e il conte Nicolò da Giara suo primo barone e fautore, feceno un aspro fatto d’arme. E finalmente Giovanni Bano fu vincitore e fece prigioni le regine e il conte Nicolò, con gran strage di tutto il suo esercito; e al conte Nicolò e a la regina vecchia fece tagliar la testa in presenza del * re Maria’, in vendetta di Carlo, e le teste mandò insino a Gaeta a presentare a la regina Margarita e a li figliuoli per conforto de la morte di Carlo. E ’il re Maria’ mandò in prigione in una terra di Dalmazia su la marina, sotto la custodia del priore di Laurana; e in quella stette gran tempo, finché alcuni baroni di Ungaria assediorono il priore in un altro suo castello e tanto lo strinseno, che li fu forza rilasciare ’ il re Maria’, la quale libera fu menata a Sigismondo marchese di Brandenburg suo sposo, figliuolo di Carlo IV di Boemia imperatore, e che poi fu ancor lui imperatore e re di Ungaria, mediante la persona del detto ’re Maria’.
Per la morte del re Carlo adunque, come è detto, tutto il reame, da Gaeta in fuora, tolse l’obedienza a la regina Margarita, e le terre preseno varie forme di governi, e molti scandali e guerre si suscitorono tra quelli che tenevano la parte de la regina c quelli che tenevano la parte angioina. E in questo tempo Rinaldo Ursino, il quale si faceva chiamare conte di Tagliacozzo, occupò la cittá de l’Aquila e se ne fece signore; e Tomaso San Severino e Ottone di Bransvich marito giá detto de la Giovanna regina prima, scorrendo tutto il reame, occuporono Napoli. E benché Urbano li escomunicasse e li pronunciasse la croce addosso, dando quella indulgenza a quelli che contra li andavano, che si dá a quelli che per la fede muoreno al conquisto di Terra Santa, nondimeno né loro lasciorno Napoli, né alcuno si mosse contra di essi per allora; ma Ottone in poco tempo mori e fu seppellito a Foggia, ove ancora il suo corpo si vede integro e li suoi piedi hanno sei diti per ciascuno, si come da l’inclito Ercule duca di Ferrara e da molti suoi cortigiani per certissima relazione di veduta avemo inteso.
Appresso queste turbazioni Luigi II duca d’Angiò, figliuolo di Luigi I predetto che mori a Bisegli, e il re di Francia »■ scrisseno e mandorno ambasciatori in Italia a diverse potenze a significare che esso Luigi intendeva di venire in persona in Italia per recuperare il regno debito a lui per successione di Luigi suo padre: e per questo dimandavano passo e aiuto. Il perché Napoli fu la prima terra che lo accettasse; e Luigi li mandò cinque galee al presidio di coloro che tenevano in Napoli la sua parte, le quali galee ne la lor giunta presono due altre di quelle de la regina, che tre ne teneva li per comprimere la perfidia de’ napolitani: la terza se ne fuggi. E Clemente stando in Avignone, per favorire la parte di Luigi diede licenza a li napolitani che tenevano la parte sua, che facessino battere e vendere tutti li vasi d’oro e di argento de le chiese, acciò che si potessino dare denari a le genti d’arme di Luigi. Le quali cose, essendo tutto il regno infermo e pieno di rebellione, la meschina Margarita tenevano in continui affanni, finché l’anno poi 1390 Bonifacio IX napolitano di casa Tomacella, il quale l’anno innanzi era stato creato pontefice, abrogando e cassando l’escomunica fatta da Urbano VI contra Carlo, investi del regno paterno Ladislao come legittimo successore, e per mano di messer Angelo Acciaioli cardinale di Fiorenza lo fece coronare in Gaeta del regno di Puglia, di Sicilia e di Hierusalem, deliberando racquistarli tutti li lochi perduti nel regno poi la morte del padre.
Ladislao coronato tolse per donna una figliuola di Manfredo di Chiaramente di Sicilia con una grandissima dote di denari e di gioie, la quale fu molto a proposito per le guerre le quali ebbe in quelli principi.
Nel medesimo anno Luigi II predetto, coronato re di Puglia, di Sicilia e di Hierusalem in Avignone da Clemente VII antipapa ad instanza del re di Francia, entrò nel regno per via di mare con otto navi e quattordici galee e otto brigan tini con molti baroni e combattenti, e fu ricevuto in Napoli con grande onore e magnificenza dal popolo e gentiluomini che erano da la parte sua; e in breve tempo prese la rocca di Sant’ Eramo e Castel de 1 ’ Ovo, e tutte le fortezze. E nondimeno molti gentiluomini non prestavano obedienza a lui, ma a Ladislao, onde contendendo del regno li dui re, tutto il reame in travagli e calamitá si trovava. Imperocché avendo mandato Bonifacio il conte Giovanni da Barbiano a Napoli in soccorso de la parte di Ladislao, li fu data ripulsa e fu ributtato da’ napolitani: onde di commissione del papa tornò a Perosa. Il perché Ladislao fece gran contestabile del reame il conte Alberico da Barbiano, e datoli gran somma di denari, i quali aveva avuto da Bonifacio, lo fece venire a Gaeta: ove messo in punto tutto quello bisognava a la oppugnazione, andò con molta gente a campo a Napoli, e in modo la strinse combattendola virilmente, che in pochi mesi la ridusse a l’obedienza del re Ladislao. Il che fatto, tutto il regno tornò al dominio suo e le terre facevano a regata qual potesse esser la prima che mandasse ambasciatori a far reverenza e giurare fedeltá a Ladislao; massimamente non essendo nel regno la persona e presenza di Luigi, il quale vedendosi con pochi e la terra divisa e li movimenti che per Ladislao si facevano, lasciando ben fornite le fortezze in Provenza era ritornato. Ne l’anno poi 1403, non piacendo a la maggior parte de li baroni d’ Ungaria che Sigismondo marchese di Brandenburg e re di Boemia, che poi fu imperatore, fusse loro signore, mandorono solenni ambasciatori a Ladislao e lo chiamorno a la successione del regno paterno di Ungaria. Ladislao, che giovine era e volonteroso, senza piu pensarvi messo in punto una bella armata, passò a Giara di Schiavonia terra del regno di Ungaria, ove onoratissimamente ricevuto, fu coronato del detto regno da l’arcivescovo di Strigonia; e mandato innanzi per terra il conte di Tricarico di casa San Severino per viceré, uomo prudente, con trecento lance e molti ungari con intenzione di seguitarlo, trovò che ancora li amici e partigiani suoi avevano mutato pensiero né volevano piú accettarlo per loro re. Per la qual cosa deliberò lasciare l’impresa di Ungaria; e in modo da quel tempo in poi la lasciò, che de l’anno 1408 vendè per cento mila fiorini a* veneziani Giara, nonostante che inimicissima fusse di quella signoria e che da lei otto volte si fosse rebellata. Stando adunque in Giara con pensiero di lasciare l’Ungaria, ebbe avviso del reame che alcuni baroni se li erano rebellati e che facevano correrie insino a Napoli e che capi de la rebellione erano li conti di San Severino; con gran celeritá tornò a Napoli e con buono esercito andò contro a’ sanseverineschi e tolseli tutto lo stato, e quanti ne possette avere in mano di loro, tutti li fece morire e portare mille supplici, ancor con farne mangiare a’ cani. Né altri di quella casa camporno che quelli che si trovorno fuora del reame, e che ne le mani non li vennero.
L’anno sequente 1404 morto Bonifacio et eletto Innocenzo VII, Ladislao andò a Roma per indurre il popolo a darli il dominio de la terra, e ne tenne qualche occulta pratica; ma non li riuscendo, finse essere andato a fare reverenza al papa, e dimandò alcune grazie, tra le quali ottenne di possedere Campagna di Roma e Maremma e Ascoli de la Marca tre anni, e tornò a Napoli. Il sequente anno per simile causa ancora venne a Roma chiamato da’ Colonnesi e Savelli, ma per sedizione mossa nel popolo contra ad alcuni suoi soldati, non l’ottenne; onde tornato nel regno, come quello che sempre si dilettò d’arme e amava le imprese, andò a campo a Taranto per levarlo di mano a la duchessa Maria, donna giá di Ramondello del Balzo, che insieme con li figliuoli conti di Lecce lo tenea. E dappoi molte battaglie lo ebbe per accordo e lei tolse per donna, non ostante ch’ella avesse trentott’anni, ma era bellissima; e la menò con seco a Napoli insieme con li figliuoli, e fu chiamata la regina Maria, che molti anni dappoi la morte di Ladislao tornata ne la sua patria, vedova si visse. Desideroso pur Ladislao di farsi signore di Roma, li tornò la terza volta ne l’anno 1407 e feceli un grande assalto campeggiandola, ma il popolo, levato a rumore, non lo volse ac cettare. Operò nondimeno questo, che ’l papa si parti da Roma; onde l’anno sequente 1408, avendo per lui Colonnesi e Savelli trattato accordo con Paulo Ursino, il quale era a la guardia di Roma, e avendo ne la Marca il conte di Carrara suo capitano con un altro esercito, che ogni di acquistava qualche terra per lui, andò a Roma del mese di marzo con dua mila cavalli e dodici mila fanti e se li pose a campo, ponendo quattro galee a la foce del Tevere, che avessino a impedire le vittuaglie a Roma. Andò ad Ostia con parte de l’esercito e la prese; poi tornato in campo, e giá accordato Paulo e messo in Roma parte de l’esercito, li romani li mandorono ambasciatori e li détteno il dominio de la terra, ne la quale a li 25 di aprile entrò in modo di trionfante con tutto l’esercito, e dismontò a la stanza del camerlengo in palazzo di San Pietro, ove era deputato il suo alloggiamento; e nel medesimo giorno ebbe in suo potere il Capitolio e tutte le fortezze di Roma, la quale in questo modo fu sua, avendola tre volte tentata e a la quarta ottenuta.
Partito da Roma Ladislao con quel grossissimo esercito, andò in Toscana nel territorio di Siena e tentò aver senesi e fiorentini in lega con lui: il che non succedendo per esser collegati insieme e col legato di Bologna, li fece molti danni e molte correrie, e il medesimo nel territorio di Arezzo; e volendo dare il guasto a Cortona, la ebbe d’accordo da li cittadini. Poi partite le sue genti sotto diversi capitani per il Ducato e per Toscana con commissione che andassino guerreggiando e acquistando, lui a Napoli se ne tornò. In questo mezzo Luigi II duca d’Angiò, intendendo i fiorentini esser inimici di Ladislao, mandò suoi oratori a Fiorenza a far lega con loro contra Ladislao, la quale fu conclusa a Pisa, ove allora era il concilio, in questo modo: che fioren tini, senesi e il legato di Bologna per una parte, e il re Luigi d’Angiò per l’altra si intendessino obbligati a’ danni del re Ladislao, e fussino obbligati a tenere a questo effetto, il re Luigi cinquecento lance e quindici galee armate, li fiorentini e compagni lance mille. Luigi, intesa la conclusione de la lega, subito parti di Provenza con cinque galee e venne a Livorno e di li a Pisa, ove adorò Alessandro V pontefice, creato in quel concilio, e impetrò la confermazione de la investitura del regno di Puglia, di Sicilia e di Hierusalem, pretendendo Ladislao esserne recaduto per la occupazione di Roma. Non volse però Alessandro coronarlo, essendo giá stato coronato da Clemente VII in Avignone, ma bene lo fece confaloniere de la Chiesa e li diede le bandiere, con commissione che dovesse andare contra ’l re Ladislao inimico de la Chiesa e del concilio e fautore di Gregorio XII, dal concilio deposto; e ordinò che per il racquisto di Roma il signore Malatesta de’ Malatesti, capitano de’ fiorentini, dovesse andare con dua mila lance e con mille e cinquecento fanti e il legato di Bologna con li suoi e quelli del re Luigi, e recuperare le terre de la Chiesa. Le quali cose ordinate, e inviate le genti, il re Luigi andò in Provenza a provvedere a’ denari e a le cose opportune per l’impresa a la primavera sequente, secondo quello che con Alessandro aveva trattato di fare.
Le genti ecclesiastiche e de la lega recuperorno Orvieto, Montefiascone e Viterbo, ma Roma non possetteno recuperare, perché messer Peretto da Invrea di Piemonte, conte di Troia e viceré di Roma, con le genti del dominio essendo a Perosa e sentendo questi movimenti, e che Paulo Ursino era rebellato al re Ladislao, subito avea raccolto le genti d’arme sparse in vari lochi e con dua mila cavalli era venuto a la guardia di Roma, e virilmente insieme con Colonnesi e Savelli la difendeva; nondimeno tanta fu la gagliardia di Paulo Ursino, che un di assaltato in Trastevere dal conte di Troia Io superò e vinse, et entrato in Roma la racquistò per la Chiesa, e il conte nel regno si ridusse.
L’anno sequente 1410, essendo morto Alessandro V a Bologna e li creato pontefice messer Baldissera Cossa napolitano, detto Giovanni XXIII, il re Luigi II seguitando li ordini dati tornò in Italia e venne in Campagna di Roma, e li mise in ordine li suoi, aspettando le altre compagnie per passare nel reame. Papa Giovanni ancor lui venne a Roma, benché si fermasse alquanto di fuora, dubitando ancora di movimenti per li partigiani del re Ladislao. In questo mezzo Paulo Ursino e Sforza da Cotignola, il quale era rimasto libero da’ fiorentini e fatto capitano di papa Giovanni, andorono con tutti li suoi a unirsi col re Luigi a Ceperano. Il re Ladislao era alloggiato sotto Roccasecca, tra Ponte Corvo, Sant’Angelo e San Germano. Onde il re Luigi fece consiglio di quello si avea a fare, e variando le sentenze, finalmente per consiglio di Sforza fu concluso che si dovesse andar a trovare il re Ladislao e far fatto d’arme; cosi a li 25 di maggio partirono da Ceperano, facendo antiguardia Sforza, il quale fu il primo a passare il fiume a guazzo a Ponte Corvo, e a li di 26 trovorono il re Ladislao, il quale animosamente in battaglia sotto Roccasecca li aspettava.
Erano tra li altri condottieri di Ladislao messer Betto ammiraglio, il Bracca da Viterbo, il conte di Policastro, il conte di Campobasso, il conte di Oliveto, Zanin da la Trezza, messer Malacarne e Daniel da Castello. Il re Ladislao, poi che ebbe posto ognuno a l’ordine suo, tolse messer Giovanni Caracciolo, conte di Avellino, e sei altri gentiluomini con lui, e tutti sette li fece cavalieri e vestilli tutti ad un modo a la divisa sua propria, talmente che loro dal re non erano conosciuti, anzi ciascuno di loro pareva il re; e ogni volta che mandava fuora una squadra mandava con essa uno di questi cavalieri, in modo che pareva che con ciascuna di esse fusse la persona del re. In fine il fatto d’arme si cominciò dal canto del re Luigi e toccò a Sforza essere il primo assaltatore, il quale essendo sopra un possente cavallo chiamato il Cervo (il quale da niuno si lasciava maneggiare, eccetto da un solo ragazzo) appicciò con grande impeto la mischia. Cosi seguitorno poi li altri di mano in mano da l’una e l’altra parte con grandissima virtú da ogni canto, si che difficilmente si conoscea chi fusse superiore; e li dui re con le persone loro francamente combattendo e governando non lasciorno di far prova alcuna che a generoso signore convenisse. In fine stringendo Sforza da una banda li suoi aspramente, e da l’altra Paulo Ursino, miseno in piega quelli del re Ladislao, in modo che, non servando piú ordine alcuno, furono rotti. Pochi ne furono morti, quasi tutti li uomini da conto furono presi, in modo che ne lo alloggiamento solo di Sforza, senza li altri, furono prigioni il conte di Campobasso, il conte di Oliveto e dieci bandiere de li inimici.
Finito il fatto d’arme, il re Ladislao si ridusse a San Germano e il re Luigi, Sforza e Paulo Ursino si ritirorno a li suoi alloggiamenti, e la sera liberorno tutti li prigioni, uomini d’arme e saccomanni, che avevano, secondo l’usanza italiana: per la qual cosa vedendo il re Ladislao li inimici esser ritirati a li alloggiamenti senza seguitarlo e li suoi uomini d’arme liberati, si fece forte con essi a San Germano e fortificò tutti li passi del reame; e non fu dubbio alcuno in quel tempo, che se il re Luigi seguitava la vittoria e non lasciava pigliar spirito a Ladislao, ’1 saria stato vincitor del regno, il che non facendo, lo perse. E però ebbe poi a dire Ladislao qualche volta parlandosi di questo fatto d’arme, che ’l primo di del fatto d’arme li suoi inimici erano stati signori de la persona e del reame suo, avendo fatto il lor dovere; il secondo di ariano potuto essere signori del reame, ma non de la persona, se avessino seguitato la vittoria; il terzo di né de la persona né del reame aver piú avuto alcuna potestate. Volendo poi il re Luigi entrare in Terra di Lavoro e sapendo il passo di San Germano essere ben fornito, andò a Cancello, il quale ancora trovò esser ben guardato; il perché, veduta la difficoltá del passare, se ne tornò a Roma con tutte quelle genti. E Sforza e li altri capitani, vedendo che il re Luigi non faceva piú alcuna provvisione né per allora né per l’anno che avea a venire, tutti andorno a le stanze. L’anno 1411 papa Giovanni e il re Luigi andorono verso Bologna, e con loro andorono Sforza e Braccio ad accompagnarli con ducento cavalli leggeri per uno, e come furono a Siena, Luigi andò in Francia e papa Giovanni a Bologna: ove diede a Sforza Cotignola per quattordici mila ducati, che li era debitore per suoi stipendi, facendone conte lui e li suoi successori.
Questo fine ebbe l’impresa di Luigi II duca di Angiò, il quale mai piú poi tornò in Italia, avendosi lasciato per ignoranza o per viltá tórre di mano una tanta vittoria, quanta avevano li suoi valorosamente acquistata. [Scrive però l’arcivescovo di Fiorenza ne la terza parte de le sue Croniche , nel titolo XXII circa li atti del concilio di Constanza, che si dice che in quel concilio si concesse le bolle del regno di Puglia a questo Luigi II e a’ suoi successori, di poterne andare a possedere il detto regno di Puglia e di Napoli].
Ladislao rimasto libero e nel suo stato integro dominatore, essendo di natura inquieto e bellicoso e di niuna cosa tanto vago quanto de le imprese militari, deliberato aveva in tutto recuperare Roma; e parendoli non lo poter fare finché non aveva Paulo Ursino suo ribelle ne le mani, li mise Sforza suo inimico a la coda, il quale seguitandolo ne la Marca, in fine lo assediò ne la Rocca Contrada. La qual cosa come Ladislao intese, subito con l’esercito andò a Roma e con favore de li usciti romani e di altri partigiani che aveva dentro, rotte con industria le mura in parecchi lochi, ne l’anno 1413 entrò in Roma, riducendola al suo dominio come aveva prima. Mise a saccomanno tutte le robbe de’ mercatanti fiorentini che si trovorno in Roma, poi li lasciò viceré il conte di Troia giá detto e lui tornò a Napoli, ove per pratica di Sforza fece suo generale capitano ne l’imprese di Romagna il marchese Nicolò da Este di inclita memoria, signor di Ferrara; e mandògli il bastone del capitanato insino a Ferrara, con trenta mila ducati di prestanza.
Voltandosi poi a le cose del Ducato e di Toscana, come uomo avidissimo di stati, passò nel Ducato e campeggiò Foligno e Todi, benché non li acquistasse; e fece pigliare Paulo L T rsino, il quale poco innanzi rappacificato aveva condotto a li suoi stipendi. Poi tornò a stanziare a Perosa, ove stando, li fiorentini, di chi lui era perpetuo inimico, dubitando de la P. Co li.en uccio, Opere - 1. 15 vicinitá sua, e stando in gran trepidazione del loro stato, li mandorno ad offerir la pace con tutte quelle condizioni che lui voleva; e lui, non con buono animo, per quanto si estimava, ma per poterli meglio ingannare, glie la concedette. E nel trattato de la pace li vendette per un gran prezzo Cortona, la quale lui teneva, onde i fiorentini da quel tempo in poi 1’ hanno sempre posseduta.
Stando a Perosa il re Ladislao si infermò di febre, non però molto veemente, tanto che tornò a Roma, e li montato in galea, menando con seco Paulo Ursino prigione, si condusse a Napoli, pur ammalato senza miglioramento. E li incarcerato Paulo, poi che fu stato alcun giorno, pur crescendo il male, a’ di 6 di agosto ne l’anno 1414 mori senza alcun figliuolo, avendo regnato anni ventinove; lasciando regina dappo’ sé madonna Giovanna da Durazzo sua sorella, de la quale un verso profetico per il reame si dicea: Ultima Durata fiet destructio regni, cioè: r L’ultima di casa di Durazzo sará la distruzione del regno di Napoli *. Fu Ladislao assai bell’uomo di persona, bellicoso e ambizioso di stati, gagliardo e vigoroso molto ne le cose che facea; in tanto temuto da ogni uomo, che a’ fiorentini massimamente, de li quali era naturale inimico, e a tutte le altre potenze parse essere liberati per la sua morte da ogni sospettosa vita e pericolo: perché non dubitavano punto che se ’l fusse visso, in ogni modo aveano ad e.sser sottomessi al suo dominio. Amò l’armi e li soldati sommamente, e in tutte le imprese, ove non si fusse trovato per altre cagioni impedito, voleva essere lui con la persona propria a governare e guidare li eserciti. Fu vigilante molto e robusto a la fatica; balbutiva alquanto nel suo parlare, del che credevano fusse stata cagione un certo veneno che in sua giovinezza li fu dato a bevere: del quale stette a gran pericolo de la vita, e fu liberato con farsi mettere spesso nel corpo de li muli aperti, e cavati T interiori, mentre erano ancor caldi, persuadendoli li medici periti di questo, che quel caldo era atto a risolvere quel veneno. Era liberale e massime co’ soldati, ne li quali spendeva un gran denaro e volontieri. Vestiva di vile abito, massimamente in campo; et essendo sospettoso di tossico, andava a l’improvviso per li alloggiamenti de’ soldati, mangiando d’ogni lor cibo, ancor che grosso e rusticano fusse, senza alcun fasto ovver pompa regale. Onorava molto i forestieri che a lui andavano, e verso tutti fu molto cortese. Ebbe a Gaeta per molti mesi Gregorio XII pontefice amico suo, al quale niuna generazione di piacere e cortesia lasciò che non facesse, a lui e a la sua corte, ancora che Gregorio, il quale fu reputato uomo di molta integritá e tenace de l’onor de la Sedia, non sempre il volse compiacere di tutte le collazioni di beneficii e dispensazioni, che li accadde a dimandare; anzi per la virtú de l’uomo lo ebbe sempre in reverenza. E in somma fu estimato Ladislao essere da commemorare piú presto tra li buoni principi che tra li cattivi. De la generazione e modo de la morte sua variano li scrittori. Dicono alcuni, e cosi suona la comune fama, che essendo lui in Perosa, per opera de’ fiorentini fu attossicato da una femina, con la quale lui aveva commercio venereo, avendosi ella posti ne la natura alcuni medicamini mortali, da li quali poi infetto e senza rimedio infermato, morisse: e dicono che fu in questo modo. Era quella donna molto bella e giovine, figliuola di un medico, che a Ladislao molto piaceva e di lei gran diletto pigliava. Fu proposto al medico da chi trattava la cosa un eccessivo premio, se poteva dar opera che mediante la figliuola Ladislao si intossicasse; il medico, veduta l’occasione di arricchire, diede a la figliuola un certo unguento persuadendoli che ungendosene la natura ne l’atto venereo, l’amor del re li cresceria né mai piú la abbandonaria: la feminella credula é tenera del padre e vaga de l’amor del re, fu contenta. Era quell’unguento succo di napello, prestantissimo veneno: onde lei unta di quello ne l’atto venereo, non molto poi si mori e il re infermato, come è detto, ancor lui lasciò la vita, essendo in ultimo alienato de la mente e dicendo sempre: — A Fiorenza, a Fiorenza! pigliate Paulo, pigliate Paulo ! — e simil cose che prima ne la fantasia aveva impresse. E il scellerato medico dei denari de’ fiorentini, prezzo del suo sangue, la borsa riempiette. Altri negano questa istoria: noi ne l’arbitrio di chi leggerá, il credere o il non credere lasciaremo.
Giovanna duchessa di Sterlich, detta poi seconda, sorella di Ladislao, di casa di Durazzo e del sangue di Francia, erede e regina dappo’ lui nel regno di Napoli ne l’anno 1414, rimase con tutto lo stato pacifico e con gran numero di gente d’arme; però che a la morte del fratello si ritrovò avere sedici mila cavalli di numero, che sotto ottimi capitani di quel tempo con varie condotte erano governati. Questi erano Sforza, primo di tutti, Lorenzo e Michele, detto poi Micheletto, tutti de li Attendoli da Cotignola: Iacopo Caldora detto qualche volta Iacopuccio, il conte di Mondorisio, il conte di Troia, il conte di Carrara, Ciccolino da Perosa, Giulio Cesare e Fabrizio da Capua fratelli. Essendo adunque appena stabilita nel regno, tutto il governo di sé, de la corte e del regno pose in mano a Pandolfello Alopo napolitano, conte camerlengo, bellissimo giovine e suo creato, il quale lei sommamente amava; e avendolo menato con seco quando andò a marito al duca di Sterlich, morto il duca il rimenò a Napoli e sempre lo tenne con pubblica infamia di venereo commercio con lui. Conoscendo la regina tal fama e la invidia cortegiana che era a Pandolfello portata, deliberò per ammorzarla pigliar marito; et essendoli molti proposti, elesse Iacomo di Nerbona provenzale, conte de la Marcia e di stirpe regale di Francia ancor lui, benché in grado di parentela da lei molto lontano, con questa condizione pigliandolo, che titolo non tenesse di re, ma o principe di Taranto o duca o conte (a suo arbitrio) si chiamasse: e lui del suo usato titolo di conte fu contento.
Li capitani de la regina e altri baroni del regno, che a Pandolfello e a Sforza, come piú accetti a la regina, invidia e odio portavano, feceno intendere al conte Iacomo che venisse pur con animo d’esser re, ché il regno loro glie lo dariano bene. Venuto adunque il conte Iacomo di Provenza e, secondo l’ordine dato, giunto per mare a Manfredonia in Puglia e di li a Foggia e Troia e Casaldalbero e Benevento, avendolo tutti li altri capitani e baroni, che li erano andati incontra, salutato come re, solo Sforza lo salutò come conte. Per la qual cosa di comune consenso de li altri fu deliberato che Sforza fusse fatto prigione; e introdotta da Giulio Cesare da Capua una grande altercazione di parole con il Sforza a la presenza del conte Iacomo, sotto specie di volerli a fin di pace spartire, Sforza fu menato in una camera e li fatto prigione in nome del re Iacomo. Poi tutta la sua compagnia, che in Benevento alloggiava, fu posta a sacco.
Giunto poi a Napoli il conte Iacomo e come re con molta festa ricevuto, ebbe subito per tradimento il Castel nuovo, e preso Pandolfello, li fece tagliar la testa. A Sforza fece dar de la corda e tormenti assai, e lo averia fatto morire, se non fusse che Micheletto mise insieme a Tricarico tutta la compagnia sforzesca e li fattosi forte, tutto il paese insino a Napoli scorrea; e Margarita sorella del Sforza e moglie di Michelino Ravignano, ottimo soldato, armata in persona con alcuni uomini d’arme del marito mise in prigione quattro gentiluomini napolitani mandati dal conte Iacomo con salvocondotto a Tricarico per trattare accordo con Micheletto, minacciando di farli impiccare, se Sforza suo fratello non li era restituito: tra li quali gentiluomini furono messer Antonello Polderigo di messer Matteo e il Rosso Gaetano. Il perché il conte Iacomo accordò Micheletto e Lorenzo e Margarita con promissione giurata che Sforza ne la persona non saria offeso: e cosi fu servato. Deponendo poi il conte Iacomo or questo or quello e dispregiando ognuno, tutte le sue cose e offici e dignitá del regno e di Napoli faceva amministrare per uomini francesi, e posta la regina da parte, non li lasciava maneggiare cosa alcuna e in alcune camere quasi relegata la teneva, non l’ammettendo molte volte né anche a li atti matrimoniali; e con repulse e villane parole da sé lontana la tenea. La corte, i baroni e capitani tutti di tali portamenti mormoravano: sola la regina con feminil malizia li dissimulava, monstrando che tal vita, come da fatiche e pensieri libera, molto li piacesse, e attendendo a danze, a che son molto dediti i francesi, alle* gramente si passava, ancor che a cenni e parole interrotte a li amici suoi monstrasse il suo intrinseco dolore e il desiderio del rimedio.
In questo mezzo Giulio Cesare da Capua, il quale era quello che primo di tutti aveva concitato il conte Iacomo contra Sforza e Pandolfello, e per questo aveva trafitto di immortale iniuria il core de la regina, dimenticatosi de la offesa, come avviene a chi offende, la cominciò a tentare e infine se li offerse di volere ammazzare il conte Iacomo. La regina maliziosa, offerendoseli l’occasione di fare dui effetti in un tratto, cioè vendicarsi de la offesa ricevuta da Giulio Cesare e acquistar grazia e libertade appresso al marito, monstri) darli udienza e piacerli, confortandolo a pensarli su bene e mettersi in punto e tornar da lei l’ottavo di per dar ordine a l’esecuzione de l’incepta. E licenziato Giulio Cesare, tutta dolente in quel mezzo fingendosi, il trattato tutto al marito scoperse, monstrandosi de la salute sua molto tenera e impotente a resistere a le instigazioni di Giulio Cesare, offerendosi ancora di farglielo vedere e sentire. Onde introdotto l’ottavo giorno drieto a li cortinaggi del suo letto il marito con alcuni suoi fedeli bene armati, e poi intromesso Giulio Cesare, lo fece parlare: il quale, poi che ebbe detto ogni male e villane parole del conte Iacomo e de’ francesi, aperse tutto quello che per ammazzarlo avea deliberato di fare. Allora il conte, uscito fuor del cortinaggio e preso e legato Giulio Cesare, ne fece fare pubblica giustizia e tagliarli la testa iuridicamente, come il doppio traditore meritava. Essendo parso adunque al conte Iacomo questo atto de la regina grande demonstrazione di amore e fede verso lui, li diede in brevi giorni larghezza e licenza di potere a suo piacere andar fuor del castello per diporto e spasso, come a lei piaceva. Per la qual cosa messer Ottino Caracciolo, fatto capo de’ gentiluomini, e Anichino Mormillo de’ popolani, con volontá di molti congiurati a questo, ad un convito ritennero la regina Giovanna ne la terra e la menorono in Capuana e in un subito liberorno Sforza e con impeto e celeritá grandissima presi e morti e saccheggiati e cacciati li officiali francesi, corseno la terra per la regina. Trattato poi alcun accordo col conte Iacomo, Castel de l’Ovo fu dato a la regina e al conte fu data facultá che una sola coltelluzza potesse portare quando andava a la regina (con volontá però e licenza sua), non potendo tenere piú francesi in Italia che quaranta, ad elezion sua, che lo servissino.
Non molto poi la regina con fraude lo fece ritenere e in Castel de l’Ovo lo tenne prigione: per il che libera, al primo stato restituta, pieno dominio del regno tenea, facendo governare le cose de la terra e le sue entrate a messer Marino Boffa, dottore e atto uomo e ne la terra di buona reputazione. Ma appresso a sé tenea messer Giovanni Caracciolo, del quale era innamorata e avevaio fatto gran siniscalco, et era il cuor suo: e lui, con aiuto e favore del Sforza, che da messer Marino Boffa era stato gravemente offeso, lo depose e fece cacciare di corte e tórli rainministrazione del tutto. Il gran siniscalco adunque per la deposizione del Boffa fatto grandissimo, non potendo ancora patire la potenza e grandezza del Sforza appresso la regina, e avendolo sospetto per la reputazione de l’armi, deliberò deponerlo ancor lui e tórli la vita e disfarlo. Onde, sotto specie di mandarlo contra li sanseverineschi in vai di Diano, li fece passare il Sarno, posto ordine che non fusse lasciato passare al ritorno per il ponte di Scafati, e cosi assediato farlo mal capitare. Sforza andò e passò Scafati con le sue genti, e inteso il trattato contra di lui, si accordò subito con li sanseverineschi; poi solo, vestito da villano con una celata in testa e una chiavarina in mano, sconosciuto tornò al ponte e passollo e venne a Napoli, facendosi a pezzi venire drieto, per ogni via poteano, li suoi soldati. E con intelligenza di messer Ottino e di Francesco Mormillo entrò una mattina in Napoli con le genti d’arme, e scorrendo per la terra, faceva gridare: — Viva la regina! — E parlava in pubblico, che era venuto per liberarla da la servitú del gran siniscalco e da l’avarizia di Cristoforo Gaetano conte di Fondi: questo a tutto il popolo piaceva, vedendo che altro tumulto né pericolo per la venuta di Sforza non succedeva e che del bene de la regina e de la terra si trattava per Sforza. Ma essendo molta turba andata al castello, come in su ’l rumore accadere suole, la regina a tutti diceva: — Popolo mio fedele, amici miei e di casa di Durazzo, andate, andate, ammazzate Sforza, mio inimico: squartate il villano e il traditore; — e simili altre parole. Il perché concitato il popolo e invitato ancora da la speranza del guadagno, assaltò Sforza a l’improvviso, che questo non credea; onde constretto da l’impeto, si ridusse a le Corregge e fu maltrattato e rotto con perdita di piú di seicento cavalli. Pur sviluppato da la furia, per via di Piedegrotta usci fuora e salvossi a la Cerra, e rimesse in« sieme le sue genti d’arme, ogni di correva a Napoli, guerreggiando aspramente il paese e protestando sempre che qualunque volta fussino cacciati li traditori e quelli che mal governavano lo stato e le cose de la regina, lui saria a Sua Maestá e a tutto quel popolo quel vero amico e servitore che fu mai. I napolitani in questo modo ristretti, di comune consentimento, il che raro in quella terra solea accadere, elesseno alcuni uomini tra loro, che avessino a provvedere a questi mancamenti e danni de la terra. Questi eletti e con minacce e con preghiere tanto feceno, che indusseno la regina a far pace con Sforza e restituirli la dignitá del grancontestabilato e scrivere per tutta Italia il contrario di quello aveva scritto contra Sforza; e per giuramento si obligorono l’un l’altro non dare udienza ad alcuno che volesse poner male tra loro, anzi ogni parola riferirsi l’un l’altro. E per osservazione di questo diede la regina il Castel nuovo in potere di messer Francesco de li Riccardi da Ortona, uomo grave e integro, amicissimo e fedele de l’una e de l’altro, con commissione che in detto castello, senza alcuna differenza, cosi lasciasse entrare Sforza come la regina. Il che fatto, il gran siniscalco fu relegato a Roma e il conte Iacomo per intercessione di papa Martino allora pontefice, fu liberato da la regina, con li primi patti che lei ritenesse il dominio e titolo di regina, e lui il nome di conte solamente.
Liberato Iacomo ad altro non attese, che a l’estcrminio di Sforza, e la regina, che, per l’esilio del gran siniscalco trafitta, di altro non aveva desiderio e sete che di vendetta contra Sforza, li consentiva e giá la maggior parte de li baroni aveva fatto contra Sforza congiurare. Sforza, inteso il gran suo pericolo di tal cosa e cercando di rimedio, per consiglio di Giovanni di Ercolan da Fiorenza, suo fidato e buon capo di squadra (che li disse che facendo Sforza cessar la causa, per la quale la regina si teneva offesa, cessaria ancora il suo pericolo), si intromise con destro modo ad esser causa che ’1 gran siniscalco tornasse, ché maggior beneficio né di piú obbligazione potea fare a la regina. E cosi fece, e per assicurarsi da esso, volse per ostaggi dui figliuoli de’ suoi. Il conte Iacomo, veduta la reduzione del gran siniscalco e la reconciliazione di Sforza, dubitando non esser qualche volta scoperto da la regina, fingendo andare spesso a la marina a piacere, condusse una nave genovese che in porto si trovava e tacitamente montatovi, andò a Taranto. La regina mandatoli l’esercito, in Taranto lo assediò; il conte Iacomo non potendo tenersi vendette la terra a messcr Giovan Antonio Ursino (il quale poi da la regina ne fu confermato principe) e andossene in Francia, ove datosi a la religione, in abito di eremita fini il rimanente di sua vita. Questo fine ebbe Iacomo provenzale conte de la Marca, giá detto re di Napoli. In questo mezzo Braccio de’ Fortebracci da Perosa, capitano di gente d’arme, fattosi signore di Assisi, di Todi e di Perosa, faceva gran guerra a papa Martino e per le terre de la Chiesa liberamente campeggiava. Onde non potendosi il papa altramente difendere, che col ricorrere a li suoi feudatari, mandò ne l’anno 1419 messer Francesco da Montepulciano vescovo di Arezzo e messer Angelo romano vescovo di Anagnia a Napoli e fece coronare la regina Giovanna del regno di Puglia e di Sicilia e di Hierusalem, con patto che lei li mandasse tre mila cavalli in soccorso contra Braccio. A questa impresa fu eletto Sforza con molto piacere de la regina e del gran siniscalco, per esserli occorsa l’occasione di levarselo dappresso. Sforza adunque, essendo venuto in quel di Viterbo, e attaccato fatto d’arme, per fraude di Nicolò Ursino soldato de la Chiesa, che era con lui, fu rotto da Braccio e perse la maggior parte de la compagnia. Parendo a la regina e al gran siniscalco essere per questa rotta venuto il tempo di potere con buona occasione tòrsi al tutto Sforza d’innanzi, condusseno Braccio al loro stipendio, cassando Sforza e levandoli l’assegnamento del suo soldo, che aveva sopra alcune entrate del reame.
Papa Martino era a Fiorenza, e offeso da l’ingratitudine de la regina, fece venire Sforza a P’iorenza e comunicato con lui tutto quello s’avea a fare, al meglio che possette con Braccio si accordò e la regina Giovanna privò del feudo, dichiarando re di quel regno Luigi III duca di Angiò, figliuolo di Luigi II giá detto e di Violante, nata de la stirpe di Aragona: li oratori del quale allora erano a Fiorenza. Fatto questo, del mese di gennaio l’anno 1420 Sforza si condusse di commissione del papa al stipendio del re Luigi III duca d’Angiò, mediante li suoi oratori, e fu concluso che per via di mare per tutto il giugno sequente il re Luigi si trovasse nel reame. Sforza, avuto denari dal papa Martino, prestissimo sopra la opinione di ogni uomo entrò con le genti d’arme nel regno al fin di maggio, e rimandò il bastone e le bandiere a la regina, dichiarandoli che da quell’ora innanzi li veneria inimico; poi nel passare da Napoli li parlò ad una finestra del castello e dappoi molte parole esprobatorie di ingratitudine da una parte e da l’altra, Sforza li fece intendere averli a far buona guerra, non tanto per rispetto suo quanto per li mali consiglieri e malvagi uomini, per li quali lei si governava. Poi al principio di giugno si mise a Casanova appresso il Formello, sopra un poggio a la porta Capuana, e di fossi e di steccati si fortificò un campo inespugnabile e li stette ad aspettare la venuta del re Luigi; e in quel mezzo tenuto pratica con messer Francesco Gattolo napolitano, che aveva in custodia il castel di Aversa, operò tanto che per il re Luigi ebbe la rocca e la terra. A li 15 di agosto, che fu il di de l’Assunzione di nostra Donna, il re Luigi si presentò a Napoli con cinque grossissime navi de’ genovesi e nove galeazze bene armate, essendone capitano Battista Fregoso. Sforza veduta l’armata, calò a la marina e si pose a campo appresso la torre di Resina.
Era in questi tempi partito da Barzalona di Catalogna Alfonso re d’Aragona con trenta galee e quattordici navi grosse, del mese di aprile del detto 1420, e assaltato la Corsica, si era posto a campo a Bonifacio, castello e colonia de’ genovesi giá detto Porto siracusano, avendo a Fiorenza un suo ambasciatore appresso il papa, chiamato messer Garzia spagnuolo. La regina Giovanna li aveva un suo, detto per nome Antonio Carafa, cognominato il Malizia: costui operò con Garzia, che trattasse col suo re Alfonso a volere pigliare il patrocinio de la sua regina, giá sette anni poi la morte di Ladislao stata nel regno, contra il re Luigi, affermandoli che daria opera che la regina per figliuolo adottivo pigliaria Alfonso e lo dichiararla suo successore nel regno di Napoli. E tanto praticorono insieme la cosa, che senza scienza del papa l’un dappo’ l’altro si condusseno a Piombino e di li in Corsica a l’armata-di Alfonso. Al quale proposta la cosa, fu molto consultata; perché Alfonso e Luigi erano consobrini in terzo grado e tra loro dal principio de la pratica di Luigi si diceva esser capitoli, per li quali aveva promesso Alfonso non molestare Luigi ne l’impresa di Napoli. Infine, qual cagione si fussc, Alfonso accettò l’impresa propostali dal Malizia e da Garzia; ma prima che venisse nel regno, volse che per legittima scrittura la regina confermasse il tutto e li désse in mano Castel nuovo e Castel de l’Ovo. Conclusa in questo modo la cosa, li dui oratori si partirono e Alfonso rimase a l’impresa di Bonifacio con promissione di mandare a Napoli a eseguire quello era concluso. Stando adunque, come è detto di sopra, Luigi contra Napoli con l’armata, e Sforza a la torre di Resina con l’esercito, al fin di agosto giunseno a Napoli diciotto galee e quattro galeotte del re Alfonso, le quali portavano tre suoi degnissimi ambasciatori, Raimondo Periglia, Giovanni Moncada e Bernardo Santiglia: li quali con la regina feceno li capitoli de la figliazione di Alfonso e de la successione del regno di Napoli per pubblici instrumenti, e tolseno in loro potere, in nome di Alfonso, il Castel nuovo e Castel de l’Ovo, avendo in quel mezzo Sforza giá messo il re Luigi con le sue genti in Aversa e lui col campo essendosi posto al casale de le Fragole. Alfonso in questo mezzo avendo in modo stretto Bonifacio, che stava a’ patti d’alcun di di soccorso, circa l’ultimo giorno del termine, che era il primo di gennaro, i genovesi con sette galee sue grossissime, a’ 28 di decembre, aiutati da un grandissimo vento, ruppeno per forza di urto le catene e ripari e ponti, con li quali avea Alfonso legato e rinchiuso il porto de la terra, e in quello entrando soccorseno Bonifacio, essendo capitano de l’armata Giovanni Fregoso, minor fratello di Tomaso Fregoso allora duce di Genova. Per la qual cosa lasciando Alfonso per allora l’impresa, con tutta l’armata se ne venne a Napoli al principio di novembre, ricevuto onoratissimamente a Castel de l’Ovo: ove smontando sopra un gran ponte che sporgeva in mare, fatto per questo sopra alcune galee vecchie, alcune tavole, o per esser mal composte o per il peso de la moltitudine, si ruppeno sotto li piedi di Alfonso, in modo che cadde ne la sentina d’una di quelle galee e qualche poco si bagnò. La qual cosa chi a presagio, chi a riso e piacere, si come accade, la preseno; tuttavia entrato in Napoli, prima al tempio, poi a la visitazione de la regina con molta grazia e onorevol pompa si condusse.
Sforza, intesa la venuta di Alfonso, deliberò far vedere il re Luigi e le sue bandiere a’ napolitani e al re Alfonso, onde partito lui dal casale de le Fragole e Luigi da Aversa, e messo insieme tutto l’esercito da piede e da cavallo, si condusse a la marina per li ortali e terreni paludosi di Napoli sino al ponte de la Maddalena, lungo dal mare circa un trar d’arco e distante da le mura de la terra circa un miglio; poi mandò innanzi li corridori verso le mura. La campana de la torre fece segno, onde napolitani e catalani usciti fuora ordinatamente con lor capi Iacopo Caldora, Ursino de li Ursini e Berardino da la Garda, incontrorono li corridori; Sforza si fece innanzi con le squadre, e cominciossi il fatto d’arme. Alfonso montato sopra una galea, con sei altre bene armate era venuto a vedere la battaglia, facendo nondimeno che le artiglierie de le galee a li sforzeschi tirassino. Essendo stretto il fatto d’arme e spesso ributtandosi l’un l’altro, il Squarza da Monopoli, uomo d’arme di Sforza, robustissimo di persona e in quel tempo tenuto nobilissimo soldato in Italia, facea gran prove con ammirazione d’ognuno; pur fu scavalcato da la moltitudine e preso. Alfonso se ’l fece portare in un schifo ne la sua galea e feceli onore; e tenendolo appresso di sé, volse li mostrasse Sforza. Squarza glie lo mostrò e ’l re fece comandare a le galee che non li tirassino. Squarza fece intendere a Sforza quello aveva fatto il re; Sforza fece comandare a tutto il campo e a la fanteria che era al lito, che non tirassino a la galea di Alfonso. Il fatto d’arme durò appresso tre ore, e giá veniva la sera e in fine Sforza furiosamente spinse li inimici in sin dentro a la terra e fece ponere la bandiera del re Luigi sopra ad una sbarra innanzi a la porta facendola stare circa un quarto d’ora al conspetto di Alfonso, il quale disse al Squarza mai aver veduto il piú valentuomo di Sforza e perdonarli ogni sua iniuria. Infine, finito il fatto d’arme con onore del re Luigi, si levò Sforza con l’esercito e andò quella notte ad alloggiare ne le ville di Nola. Altro non si fece per quell’anno: andorono a le stanze il re Luigi ad Aversa, Sforza ne li borghi di fuora, mandando parte de li suoi a la Cerra.
L’anno sequente 1421 la regina e Alfonso condusseno a loro stipendio Braccio, e oltra la condotta fatta da la regina sola, lo feceno gran conestabile de l’uno e l’altro Abruzzo, ché cosi si intitolava, e li donorono Capua con le sue fortezze. Braccio, avuto prima in mano da li suoi mandati Capua e le rocche, andò del mese di giugno nel reame e andò a Napoli, e per la prima impresa del mese di agosto mise a sacco Castellamare e tentò Nocera, ma non l’ebbe; poi venne ad alloggiare a le paludi di Napoli, e a l’entrata di ottobre andò a San Germano e bruciò Mignano con alcune altre castelle de l’abbazia. Poi tornò a Napoli e insieme con Alfonso assediò la Cerra con dodici mila persone, la quale non potendo altramente aver per forza, sopravenendo li sforzeschi che erano dentro, furono contenti di parere accordati per onore del re Alfonso: per la qual cosa si levorno il re e Braccio, lasciando le bandiere, e tornorono a Napoli, poi il di sequente le mandorono a tórre. Et essendo andato in quel mezzo il re Luigi a Roma per procurare qualche nuovo aiuto, il papa mandò Tartaglia da Lavello suo capitano e condottiero con ottocento cavalli, acciò che si unisse con Sforza al favore de l’impresa del re Luigi. Ma sopraggiunto l’inverno, Sforza andò a le stanze a Benevento, Tartaglia ad A versa, Braccio a Capua: il re Luigi se ne stette a Roma.
11 sequente anno 1422, mancando a Sforza denari e non mandando il papa e Luigi altro aiuto, e Tartaglia da Lavello intendendosi occultamente con Braccio contra il papa, le cose di Sforza cominciorno ad essere molto inferiori; onde per commissione del papa, Sforza pigliò Tartaglia in Aversa e fattoli fare ordinario processo di giustizia e trovato per propria confessione colpevole, li fu in pubblico tagliata la testa. Per la qual cosa la pace si cominciò a trattare tra la regina e Alfonso e Braccio da una parte e Sforza da l’altra, e con permissione del papa fu conclusa; e Braccio e Sforza parlorno insieme lungamente e rinnovorno l’antica amicizia ne le terre del duca di Sessa, tra la Preda e Presenzano nel bosco de’ Saccomanni. Il che fatto, Braccio si parti del reame e campeggiò la Cittá di Castello e la prese per sé; poi prese Norsa, la quale i cittadini ricomperorno per sedici mila ducati; poi cavalcando di e notte saltò a l’improvviso nel territorio di Lucca e tutto lo scorse facendone preda per sessanta mila ducati, e a le sue terre tornò. Sforza se n’andò a Gaeta, ove per la peste di Napoli la regina e Alfonso erano ridotti, e con loro stette ventidui giorni, e in quel mezzo con la regina e col gran siniscalco ad una perfetta amicizia e intelligenza secreta si strinse. Stimasi per quello successe poi, che nel petto de la regina fusse giá entrato qualche sinistro concètto di Alfonso e però con Sforza cosi da parte si stringesse. Feciono poi insieme capitoli, che Sforza si intendesse condotto con la regina e con Alfonso, e al primo di loro che lo richiedesse fusse obbligato ad andare, e li confermorono Manfredonia: e da loro partito, se ne venne a Sessa ove la sua donna si trovava.
L’anno sequente 1423 del mese di maggio, Braccio andò in suo nome a campo a l’Aquila per acquistarla per sé, e a Napoli il detto mese altre novitá pericolosissime seguirono. Imperocché a la regina e al gran siniscalco, per qual cagion si fusse, cominciorno a venire a tedio i catalani e nascere suspicione e rispetti da l’uno a l’altro; e li baroni e signori catalani, che molti ne erano in compagnia di Alfonso, non poteano sopportare che andando loro per la terra, tutto il popolo gridava: —Viva la regina Giovanna ! Durazzo, Durazzo ! — e simil cose, e che li bandimenti pubblici e gride si mandassino tutti sotto il nome de la regina senza alcuna menzione di Alfonso: parendoli che con poca reputazione stesse li un re di quella condizione quasi come per un segno. Per la qual cosa instigato da loro e da se medesimo commosso, Alfonso deliberò prevenire e far primo a la regina quel che forse, a suo iudicio, pensava fare a lui la regina; il perché disposto di pigliarla e insignorirsi del tutto, essendo il gran siniscalco uomo accorto e prudente e che aveva gran custodia a le cose de la regina, disegnò per la prima cosa tórli quel presidio. Onde fingendosi ammalato, stette tre di che non andò a la corte de la regina in Capuana: la regina credendo Alfonso infermo, mandò il gran siniscalco a visitarlo in Castel nuovo. Giunto il gran siniscalco in castello, subito fu con tutta la famiglia ritenuto, e Alfonso senza dilazione montò a cavallo per andare in Capuana e prendere la regina a l’improvviso, giá denudata del sussidio del gran siniscalco. Ma (come per fortuna accade) un de li famigli del siniscalco, che non fu veduto o curato a la cattura de li altri, subito corse in Capuana e tutto il caso disse a la regina. Lei subito comandò che le porte del castello fussino serrate, e che venendo Alfonso in ni un modo fusse intromesso. La porta che va ne la terra fu incontinente serrata; e andando Sannuto da Capua, che era capitano del castello, uomo robusto e di grande animo, a serrar l’altra che va fuora, non fu si presto, che trovò Alfonso, il quale per la via di Formello fuor de le mura era venuto, e avea giá il suo cavallo messo li piedi dinnanzi sul ponte: Sannuto subito prese il cavallo per la briglia e per forza lo spinse indrieto, e fece alzare il ponte. Vedendo il re non li essere riuscito il pensiero, deliberò voltarsi a la forza; onde senza piti partirsi di li, mandò per genti d’arme e per le bombarde, e assediando la regina, cominciò a combattere Capuana. La regina in si difficili e pericolosi termini trovandosi, mandò subito a Sforza per aiuto. Sforza era alloggiato al convento appresso a Mirabello, quando ebbe la lettera, e senza indugio con tutti li suoi cavalli cavalcando di e notte mai posò, che fu a Napoli. Il re li mandò incontra e richieselo che venisse a lui: Sforza li rispose non potere per li capitoli, essendo stato prima da la regina richiesto, e confortollo a levarsi da l’assedio. Ma continuando Alfonso la sua impresa e Sforza il suo cammino, giunto il mercore a di 26 di maggio a Capuana, facendoseli incontra li catalani, fece un aspro fatto d’arme con loro, che durò circa sei ore; né potendo spuntarli da quel cantone che si chiama Casanova appresso il Formello, mandò alcune squadre drieto a Casanova, non allentando punto la battaglia dinnanzi, e fece rompere certi muri de li ortali di quella casa e dare a le spalle a’ catalani, li quali vedendosi in mezzo, lasciato il fatto d’arme, si miseno in fuga verso la porta de la terra. E seguitandoli li sforzeschi, li presono tutti a man salva, e tra loro ventisei baroni e gen tiluomini e seicento cavalli grossi, e li cacciorono per la terra insino al Castel nuovo, predando le robbe e case de’ catalani per molte migliara di ducati: il re con fatica si ridusse in Castel nuovo. Il di sequente, Sforza mandò Marco suo nepote con tutti li prigioni a Pomigliano in quel di Nola, e la sera medesima parti il bottino, e lui andò con la compagnia ad Aversa e tanto operò col castellano, il quale era catalano e aveva inimicizia ne la terra e desiderava farla mettere a saccomanno, che diede la rocca a Sforza; ma non permise poi che la terra fusse depredata, per il che li aversani poi sempre li furono amici. Alfonso pochi di innanzi questo caso aveva mandata l’armata verso Bonifacio per seguitar quella impresa. Il perché il di sequente questa battaglia li mandò volando drieto a revocarla a Napoli: la quale a li 8 di giugno, quattordici di dappoi la rotta, fu nel porto di Napoli. Sforza avvisato in Aversa da la regina del ritorno de l’armata, il medesimo giorno mandò Foschino suo nepote e il conte di Sant’Angelo Ciurlo con cinquecento cavalli per ovviare che li catalani non potessino smontare in terra da l’armata; ma non possetteno, anzi in modo furono urtati da’ catalani, che ’l re Alfonso in quel di recuperò il terzo de la terra. Il di sequente che fu 9 di giugno, Sforza andò in persona a Napoli e tutto quel di in piú lochi de la terra fece fatto d’arme; e infine fu spinto fuora. E Alfonso la terra tutta recuperò e diede per dui di e due notti a saccomanno le case e le botteghe de la Robertina, che è una via di Napoli, e fu bruciata quella parte de la terra, che è verso la marina. Sforza si ridusse appresso Capuana ad alloggiare, ove stette quattro giorni, che mai li inimici uscirono da la terra; poi fece caricare tutta la robba de la regina, e lei condusse fuora di Capuana e menolla a Nola, drieto a la quale piú di cinque mila napolitani, maschi e femine di ogni sorte che l’amavano, andorono piangendo. Dappoi alcun di Sforza la accompagnò ad Aversa, avendo prima lasciato a la guardia di Capuana Santo Parente da Cotignola con quattrocento fanti e un contestabile chiamato Graziano da Faenza; e mandò Marco e Foschino con li catalani prigioni a Benevento.
Lasciata poi la regina Giovanna in Aversa, Sforza tornò a campo a Napoli per soccorso di Capuana, e intendendo che dentro era tradimento, operò che salve le persone e le robbe Santo Parente rendette il castello ad Alfonso, e Graziano autore del tradimento fece ad un arbore impiccare; e allora ebbe Alfonso pieno dominio di Napoli. Si trattò poi il contraccambio de li prigioni, e Sforza per compiacere la regina diede dodici baroni catalani, i quali di taglia ariano pagato ottanta mila ducati, in cambio per la persona del gran siniscalco, il quale venne a ritrovare la regina ad Aversa. Li altri prigioni rimaseno a Benevento, di dove poi per opera di un Butillo da Orvieto castellano, dopo la morte di Sforza, fuggirono. E la regina per ristoro de li prigioni che Sforza li détte per la redenzione del suo gran siniscalco, li donò Trani e Barletta, facendoli solenni privilegi, benché per la morte di Sforza, che fu prossima, non ne potesse pigliar la possessione.
Finite queste pratiche, si operò per Sforza che la regina si contentasse che il re Luigi tornasse nel reame, che ancora era a Roma; e cosi fu fatto, e tornò ad Aversa, ove ricevuto con gran letizia e festa da la regina, con maturo consiglio di iuristi la regina solennemente privò il re Alfonso, per titolo di ingratitudine, de la figliazione e successione del regno, e per adottivo figliuolo si tolse il re Luigi con le condizioni di Alfonso, significando per lettere a tutti li potentati tutto l’ordine e la causa de la privazione e adozione predette. Intendendo queste cose il re Alfonso, mandò per Braccio, che era a campo a l’Aquila: il quale per non lasciare l’impresa, che li pareva vinta, trovò scusa per allora di non poterli andare. Avendo in questo mezzo avuto Alfonso avviso che don Enrico suo fratello era stato privato de le sue terre e posto in prigione da Giovanni re di Castiglia, deliberò andare in Ispagna per fare opera di liberarlo, come fece; il perché, lasciando a la guardia e governo di Napoli l’infante don Piero suo fra tello, e con lui messer Iacopo Caldora, Ursino de li Ursini e Berardino da la Garda, nel detto anno 1423 con l’armata fé’ vela a la volta di Spagna. E in questo andare passando innanzi a Marsilia, per vendicarsi del re Luigi a l’improvviso la assaltò, e combattuta la vinse e per forza la prese, e fatto ridurre salve in un tempio le donne, la mise in preda: de la quale però lui altro non volse, che ’l corpo di santo Lodovico di Angiò, figliuolo di Carlo II re di Napoli sopraddetto e vescovo di Tolosa, dicendo non essere degna cosa lasciare in una terra saccheggiata e bruciata si preziose reliquie. Le quali poi in Valenza con somma venerazione fece in amplissimo loco collocare, né volse, ancor che molti il suadessino, che de le gioie e denari, che molte avevano con sé le donne portate nel tempio, alcuna tolta ne fusse, ma insieme con le loro persone comandò sotto gravissime pene fussino inviolate.
Partito Alfonso di Italia, per quella estate altro non si fece. Al fine di ottobre poi Braccio, fatte alcune bastie intorno a l’Aquila e lasciatola in assedio, se n’andò a Civita di Chieti con intenzione di passare piú oltra. La regina Giovanna li mandò subito a l’incontra Sforza, e con lui il conte di San Severino e il conte di Sant’Angelo Ciurlo, e il prete P’ilingero e Talian Furiano con una squadra di Lorenzo da Cotignola, con commissione che per quanto poteva, cacciasse Braccio e vedesse di soccorrere l’Aquila. Sforza, entrato in Abruzzo, ridusse ad obedienza de la regina il Guasto, che teneva messer Iacopo Caldora soldato del re Alfonso, e Mondorisio e tutte le terre di lá dal Sanguine, e cosi insino a Natale andò recuperando tutti li lochi, de li quali Braccio si partiva, che si andava ritirando dinnanzi a Sforza e riducendosi a l’impresa de l’assedio de l’Aquila; si ridusse poi Sforza per pochi di a le stanze in Ortona, ove li furono numerati dodici mila ducati del duca Filippo di Milano per una nuova lega fatta tra lui e papa Martino e la regina Giovanna per una grande impresa si aveva a fare in Toscana, ne la quale Sforza era fatto capitano di dieci mila cavalli pagati a comune da li tre collegati. Celebrate le feste di Natale in Ortona, Sforza a’ tre di di gennaro si mosse con le bandiere per seguitare l’impresa contra Braccio, e nel passare de la Pescara a la foce, volendo aiutare un ragazzo il quale era in pericolo de l’acqua, il cavallo sopra il quale era, chiamato Scalzanaca (per altramente ottimo corsiero) mancandoli il fondo da li piedi di drieto, per il corrente de l’acqua calò in un subito e tirollo sotto; e non essendo da alcuno soccorso, annegò né mai piú fu veduto, avendo visso anni cinquantaquattro.
Francesco suo figliuolo di anni ventitré, che mentre Sforza col resto de la compagnia passava, faceva fatto d’arme con alcuni cavalli bracceschi che erano nel castel de la Pescara, destramente spiccatosi, ripassò subito il fiume e ridusse in Ortona la compagnia, de la quale una buona parte di quelli che non erano sforzeschi si partirno; andò poi dappo’ alcuni di ad Aversa a visitare la regina e offerirsi a’ suoi servizi. La regina molto volontieri il vide e li riformò tutti li stati e condizioni del padre: in memoria del quale volse che tutti quelli de la casa sua in perpetuo si cognominassino Sforza appresso il proprio suo nome, il che sempre poi si è osservato. Ordinò dappo’ questo che andasse a Benevento a mettersi in punto, ove li faria dar denari con intenzione che andasse poi a campo a Napoli, ove Filippo duca di Milano, collegato de la regina, aveva ancor lui a mandare al medesimo effetto potente aiuto per mare.
In questo mezzo l’armata de’ genovesi di dodici navi grosse e ventidue galee, de le quali quattro ne aveva armate il re Luigi, e quattro brigantini con molti altri legni, de la quale era ammiraglio Guido Torello mantuano per il duca, partita da Genova aveva recuperato Gaeta per la regina e andavasi a Napoli. Francesco Sforza, avuto denari e ordinato l’esercito, insieme con Micheletto partito da Benevento, andò a l’assedio di Napoli, in modo che quasi in un giorno e lui per terra e l’armata del duca per acqua vi giunseno, e cominciorno a stringerla virilmente da ogni banda. Né stetteno molto, che Berardino da la Garda, il quale era in Napoli con l’Infante, non potendo avere denari si parti e con salvo condotto del conte Francesco Sforza andò a trovare Braccio suo padrone. Iacopo Caldora, tenendo pratica col conte Francesco e dicendo se li fussino dati li denari del servito, i quali doveva avere dal re Alfonso, che lasciarla l’impresa, ebbe parecchi migliara di ducati, i quali li fece dare il duca Filippo; e fingendo avere inteso che lo Infante lo voleva far pigliare, se ne usci di Napoli con la compagnia e andò a le terre del stato suo. Per la qual cosa il conte Francesco da la parte di terra e Guido da la parte di mare entrorno in Napoli senza lesione alcuna di persona e per la regina Giovanna la tolseno nel detto anno 1424, del mese di gennaro. L’Infante si ridusse in Castel nuovo e Ursino in casa di un gentiluomo si nascose. Recuperato Napoli, girò l’armata tutto il reame e la Puglia, e a devozione de a regina, se alcuna cosa restava, ridusse. Il maggio sequente il conte Francesco Sforza e Micheletto e Iacopo Caldora di comandamento de la regina si andorno ad unire con il campo di papa Martino e de la Chiesa, che era in Abruzzo, nel quale era legato messer Francesco Pizzolpasso arcivescovo di Milano, ove erano Luigi Colonna e Luigi di San Severino; e tutti insieme andorono a trovar Braccio sotto l’Aquila, col quale erano Nicolò Picinino, Nicolò da Pisa, Pietro Giovanpaulo Ursino, Gattamelata, il conte Brandolino e molti altri nobili condottieri. A’ 2 di giugno appicciorno il fatto d’arme, il quale durò otto ore e in fine Braccio fu rotto, e spinto in fuga da la furia, fu ferito ne la nuca, per la qual ferita lasciò la briglia, onde cadde del cavallo e fu preso e sopra un targone portato ne l’alloggiamento del conte Francesco: ove senza mai voler tòr cibo o parlare, o per la natura e loco de la piaga ovver per sdegno che fusse e iracondia, il di sequente mori, l’anno cinquantesimo sesto di sua vita, e l’Aquila a la devozione de la regina Giovanna rimase. Il corpo di Braccio portato a Roma per comandamento del pontefice, come di ribelle et escomunicato, senza alcuna pompa di esequie fuora de la porta di San Lorenzo in loco non sacro fu seppellito, il quale poi molt’anni Nicolò Fortebraccio, figliuolo de la Stella sorella di Braccio, avendo al tempo di papa Eugenio IV occupato Roma, a Perosa lo fece portare, ove con onorevoli funerali dal popolo perusino ne la piú eminente parte del lor maggior tempio fu collocato.
La regina Giovanna dappo’ questa vittoria reintegrata nel regno, eccetto alcune poche terre, con tutta la sua corte e con il gran siniscalco e col figliuolo adottivo Luigi III duca d’Angiò ritornò a Napoli e dichiarando suo erede Luigi con molto favore di tutti lo fece duca di Calabria. E benché mai fusse senza molestia alcuna, per essere la terra a le volte danneggiata da le artiglierie del Castel nuovo, e le marine e qualche terra del regno infestate da le armate e amici del re Alfonso, nondimeno assai prosperamente nel regno si stava; se non che l’anno 1431, avendo il gran siniscalco sempre governato il regno et essendo in effetto stato come re e avendo celebrate le nozze di un suo figliuolo con una figliuola di Iacopo Caldora, et essendo nel colmo de le sue felicitá, un lunedi di notte a li 18 d’agosto circa la mezzanotte in castel di Capuana andorono alcuni mandati da la regina e da altri baroni che insieme si intendevano, a battere a la camera sua e a chiamarlo, sollecitandolo a levarsi presto e andare da la regina, la quale diceano per un accidente sopravenuto stare in pericolo di morte. Levatosi presto il gran siniscalco per vestirsi, comandò al ragazzo aprisse l’uscio de la camera; entrorno dentro li armati deputati a questo e subito lo ammazzorno, e nudo con mezza calza sopra una bara fuor del castello senza alcun onore a modo di vilissimo uomo fu portato: miserabile esempio di fortuna e monizione a qualunque in feminil governo e favore fidandosi sua speranza riposa. De la sua morte mai poi niuno ricercò, né si sapendo per allora lo autore, o causa d’essa, con sommo silenzio fu posta in oblivione.
Giovan Antonio Ursino in quel mezzo principe di Taranto, ribelle a la regina Giovanna con favore e aiuto del re Alfonso, il quale di Sicilia li somministrava tutti li sussidi possibili, infestava la Calabria. Contra lui mandò la regina Luigi in persona, e capitano Iacopo Caldora, i quali tutto lo stato li tolseno; ma il re Luigi per li continui disagi, fatiche e caldi grandi, oppresso da febre, si fece portare a Cosenza, ove pochi di poi vinto dal male, senza lasciare alcun figliuolo o erede, ne l’anno 1434 fini sua vita con universale mestizia di tutto il regno, per esser stato principe molto clemente e benigno e dal quale ogni buon governo si sperava. La regina, non bene passato l’anno de la morte di Luigi, avendo sempre avuto qualche molestia nel regno, dappoi che entrò in Napoli, da li amici de li aragonesi e per la vicinitá di Sicilia, ove con l’armata stava Alfonso tentando e instigando continuamente la mobilitá de’ regnicoli a richiamarlo, ancor lei infermandosi, ne l’anno 1435 parti di questa vita avendo regnato vent’anni, e lasciato per testamento, secondo alcuni autori, erede Renato, allora titolato duca di Lorena e di Barrois, carnale fratello di Luigi III predetto. E cosi in lei la linea e successione di Carlo di Angiò primo re e la casata di Durazzo (che la medesima stirpe era) si come l’altre umane cose, ebbe il suo fine, secondo fu di lei, come avemo detto, prognosticato.
Fama lasciò di sé di instabile e impudica, dicendosi di lei che ne la instabilitá sola fu stabile e che sempre era stata innamorata, avendo in piú modi e con molti la sua onestá per lascivia maculata, ma sopra tutto con Pandolfello Alopo e Urbano Aurilia e messer Giovanni Caracciolo gran siniscalco, tutti tre gentiluomini e molto destri, virtuosi e costumati, ma sopra ogni cosa di persona e di effigie bellissimi. Il Caracciolo in principio di sua puerizia, benché gentiluomo fusse, per non avere né robba nè stato, fu notario, figliuolo di uno chiamato Poeta Caracciolo; et essendo di due sorte Caraccioli patrizi napolitani, costui fu de li Caraccioli cognominati Squizzi: li altri, de li quali era messer Ottino commemorato di sopra, si cognominavano Rossi. La prima occasione che ebbe la regina di farli intendere che lo amava fu, che essendo lui sommamente pauroso di sorci, un di giocando a scacchi ne l’antica- • mera de la regina, lei proprio fece buttare un sorcio addosso al Caracciolo: lui per paura correndo e urtando questo e quello, fuggi ne l’uscio de la camera ove era la regina e addosso le venne a cadere, e in cotal modo lei il suo amore li scoperse: né stette molto dappoi questo atto, che gran siniscalco fu creato. Queste cose per notizia de la Giovanna II siano dette, avendo noi forse fatto piú lunga narrazione che a compendio si convenga, ma non però senza ragione, per introduzione e chiarezza di quello che avemo innanzi a descrivere.