Compendio de le istorie del Regno di Napoli/Libro VI
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LIBRO SESTO
del Compendio de le Istorie del regno di Napoli
a lo illustrissimo principe Ercule inclito Duca di Ferrara.
In questo sesto libro, prima si contiene quale fusse lo stato del reame di Napoli dappo’ la morte de la regina Giovanna, e come il re Alfonso d’Aragona ripassò al conquisto del regno, e la battaglia navale tra il re Alfonso e i genovesi e presa del re Alfonso e rotta de la sua armata; sequendo la liberazione di quello pel duca di Milano e i fatti de la regina Isabella e la passata di Renato d’Augiò e come il re Alfonso prese Napoli; seguitando li altri fatti di esso re Alfonso, e presa di Milano per Francesco Sforza; seguitando dappo’ la morte di Alfonso i fatti di Fernando suo figliuolo re di Napoli.
Morta la regina Giovanna II, in quel di proprio i napolitani creorono sedici uomini baroni e de li primi de la terra, i quali chiamorono consiglieri, con arbitrio di componere le cose del regno: de’ quali furono il conte di Buccino, il conte di Nola, il conte di Caserta, Giovanni Cicinello, Marino Boffa, Ottino Caracciolo e dieci altri. Eugenio IV allora pontefice romano, intesa la morte, subito fece intendere a’ napolitani che essendo il regno di Napoli feudo de la Chiesa, non intendea fusse dato in signoria ad alcuno, se non a quello che lui dichiarasse e investisse re e censuario secondo l’antica consuetudine di quel regno; e per questa cagione li significava avere eletto Giovanni Vitellesco, vescovo di Recanati e patriarca alessandrino, il quale in breve mandaria a componere le cose del regno.-Li consiglieri in quel mezzo con notaro e testimoni subornati avevano fatto un testamento in nome de la regina, e in quello per darli colore aveano fatto molti legati, e tra li altri fingevano aver lasciato a la comunitá di Napoli, per spendere in suoi usi e bisogni, settanta mila ducati, i quali si avessino a cavare del suo tesoro, che fu trovato essere centocinquanta mila ducati o piú; poi aveano instituito erede Rainero, detto Renato, duca d’Angiò, fratello di Luigi III giá detto. Con pretesto di questo testamento adunque risposeno al papa che altro re non volevano che Renato, il quale la loro regina li avea lasciato successore, e però non esser necessario li mandasse quel legato, il quale loro diceano ottimamente conoscere. Intesa per il regno l’ammonizione del papa e la risposta de li consiglieri e il testamento, o vero o falso secondo varie opinioni, de la regina, tutto il regno in parti si divise secondo le varie nature e passioni di quella nazione. Li consiglieri chiamavano Renato, altri volevano Alfonso, tra li quali principali erano Giovan Antonio da Marzano duca di Sessa, Cristoforo Gaetano conte di Fondi e Ruggiero suo fratello, uno protonotario e l’altro gran camerlengo del regno, Giovan Antonio Ursino principe di Taranto, il quale cacciato da Iacopo Caldora si ritrovava a la guardia di Capua con Minicuccio da l’Aquila per Alfonso, Francesco Pandone conte di Loreto e Antonio da Pisa detto dal Ponte ad Era. Tutti questi collegati insieme mandorno ambasciatori in Sicilia a chiamare Alfonso a la possessione del regno. Iacopo Caldora contra il principe di Taranto perseverando la impresa a disfarlo, con Micheletto e Antonio suo figliuolo di commissione de’ consiglieri lo assediavano in Capua. Li popoli d’Abruzzo stretti e confederati insieme, non s’accostando a parte alcuna, dichiarorono sua intenzione essere di aspettare e tórre quel signore che ’l pontefice e li migliori del regno li dariano. Li consiglieri, fatta solenne legazione, subito mandorono a Marsilia per Renato. Renato ne l’anno 1431, in quell’aspra guerra che tra Carlo VII re di Francia et Enrico re d’Inghilterra al tempo de la Polcella fu fatta, essendo a le mani in fatto d’arme appresso Barro in Piccardia col conte di Valdemonte e il marescalco di Borgogna inimici del re di Francia, fu preso e dato in mano a Filippo duca di Borgogna: per la qual cosa essendo ancora in prigionia, non potette essere primo a venire nel regno; il perché li ambasciatori circa la pratica de la liberazione di Renato alcuni mesi a Marsilia ristetteno. Ma Alfonso, che aveva giá mandato l’anno innanzi di Sicilia in Calabria, al sussidio del principe di Taranto, Giovanni conte di Ventimiglia con quattrocento cavalli, e al medesimo effetto aveva condotto Minicuccio da l’Aquila, casso dal Consiglio di Napoli, con settecento cavalli e Ardizzone da Carrara con seicento, sentendo la morte de la regina e la legazione de li baroni collegati che lo chiamavano al regno, avendo l’armata pronta, subito si mise a la vela l’anno 1436, e in pochi di fu ad Ischia e Procida, isole a Napoli vicine, e da quelle smontato in terra a li liti di Sessa, fu dal duca onoratamente ricevuto. E cominciò a condurre gente d’arme, e de li primi che avesse fu Ursino de li Ursini e il conte Dolce da l’Anguillara, i quali dal patriarca con le loro genti d’arme erano partiti. Con questi, e con Antonio Colonna principe di Salerno e Luigi suo fratello, ambidui giá nepoti di papa Martino, e con li dui conti di Fondi giá detti e Francesco Ursino conte di Conversano e il conte di Campobasso e li signori de la Lionessa, pose il campo a Gaeta per terra, facendo capitani de l’assedio il conte di Conversano e quelli di Fondi con cinquemila uomini a piedi e a cavallo, e lui con l’armata per mare lo assedio stringea.
Erano in Gaeta trecento fanti genovesi, i quali a favore di Renato, Filippo duca di Milano avea mandato con una nave e una galeazza sotto Francesco Spinola e con Ottolin Zoppo suo ambasciatore, e li erano molti altri genovesi, che con grosse mercanzie e di buon prezzo che portavano a Genova si eran li ridotti, aspettando il mare sicuro da venti e da l’armate che intorno andavano; il perché quelli del campo di Alfonso per la speranza de la preda ogni cosa sopportare erano disposti per vincerla. Genovesi e gaetani in questo pericolo assediati ricorseno a Genova e a Filippo per aiuto: il quale deliberato, li genovesi si per amore de li compatrioti suoi, si per l’odio a lor naturale de’ catalani, subito feceno un’armata di dodici navi grosse e una galeazza, tre galee e una fusta da vedetta e da spia. Li nomi de le navi erano questi: la Spinola, la quale portava il capitano, la Lomellina, la Calva, la Interiana, la Carlina, la Doria, la Iustiniana, la Demara, la Negra, la Rambalda, la Falamonica, la Pernisina. Capitano de l’armata era messer Biasio Assareto, espertissimo uomo di cose marittime, ma notaro di palazzo, che per avere avuto poco innanzi il capitanato di una galea e con quella aver preso un’altra galea e con essa Petruccio Verro corsaro famoso, aveva nome di valoroso acquistato. Era allora in Genova messer Quilico de’ Franchi medico e di astrologia molto perito, il quale dimandato de l’esito e fine di quella armata, rispose in scritto secondo l’arte de l’astrologia che saria vincitrice e che il capitano de l’armata inimica saria fatto prigione. Alfonso, inteso l’armata inimica esser uscita di Genova, parendoli che la presenza sua dovesse, come era ragionevole, prestare ardire e favore a la vittoria, e per tórre via la contenzione, la quale era giá nata, tra il re Giovanni e don Enrico suoi fratelli, che aspiravano al capitanato de l’armata, deliberò andarvi in persona. Avea in sua armata diciannove navi grosse, undici galee e una fusta: de le navi, cinque ne lasciò in porto di Gaeta a l’assedio con li ponti in terra, acciò che l’esercito terrestre e navale potessino l’uno de l’altro ai bisogni valersi; le altre quattordici insieme con le galee e con la fusta deliberò opponere a l’armata inimica. Avea con sé Alfonso gran moltitudine di uomini spagnuoli, catalani, maiorichini, siciliani e italiani, e tra essi molti uomini napolitani, chi per soldo, chi per necessitá, chi per grazia, chi per speranza di premi al suo favore venuti, oltra l’esercito di terra. Di tutti questi elesse sei mila uomini, i quali piú atti al bisogno li parse, e oltra li ordinari che vi erano, sopra l’armata con che voleva combattere li fece montare. A la cura de l’esercito terrestre lasciò li dui conti giá detti e Luigi Colonna, ne l’armata fece entrare il principe di Taranto, Mi nicuccio da l’Aquila, il duca di Sessa, Iosia d’Acquaviva, Antonio figliuolo di Ruggiero conte di Fondi e piú che cento baroni e ducento uomini d’arme con molti altri uomini di conto. Con questo apparato montò adunque il re in nave e con lui montorno tre suoi fratelli, cioè Giovanni re di Navarra, don Enrico maestro di San Iacopo e don Piero infante con li loro baroni, che vergogna reputavano lasciare andare senza essi li loro signori. Li nomi de le navi di Alfonso, che a nostra notizia son pervenuti, erano questi: la Magnana, la quale, maggiore de le altre, la sua persona portava, la Figaretta, ne la quale era il re di Navarra, la Infugasotta del maestro di San Iacopo, la Incantona de l’infante don Piero, la Imboschetta, la qual portava un locotenente del re, la Ingarona, la Incoriglia, la Incatalta, la Bottiformia con li altri suoi baroni.
11 primo giorno d’agosto l’armata catalana, nel modo detto levata da Gaeta, andò verso l’isola di Ponzia, ponendosi da la parte del ponente de l’isola, circa un miglio lontana da essa; il di sequente in su l’aurora l’armata genovese comparse di verso ponente, e l’una e l’altra insieme si scoprirno. La catalana si tirò in alto verso mezzodí, con intenzione di mettersi sotto vento la genovese, et essendoli sopra, averla tra il vento e il lito di Campania e a sua posta, col levar del sole e col vento in poppa, assaltarla. La genovese non si mosse del loco; ma armandosi per la battaglia, solo con nove navi incontra a la catalana per il diritto lentamente se ne veniva, avendone lasciato tre indrieto, che quasi per retroguardo pigliassino de l’alto e a loco e tempo a la battaglia calassino. La notte sequente pian piano Luna armata e l’altra a cinque miglia si accostorono. La mattina sequente che fu a li 3 d’agosto, le galee di Alfonso circondorono le navi mimiche mirando et esplorando l’ordine, il numero e l’apparato genovese; loro stetteno immobili e quieti, simulando piú presto non aver animo di combattere, che altramente. Partite le galee, Biasio capitano genovese, posto in uno schifo un trombetta, lo mandò ad Alfonso a farli intendere che loro venivano per cavare di Gaeta li loro cittadini genovesi con le loro mercanzie, e niuna intenzione avevano di combattere, se non quanto l’andare a Gaeta li fusse impedito. Alfonso tenne quel di e il sequente il trombetta, consultando la risposta; il quinto di del mese poi lo rimandò e con lui Francesco Pandone napolitano, il quale per parte del re li denunciò la guerra, facendoli intendere che in Gaeta non erano per entrare se per forza d’arme non si guadagnavano la via: e questo detto, nel suo schifo per ritorno discese.
A pena era smontato nel schifo il cavaliere napolitano, che i genovesi videno l’armata regale far vela e furiosamente addosso venirli, onde a pena avendo avuto tanto spazio che ancor loro levassino le vele, se li feceno innanzi, e cominciossi la battaglia, prima con le artigliarie e saettarne circa l’ora di terza. Il primo scontro fu de la Magnana del re con la Spinola di Biasio: il re di Navarra urtò Lomellina e don Enrico la Calva; poi tutte l’altre riscontrate insieme si incatenorno e alcuna de le genovesi fu che due de le catalane ebbe d’intorno. L’infante don Piero, che era capitano de le galee, parte si opponeva a le galee genovesi, essendo sopra a l’Incantona, e parte circondando la battaglia, andava porgendo aiuto a quelle de li suoi, che piú bisogno ne avevano. Essendo in questo modo la battaglia stretta e quasi come in un groppo tutte due le armate ridotte, le tre navi genovesi del retroguardo, le quali simulando la fuga verso mezzodi s’erano in pelago tirate, feceno vela e con vento fresco trovandosi di sopra, con grandissimo impeto venneno a dare nel navale fatto d’arme, e in modo urtorno la Magnana da man sinistra, che la diede de l’anca da man destra, e gravata da quel lato dal peso di seicento uomini armati, che tutti diedeno a la banda, cominciò a tòr acqua e quasi parea che dovesse sommergere. Era ben fornita di balestrieri (in che molto valeno i genovesi) la Spinola, e tanti verrettoni tirava ne la Magnana, la quale per esser inclinata verso lei tutte le bòtte senza poter schivarle ricevea; non per questo però Alfonso volea consentire a li suoi che lo confortavano a rendersi. So lamente smontò de la poppa, ove era continuamente, et entrò sotto il primo coperto appresso il timone; anzi saltando alcuni genovesi ne la sua nave or l’uno or l’altro, come in cosa vinta, lui occultamente li faceva pigliare e legare sotto coperta; del che accorgendosi i genovesi, costrinseno per forza e con minacce quelli de la gabbia del re a tagliare le corde de l’antenna. La quale con grande impeto e fragore precipitata al basso, fece gran spavento, ma piú un grossissimo verrettone cacciato da una balestra da banco, il quale avendo penetrato ogni ostacolo, d’innanzi a li suoi piedi si ficcò, che troppo orribil cosa parse ad Alfonso. Il perché, vinto da la importunitá de’ suoi, non vi essendo altro rimedio, fu contento prima darsi a discrezione de’ genovesi, che vilmente esser loro bersaglio o annegarsi, e con lui a simil morte tanti baroni e nobili uomini, che con seco aveva, condurre.
E benché Giovanni da Isara, capitano di galea che mai si scostava da la persona del re sempre intento ad ogni bisogno, lo confortasse a smontare ne la sua galea e campare, nondimeno non volse, parendoli che partendosi lui non dovessino li suoi piú speranza alcuna avere di salute; onde che stando fermo estimava, si come poi per effetto si vidde, che l’autoritá sua, ancor che prigion fusse, a tutti li suoi avesse a giovare. Per la qual cosa tre o quattro volte ad alta voce gridando li suoi prima che per il strepito e gridori grandi de la battaglia fussino uditi, si détte a li inimici, e per uno de li occhi de la nave Spinola, e chi scrive per un ponte messo da l’una a l’altra nave, fu dentro ricevuto, e tutti quelli che con lui erano, fatti prigioni. Furono molti, e specialmente messer Biasio, che per onore contendevano che ’l re a loro si rendesse, volendo ciascuno quella gloria; ma il re volse prima de le facoltá e nobiltá e condizione di tutti quelli che lo richiedevano intendere, poi, inteso che Iacopo lustiniano era quello che tenea l’isola di Scio, a lui si rendette. L’altre navi, che la sorte del re non sapevano, aspramente combattevano, e in fine rotte l’antenne de la Figaretta, il re di Navarra ancora, chiamando pace, si rendette. Prese le due navi e li dui re, cominciorno li catalani ad esser inferiori, e finalmente furono rotti e a’ genovesi si détteno appresso la sera, essendo durata dieci ore la battaglia; né cosa alcuna tanto valse a questa vittoria, quanto la improvvisa furia de le tre navi e le pallotte di calcina viva, le quali in gran copia spargeano le navi genovesi, che gli occhi e la vista, massimamente a le genti d’arme italiane insuete a battaglie navali, toglievano. Di tanto numero di navi di Alfonso una sola per forza di vento levatasi dal fatto d’arme campò, e di uomini notabili sol dui si salvorono: don Piero infante, che calatosi per una corda in una galea espedita si parti, e Antonio Colonna, che similmente in una galea nel campo terrestre a Gaeta fuggi. Finita la battaglia con tanta gloria de’ genovesi, ciascuno presentò li suoi prigioni al capitano: messer Iacopo Iustiniano il re Alfonso, messer Galeotto Lomellino il re di Navarra, messer Cipriano da Mare don Enrico maestro di San Iacopo; cento uomini illustri e piú furono presi, tra li quali li primi Giovanni Antonio Ursino principe di Taranto, Giovanni Antonio da Marzano duca di Sessa, Iosia d’Acquaviva, Antonio figliuolo del conte Ruggiero di Fondi, Nicolò Speciale vice re di Sicilia, Diego conte di Castro in Castiglia, Giovanni maestro d’Alcantara, e poi conti, cavalieri e dottori, uomini d’arme e gente d’ogni sorte al numero di quattromila cinquecento e piú. Morti da la parte di Alfonso Circa seicento, da la parte de’ genovesi circa cencinquanta, benché alcuni di minor numero da ogni parte scrivano; la robba guadagnata quanta fusse, si lascia in estimazione di quelli che possono pensare qual doveva essere l’ornato e le delizie di tanto re e di si nobile esercito. Il capitano genovese, veduto si gran numero di marinari e di prigioni de l’armata inimica, dubitando non li succedesse qualche pericolo essendo li suoi molto minor numero, fecene mettere in terra circa cinquemila, e sotto specie di benignitá lasciolli andare, tra li quali molti nobili per non esser conosciuti da li altri per differenza di abito o di arme camporno. Non è da tacere in questo loco la singulare magnanimitá di Alfonso veramente regale, che ancor che prigione fusse, in nave, in terra e in ogni loco e in Milano ove fu condotto, con quel volto, con quella constanza, con quella maestade stette, e cosi comandò, parlò e fu obedito, copie se libero e vittorioso fusse stato. Anzi essendo menato ad Ischia e dal capitano de la galea richiesto che dovesse comandare a li isolani che rendessino la terra in mano a’ genovesi, arditamente rispose di non volerlo fare, essendo in questo proposito che del suo stato una pietra non dovessino avere se non con la spada e col sangue, sapendo ancora che niun suddito de’ suoi, fin che ’1 fusse prigione, a simili comandamenti non obediriano né obedir dovriano; e in tanta confusione ridusse quel capitano di galea, che Biasio generai capitano con accomodate parole li dimostrò tal richiesta non di sua commissione, ma per imprudenza del capitano de la galea esser successa. Per la qual cosa dicevano tutti, Alfonso solo in ogni fortuna degnamente meritare di esser re. Li capitani del campo terrestre da Gaeta intesa tanta rotta, subito senza alcun ordine dissoluto l’esercito, ciascuno per diverse vie a le sue patrie ritornorno. Li gaetani e quelli dentro di pari impeto uscirno fuora e senza alcuna resistenza tutto il campo ebbeno in preda, nel quale ritrovandosi un ambasciatore di Barzalona, che pochi di innanzi aveva avuta una lieve indisposizione di febre, intesa la rotta e presa del re, di dolore subito mori. Menò Biasio le dodici sue navi e le tredici di Alfonso a Gaeta a salvamento, e tutte insieme nel porto con ammirazione di ogni uomo alcun di le tenne; poi li prigioni tutti a Milano conducendo, a Filippo duca li presentò.
Vinto e preso Alfonso, li oratori del Consiglio di Napoli che per Renato erano a Marsilia, avendolo assai aspettato né potendolo ancora avere per non esser liberato de la prigione di Borgogna, il settembre sequente con Isabella donna di Renato e con dui suoi figlioletti fanciulli se ne venneno a Gaeta; e trovato la terra sotto il governo de li uomini mandati da Filippo per nome di Renato, Isabella benissimo veduta e onorata, mutando quelli di Filippo, tutti li suoi magistrati vi pose. E dovendo andare a Napoli, fu consigliata da’ gaetani che, sotto specie di potersi valere del suo consiglio ne le occorrenze, ne menasse con seco Ottolin Zoppo ducale oratore: la qual cosa benché forse facessino a buon fine, suspicando di Filippo, nondimeno partori malo effetto per quello che poi seguitò de la perdita di Gaeta.
Andata dunque Isabella a Napoli ne l’anno 1436 e come regina da’ napolitani regalmente ricevuta, il duca Filippo mandò, subito intesa la vittoria, Lodovico Crotto a Genova a farli intendere mandassino l’armata in Sicilia, perché essendo privata del re e disarmata, facilmente si acquistarla, e Marco Barbavara mandò a messer Biasio a dirli secretamente che smontasse a Savona, acciò che di li piú sicuramente il re a Milano si conducesse. A Lodovico fu risposto che senza denari e senza nuova condotta di uomini non si poteva mandare armata in Sicilia: messer Biasio obedi e il re con li altri prigioni furono condotti a Milano e sommamente onorati. Venuti poi a parlamento Alfonso e Filippo, il quale con ogni reverenza lo trattava, Alfonso facilmente con piú ragioni li persuase che piú sicurezza del suo stato era avere in Italia aragonesi che francesi, i quali ancora aveva a le spalle e intorno a li suoi confini, massimamente sapendo Filippo che il duca Giovan Galeazzo suo padre niuna altra ragione aveva estimato, ma del nome e potenza de’ francesi sempre aveva avuto sospetto e orrore. Per la qual cosa deliberò al tutto favorirlo a l’impresa del regno; onde moltiplicando li onori con ogni splendore possibile, prima lasciò tornare in Ispagna il re di Navarra e il maestro di San Iacopo, poi fece che tutti li baroni e altri regnicoli, che li si trovorono, giurorno fedeltá ad Alfonso: e fece venire a Milano li ambasciatori gaetani, i quali erano andati a Genova a ringraziare i genovesi de l’opera fatta per la loro liberazione, e con molte ragioni li persuase esser loro utile il darsi ad Alfonso. Dappoi rilasciò il principe di Taranto e il duca di Sessa, Iosia e Minicuccio, i quali andati nel reame concitorono ancora piú movimenti che prima contra li angioini. E poi del mese di ottobre sequente, fatto prima lega con lui, il re Alfonso con molta grazia e doni liberò e mandollo a Porto Venere, ove trovò sei navi, le quali Filippo aveva fatto armare a Genova, che lo conducessino nel reame. Stette molti di in Porto Venere Alfonso per aspettare don Piero infante suo fratello, che con sua armata lo venisse a levare, e ancor per vedere se poteva dare aiuto alcuno a Filippo a la recuperazione di Genova, la quale dappoi la sua partita, si come instabile e facilmente ad ogni cosa mutabile, indignata de la liberazione sua fatta da Filippo, se li era rebellata.
Don Piero infante, avvisato dal principe di Taranto de la rilassazione del re Alfonso e di quello aveva a fare, con cinque navi si era levato di Sicilia e veniva in riviera di Genova: delle cinque, una carica di grano per violenza di fortuna di mare arrivò nel porto di Gaeta, e don Piero a la spiaggia si ridusse. 1 gaetani cacciati da la fame e instigati da alcuni de la terra, che con certi altri fuor’ usciti si intendevano, credendo ancora ragionevolmente che ’l re, liberato e tornando maggiore per l’aiuto e favore del duca Filippo, in poco tempo avesse a recuperare tutto il regno, si détteno a don Piero; e in questo modo recuperò, senza averlo sperato, Gaeta, poi in Porto Venere si condusse. Alfonso in quel mezzo aveva dato tutto il favore possibile per la recuperazione di Genova, a la quale Filippo aveva mandato per terra Nicolò Picinino; ma veduto che niente se li poteva fare e che i fiorentini di gente, di vittuaglie e di denari, a persuasione de’ veneziani, aiuta• vano i genovesi, se n’andò a Gaeta. Di li andò a Capua, la quale, benché nel tempo de la sua prigionia fusse stata aspramente oppugnata da la regina Isabella e da Iacopo Caldora, nondimeno per opera e virtú di Giovanni da Ventimiglia condottiero di Alfonso, che la difendeva, fu salva; stando a Capua accordò Raimondo conte di Nola, poi andò a campo a Scafati e a Castell’ a Mare e per accordo li ebbe.
Isabella vedendo non poter sola resistere ad Alfonso, ricorse per aiuto ad Eugenio papa, il quale li mandò Giovanni Vitellesco patriarca con tremila cavalli e tremila fanti. Andò il patriarca prima in Abruzzo al sussidio de l’Aquila, ostinatissima angioina, contra Francesco Picinino e il Riccio da Montechiaro e Minicuccio soldati aragonesi che la guerreggiavano; e avendo in fine cacciato il Picinino in Civita Reale e il Riccio e Minicuccio in Civita di Chieti, passò per li monti di Tagliacozzo ne le terre che teneva il Riccio e in quelle del conte di Alvito, e alcune ne bruciò e pose a sacco. Poi acquistato tutto il suo stato, prese Atina e il passo di Monte Cassino, per il quale si fece la via libera a passare in Puglia. Aquino e Arpino se li détteno, e tutte le terre de l’abbazia di San Germano sottomise, con tanta prosperitá, che fu in opinione ciascuno che se l’avesse continuato aria tutto il regno ottenuto: ma qual cagione si fusse, levò a l’improvviso le bandiere e tornò a Roma, ove stette tutto l’inverno. L’anno sequente sul principio di maggio tornò nel reame il patriarca e non avendo potuto aver per forza Ceperano, fece un ponte sopra il Garigliano e passando in Campania prese Alife e Pedemonte, poi andò a le Mole di Capua, tre miglia lontane da la cittá, la quale averia assediata, se non fusse che mandando Isabella ottocento cavalli che si avessino ad unir con lui, il Ventimiglia assaltandoli a l’improvviso li ruppe; e in fine avendo tentato il patriarca di far venir fuora li inimici per far fatto d’arme, non uscendo alcuno, si parti. E andando per la via di Caiazza, passò il Volturno e fermò il campo a la Cerra, e lui con sessanta cavalli entrò in Napoli con gran pompa da la regina Isabella ricevuto; e stato li tre giorni, non ben concorde di opinione con lei, venne col campo a Capua, ne la quale era Alfonso, e veduto che niuno usciva de la terra, si ridusse ad Aversa, ove pochi di poi si unirono con lui le genti che li aveva mandato Iacopo Caldora. Poi andò a Montesarchio, il quale saccomannò e bruciò, e posesi a l’assedio de la rocca.
In questo mezzo il principe di Taranto con mille e cinquecento cavalli e ottocento fanti se ne venne nel terreno di Montefuscolo, che da Montesarchio è distante dodici miglia e da Benevento quattro; e il Riccio e il Ventimiglia con la maggior parte de le genti aragonesi si miseno a Tocco, quattro miglia lontano da Montesarchio, estimando aver tolta la via di Benevento e de le vittuaglie al patriarca, avendolo in questo modo tra il principe e loro serrato. Il che vedendo, il patriarca mandò uomini e somari per vittuaglia in Benevento e quattro squadre li mise appresso in agguato, e lui col resto de lo esercito in arme stette fermo nel campo. Usciti di Benevento quelli che portavano le vittuaglie, furono subito assaltati dal principe e saccheggiati, per il che essendo carichi e disordinati, massimamente li fanti, sopraggiunti da le quattro squadre de l’agguato, subito furono rotti e il principe con li cavalli fuggendo si salvò nel suo campo. E quantunque il Riccio e il Ventimiglia lo avessino potuto soccorrere, non di meno presentandosi il patriarca con tutto l’esercito, si ristetteno. Col favore di questa rotta ebbe il patriarca d’accordo la rocca di Montesarchio, e poi con somma celeritá e silenzio il di sequente a buon’ora con tutto l’esercito e con l’aiuto de’ caldoreschi che erano con lui, assaltò a l’improvviso il campo del principe, e fatto un gran fatto d’arme per sino a mezzodi finalmente il principe fu rotto e Gabriele Ursino suo fratello fuggendo per la porta di drieto del campo salvò gran parte de le genti d’arme, ma perse li carriaggi. E il principe per una vigna straboccatamente correndo a l’aiuto de’ suoi, intricato tra viti e sarmenti il cavallo cadde, e lui sotto vi fu preso: per la qual cosa il patriarca fu pronunciato cardinale, subito che dal pontefice fu intesa.
Per non sapere bene usare questa vittoria, perdette il patriarca la impresa del regno, la qual giá per opinione di ogni uomo si poteva chiamar vinta; imperocché fece grande onore al principe prigione e liberollo, con ordine che dovesse mettere in punto le sue genti d’arme e venisse a congiungersi con l’esercito ecclesiastico. La qual cosa mosse a tanto sdegno Iacopo Caldora, capitale inimico del principe, che con tutti li suoi si ritirò da l’impresa: onde ne seguitò che ’l patriarca niuna cosa utile fece poi piú in tutto quell’anno, e Alfonso, che sino a quel di era stato con qualche rispetto ne le terre, venne fuora a la campagna contra li inimici. E finalmente circa il mezzo de l’inverno il patriarca entrò in Salerno, essendo la rocca in man de li aragonesi; il che inteso Alfonso subito con grosso esercito verso Salerno se ne andò per vie ardue e difficiliime del stato dei San Severino, e scontratosi con Paolo Todesco, uno de li condottieri del patriarca, lo ruppe con tutta la sua gente. Poi prese e fortificò tutti li passi, e in modo il patriarca circondò, che forza era che lui e li suoi a man salva venissino ne le mani di Alfonso. Ma il vizioso patriarca, non credendo potere avere l’aiuto dimandato da Iacopo Caldora (il quale estimava per la rilassazione del principe, come abbiamo detto, inimico) si voltò a la fraude e persuadette Alfonso che per opera di Iacopo Caldora era venuto a questa impresa contra lui, e che sua intenzione era far pace, ma non poteva parlarne finché non si avessino levato d’innanzi il Caldora, uomo perfido e maligno. E per questo confortò Alfonso a far con seco tregua, ne la quale lui trattaria la pace col papa e faria che pigliaria il favore de la parte sua e lasciarla la parte angioina. Alfonso, che sapea la inimicizia del Caldora e l’autoritá e potenza che lui aveva col papa, credette facilmente al patriarca e con sommo studio con lui fece la tregua e aperse li passi.
Il patriarca liberato e partito da Salerno, trovando per via il Caldora, che per odio d’Alfonso, non per amor che li portasse, lo veniva a soccorrere, si riconciliò con lui e dimenticato de la fede data e de la cortesia di Alfonso, perfidamente ruppe la tregua, e insieme con Caldora deliberorono a tradimento pigliare il re Alfonso, che giá sicuro sotto la tregua si stava. Onde serratisi insieme li dui capitani con li loro dui eserciti, feceno in prima pigliare tutti li passi, acciò che niuno potesse portare avviso del loro disegno ad Alfonso, poi a gran giornate di e notte cavalcando, si mosseno insieme con intenzione di giungerlo a l’improvviso e assaltarlo di notte. Un amico di Alfonso, signor di Montesarchio, detto Iacopo da la Lionessa, o per amor li portasse o pur commosso a sdegno di si eccellente perfidia, deliberando far tutto il pos sibile per farla intendere ad Alfonso, scrisse dodici lettere in un modo, ne le quali tutta l’intenzione e ordine del patriarca e del Caldora significava, e a dodici messi separati, per diverse vie mandandoli, le détte, con commissione che in man propria del re le dessino e andassino volando: con pensiero che quasi impossibil fusse che tutte andassino in sinistro. E tutti nondimeno, eccetto uno, furono intercetti.
Era Alfonso in un loco chiamato Villa Iuliana tre miglia lontano da Aversa e per essere il di di Natale, si trovava a la messa, la quale solennemente secondo l’usanza faceva celebrare, quando quell’unico messo che era passato li presentò la lettera di si spaventoso avviso. Non si mosse il re, come religiosissimo che era, sperando in Dio, sinché non fu finito il sacrificio, quantunque li inimici, che di notte non avevano potuto giungere, scoperti dal sole fussino poco poi il messo giunti a la chiesa e avessino levato il rumore, e quelli pochi del re che si trovavano in arme facessino quella difesa che allora era possibile; in modo che celebrato il sacrificio, a pena ebbe il re spazio di levarsi, e posto in fuga si ridusse in Capua, avendo però tutti li carriaggi perduti, se ben altro danno di piú importanza non fusse, che l’argento che a la mensa e a l’altare si adoperava. Liberato dal pericolo di questa prodizione Alfonso, li inimici rimaseno tra loro piú discordi che mai, in modo che ’l di medesimo Iacopo Caldora si ridusse a Napoli e il patriarca a Montesarchio, ove avendo aspettato molti giorni, né venendo il principe di Taranto secondo la promessa li fece, come è detto, da Montesarchio passò in Puglia e tentò di pigliare Trani: il che non li succedendo, lasciato le genti d’arme al governo di Lorenzo da Cotignola a Bisegli, per mare sopra una galea se ne andò a Venezia e di li a Ferrara ad Eugenio pontefice, che li allora si ritrovava. Renato in questo mezzo avendo dato al duca di Borgogna per la sua liberazione la valle di Casletto, la quale ancora al di d’oggi li successori di Borgogna possedeno in Fiandra, montato sopra un’armata di dodici galee, la quale aveva fatto preparare a Genova, tornò a Napoli, con ogni regai pompa ricevuto, del mese di maggio nel 1438. E fece venire a sé Iacopo Caldora, il quale tutti li migliori soldati de la compagnia del patriarca aveva a li suoi stipendi condotti, e ingrossò il suo esercito; dappoi fece venire a Napoli Micheletto Attendolo, il quale era stato in Calabria tre anni e aveva tenuto quella provincia a la devozione de li angioini: e venne con mille cavalli e in modo crescette il suo esercito, che diede qualche speranza di poter rimanere vittorioso de l’impresa. Tuttavia licenziò l’armata genovese avendo male il modo di pagarla e in fine altro non fece per allora, se non che recuperò Scafati e il ducato di Amalfi, il quale Alfonso poco tempo aveva tenuto, e passò nel territorio di San Severino; né potendo aver la terra, predò tutto il paese e bruciollo. Alfonso avendo in quel mezzo preso il conte di Celano e di Albi, essendo venuto a Castelluccio, se li presentò un araldo mandato da Renato con il guanto di ferro insanguinato, provocandolo e invitandolo da sua parte a duello e battaglia singulare. Alfonso accettò il guanto, poi li dimandò se a corpo a corpo oppur con tutto l’esercito voleva Renato combattere: rispose l’araldo, che con tutto l’esercito. Allora Alfonso rispose che accettava la battaglia, e che spettando a lui per ragion de l’arme, come a provocato, la elezione del di e del loco de la battaglia, disse che eleggeva quel piano che è tra Nola e la Cerra e che a l’ottavo giorno da quello si trovarla li con l’esercito ad aspettarlo. Alfonso al di determinato in sul piano si condusse, ma Renato non vi andò né seguitò la battaglia; ma si pose nel campo donde Alfonso si era levato e in questo modo li parse avere satisfatto a l’onor suo. Scrive un iurista di quelli tempi che Alfonso fu provocato a corpo a corpo da Renato e che ’1 di de la battaglia si condusse e Renato non venne, proibito da li suoi baroni, i quali allegavano che ’l non aveva potuto disfidare in quel modo Alfonso, con voler mettere a pericolo la persona e lo stato, senza consiglio e assenso loro e de li maggiori del regno, del pericolo e interesse dei quali si trattava; e soggiunge che prima che Alfonso accettasse, stette alquanto sospeso, dicen doli alcuni che Renato essendo duca, non potea di ragione provocare Alfonso che era re, e che nondimeno parendo ad Alfonso tale escusazione da pusillanimo, accettò la disfida. Andò poi in Abruzzo Renato e prese Castelluccio, e Alfonso entrò ne la valle di Gardano e prese Arparo per forza, e Marin Boffa, che di quella valle era signore, fece prigione. Accordò il conte di Caserta e prese Angri e da li uomini propri de la terra ebbe Nocera de’ pagani. Et essendo per queste cose ingrossato al numero di quindicimila persone, insieme con don Piero infante suo fratello andò a campo a Napoli, la quale con dieci galee nel porto e con dui campi per terra assediò; et essendo un di don Piero uscito sopra la marina per provvedere ad alcune cose opportune, una bombarda tirata da la chiesa del Carmine li portò via la testa in mare, con sommo dolore di Alfonso e di tutto l’esercito, per esser stato don Piero uomo di corpo e di animo virile e robusto e intrepido, e molto grazioso in conversazione con ognuno. La testa sua non fu trovata: Alfonso il tronco corpo fece raccogliere e in Castel de l’Ovo deponere, sinché a miglior tempo di regali esequie lo potesse onorare. Tentò poi di dare il di sequente la battaglia a Napoli, ma tanto fu l’impeto de la pioggia che, giudicando essere cosi il voler di Dio, si levò per allora de l’assedio e partissi e prese Caivano per trattato e la rocca sforzata per accordo.
Tornato Renato d’Abruzzo a Napoli, deliberato al tutto di ridurre le fortezze in suo dominio, le quali molti anni, e sempre dal di che le ebbe in mano da la regina Giovanna II, in potere di Alfonso erano state, con quattro grossissime navi, de le quali era capitano un giovine chiamato Nicolò di tnesser Spinetta Spinola da Campo Fregoso, assediò per acqua Castel nuovo, pigliando prima per forza la torre di San Vincenzo, la quale per difesa del detto castello in mare fu edificata, e per terra con molte migliara di persone, oltra il favore de la cittá, forte lo stringeva, standoli quasi sotto le mura. Tentò piú volte Alfonso di soccorrerlo, e non potendo per acqua per le quattro navi e per la torre predetta e per non si presentare la sua armata, stando con uno esercito di quindicimila persone in un loco chiamato Echia a un trar d’arco da Napoli, s’ingegnava trovare occasione di poterlo soccorrere, non essendo tra il campo suo e quel di Renato altro in mezzo che la via pubblica. Ne la quale ogni di fatto d’arme si facea, e chi volea mostrare la sua virtú potea; si come facea Pier Luigi Aurilia gentiluomo napolitano e maestro di casa di Renato, il quale ogni di assaltava li aragonesi e rompeva la sua lancia, et entrava e usciva a sua posta, per desteritá e virtú militare, di mano de li inimici: in modo che Alfonso, come generosissimo re e amico di virtú ancor ne li inimici, a suono di trombe fece pubblico bando per tutto il suo campo, che, sotto pena di perdere tutte due le mani, niuno ardisse tirare balestra o arco o schioppetto o altra artigliaria a la persona di Pier Luigi, ma la spada e la lancia sola contra di lui potesse valere, stimando iniquissima cosa che un vile uomo potesse a un si valoroso cavaliere, senza affrontarlo, solo col tirar da lunge, tórli la vita. In fine stati in quel modo molti di li dui campi, al numero di trentamila persone tra l’uno e l’altro, su le porte e mura di Napoli, né potendo Alfonso soccorrere il castello, si levò; e Ranaldo Sancio catalano fidelissimo e gagliardo castellano, vinto da la fame né avendo piú né lui né li suoi che mangiare e vestire, al fin rendette il castello a Renato: ove miserabil cosa fu vedere si fedel compagnia uscire del castello, tutti negri, sordidi, magri, lacerati, afflitti, come quelli a chi solo un poco di spirito era rimasto. Il fratei di Ranaldo, che ancor lui a simil condizione stava, rendette il Castel de l’Ovo; per la qual cosa insignorito al tutto di Napoli Renato, andò a Salerno e quello e quasi tutto il Principato con molte terre di Calabria recuperò, e poi a Napoli si ridusse. Essendo poi partite le navi genovesi che avevano portato Renato a Napoli e a l’assedio del castello si erano trovate, e il principe di Taranto (contra la fede data al patriarca) ritornato a la parte aragonese, rimaseno quasi del paro le forze de li dui re, atti piuttosto ad affliggere piú quel regno, che a recuperarlo: imperocché avendo ciascun di loro menato poca gente de le loro patrie, non governavano li eserciti d’altri a lor modo, ma si lasciavano governare e tirare da li baroni e tiranni del regno, con le forze de’ quali si sostentavano, ove a li loro appetiti e naturale instabilitá parea. E qualche volta Iacopo Caldora in Abruzzo e nel contado di Alvito e in Terra di Lavoro fu superiore contra li amici di Alfonso; e Alfonso mentre attendeva a recuperare il perduto, di doppia calamitá affliggeva li regnicoli. Il simile in Puglia e in Calabria facea il principe di Taranto, e intorno a Napoli, Salerno, Capua e Gaeta facea Renato, il quale però se non fusse stato aiutato di vittuaglia da’ genovesi, saria stato necessitato a partirsi del regno; ma con quel sussidio e qualche poco che aveva da’ pugliesi e da Iacopo Caldora sostentò Napoli e ritenne alcune terre e recuperò Castel nuovo, il quale tanti anni avevano tenuto i catalani e tanto danno avevano dato per quello con le bombarde e artigliarie a la terra di Napoli. Per le quali cose in modo fu lacerato quel regno in questo tempo, che appena tre o quattro lochi si trovavano in tutto il circuito di esso da Gaeta a Pescara, che si potessino dire oziosi e pacifici, e quelli ancora piú presto per aver confini che in pace vivevano, che per loro industria e diligenza. Stando in questo termine il regno tutto l’anno 1439 e li dui sequenti, Iacopo Caldora essendo a campo di un castel di Iacopo da la Lionessa, detto Cercello, da subitaneo caso di apoplessia, ovvero di goccia, soprapreso, mori: uomo da connumerare tra li buoni capitani, se tanta fede e constanza avesse avuto, quanta arte e perizia militare teneva. Fu la sua origine da un castello d’Abruzzo appresso il fiume del Sánguine sotto la montagna, chiamato Castel del Giudice. Da la sua morte le cose di Alfonso sempre migliororno; imperocché il Ventimiglia nel medesimo tempo per fame e per accordo ebbe la Cerra con la rocca. Quelli di A versa tolseno Alfonso ne la cittá, e non potendosi avere la rocca, con gran fossi e ripari serrandola di fuora la feceno inutile a l’inimico, e tuttavia gagliardamente la combattevano. E benché Renato fusse passato in Puglia e tornando con Antonio Caldora, figliuolo di Iacopo, e Raimondo suo fratello e Troiano Caracciolo conte di Avellino e altri suoi seguaci, smontasse in quel di Nola per soccorrere Aversa, nondimeno non potendo aiutarla, a Napoli si ridusse: ove entrato in suspizione di Antonio, lo mise in prigione con molto suo danno. Imperocché levatasi in tumulto la compagnia caldoresca e dimandatolo con minacce a Renato, Io fece rilasciare dimandandoli venia, con escusazione d’averlo fatto per errore. Per la qual cosa Antonio indignato si fece da la parte di Alfonso; et essendo ne la rocca di Aversa uno chiamato Santo, che col padre aveva militato, fece tanto con lui, che resignò la rocca ad Alfonso.
La causa de la prigionia di Antonio fatta da Renato fu che volendo Alfonso impedire il passo a Renato ne la sua tornata di Puglia, non sapendo per qual via avesse a passare, si mosse con una parte de le sue genti verso un passo dei monti di Abruzzo ordinando che le altre sue genti ad un certo di li fussino appresso; e per ventura sul tardi a quel passo si trovò ad alloggiare, ove ancora Renato non lungi un miglio ne la medesima ora s’era fermato. Le spie di Renato riferirno la giunta di Alfonso; il perché vedendosi grosso, volse far fatto d’arme e assaltare Alfonso, avendo lo avvantaggio. Non parse ad Antonio che cosi temerariamente si dovesse tentar la battaglia, riferendo alcune spie che Alfonso era grosso e aveva preso li passi e forniti, et era venuto per far fatto d’arme, massimamente essendo il loco dubbioso e l’inimico disposto. Alfonso da l’altra parte informato da le spie e inteso il pericolo, per essere inferiore assai di numero, in quel mezzo che Renato e Antonio consultavano, si levò e ridusscsi in loco sicuro: la qual cosa intesa da Renato e certificato ancor da fuggitivi che se avesse assaltato Alfonso, lo rompeva, si indignò contra Antonio et estimò essere stato ingannato da lui, e la vittoria per sua opera esserli stata tolta di mano, per il che, come fu a Napoli, senza piú pensarvi lo mise in prigione. Ma nondimeno non stette molto poi Antonio, che tornando angioino si rebellò ad Alfonso; né molto stette ancora che un’altra volta fatto aragonese, tornò in grazia con lui, aven doli per tradimento fatto dare la rocca di Benevento, ove prese Foschino da Cotignola consobrino del conte Francesco Sforza, e li beneventani poi impauriti volontariamente ancor loro ad Alfonso si détteno. Espugnò poi Alfonso con le bombarde per forza Caiazza e la Padula, e col campo si fermò incontra a l’Orsara. Teneva il conte Francesco Sforza, amico di Renato, Ariano, Troia, Manfredonia e Luceria con molte altre terre in Puglia, e a la guardia di esse teneva Cesare da Martinengo e Vittorio Rangone suoi condottieri con buona compagnia. E avendo avuto Cesare ardire di uscir fuora di Troia due volte contra Alfonso, due volte fu rotto e vilmente ne la terra ributtato; onde Alfonso per forza espugnò e mise a sacco Biccaro, servata (come sempre era sua usanza) la pudicizia de le donne, e poi prese lo Pizzo e l’Orsara. Ed avendo da l’Orsara mandato verso la Marca Raimondo Caldora fratello giá di Iacopo, e Iosia e il Riccio per opporsi ad ogni aiuto che volesse mandare il conte Francesco a li suoi, Alessandro Sforza, fratei del conte, a l’improvvisa assaltolli e li ruppe e prese Raimondo: losia e il Riccio col fuggire si salvorono. Per la prigionia di Raimondo suo zio, Antonio Caldora da Alfonso la seconda volta si rebellò. Avendo ancora in quel tempo mandato Eugenio pontefice il Cardinal di Taranto contra Francesco conte di Aquino, Alfonso andato incontra lui, lo fece per forza tornare indietro; poi prese Rocca Guglielma per fame, e l’isola di Capri per volontaria dedizione de’ capriotti ultimamente si détte. Avuto Capri, senza indugio a lo assedio di Napoli si condusse e insieme ancora pose il campo a Pozzuolo, il quale per carestia di vittuaglie condotto a lo estremo, si détte: il medesimo fece la Torre di Ottave. A Napoli avea pili dura provincia, perché ben che avessino carestia del vivere, nondimeno avevano gran speranza d’essere soccorsi o dal conte Francesco o da Antonio Caldora ovvero da’ genovesi, in modo che Alfonso altra via non vedea di acquistarla che col tempo e con la fame. Ma la fortuna che giá, si come io estimo, si vergognava di aver si lungo tempo mal trattato un re di tanta virtú, li aperse insperatamente la via per la quale, non senza pericolo però, Napoli li rendette: perciocché un muratore napolitano, chiamato Anello, uscito per fame di Napoli, con speranza di premio che li fu promesso, mostrò la via di entrare ne la terra. E fu fama allora che una vecchia lo mandasse ad Alfonso, indignata di una repulsa datali con mal viso da Renato, avendoli lei dimandato qualche soccorso per sé e per la sua famiglia, che per fame morivano. Volse Anello con seco ducento fanti, i quali li furono dati, animosi et esperti, e ordinato ad Alfonso di stare armato di fuora e con scale, attento al segno di accostarsi a le mura, con essi entrò in uno acquedotto a lui noto che portava ne la terra, e per il silenzio de la notte uscirono per un pozzo e in una casetta arrivorono, ove una sola vecchia con una fanciulla si stava, la quale fu opinione che fusse quella che mandò Anello ad Alfonso a insegnarli la via de l’acquedotto e del pozzo; e fatta stare tacita la fanciulla, quaranta soli de’ ducento ne la casa si rinchiusene. Venuto il giorno, per qual cagione si fusse o oblivione o paura, non facendo loro alcun segno, credette Alfonso o che per timore non fussino usciti de l’acquedotto o fussino stati scoperti e morti; tuttavia stando armato innanzi a le mura, Renato montato a cavallo con la sua guardia armata ributtandolo indietro lo levò da le mura. La qual cosa sentendo, quelli quaranta che ne la casetta erano in grandissima paura si stavano e non sapendo che fare, dubitando non essere sentiti, se nel pozzo avessino voluto tornare, o non essere morti per esser pochi, se fuora avessino voluto uscire. Alfonso, non sperando piú in questa incepta, tornò in campo, e Renato, credendo avere riparato al pericolo, se ne tornò in castello. In questo mezzo uno di quelli de l’acquedotto correndo venne ad Alfonso, facendoli intendere de li quaranta che erano usciti ne la terra e per paura stavano inclusi ne la casetta; il perché Alfonso di nuovo si presentò a le mura per fare animo a li quaranta d’uscire. Accadde che il figliuolo de la vecchia, tornando da bottega, batté a l’uscio de la casetta, dimandando d’essere aperto; la vecchia e li armati consul torno di pigliarlo e farlo tacere, onde aperto un poco l’uscio, acciò che entrasse, il giovine, veduti li uomini armati, subito tornò indrieto, e correndo e gridando a l’arme, fece intendere a Renato li inimici essere ne la terra. Vedendo questo, li quaranta armati saltorno subito con furia fuor de la casetta e montati sopra il muro de la terra piú vicino ad essa, avendo li una sola guardia trovata, preseno un torrione. Renato corse al rumore a le mura; Alfonso per soccorrere quelli del torrione faceva mettere le scale, ma li uomini de la terra facilmente le offendevano, in modo che montar non si potea: onde maltrattavano quelli del torrione. Alfonso vedendo una parte del muro separata da questo ove era il rumore, che non era guardata, a quella pose le scale e fece montare uomini. Quelli del torrione giá oppressi da la moltitudine lentamente Si difendevano, essendo parte feriti e parte fuor de le mura per paura gettatisi: onde era quasi Renato per recuperare il torrione, se quelli che erano montati per le scale non se li fussino con rumore presentati a le spalle, empiendo ogni cosa di paura e orrore. Per il che Renato alquanto soprastette, ma la paura allora li crescette quando vidde uno di quelli di Alfonso, che per caso avendo trovato un cavallo vuoto, sopra ii era montato e contra li angioini virilmente combatteva: il che fece pensare a Renato che li inimici non per mura, ma per qualche porta fussino entrati. Tuttavia, non si perdendo d’animo, confortava li suoi a la difesa, ma crescendo la moltitudine de li aragonesi per quelli ancora che da l’acquedotto erano usciti dappoi li quaranta, e per questo vedendo li suoi impauriti, cominciò destramente a ritirarsi. Veduto poi che li • aragonesi per forza avevano rotta la porta di San Gennaro e per quella li inimici entravano a furia, deposta la speranza di difesa, in Castel nuovo si ridusse, tuttavia però sempre combattendo: in modo che essendoli preso il cavai per la briglia da un catalano chiamato Spegio, due o tre volte lo confortò a lasciarla, e vedendolo pur ostinato a volerlo pigliare e per questo tenere forte la briglia, li menò un fiero colpo di taglio con la spada, e la mano dal braccio li tagliò. Entrorono poi li aragonesi per la porta ancora del Mercato e per molte altre porte de le mura e senza sangue cominciorno a predare; ma entrato il re, fece subito restare il saccomanno e per la terra cavalcando in suo potere la ridusse. In questo modo adunque ne l’anno di Cristo 1442 a’ 6 di giugno e ne l’anno ventunesimo dappoi che in quel regno aveva cominciato a far guerra, ottenne il re Alfonso Napoli, essendo stata 905 anni innanzi (si come sopra avemo dimonstrato) per simil via di acquedotto per Belisario da’ goti recuperata. Restavano le tre rocche di Napoli ad acquistare, Capuana, Montana (ovvero Sant’Ermo) e Castel nuovo. Assediò prima Alfonso Capuana e in quattro di l’ebbe, di volontá di Renato mosso da’ preghi di Giovan Cossa napolitano, il quale con Renato si era in Castel nuovo ridotto, e la mogliere e figliuoli aveva in Capuana, onde per salvarli Renato fu contento sí desse. La Montana ebbe poi subito; Castel nuovo Renato lo lasciò fornito, avendoli posto per castellano messer Antonio Calvo genovese, di chi era grosso debitore di denari, con ordine che non venendo o non mandando fra certo termine sussidio, si accordasse con Alfonso e la rocca li rendesse. Poi sopra due navi genovesi, le quali avendo scaricato in castello frumento mandatoli per sussidio da Genova, lui aveva pregato che per alcun di restassino, passò in Porto pisano, menando con seco Ottino Caracciolo e Giovan Cossa, e da Porto pisano poi a Fiorenza a papa Eugenio si condusse.
Sentendo Alfonso poi che Antonio Caldora si era ingrossato, e con lui Giovanni Sforza fratello del conte Francesco con le genti sforzesche, deliberato espedire le reliquie de la guerra, usci fuora ne li prati di Capua e di li andò a Fonte di Popolo, poi ad Esernia, la quale subito se li rendette; poi se n’andò a Carpinone, che era la sedia e il ridotto di tutta la guerra. Antonio Caldora corse ancor lui a Carpinone disposto di fare fatto d’arme prima che Giovan Sforza (si come dimonstrava di voler fare) ne la Marca tornasse. Essendo dunque apparecchiato per combattere Antonio, consultando il re Alfonso del modo del far fatto d’arme, li suoi lo confortavano che la sua persona non vi si dovesse trovare, anzi lasciar fare a loro; ma Alfonso indignato rispose: — Adunque quello che suole ne le battaglie giovare, cioè la presenza del capitano, adesso li sará per nuocere? Non piaccia a Dio che tal carico si faccia al nostro sangue d’Aragona! Intendo si combatta virilmente, e io voglio essere il primo, per monstrarvi che a la fortuna e gloria vostra la mia presenza non è per nuocere. — E questo detto, postosi subito la celata in testa, fece suonar battaglia a la trombetta. Cominciossi il fatto d’arme, il quale fu aspro e per molte ore dubbioso e non senza sangue: in fine moltiplicando li aragonesi e non soccorrendo i caldoreschi li suoi retroguardi, furono rotti e sconfitti e la compagnia sforzesca tutta fu presa e il conte Antonio rimase prigione e Giovanni Sforza fuggi in Ortona.
Dappoi questa rotta tenne il re Alfonso sin che *1 visse tutto il regno di Napoli da l’Aquila insino a Regio di Calabria, domando in breve e con somma facilitá, se alcuna repugnanza vi fu. Mirabile cosa in questa vittoria fu considerare la magnanimitá di questo ottimo re. Consigliava ciascuno che Antonio Caldora come ribelle, perfido et ereditario inimico si dovesse a la morte dannare: non volse Alfonso, anzi senza mai ricordarli o la inimicizia paterna o le offensioni da lui ricevute o le cose di questa battaglia e vittoria, senza mai improperarli iniuria alcuna, come se mai tra loro cosa alcuna stata 1 non fusse, tutti li stati e beni paterni e propri li lasciò tenere. • La robba mobile di casa, che opulenta e preziosa cosa era, lasciò a la sua donna, e di tanta preda niuna cosa per sé volse, eccetto una sola coppa di cristallo da bevere; poi a sua provvisione come suo caro gentiluomo e barone sempre lo tenne. Tutti li prigioni liberamente lasciò, e a molti, benché inimici li fussino, per reverenza de la virtú, fece gran doni: con la quale benignitá e larghezza non solamente li amici confirmò, ma li inimici da clemenza vinti benevoli e partigiani si fece. # Superato e vinto Antonio Caldora, andò il re in Abruzzo e tutta quella regione scorrendo a sua devozione ridusse, poi P. Co LLliNUCCIO, Opere - I. 18 tornato in Puglia, ebbe il Guasto e tutte le terre de’ caldoreschi, e posto il campo a Manfredonia, per trattato di alcuni cittadini in pochi di ebbe la terra, ma non la rocca. Cesare da Martinengo e Vittorio Rangone, vedendo il re vittorioso, rebellandosi dal conte Francesco Sforza li détteno Troia, la quale era a lor guardia, e l’esempio loro seguitando quelli di Ariano e del Monte S. Angelo e de le altre terre che obedivano al conte, in potere del re tutte si détteno. In questo mezzo Renato essendo stato a Fiorenza e tentate molte cose, vedendo che da niun lato poteva piú aiuto sperare, e per questo Castel nuovo di Napoli con difficoltá e spesa tenendo in fine li averia bisognato lasciarlo, e il tempo statuito a messer Antonio Calvo castellano giá passava, détte arbitrio a Giovan Cossa che al re Alfonso lo restituisse; e tornossene a Marsilia, avendo in ambigua e turbulenta possessione tra lui e la sua donna parte del regno solo sei anni o circa tenuto. 11 Cossa impetrò dal re Alfonso venia per messer Ottino e per sé e per alcuni altri napolitani e si intromise a la restituzione del castello con messer Antonio Calvo: il quale ricevuta da Alfonso tutta la somma de li denari, de la quale li era Renato debitore, il castello liberamente li rendette. E in questo modo fatto in tutto Alfonso vero signore e re, sopra uno ornatissimo e dorato carro trionfale apparecchiatoli da’ napolitani, con sommo splendore e magnificenza e universale letizia del regno entrò in Napoli: il qual trionfo con un magnificentissimo e superbo arco marmoreo a la porta del castello edificato per testificazione e gloria del valoroso re, li napolitani a perpetua memoria consecrorono.
Essendo adunque il re Alfonso in perfetta possessione del regno, Eugenio pontefice, il quale ancora lui dopo molte persecuzioni dal popolo romano e da Nicolò Fortebraccio e dal concilio di Basilea ricevute, si ritrovava in pacifica possessione del pontificato, tutto il suo pensier vòlse a la recuperazione de la Marca anconitana, la quale il conte Francesco Sforza occupava. Onde, per piú facilmente poterlo mandare ad effetto, deliberò il re Alfonso conciliarsi, e mandato messer Luigi da Padoa, cardinale e patriarca di Aquilegia suo intimo amico, a Terracina, subito amicizia e lega col re concluse. La somma de le condizioni fu questa: che ’1 papa constitui Alfonso e suoi successori legittimi re di Napoli, investendolo di quello e aggiungendoli Terracina, e Fernando (altri Ferdinando) suo unico figliuolo naturale, nato d’una giovine valeriana, per dispensazione a la successione del regno abilitò; da l’altra parte Alfonso la recuperazione de la Marca con ogni sua industria e forza li promise, e Civita Ducale, e Cumulo e la Matrice, terre di Abruzzo, a la Chiesa restituí. Finita la conclusione de la lega, il re si fece venire a Terracina per via di mare Nicolò Picinino capitano d’arme, col quale tre di consultò il modo de lo acquisto de la Marca, e lo condusse a li suoi stipendi; e tornato a Napoli, usci in campo al maggio de le rose e, fatto un potente esercito, deliberò in persona, ancor che obbligato per capitoli non fusse, venire a l’impresa de la Marca. Il primo viaggio fece a l’Aquila, la quale desiderava vedere, e non ostante che molti il dissuadessino per dubbio di Antonuccio, il quale essendo capo di parte Camponesca e tutta angioina, allora governava, entrò con somma fiducia ne la terra e fu con ogni dimonstrazione di amore e di fede ricevuto. Poi procedendo venne nel Ducato e per la prima terra acquistò Visso a la Chiesa, la quale per il conte Francesco si teneva; poi non ostante che ’1 duca Filippo li avesse mandato Piero Cotta e Giovanni Balbo oratori per levarlo da l’impresa contra il conte suo genero, nondimeno per osservare la fede entrò ne la Marca, e con l’esercito si pose tra Monte Melone e Montecchio, e condusse a’ suoi stipendi Mannabarile e Troilo da Rossano e Piero Brunoro da Parma, ottimi soldati che dal conte Francesco si erano rebellati. E alloggiato sul fiume di Potenza, facendo scorrere il paese acquistò molte terre, e tra le altre San Severino, Tolentino, Cingulo, Macerata e Iesi, e fece porre a sacco Apignano, poi andò a la Rocca Contrada, la quale era in guardia di Roberto da San Severino; statoli cinque di intorno e vedendola inespugnabile, calò cinque miglia lontano da Fano, ove il conte Francesco perdendo si era ridotto, acquistando il re con la sua presenza tutti li lochi per li quali passava. Vedendo finalmente il re, Fano per rispetto del soccorso di mare non potersi assediare e per la recuperazione del resto de la Marca bastar li bracceschi, deliberò tornare nel regno; e partito con l’esercito voltò a la via di Fermo, ove su la porta assaltato da Alessandro Sforza, fece un aspro fatto d’arme. E ributtati per forza ne la terra li sforzeschi, andando al suo cammino racquistò a la Chiesa tutte le terre che sono tra Fermo e Ascoli per via: passato il Tronto, recuperò Teramo e Civitella, che il conte Francesco Sforza li aveva tolto in Abruzzo. Poi distribuite le stanze a le sue genti, e lasciato a lor governo e de le terre di Abruzzo Giovan Antonio conte di Tagliacozzo, Paolo da Sanguine e Iacobo da Mont’Agano, a Napoli con somma reputazione e gloria si ridusse; non mancando però di mandare sempre supplimento di gente ne la Marca, con tenerli ancora un’armata di otto galee, la quale stando al porto di Fermo tutta la riviera de la Marca scorreva, con mandarli ancora in diversi tempi Mannabarile, Cesare da Martinengo, Ramondo Boillo, Giovanni di Ventimiglia, che la impresa continuassino. Fece poi pace con li genovesi l’anno 1444 a di 7 di aprile, essendo lor duce Raffaele Adorno. Le condizioni furono, che le cose perdute fussino perdute e niuna de le parti potesse ricettare o dare aiuto a li inimici de l’altra, e i genovesi, sin che Alfonso vivesse, fussino obbligati darli e portarli a Napoli un bacile d’oro per onoranza. La qual pace però non fu lunga, perché non volendo Alfonso accettare quel bacile se non a di e a loco determinato, ove Alfonso invitati tutti li baroni a la corte e il popolo, aspettandolo in sedia regale, quasi ad un spettacolo trionfale lo riceveva, a tanta indignazione si commosseno i genovesi, che innanzi passassino quattro anni, non volseno mandarli piú il bacile, e durante il nome di pace di rubarsi per mare l’un l’altro non cessorono. Appresso questo, Antonio marchese di Cotrone, per paterna origine di casa Centiglia e per materna di Ventimiglia, il quale per amor di Alfonso molte gran cose aveva fatto in Puglia e in Calabria, essendo venuto a Fonte di Popolo appresso a Teano con trecento cavalli, ove era ordinato che tutti li baroni del regno convenissino, fu accusato ad Alfonso che volea ammazzare uno de li principali suoi cortigiani. Il perché furtivamente levatosi, a Catanzano sua terra si ridusse, ove cominciò a suscitare le discordie giá sopite del reame e concitare non solamente li baroni a pigliar l’arme contra il re, ma veneziani e tutti li altri potentati con lettere e oratori sollecitando a nuova guerra condurre. Ma tutto fu indarno, però che andandoli addosso il re con l’esercito, li tolse Cotrone e tutto il suo stato, e lui assediò in Catanzano, in modo che fu forza che a discrezione senza alcun patto si rendesse; e a Giovanni da la Noce lombardo, il quale consiglierò e suasore li era stato de la rebellione, tutte le terre le quali tenea li levò e a fuggire fuor del reame lo strinse.
Mentre era a questa impresa Alfonso, Iosia d’Acquaviva e il popolo di Teramo si rebellorno, chiamando li sforzeschi. Il conte Francesco Sforza li mandò Antonio da Triulzi e Sebastiano da Canossa, i quali al primo impeto ruppeno li aragonesi, che incontra per ovviarli erano venuti; ma non molto poi rebellatosi Ascoli de la Marca al conte Francesco, e venendoli il Ventimiglia mandato dal re, tutti li sforzeschi fuggirono e si ridusseno a Fermo, e Iosia in somma disperazione del suo stato lasciorono. Né cessorno le genti d’Alfonso insieme con quelle de la Chiesa, che tutta la Marca, eccetto lesi ch’era a’ sforzeschi ritornata, in breve tempo non togliessino al conte.
Perseverando poi le gran guerre che furono tra veneziani e Filippo in Lombardia, conducendo Filippo il conte Francesco, che stava a Pesaro, a’ suoi stipendi, non avendo da darli denari per esser molto gravato da spese e oppresso da li inimici, ricorse ad Alfonso per aiuto, essendo giá morto Eugenio IV e creato successore Nicolò V. Alfonso grato de’ beneficii e cortesia da Filippo ricevuti, in tre modi li porse sussidio, pigliando ancora in questo occasione di servar tutto quello che avea promesso per la Chiesa ad Eugenio: prima fece che il conte restituí Iesi, la qual sola terra tenea ne la Marca, e per questo li fece numerare trentacinque mila ducati, acciò che potesse andare al soccorso di Filippo; e in Lombardia mandò Ramondo Boillo con le genti sue e Cesare da Martinengo, il quale però seguitando la fortuna, a la parte de’ veneziani se ne andò; ultimamente ne l’anno 1447 lui in persona andò a Capua e a Gaeta e di li a Tibure, ove un potente esercito preparò per romper guerra in Toscana contra fiorentini collegati co’ veneziani a l’eccidio di Filippo. Essendo il re a Tibure, li scrisse il duca che subito li mandasse un suo fidatissimo a parlargli: Alfonso li mandò Lodovico Poggio, chiamato vulgarmente frate Puccio, uomo da lui in cose ardue molto esercitato. Il duca che giá cominciava a sentirsi indisposto del corpo, fece intendere a frate Puccio che desiderava dare ad Alfonso tutto il suo stato in mano, e prima volea consegnare a Ramondo Boillo, che si trovava in Lombardia, tutte le entrate e tutte le rocche, eccetto quelle di Pavia e di porta Giobia di Milano, le quali voleva di sua mano in persona consegnare ad Alfonso; e che subito facesse intendere queste cose al re. Frate Puccio volando tornò a Tibure: il re intesa la disposizione di Filippo, si dolse oltra modo che tanto principe, il qual lui chiamava padre, a tanta necessitá per oppressione de’ veneziani fusse venuto, che pensasse renunciare il stato ad altri. Onde rimandò frate Puccio a Milano, imponendoli che confortasse Filippo a star di buona voglia, che presto veneria al suo sussidio in Lombardia e non per speranza né per volontá del suo stato, ma per amore e per debito de li benefici ricevuti lo difenderla da la rabbia veneziana: e per questo attendesse a pensare di avere a distribuire in altri lo stato de’ veneziani e non di renunciare e privarsi del suo proprio. In quel mezzo che frate Puccio tornava a Milano, il duca da la febre e dissenteria gravato a’ 13 di agosto di questa vita passò, avendo prima suo erede universale instituito Alfonso: cosi dopo la sua morte fu consegnato il Castel di porta Giobia per sua ordinazione a Ra mondo, il quale, convocati a sé tutti li condottieri che erano stati del duca, Guidantonio da Faenza, Carlo da Gonzaga, Luigi Dal Vermo e li figliuoli di Luigi San Severino, tolse da loro la fede di seguire e conservare la parte del re Alfonso. Li quali data la fede, e veduto poi che ’l popolo di Milano tendeva a la libertá, con esso fra pochi di si concordorono, c dimenticata la fede data, miseno a sacco le genti d’arme e la robba di Ramondo, la quale era nel monasterio di Santo Ambrosio. Il popolo poi con pochi denari ebbe la rocca grande; quelli de la rocca picciola resistetteno alquanto, poi persuasi dal popolo che Alfonso non era per soccorrerli, diviseno tra loro diciasette mila ducati, che ne li forzieri di Filippo avevano trovato e la rocca renderono. Avute ambedue le rocche i milanesi da’ fondamenti le ruinorono.
Non volse però Alfonso lasciare l’impresa contra i fiorentini, per la quale a Tibure era venuto; ma passato prima in Sabina e fatto magnificentissime esequie con ogni specie di onore a la memoria di Filippo, cavalcò nel territorio di Siena e fece gravissimi danni a’ fiorentini saccheggiando e bruciando Ripa Marancia nel territorio di Volterra e occupando tutte le castelle di un lor paese detto la Gherardesca e Castiglion di Pescara.
I fiorentini non provveduti per prima condusseno a’ loro stipendi Federico conte di Urbino e Sigismondo Malatesta signore di Arimino, con li quali al meglio potetteno per quello inverno si difeseno. Al crescer de l’erbe poi ne l’anno sequente 1448, andò Alfonso a campo a Piombino, e benché per mare rompesse l’armata de’ fiorentini e li avesse tolta l’isola del Giglio, nondimeno in modo con l’aiuto loro si difese Piombino, che con l’esercito infermato per l’aere e quasi disfatto si levò, e lui per mare e l’esercito per terra con difficoltá nel regno si ridusse. Ma morto non molto poi Rinaldo Ursino signor di Piombino, Caterina sua donna temendo che il re sopra sé non si voltasse, impetrò da lui pace e se li fece tributaria di una coppa d’oro di cinquecento ducati di valore ogni anno mentre Alfonso vivesse: il qual censo sempre a8o istorie del regno di napoli fu pagato ancor poi da Emanuel d’Appiano, che nel stato di Piombino a Caterina successe. Mandorono poi i fiorentini solenni oratori ad Alfonso, i quali a Sulmona con ogni reverenza dimandando la pace, facilmente la impetrorono, con condizione però che l’isola del Giglio e Castiglione di Pescara ad Alfonso rimanessino.
Non lasciò ancora Alfonso in quel tempo di porgere aiuto a la libertá di Milano, la quale, essendo lui in Toscana ad Acquaviva in Maremma, li mandò oratori per sussidio, si per rispetto del conte Francesco Sforza, come per odio de li capitani di Filippo, che Ramondo Boillo si male avevano trattato; e benché li aiuti i quali mandò sortissino effetti non buoni, per esser forse cosi determinato di sopra che ’1 ducato di Milano pervenisse al conte Francesco, si come il regno di Napoli al re Alfonso, nondimeno sempre mantenne a quell’effetto de’suoi denari il conte Iacopo e Francesco Picinini. E a li danni di Parma, contra il conte e Alessandro suo fratello, che ’l Parmigiano guardava, mandò a favore di Niccolò Guerriero, giá figliuolo di Ottobon III tiranno di Parma, inimico de’ sforzeschi, ottocento fanti a Guardasone, castello di Parma, e condusse Astor da Faenza con mille e cinquecento cavalli, il quale mandò in Lombardia; e veduto che Astore, non servando la fede per denari avuti dal conte Francesco, si era tornato a Faenza, mandò dappo’ lui Raimondo Anichino con cinquecento cavalli a Colorno, dove da Alessandro Sforza fu rotto.
Dappoi la sua tornata di Toscana, essendo stato incoronato in Roma Federico III imperatore e avendo con sé Eleanora sua donna, figliuola del re di Portogallo e di Giovanna sorella di Alfonso, la quale ad un medesimo tempo era venuta in Italia, andorono insieme a Napoli, ove con splendore e magnificenza piú che umana furono da Alfonso ricevuti, e per molti di che li stetteno, inestimabili doni li furono fatti. Niuna specie di lioeralitá e cortesia li mancò: furono fatte fontane di vino per la terra, furono date senza denari a li alemanni tutte le cose che da mercadanti o da artefici volseno comprare, li prezzi de le quali Alfonso poi liberalmente a li venditori pagò. Lungo saria a scrivere la magnificenza de le giostre, de l’armeggiare e de le danze e lo apparato de la terra e de li uomini: scrivono in somma li.autori che in quel tempo vi si trovorno, che lingua alcuna di qualunque benché facondo e celebre oratore non potria degnamente descrivere in quanti modi la magnanimitá di Alfonso in quella celebritá si dimonstrasse, non avendo Federico però fama di virtú, che imperiale o regale fusse, ne la sua partita lasciato. Succedendo poi che, essendo giá fatto il conte Francesco Sforza duca di Milano, i veneziani per alcune dissensioni nate percausa di mercanzie (per quanto loro diceano), ma piú presto (come è il vero) per non aver voluto i fiorentini legarsi con loro a l’eccidio del nuovo duca di Milano, cacciorno per pubblico editto da Venezia e da l’altre lor terre i fiorentini, un’altra gran guerra si suscitò in Italia. Però che i fiorentini per vendicarsi de l’iniuria tanto operorno (essendo capo di questa loro impresa Cosmo de’ Medici), che indusseno il duca di Milano a muovere guerra di nuovo insieme con loro a’ veneziani; per la qual cosa i veneziani col re Alfonso si legorono, per opera massimamente di Lionello d’Este marchese di Ferrara, ordinando tra l’altre provvisioni che Alfonso battesse i fiorentini, i quali naturalmente odiava, e loro il duca di Milano, in modo che l’un l’altro soccorrere non potesse. Alfonso che virilmente e con somma fede l’impresa prendea, condusse a’ suoi stipendi Guglielmo di Monferrato con quattro mila cavalli e dua mila fanti, acciò che nel territorio di Alessandria al duca movesse guerra, pagando comunemente co’ veneziani di buon stipendio Manfredo e Giberto da Correggio, valorosi uomini in arte militare, i quali nel Parmigiano dui anni continui contro il duca guerreggiorono. Mandò poi ne l’anno 1452 Fernando suo figliuolo con esercito di sei mila cavalli e dua mila fanti, e con lui Napolione Ursino e il conte Everso da l’Anguillara e Federico conte di Urbino, contra fiorentini in Toscana: il quale il territorio di Cortona e d’Arezzo predò e prese Foiano terra grossa per forza e ruppe Astor da Faenza, il qual fu primo che in aiuto de’fiorentini corresse;. dappoi espugnate alcune picciole castelle, a le stanze ad Acquaviva in Maremma si ridusse, avendo Antonio Olzina, capitano de l’armata di Alfonso, preso Vada nel territorio di Volterra sopra la marina, e fortificatola, dal qual loco i fiorentini gran molestia e danno ricevetteno. In quel tempo venne in Italia a l’aiuto del duca e de’ fiorentini Renato duca d’Angiò, invitato da speranza di poter concitare (finite le guerre lombarde) nuovi movimenti nel reame di Napoli. E per esserli stati ad instanza de’ veneziani serrati li passi de l’Alpe dal duca di Savoia e dal marchese di Monferrato, la persona sua con due galee per Genova entrò in Italia; e l’esercito Suo condusse sino in Asti Luigi delfin di Vienna, che fu poi Luigi XI re di Francia, per odio portava a’ veneziani e particolare intelligenza e amicizia aveva con il duca Francesco. Stette in Lombardia Renato tre mesi con li suoi, e senza aver fatto alcuna memorabil prova di loro, senza alcuna cagione per un subito appetito si parti di Italia, lasciando nome di impetuosa e instabile nazione e inutile a grandi imprese.
Partito Renato, e giá stracche le parti de la guerra, e non senza carico de’ cristiani essendo stata l’anno innanzi occupata da’ turchi la cittá di Constantinopoli, per un frate Simone da Camerino de l’ordine de li eremitani di Sant’Augustino, domestico del duca, uomo non di molta dottrina ma di molta caritá, la pace tra fiorentini, veneziani e duca di Milano tacitamente fu conclusa, senza partecipazione e saputa di Alfonso, a’ di 9 di aprile 1454. Alfonso però, come quello che piú la utilitá e piacere de li amici, che li vani onori estimava, ancor che in sul principio monstrasse qualche poca indignazione per non esser stato al trattato di tal pace richiesto, nondimeno non molto poi la confermò e Fernando suo figliuolo con l’esercito fece di Toscana nel reame tornare. L’anno sequente poi Nicolò pontefice mandò il cardinale di Fermo legato, e con lui veneziani, duca di Milano e fiorentini mandorono degnissime legazioni a Napoli per conclu dere generai lega d’Italia; cosi a la presenza del re Alfonso e con sua autoritá, la pace di nuovo fu confermata e lega generale per venticinque anni conclusa. Da la quale ad instanza del re rimaseno esclusi genovesi, Sigismondo Malatesta, Astore da Faenza, e volse per capitoli poterli punire e che niuno dei collegati li potesse soccorrere: i genovesi, perché pretendeva non avessino servata la pace; Sigismondo, perché avuti denari e condotto con mille e ottocento cavalli c seicento fanti, mandato in Toscana, si rebellò e condussesi co’ fiorentini; Astore, perché mandato contra Parma (come è detto), fuggendosi col soldo a casa si ridusse.
Dipoi non avendo mai Alfonso troppo amato il duca Francesco, veduta in fine la virtú e potenza sua, e che Giovanni detto duca di Calabria, figliuolo di Renato, poi la tornata del padre in Provenza, era venuto a Fiorenza in loco del padre e praticava cose assai contra lui e la quiete d’Italia, deliberò conciliarselo e fare con lui parentado. Il perché promise il duca Ippolita Maria sua figliuola ad Alfonso, primogenito di Fernando figliuolo del re, e il re Alfonso Eleanora figliuola di Fernando promise a Sforza Maria, secondo figliuolo del duca: benché questo secondo parentado non avesse poi loco per la etá di Eleanora e per varie mutazioni che seguirno in Italia, per le quali Eleanora fu poi da Fernando suo padre data per donna ad Ercule marchese da Este, duca secondo di Ferrara, come a suo loco diremo.
Fatta la lega universale e particolarmente poi tra il re Alfonso e il duca Francesco con vincoli di parentela ristretta, essendo morto l’anno 1455 Nicolò V pontefice, Calisto III di casa Borgia, valenziano di Catalogna, al pontificato fu eletto, essendo stato prima molti anni del consiglio di Alfonso e per questo d’ogni sua condizione benissimo instrutto. Dimandandoli li oratori di Alfonso per sua parte in qual modo avessino insieme a vivere, rispose Calisto: — Regga lui il suo regno, e a me lasci reggere il mio papato. — Onde, benché molti stimassino che tra loro fusse simulata inimicizia, nondimeno in molti modi apparse poi loro essere veri inimici, riferendosi comunemente la colpa in Calisto piu presto che in Alfonso, per il naturai de’ preti: questo fu certo indizio de l’animo di Calisto, che udita la morte di Alfonso, alzando li occhi al cielo, allegramente disse: — Laqueus contritus est, et nos liberati sumus. — E in un subito per patenti bolle Fernando suo figliuolo del regno di Napoli privò, si come nel processo piú diffusamente diremo.
Dappoi queste leghe e la creazione di Calisto, il conte Iacopo Picinino e il signor Matteo da Capua con molti altri, i quali senza soldo si trovavano, fatta insieme compagnia, ne l’anno 1456 passorono a’ danni de’ senesi: ove avendo fatte molte poche cose, cacciati da le genti veneziane e sforzesche mandate a favore de’ senesi, a Castiglion di Pescara si ridusseno e in quel loco assediati e combattuti, né potendo esser vinti, furono costretti mangiare piú giorni prugnuoli e corniole non mature. Preseno però per prodizione Orbitello, ove con certa vittuaglia si sostentorono fin che da Alfonso furono sovvenuti, il quale di denari li sovvenne e di vittuaglia per via di mare, e tentò le potenze de la lega, che comunemente li dessino cento mila ducati di soldo, come cosa espediente a la pace e tranquillitá di Italia. Non essendo da alcuna potenza accettata tal pratica, il re fece che ’1 Picinino tutte le terre a’ senesi restituí, e lui nel suo regno ricevette e a sue spese lo tenne.
Un caso avverso per natura degno di memoria convien ch’ io narri in questo loco, simile al quale mai non ebbe il reame, se bene da filosofi naturali sia scritto che Campania ovvero Terra di Lavoro di simile calamitá mai fu vacua. A’ di 5 di dicembre di notte in questo medesimo anno 1456 cominciorno a sentirsi terremoti in diversi lochi del regno, i quali tutti li di sequenti del mese non senza gran paura d’ogni uomo in diverse ore lentamente continuorno: ultimamente il trentesimo di del mese circa la XVI ora un terremoto venne si grande, che di niuno maggiore alcuna memoria si trova. Però che cominciando a Napoli, per Terra di Lavoro, per Abruzzo e per Puglia con grande eccidio di uomini per molte terre e castelle fece notabili mine di molti edifici pubblici e privati, e alcune castelle tutte da’ fondamenti ruinorono, alcune andorono sotto terra quasi come sorbite, alcuna, come Bojano, andata tutta sotto, sopra di sé lasciò un lago; onde, fatto il calcolo a loco per loco de li uomini che in tal strage mancorono, per quanto Pio II pontefice ne la Istoria de’ suoi tempi e Antonino arcivescovo ne le sue Croniche descrivono, trenta mila uomini vi morirono: acerbissimo caso e stupendo, appresso l’altre eversioni da quel regno per le continue guerre sostenute.
L’anno sequente poi, del mese di novembre, mandò Alfonso per via di Abruzzo il conte Iacopo Picinino contra Sigismondo Malatesta, escluso da la lega generale (come è giá detto). Il Picinino, col favore ancora di Federico conte di Urbino, prese alcuni pochi castelli di Sigismondo di qua dal Metro fiume di Fano, e non potendo farli altro per li lochi forti e ben guardati, senza farli piú danno lo lasciò. Nel medesimo anno una nave genovese, la quale carca tornava da Scio e andava a Genova, fu presa e rubata da aragonesi. Per la qual cosa i genovesi mandorono Giovanni Filippo del Fiesco con quattro grandissime navi nel porto di Napoli per bruciare l’armata del re; ma essendo difesa e loro ributtati da l’impeto de le artigliarie napolitane e de le navi, partirono. Non molto poi l’armata del re seguitando sei navi genovesi, a Monte Circelli le giunse, et essendo li uomini fuggiti, tutta la robba guadagnorno e le navi sommerseno. Fu da tutta Italia trattata la pace tra loro, né si poterono però mai li genovesi col re concordare.
Vólto adunque Alfonso naturalmente a l’impresa contra genovesi, essendo instigato da molti usciti di Genova, ancora piú ardentemente la prese, né potendo Pierino Fregoso in modo alcuno mitigar l’ira del re, se non deponea la dignitá del ducato di Genova e restituivala a li Adorni, né trovando soccorso alcuno in Italia, ancor che da molti lo dimandasse, in fine a Carlo VII re di Francia per sussidio si ridusse, donandoli Genova e promettendoli di farlo signore. Carlo mandò subito a Genova Giovanni figliuolo di Renato, il quale entrato ne la terra e ben veduto, ne ebbe il dominio libero insieme col Castelletto e tutte le altre fortezze; e ben riparato il porto con travature e catene contra l’armata di Alfonso, col consiglio e aiuto di Pierino a la custodia de la terra attendeva. Alfonso venti navi ben fornite e dieci galeazze, le quali aveva in Portofino sotto Bernardo Villamarina suo capitano, le fece stare in áncora poco lontano a l’incontra del porto di Genova, e ingrossò l’esercito da terra sotto Palermo napolitano; e avendo in questo modo aspramente cominciato a stringere l’assedio di Genova, era comune opinione che da la vittoria molto lontano non fusse, se l’ultimo fine de le cose umane sopraggiunto non fusse. Imperocché infermato da febre circa il fine di giugno, né pretermettendo per questo tutte le provvisioni necessarie a la impresa, al fin vinto da la infermitá, il primo di di luglio, benché dicono alcuni a’ 27 di giugno, ne l’anno 1458 fini sua vita, l’anno LXVI de la etá sua, avendone regnato nel reame di Napoli ventidui: lasciando successori dappo’ sé, ne li regni di Aragona e di Sicilia don Giovanni suo fratello, e nel regno di Napoli suo figliuolo Fernando.
Merita la eccellente virtú di tanto re, poi che di lui le cose pertinenti a l’intento nostro del regno napolitano abbiamo trascorso, che un breve epilogo de la sua vita facciamo, per il quale quelli che queste nostre cose leggeranno possino intendere Alfonso I non di un sol regno di Napoli, ma di molti regni esser stato degnissimo, e li regni da lui posseduti esser stati di gran lunga minori che ’l suo possessore.
Atanarico, re de li goti occidentali detti viscigoti, esser stato primo autore de li regni di Spagna e de la famiglia che oggi quelli regni possiede, per consenso di tutti li istorici è notissimo. Giovanni, primo di questo nome re di Castiglia, ottuagesimo re dappo’ Atanarico, cominciò a regnare ne li anni del Signore 1379, e di Eleanora, figliuola di Piero re di Aragona, ebbe dui soli figliuoli, Enrico e Fernando, i quali, per suoi eccellenti costumi, furono detti in quelli tempi dui lumi nari del mondo. Enrico si come primogenito successe al padre nel regno di Castiglia, chiamato Enrico III. Fernando, essendo vacato il regno di Aragona per la morte di Martino vecchio, il quale dappoi la morte di Martino giovine suo figliuolo era ancor lui mancato senza figliuoli, piuttosto per singoiar virtú e grazia che in tutta Ispagna aveva, che per prioritá di grado, fu con sommo favore e consenso creato ne l’anno 1412 re di quel regno sopra li altri competitori, i quali furono Lodovico II duca d’Angiò, per rispetto di Violante sua donna di casa d’Aragona, e Iacomo conte di Urgello e Federico bastardo di Martino giovine, molto amato e di indole tutta regale. Di questo Fernando adunque, prima che al regno di Aragona fusse promosso, e di Bianca contessa di Albucherche, figliuola di Sanzio suo consobrino nato per retta linea regale, nascette Alfonso primogenito, del quale scrivemo, e li altri suoi fratelli, de li quali al suo loco avemo fatto menzione. Ebbe dappoi la morte del padre (il quale pochi anni regnò) il regno di Aragona e di Valenza, di Sicilia, di Sardegna e di Maiorica e poi di Napoli, nel modo che avemo detto. Fu di statura mediocre, di corpo asciutto e leggiadro di volto, piú presso al color pallido che bruno, di occhi lustranti e lieto aspetto; il naso ebbe alquanto rilevato in mezzo e alquanto aquilino, si come a li re, secondo la opinione de’ persiani, pare che convenga, li capelli aveva negri per natura e portavali corti si, che l’orecchie non passavano. Era nel parlare breve, conciso, terso e sentenzioso: le sue risposte piacevoli, graziose e acute, avendo sempre molto rispetto a non lasciar partire alcuno da la sua presenza mal contento, in tanto che se di alcuna cosa era richiesto, che a lui non paresse doverla concedere, piú presto qualche dilazione interponeva, che apertamente negasse.
Fu religiosissimo, e circa il divin culto e le cerimonie e rappresentazioni cristiane assiduo e diligente, non pretermettendo cosa alcuna che a l’ornato e frequenza del sacrificio pertinesse, e a quello in tanto attento stava, che una volta movendosi per un gran terremoto pericolosissimamente il tempio nel quale lui a la messa si trovava, fuggendo ogni uomo la ruina, lui stette immobile; e volendo il sacerdote per paura levarsi da l’altare, lo fece star forte e volse che ’l sacrificio continuasse. Onde poi dimandato per qual cagione in tanto pericolo la sua persona non si era mossa, gravemente rispose quella sentenza di Salomone nel suo Ecclesiaste: Corda reguvi in manti Dei sunt. Ebbe ancora per usanza accompagnare umilmente e con gran reverenza a piede la Eucaristia in qualunque loco ei si trovasse, che per la terra la fusse portata. Fu temperato nel vivere, e massimamente circa l’uso del vino, il quale o non beveva o con molta acqua domava. Amava la bellezza, la quale lui diceva esser argomento di buoni costumi, si come il fiore è argomento del frutto, niuna iniuria per questo a la debita modestia facendo. Liberalissimo fu in donare, facendo profusissime spese, in modo che, sentendo un di ricordare che Tito imperatore era usato di dire che quel di che non aveva donato qualche cosa, li pareva averlo perduto, Alfonso ringraziò Dio, dicendo che per questo capo mai aveva un di de la sua vita perduto. Grandissima magnificenza di onoranze e di spese usava inverso li principi e le legazioni che a la sua corte andavano. Mal volontieri dava sentenza di morte di uomini, et essendo giustissimo, mai di sangue umano si dilettò: li uomini flagiziosi e scellerati e malandrini, avendoli in sommo odio, a li ministri di giustizia e propri magistrati lasciava, i quali con tanto rigore al suo tempo la giustizia servarono, che per tutto il regno, contra la corruttela de’ tempi passati, securissimamente e le persone e le robbe passavano. Era ne le battaglie aspro e terribile, ma finita la pugna o la vittoria, mitissimo e umano, d’ogni iniuria dimenticato, come se mai stata non fusse. Et ebbe per donna Maria sua consobrina, figliuola giá di Enrico III e sorella di Giovanni II re di Castiglia, la quale fu donna di rarissimo esempio, detta al suo tempo specchio di giustizia e di pudicizia e di pietá; mai però fu in Italia, né generò di sé figliuoli. Era Alfonso ne l’apparato e ornamenti di casa e di sua corte splendidissimo, con paramenti e cortinaggi di ricami e di seta e vasellamenti d’oro e di argento in quantitá incredibile: vago di gemme e pietre preziose, le quali da tutto il mondo in somma perfezione raccolse. E benché in tutte queste cose fusse suntuosissimo, la persona sua però raro o non mai di preziosissime o inusitate vesti adornava, sapendo non esser li ornamenti esteriori del corpo quelli che fanno li re differenti da li altri. Giostre e spettacoli pubblici d’arme con gran magnificenza sempre in sua corte e ne la terra volse si celebrassino. Edificò in molti lochi; ma de li piú famosi è il Castel nuovo, il quale a quella forma et eleganza e grandezza ridusse che oggi si vede, e il Castel de l’Ovo che essendo fortissimo di sito, lui per regale abitazione ancora fé’ comodissimo. Ampliò il molo del porto di Napoli; disseccò le paludi, che intorno erano a la cittá e l’aere insalubre facevano. Edificò navi di inusitata grandezza, le quali in mare non navigli, ma castelli e cittá parevano. La caccia de’ cani e sopra tutto l’uccellare con falconi sommamente li piacque e in quello esercizio gran parte de la vita spassava.
Essendo bellicoso e avidissimo di gloria, e per questo inimicissimo de l’ozio, in quel tempo che stette assente dal regno di Napoli per le cose che tra lui e la regina Giovanna successeno, fece due imprese per mare contra infedeli in Barbaria, pigliando in prima l’isola di Zerbi, detta anticamente de’ Lotofagi, la quale essendo congiunta per ponte a terra ferma, lui tagliò il ponte per tòrle la via del soccorso; et edificò un munitissimo bastione sul lito, et essendo assaltato da Butiferro re di Tunisi con centomila mori, fece fatto d’arme con lui e ruppelo: ne la qual rotta tutti li suoi principali uomini furono morti e Butiferro, quasi preso, a pena fuggendo si salvò. Per la qual cosa, presa l’isola, Butiferro se li fece tributario e di poi per molti anni il tributo li pagò. Tornato con grandissima preda in Sicilia e refrescata l’armata, andò di nuovo in Barbaria ad una cittá chiamata dal nome de la provincia Africa, e veduto il sito e condizione di essa, con intenzione di tornarvi, tutto il porto spogliò di navi e di ogni cosa che intorno li era, e in Sicilia e poi ad Ischia carco di spoglie tornò. Altre spedizioni ancora mandò fuora di Italia, dappoi che ebbe il regno di Napoli pacifico; imperocché ne le marine de l’Arta, detta anticamente Epiro, mandò Bernardo Villamarina a bruciare L’armata veneziana sua inimica, e tutta fu arsa in vendetta di una nave, la quale i veneziani nel porto di Siracusa in Sicilia li avevano bruciata. E al sussidio de’ fedeli contra turchi mandò genti d’arme, le quali in ogni impresa furono vittoriose. Imperocché essendo assediato da turchi il signore del despotato giá detto Acarnania, il quale avea per donna una figliuola di Giovanni di Ventimiglia, li mandò in aiuto Giovanni con armata e con cavalli: il quale, passato lo Ionio, assaltò il campo de’ turchi e fatto di loro una grande e memorabile occisione, liberò de l’assedio il despoto. Dappoi in aiuto di Scanderbech, figliuolo di Camusa signore de li albanesi, uomo valorosissimo, mandò genti d’arme contra i turchi, le quali per forza presono Croia e a nome di Alfonso contra turchi la difeseno; e un nepote di Scanderbech, che contra lui seguitava la parte de’ turchi, lo preseno e mandorono a Napoli prigione. Né mancò mai Alfonso, sin che visse, che contra infedeli aiuto di uomini e di denari sempre liberamente al bisogno non désse.
Fu amicissimo a lo studio de le lettere, e diceva lui che leggendo una volta un proemio fatto da uno che avea tradotto il libro di Angustino De la Cittá di Dio in lingua spagnuola, vi trovò questa sentenza, * che il re non letterato era un asino coronato *: la quale autoritá tanto li entrò nel cuore, che deliberò dare opera a le lettere, ancor che piú oltra fusse che fanciullo. E maravigliosa cosa è a pensare, come in tante agitazioni e perturbazioni di guerre e varietá di fortuna qual ebbe, e tra tanti negozi quanti a li gran signori occorrono, mai intromise il leggere, mai l’udir disputare, mai il confabulare de le lettere, mai lasciò la dottrina né lo studio; in modo che ancora ne li ultimi suoi anni, un vecchio gramatico che aveva, chiamato maestro Martino, mai volse che da sé partisse, anzi seco in ogni esercizio e stando e cavalcando (ancor nel mezzo de le occupazioni) lo menava, sempre di lettere con lui conferendo. E in tanta perfezione ne venne, che le Epistole di Seneca, opera a moral filosofia pertinente e difficile, in lingua spagnuola tradusse, acciò che a tutta quella nazione la scienza e i precetti di tanto autore fussino noti. Di tutte le istorie ebbe ottima cognizione, né poca notizia ebbe ancora di oratori e di poeti; le conclusioni di filosofia naturale li furono notissime. Tanto li piacque teologia, che lui molte volte si gloriò aver letto quattordici volte il Testamento vecchio e nuovo, con tutte le glosse e commenti, in modo che non solo le sentenze, ma spesse volte le parole proprie del testo riferiva; e de le piú ardue e difficili questioni che da’ teologi si trattano, come de la prescienza di Dio, del libero arbitrio, de la Trinitá, de la incarnazione del Verbo, del sacramento de la Eucaristia, se qualche volta era dimandato, subito e gravemente e da teologo rispondeva, se bene in lingua latina poche volte parlasse. Per amor singulare portava a le dottrine, e per denotare che la cognizione de le lettere massimamente a li principi conveniva, per insegna portava un libro aperto; et era usato di dire che migliori consiglieri non aveva che li morti, intendendo de’ libri, però che quelli senza paura o vergogna o grazia o alcun rispetto quello aveva a fare li diinonstravano: e di tutte le prede e direpzioni de le cittá, niuna cosa li era con piú studio portata, né da lui con piú grazia ricevuta, che li libri. Per questo in molti lochi fece riparare e ornare li auditorii e le scuole pubbliche e a molti poveri studiosi constitui provvisioni, e spesso ancor fuor‘ del regno, acciò che potessino studiare. E udendo una volta che un certo re di Spagna diceva non convenire a generosi principi l’essere litterati, rispose quella essere parola di un bue, e non di un re. Onde meritamente Giovanni da Isara, uomo di acutissimo giudizio, dir solea che se Alfonso non fusse stato re, per ogni modo saria stato ottimo filosofo. In ogni sua spedizione e viaggio sempre con sé portava Tito Livio e li Commentari di Iulio Cesare, li quali mai appena lasciò di che non li leggesse, e spesso di se medesimo diceva che lui a se medesimo parea ne le cose militari e nel maneggiar de le guerre a rispetto di Cesare essere inertissimo e rozzo. E in tanto amò il nome di Cesare, che le medaglie e le monete antiche, ove la sua effigie era scolpita, per tutta Italia faceva ricercare, e quelle come cosa sacra e religiosa in una ornata cassetta tenea, dicendo che solamente a mirarle a lui parea che a l’amor de la virtú e de la gloria si infiammasse. Ebbe ne la sua corte uomini d’ogni facultá litteratissimi, iurisconsulti, filosofi, teologi, li quali tutti di salari, di doni, di beneficii e di favore augumentava: tra i quali alcuni, in oratoria e studi di umanitá dottissimi, ebbe in famigliare conversazione e domestica, come Bartolomeo Facio, che ebbe stilo piano e soave nel scrivere e compose alcuna istoria laudata da molti che l’hanno veduta; Giorgio Trebisonda, che in traduzioni di greco in latino si esercitava; Lorenzo Valla romano, che scrisse il libro De la eleganza Ialina ; Giovanni Aurispa siciliano, che molte epistole e opuscoli morali elegantemente scritti lasciò; Antonio cognominato Panormita bolognese, uomo di ameno ingegno, che scrisse versi dolci e festivi e un picciolo libretto de li detti di Alfonso. Uomini di gran valore in arte militare, e per nobiltá di sangue e per grandezza d’animo e per desteritá d’ingegno attissimi ad ogni impresa, ne ebbe in gran copia in sua corte; imperocché da lui erano ben veduti, onorati e premiati. Ebbe tra li altri dui cavalieri, Ercule e Sigismondo, fratelli marchesi da Este, vetustissimo sangue in Italia, uomini cortesi e animosi, che ne l’arme e ogni altra opera cavalleresca a niuno cedevano: de li quali Ercule fu poi capitano d’arme e duca di Ferrara e di Modena e di Reggio, e ancor vive, uomo di eccellente prudenza e virtú, vera imagine d’Alfonso, del quale in questo libro a suo loco e in altre scritture piú particolare menzione faremo. Vi furono ancora in quelli tempi don Lupo Ximena de Urrea aragonese, viceré di Sicilia e del regno di Napoli in assenza di Alfonso, messer Innico gran siniscalco, don Innico d’Avalos conte camerlengo, messer Encoriglia conte di Consentaina, messer Ramondo Boillo valenziani, don Alfonso di Cardona conte di Regio, don An tonio di Cardona conte di Colisano, messer Teseo capuano, e molti altri uomini prestantissimi, oltra li nominati di sopra nel discorso de l’istoria; senza dire che ingegneri, scultori, architetti, navigatori e tutti li meccanici che di qualche prestanza fussino, ne la sua corte abbondavano, però che tutti come a un asilo e ad un tempio de l’aureo secolo correano. Per le quali cose appare quel re essere stato virtuosissimo, avendo appresso di sé tenuto e sempre apprezzato uomini virtuosi, essendo naturale che chi non ama le arti, non ammira né onora li artefici di quelle. Con tante doti adunque di animo e di fortuna, lasciando ne li petti de li uomini amplissima memoria del suo valore con special titolo di magnanimitá, lasciò Alfonso la terra, avendo la natura con evidentissimi segni e prodigi (i quali li gran casi e mutazioni prevenir sogliono) e in terra e in cielo la sua morte dimonstrato: col terrore prima di terremoti e, l’anno che la morte precedette, con apparizione di molte comete, e una tra esse mirabile e paventosa, che grandissimo spazio de l’aere con un’ardente coda di fiamma occupava, e vòlta da oriente verso la parte del regno di Napoli, li suoi raggi spargeva.
Fernando, primo di questo nome, morto Alfonso suo padre, prese l’amministrazione del regno per ordinazione ultima sua e dispensazione di Eugenio IV, confermata da Nicolò V pontefice. Calisto III subito intesa la morte, il decimo di poi pronunciò per bolla il regno di Puglia per la morte di Alfonso essere vacato e devoluto a la Chiesa; e a Fernando comandò, sotto comminazione di escomunica, che lo dovesse rilasciare e non se li intromettere, assolvendo tutti li regnicoli da la obedienza sua. E questo faceva Calisto, per quanto allora la fama pubblica vulgava, non per rispetto de la utilitá ecclesiastica, la quale poco monstrano di curare li pontefici moderni, ma per investire di quel regno un suo nepote, ovvero figliuolo che’l fusse, chiamato Pierluigi Borgia, al quale ora il regno di Cipro e ora l’imperio di Constantinopoli prometteva, come cieco da la grande affezione li portava, e ridotto per l’etá decrepita quasi a pensieri puerili. Fernando, avuta la bolla de la sua privazione, al futuro concilio se n’appellò; ma la fortuna piú pronto rimedio li presentò a le molestie, le quali se li preparavano contra, però che ’l sequente mese Calisto, giá vecchio di ottanta anni, pochi giorni infermato, mori.
Non per questo però cessorono li movimenti nel reame, ma ritrovandosi in Italia e in Genova Giovanni detto duca di Calabria, figliuolo di Renato (come è detto di sopra), morto Alfonso, la parte angioina di quel regno tutta stava intenta a far tumulti e movimenti in ogni occasione che se li presentasse. E benché Francesco Sforza duca di Milano avesse mandato subito dui suoi oratori, Giovanni Caimo e Orfeo da Ricano, a li principi del reame a confortarli a perseverare ne la fede di Fernando nuovo re, e la maggior parte, o per amore o per forza, stessino quieti; nondimeno alcuni nobili, per odii antichi tra loro e per naturale affezione a la parte francese, stavano sollevati, e massimamente Giovanni Antonio principe di Taranto, il quale fu capo e autore, morto Alfonso, de la coniurazione de li baroni contra Fernando e di tutte le dissensioni del regno. Per le qual cose Fernando, con l’aiuto e consiglio del duca di Milano, ogni diligenza poneva in stabilirsi nel regno; e dubitandosi di Pio li senese, che nel pontificato a Calisto era successo, non volesse perseverare ne la impresa cominciata da Calisto contra Fernando, la fortuna offerse occasione allora al nuovo re e al duca di Milano di farselo benevolo, e non solo di rimuoverlo da la impresa, ma farlo fautore e adiutore de la parte di Fernando. Imperocché, avendo Calisto fatto duca di Spoleto e di tutta quella provincia de l’Umbria Pierluigi Borgia, un catalano che in custodia avea la rocca di Assisi, vedendo che per la morte di Calisto le cose del Borgia andavano in ruina, diffidandosi poterla tenere, la donò al conte Iacopo Picinino, il quale allora si ritrovava a li danni di Sigismondo Malatesta (come è detto). E il conte, avuto quella rocca, occupò ancora la cittá, e appresso quella, ancora Gualdo e Nocera terre di quel ducato, con intenzione di acquistarsi uno stato in quella provincia: il perché fu forza a Pio nuovo pontefice, che né denari né gente d’arme avea, ricorrere a l’aiuto del duca di Milano e di Fernando. Fernando mandò al conte Iacopo messer Antonio Negro da Pesaro e il duca mandò messer Tomaso Tebaldo da Bologna, loro legati, e tanto con l’autoritá de’ loro signori e con suasioni e con minacce operorno, che ’l conte Iacopo desistette da l’impresa e quelle tre terre restituí a la Chiesa.
Pio, vinto da questo beneficio e persuaso da li preghi del duca di Milano, con intenzione ancora di pacificare Italia per una impresa giá designata contra turchi, mandò messer Latino Orsino cardinale a Napoli e fece coronare Fernando di quel regno, con questa condizione, che restituisse a la Chiesa Benevento e Terracina, le quali suo padre Alfonso aveva tenute. E cosi fu fatto, e Fernando, come grato di questo beneficio, diede per donna una figliuola di una sua sorella ad Antonio de’ Piccolomini da Siena, nepote di Pio, e li donò il ducato d’Amalfi e il contado di Celano; e in questo modo per allora fu pacificata Italia.
Convocato poi da Pio e celebrato il concilio a Mantova, l’anno 1459, per la impresa contra turchi, determinato quello spettava al fatto de la religione, intendendosi pur da Genova che’l duca Giovanni di Calabria e di casa d’Angiò preparava tutte le cose opportune per la impresa del reame contra Fernando, fu concluso tra Pio e il duca di Milano, che fu presente al concilio, che in ogni modo si dovesse aiutare Fernando contra francesi e angioini.
In questo mezzo però non cessavano tumulti e molestie nel reame; imperocché Antonio Centiglia marchese di Cotrone, il quale (come avemo detto) vinto da Alfonso a Catanzano si era dato a discrezione, morto Alfonso aveva secretamente suscitato nuovi incendi in Calabria, et era uno di quelli che chiamava il duca Giovanni nel reame, e avea promesso darli recapito e darli la Calabria e aiutarlo ad acquistare il resto del regno. Ma Fernando andato in Calabria quella estate, lo debellò con poca fatica e fecelo prigione. Piero Fregoso in questo mezzo avendo in diversi tempi fatto dui insulti a Genova per recuperare il ducato contra il duca Giovanni d’Angiò e i francesi, e a la prima volta essendo stato ributtato, e a la seconda vinto e morto, e per questo essendo liberati i genovesi dal sospetto e paura de li loro fuor’ usciti, furono contenti non solamente che il duca Giovanni andasse a l’impresa del regno di Napoli, ma deliberorno aiutarlo. Cosi li armorono dieci galeazze e tre navi da portar cavalli e carriaggi pagate per tre mesi, e li détteno del Banco di S. Giorgio sessanta mila ducati. Aveva avuto Giovanni da Renato suo padre dodici galeazze armate in Marsilia e promissione che non ti mancaria di denari e che dal re di Francia ancora saria aiutato a l’impresa; onde essendo ogni cosa in punto, a’ 4 di ottobre ne l’anno 1459 entrò in galea e con tutta questa armata, de la quale era stato fatto ammiraglio Giovanni Cossa napolitano, arrivato a Luni, poi a Porto pisano, di li in tre di si ritrovò a Gaeta con intenzione di levarsi di li e andare in Calabria ne le terre di Antonio Centiglia marchese di Cotrone, che lo aveva chiamato. Ma inteso che l’era stato detenuto e fatto prigione da Fernando, fu sopra modo mal contento, estimando la sua impresa ruinata essendoli mancato quell’amico, a speranza del quale si era mosso a questa venuta nel regno. Per la qual cosa dubbioso di quello avesse a fare, andò prima a la foce di Volturno e poi a Baia, ove trovando ogni cosa munita e guardata da li inimici, pensò per carestia di vittuaglie ritornarsi a Genova. Ma fuora d’ogni suo credere e d’ogni sua speranza, Marino da Marzano duca di Sessa e principe di Rossano, che per moglie aveva Eleanora sorella di Fernando, essendo lo stato suo fra terra a l’incontro di Baia, se li mandò ad offerire di darseli, e fu il primo autore e capo de l’aperta rebellione del regno. Giovanni duca di Calabria da questa non sperata occasione rilevato, a tutti li capitoli di Marino consenti e a Castellamare di Volturno pose in terra l’esercito, e andò a Sessa: di donde scorrendo per li lochi vicini, tutta Terra di Lavoro mise in terrore. E Marino subito occupò Calvi, terra vicina a Capua, per non vi essere chi la guardasse. Intesa per il reame la rebellione di Marino duca di Sessa, e giá la guerra apertamente cominciata, incredibile fu la subita e gran mutazione de li regnicoli e la inclinazione de li animi a la parte angioina, imperocché quasi a vicenda un de l’altro li baroni, li principi e li popoli in un subito concorsene a Giovanni. E oltra il principe di Taranto, il quale era capo di tutti, ma ancora stava occulto e dissimulava tenere la parte di Fernando, Antonio Caldora, figliolo di Iacopo, con tutti li suoi consorti e congiunti, e che aveva le sue terre in Abruzzo, venne a ritrovare il duca Giovanni e detteli sé e li uomini e le terre, e il simile fece Pietro Giovanpaulo, duca di Sora: per la giunta de li quali, che ancora con Fernando aveano militato, Giovanni accrescette molto lo esercito suo e andò in Abruzzo, ove li aquilani subito se li détteno con tutti li loro castelli e raccomandati. Né molto poi il conte Cola da Campobasso fece il medesimo, perché dando sé e le terre a Giovanni d’Angiò, li venne a dare il passo e il transito per le terre sue d’andare in Puglia: ne la quale entrato e sollecitando a devozione quelle terre, che erano da la parte sua, passò in Puglia piana, la quale Ercule marchese da Este e Alfonso d’Avalos spagnuolo, detto volgarmente don Alonso, per Fernando tenevano.
Era stato Ercule gratissimo ad Alfonso re morto, si per la eccellente nobiltá de la casa antiquissima sopra le altre di Italia e per esser stato legittimo figliuolo di Nicolò marchese da Este e signore di Ferrara e molte altre terre in Lombardia, come anche per singular sua virtú e prodezza, la quale in ogni azione di animo e di corpo avea dimonstrato, cavallerescamente portandosi ne l’arme e in tutti li altri cortegianeschi e signorili portamenti. Ma poi la morte di Alfonso, si come accade ne le corti, e pare sia comune stile de’ successori, Fernando in molte occorrenze aveva dimonstrato non averlo in quella estimazione che ’l meritava e ne la quale da Alfonso suo padre era tenuto, trattandolo male di denari e suoi stipendi, né li osservando cosa che li avesse promesso: e tra le altre cose, sopportando che Alfonso d’Avalos, ovvero don Alonso, molto ineguale di condizione a lui, volesse non che equipararsi, ma attentasse di volerli essere superiore, per la qual cosa non ben contento, né in concordia con Alonso si stava in Puglia. Successe che mentre stava in questa mala contentezza di animo, Borso suo fratello, signore allora di Ferrara e grandissimo partigiano de’ francesi, occultamente lo strinse ad accostarsi a la parte angioina. Ercule sentendosi abbondare di ragioni contra Fernando, commosso poi da le esortazioni e stimoli di Borso, il quale, benché non fusse legittimo e li usurpasse lo stato di Ferrara a lui giá molt’anni prima debito, nondimeno avea in non piccolo rispetto, seguitando con prudenza il tempo, deliberò al tutto levarsi. Per la qual cosa uscito di Foggia con tutti li suoi, che circa seicento cavalli esser potevano, convocati tutti li uomini d’arme, li fece intendere non poter piú sopportare li portamenti di Fernando contra di lui, e per questo aver deliberato pigliare altro partito a li fatti suoi, per la qual cosa li significava esser ben contento che qualunque di loro non volesse seguitarlo andasse con buona grazia e licenza ove li paresse; se alcuni altri erano, che lo volessino seguitare, li accettaria di buona voglia: confortandoli ad esser valentuomini e portarsi virilmente, ché mai li mancaria. Era molto amato Ercule da li soldati, onde poi che ebbe parlato, alcuni pochi, che erano de le terre e del dominio di Fernando, si partirono, tutto il resto de la compagnia francamente li rispose loro esser disposti in ogni fortuna allegramente seguitarlo, e cosi rimaseno. Ercule con tutti loro andò a trovare il duca Giovanni d’Angiò e offerirli ogni sua opera e facultá, e fu da esso con somma letizia onoratamente ricevuto.
Per la partita di Ercule marchese da Este, li paesani, come liberati dal freno e paura che avevano di lui, diventorono angioini, e Luceria e Foggia e San Severo e Troia e Manfredonia e tutte le altre cittá e castelle di quella regione di buona voglia a Giovanni d’Angiò si détteno. Onde vedendo il principe di Taranto tanto e si mirabil corso di vittoria, non volse piú dissimulare la malevolenza che aveva contra Fernando; ma avendo sin da la morte di Alfonso adunato a poco a poco nel suo stato tre mila cavalli, fece di quelli dui capitani, Urso Ursino e Giulio d’Acquaviva, figliuolo di Iosia, e lui con questi capitani e altri baroni suoi vicini a sua persuasione da molte bande mossono guerra a Fernando.
Fernando ne la sua tornata di Calabria in Terra di Lavoro, intesa tanta e si subita rebellione, con gran difficoltá mèsse insieme quelle genti che aveva e andò a campo a Calvi, né potendo per la munizione del loco e per la stagione de l’inverno farli frutto alcuno, si levò da campo e tornò a Napoli, sforzandosi con ogni industria mantenere in fede quelli baroni che poteva; né fidandosi punto de la instabilitá de’ regnicoli, cominciò a praticare l’aiuto di altri potentati d’Italia. Pio pontefice e Francesco duca di Milano accettorono di essere a sussidio suo; i veneziani volseno star neutrali, e il medesimo feciono i fiorentini, da li quali però ottenne questo, mediante l’opera del duca di Milano, che revocorono una deliberazione fatta per loro pubblicamente di pagare ottanta mila ducati l’anno a Giovanni insino a guerra finita, e tutto per opera di Cosmo de Medici, il quale per non dispiacere al duca, fece per decreto pubblicamente determinare che anche loro neutrali in detta guerra si stessino...
E insino a qui si trova scritto de la istoria di Napoli del presente autore.