Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/35

CAPITOLO XXXV

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CAPITOLO XXXV.

Attila invade la Gallia. È rispinto da Ezio, e da' Visigoti. Invade, ed abbandona l'Italia. Morte d'Attila, di Ezio, e di Valentiniano III.

[A. 450] Marciano era di opinione, che fosse da evitarsi la guerra, finattantochè si poteva mantenere una sicura, ed onorevole pace; ma credeva altresì, che la pace non avrebbe mai potuto essere onorevole o sicura, se il Principe avesse dimostrato una pusillanime avversione alla guerra. Questo suo moderato coraggio gli dettò la risposta alle domande d’Attila, che insolentemente chiedeva il pagamento dell’annuo tributo. L’Imperatore fece sapere a’ Barbari, ch’essi non dovevano più insultare la Maestà di Roma col far menzione di tributi; ch’egli era disposto a premiare, con decente generosità, la fedele amicizia de’ suoi alleati; ma che se ardivano di violar la pubblica tranquillità, avrebbe loro fatto sentire, ch’esso aveva truppe, armi, e fermezza capace di rispingere i loro assalti. Usò l’istesso linguaggio nel campo stesso degli Unni Apollonio, [p. 411 modifica]suo ambasciatore, che arditamente ricusando di consegnare i presenti, finattantochè non fu ammesso alla personale udienza del Re, dimostrò un sentimento di dignità, ed un disprezzo del pericolo, che Attila non avrebbe mai aspettato da’ degenerati Romani1. Ei minacciò di gastigare l’ardito successor di Teodosio; ma stava dubbioso, se doveva prima rivolgere le invitte sue armi contro l’Impero d’Oriente, o d’Occidente. Mentre il Mondo sospeso aspettava con timore la sua decisione, egli mandò una ugual disfida sì alla Corte di Ravenna, che a quella di Costantinopoli; ed i suoi Ministri salutarono i due Imperatori con la stessa superba dichiarazione di questo tenore: „Attila, mio e tuo Signore, ti comanda di preparargli un palazzo per immediatamente riceverlo„2. Ma siccome il Barbaro disprezzava, o affettava di disprezzare i Romani Orientali, che tante volte avea superato, ben tosto dichiarò la sua risoluzione di sospendere quella facil conquista, finattantochè non avesse condotto a fine una più importante e gloriosa impresa. Nelle memorabili invasioni della Gallia e dell’Italia, gli Unni erano naturalmente attratti dalla ricchezza e dalla fertilità di quelle Province; ma non si possono rilevare i particolari motivi ed incitamenti d’Attila, che dallo stato dell’Impero occidentale sotto il regno di Valentiniano, o per parlare più esattamente, sotto l’amministrazione d’Ezio3. [p. 412 modifica]

Dopo la morte di Bonifazio suo rivale, si era Ezio prudentemente ritirato alle tende degli Unni; ed alla loro alleanza doveva la sua salvezza, ed il suo ristabilimento. Invece di prendere il supplichevole tuono d’un esule delinquente, domandava il perdono alla testa di sessantamila Barbari; e l’Imperatrice Placidia con una debole resistenza fece conoscere, che la sua condiscendenza, la quale avrebbe potuto attribuirsi a clemenza, fu l’effetto della debolezza o del timore. Abbandonò se stessa, il proprio figlio Valentiniano, e l’Impero dell’Occidente nelle mani d’un insolente suddito, nè Placidia potè difendere il virtuoso e fedel Sebastiano, genero di Bonifazio4, dall’implacabile persecuzione, che lo cacciò da un regno in un altro, finattantochè non perì miserabilmente al servizio dei Vandali. Il fortunato Ezio, che fu immediatamente promosso al grado di Patrizio, ed investito per tre volte degli onori del Consolato, assunse col titolo di Generale della cavalleria e dell’infanteria, tutto il . [p. 413 modifica]potere militare dello Stato; e dagli scrittori contemporanei tal volta si nomina il Duce, o il Generale dei Romani d’Occidente. La sua politica, piuttosto che la virtù, l’impegnò a lasciare il nipote di Teodosio in possesso della porpora; e fu permesso a Valentiniano di godere la pace ed il lusso d’Italia, mentre il Patrizio faceva la luminosa comparsa d’un eroe e d’un difensor della patria, che sostenne quasi venti anni le rovine dell’Impero Occidentale. L’istorico Goto confessa ingenuamente ch’Ezio era nato per la salvezza della Repubblica Romana5; ed il seguente ritratto, ch’ei ne fa, quantunque ornato de’ più be’ colori, bisogna confessare, che contiene una porzione maggiore di verità che di adulazione: „sua madre era una ricca e nobile Italiana, e Gaudenzio suo padre, che aveva un posto distinto nella Provincia della Scizia, s’inalzò a grado a grado dallo stato di domestico militare alla dignità di Generale di cavalleria. Il loro figlio, che fu arrolato quasi nella sua infanzia fra le guardie, fu dato come ostaggio prima ad Alarico, e di poi agli Unni; e successivamente ottenne gli onori civili e militari del Palazzo, a sostenere i quali era ugualmente atto pel superiore suo merito. La graziosa figura d’Ezio non eccedeva la statura mezzana; ma le virili sue membra eran meravigliosamente formate per la forza, per la bellezza, e per l’agilità; ed egli era eccellente ne’ marziali esercizi di maneggiare i cavalli, di tender l’arco, [p. 414 modifica]e di scagliare i dardi. Esso era capace di soffrir pazientemente la mancanza del cibo o del sonno, ed aveva lo spirito ugualmente che il corpo suscettibile degli sforzi più laboriosi. Era dotato di quel verace coraggio, che sa disprezzare non solamente i pericoli, ma anche le ingiurie; ed era impossibile il corrompere, l’ingannare, o l’intimorire la costante integrità dell’animo suo6„. I Barbari, che si erano stabiliti nelle Province Orientali, appoco appoco impararono a rispettare la fede, ed il valore del Patrizio Ezio. Egli addolcì le loro passioni, studiò i lor pregiudizi, ne bilanciò gl’interessi, e ne frenò l’ambizione. Un opportuno trattato, ch’ei fece con Genserico, difese l’Italia dalle depredazioni de’ Vandali; gl’indipendenti Brettoni implorarono e provarono il salutare suo aiuto; fu ristabilita e mantenuta l’autorità Imperiale nella Gallia e nella Spagna; ed esso costrinse i Franchi e gli Svevi, che aveva superati in battaglia, a divenire utili confederati della Repubblica.

Per un principio d’interesse non meno che di gratitudine, Ezio coltivò assiduamente l’amicizia degli Unni. Allorchè dimorava nelle loro tende, in ostaggio o com’esule, aveva famigliarmente conversato con Attila stesso, nipote del suo benefattore; e sembra che questi due famosi antagonisti fossero uniti con una [p. 415 modifica]personale e militare amicizia, che di poi confermarono per mezzo di reciproci doni, di frequenti ambascerie, e dell’educazione di Carpilione, figlio d’Ezio, nel Campo d’Attila. Con le sue speciose proteste di gratitudine, e di volontario attaccamento, poteva il Patrizio mascherare i suoi timori del conquistatore Scita, che stringeva con le innumerabili sue truppe i due Imperi. Si eseguivano però le sue domande, o si eludevano. Quando ei richiese le spoglie d’una città soggiogata, cioè alcuni vasi d’oro, ch’erano stati fraudolentemente trafugati, furono immediatamente spediti a soddisfare le sue querele7 i Governatori civili e militari del Norico; ed è patente dal congresso, ch’ebbero nel villaggio reale con Massimino e Prisco, che il valore e la prudenza d’Ezio non aveva potuto salvare i Romani Occidentali dalla comune ignominia del tributo. Pure la sua destra politica prolungò i vantaggi d’una salutevole pace; e fu impiegato in difesa della Gallia un numeroso esercito di Unni e di Alani, ch’esso aveva impegnato a suo favore. Furono giudiziosamente poste due colonie di questi Barbari ne’ territori di Valenza, e d’Orleans8; e l'attiva loro cavalleria assicurò gli [p. 416 modifica]importanti passaggi del Rodano, e della Loira. Questi selvaggi alleati non erano in vero meno formidabili pei sudditi, che pei nemici di Roma. Il loro stabilimento a principio fu sostenuto dalla licenziosa violenza della conquista; e la Provincia, che occupavano, fu esposta a tutte la calamità d’un’ostile invasione9. Gli Alani della Gallia, estranei rispetto all’Imperatore o alla Repubblica, erano addetti all’ambizione d’Ezio; e sebbene questi potesse sospettare, che in una guerra con Attila stesso si sarebbero rivoltati alle bandiere del nazionale loro Sovrano, contuttociò il Patrizio si affaticava a frenarne, piuttosto che ad eccitarne, lo zelo e lo sdegno contro i Goti, i Borgognoni, ed i Franchi.

[A. 451] Il regno, stabilito da’ Visigoti nelle Province meridionali della Gallia, aveva appoco appoco acquistato forza e maturità; e la condotta di quegli ambiziosi Barbari, tanto in pace che in guerra, impegnava Ezio [p. 417 modifica]ad una perpetua vigilanza. Dopo la morte di Vallia, lo scettro Gotico passò a Teodorico, figlio del Grande Alarico10; ed il suo prospero regno di più di trent’anni sopra un Popolo turbolento può risguardarsi come una prova, che la sua prudenza era sostenuta da un vigore non comune sì di mente, che di corpo. Mal soffrendo i suoi stretti confini, Teodorico aspirava al possesso di Arles, ricca sede di governo e di commercio; ma la città fu salvata mediante l’opportuno arrivo d’Ezio; ed il Re Goto, che ne aveva intrapreso l’assedio con qualche perdita e disgrazia, si lasciò persuadere per mezzo d’un adeguato sussidio a rivolgere il marzial valore de’ suoi contro la Spagna. Non ostante però Teodorico sempre studiò, ed arditamente prese il favorevol momento di rinnovare gli ostili suoi tentativi. [A. 435-439] I Goti assediarono Narbona, mentre le Province Belgiche erano invase da’ Borgognoni; e da ogni parte veniva minacciata la salvezza pubblica dall’apparente unione de’ nemici di Roma. Ma l’attività d’Ezio, e la sua cavalleria Scita da ogni parte oppose una costante ed efficace resistenza. Restaron morti sul campo ventimila Borgognoni; ed il restante della nazione accettò umilmente un’abitazione soggetta all’Impero nelle montagne della Savoia11. Le mura di Narbona erano già [p. 418 modifica]state scosse dalle batterie militari; e gli abitanti avevan sofferto le ultime estremità della fame, quando il Conte Litorio tacitamente avvicinatosi, ed avendo ordinato a ciaschedun uomo a cavallo di portarsi dietro due sacca di farina, si fece strada fra le trincere degli assedianti. Fu immediatamente levato l’assedio e la più decisiva vittoria, che si attribuisce alla condotta personale d’Ezio medesimo, fu notata col sangue di ottomila Goti. Ma nell’assenza del Patrizio, che fu richiamato in fretta in Italia da qualche pubblico o privato affare, il Conte Litorio successe al comando; e la sua presunzione tosto fece conoscere, quanto sia diversa l’abilità, che si richiede per condurre un’ala di cavalleria, da quella necessaria per dirigere le operazioni d’una importante guerra. Alla testa d’un esercito di Unni temerariamente avanzossi fino alle porte di Tolosa, pieno di non curante disprezzo per un nemico, che le sue disgrazie avevan renduto prudente, e la sua situazione disperato. Le predizioni degli Auguri avevano inspirato a Litorio la profana fiducia di entrare in trionfo nella capitale de’ Goti; e la fede, ch’egli prestava a’ suoi Pagani alleati, l’incoraggì a rigettare le belle condizioni di pace, che furono più volte proposte da’ Vescovi a nome di Teodorico. Il Re de’ Goti mostrò nelle sue angustie l’edificante contrapposto d’una cristiana pietà e moderazione; nè lasciò il sacco e le ceneri, finattantochè non fu [p. 419 modifica]preparato ad armarsi per combattere. I suoi soldati, animati da un marziale o religioso entusiasmo, assaltarono il campo di Litorio; la battaglia fu ostinata, la strage reciproca. Il Generale Romano, dopo una total disfatta, che poteva unicamente imputarsi alla sua temeraria ignoranza, fu realmente condotto per le strade di Tolosa non già nel proprio, ma in un ostile trionfo; e la miseria, ch’egli provò in una ignominiosa e lunga schiavitù, eccitò la compassione degli stessi Barbari12. Una tal perdita in un paese, in cui la bravura e le finanze da lungo tempo erano esauste, non poteva facilmente ripararsi; ed i Goti, a vicenda mossi da sentimenti d’ambizione e di vendetta, avrebber piantato le vittoriose loro bandiere sulle rive del Rodano, se la presenza d’Ezio non avesse rinvigorito la disciplina e la forza de’ Romani13. I due eserciti aspettavano il segno d’un’azion decisiva; ma i Generali, che conoscevan la forza l’uno dell’altro, e dubitavano ciascheduno della propria superiorità, prudentemente riposero le loro spade nel fodero; e la riconciliazione [p. 420 modifica]loro fu permanente e sincera. Sembra, che Teodorico Re de’ Visigoti, meritasse l’amor de’ suoi sudditi, la fiducia de’ suoi alleati, e la stima dell’uman genere. Il suo trono era circondato da sei valorosi figli, che erano educati con ugual diligenza tanto negli esercizi del campo Barbaro, quanto in quelli delle scuole Galliche: dallo studio dalla Giurisprudenza Romana essi appresero almeno la teoria della legge e della giustizia; e gli armoniosi sentimenti di Virgilio contribuirono ad addolcire l’asprezza de’ nativi loro costumi14. Le due figlie del Re Goto furono maritate a’ primogeniti de’ Re degli Svevi e de’ Vandali, che regnavano nella Spagna, e nell’Affrica; ma queste illustri affinità partorirono delitti e discordie. La Regina degli Svevi pianse la morte d’un marito crudelmente ucciso dal fratello di essa. La Principessa de’ Vandali cadde vittima d’un geloso tiranno, ch’essa chiamava suo padre. Il crudel Genserico sospettò, che la moglie del proprio figlio avesse tentato d’avvelenarlo; il supposto delitto fu punito coll’amputazione del naso e degli orecchi; e l’infelice figlia di Teodorico fu ignominiosamente rimandata alla Corte di Tolosa in quello stato di deforme mutilazione. Tal orrido fatto, che dee parere incredibile in un secolo incivilito, trasse ad ogni spettatore le lacrime: ma Teodorico fu mosso da’ sentimenti di padre e di Re a vendicare queste irrepa[p. 421 modifica]rabili ingiurie. I ministri Imperiali, che sempre favorivano la discordia de’ Barbari, avrebbero somministrato a’ Goti armi, navi, e danaro per la guerra Affricana; e la crudeltà di Genserico avrebbe potuto riuscirgli fatale, se l’artificioso Vandalo non avesse tratto in suo favore la formidabil potenza degli Unni. I ricchi doni e le vive sollecitazioni di esso accesero l’ambizione d’Attila; ed i disegni d’Ezio e di Teodorico furono impediti dall’invasione della Gallia15.

[A. 422-451] I Franchi, la Monarchia de’ quali era sempre ristretta alle vicinanze del basso Reno, avevano saviamente stabilito il diritto della successione ereditaria nella nobile famiglia de’ Merovingi16. Questi Principi venivano alzati sopra uno scudo, simbolo del comando militare17; l’uso reale de’ lunghi capelli era [p. 422 modifica]l’insegna della lor nascita e dignità. La bionda lor chioma, ch’essi annodavano e pettinavano con singolar diligenza, cadeva loro disposta in ondeggianti ricci giù per le spalle; mentre il restante della nazione doveva per legge, e per consuetudine radersi la parte di dietro del capo, annodarsi i capelli sulla fronte, e contentarsi dell’ornamento di due piccoli baffi18. L’alta statura de’ Franchi, ed i loro occhi azzurri indicavano l’origine loro Germanica; la maniera di vestire strettamente mostrava l’esatta figura delle loro membra: pendeva una pesante spada da una larga cintura: un vasto scudo proteggeva i lor corpi; e questi bellicosi Barbari erano esercitati dalla più fresca lor gioventù a correre, a saltare, a nuotare, a scagliare i dardi o le accette senza sbagliare mai il colpo, ed avanzarsi senza esitare contro un superiore nemico, ed a mantenere tanto in vita che in morte l’invincibile riputazione de’ loro antichi19. Clodione, che fu il [p. 423 modifica]primo de’ chiomati lor Re, di cui le azioni ed il nome si trovino in autentiche storie, aveva la sua residenza in Dispargo20, villaggio o fortezza, la cui situazione può collocarsi fra Lovanio e Brusselles. Dalla relazione delle sue spie fu informato il Re de’ Franchi, che lo Stato indifeso della seconda Belgica, al più tenue attacco, avrebbe ceduto al valore de’ suoi sudditi. Arditamente inoltrossi fra gli alberi ed i pantani della foresta Carbonaria21; occupò Tournay e Cambray, ch’erano le sole città, ch’esistessero ivi nel quinto secolo, ed estese le sue conquiste fino al fiume Somma sopra un paese desolato, la cultura e popolazione del quale sono gli effetti d’un’industria più recente22. Mentre Clodione stava accampato nelle pianure dell’Artesia23, e celebrava con vana e pomposa sicurezza il matrimonio, forse del suo figlio, venne interrotta la festa nuziale dall’inaspettata, e non gra[p. 424 modifica]dita presenza d’Ezio, che aveva passato la Somma alla testa della sua cavalleria leggiera. Si rovesciarono ad un tratto le mense, che si erano alzate al coperto d’un colle lungo le rive d’un piacevol torrente; i Franchi furon oppressi prima di poter prender le loro armi, o mettersi in ordine di battaglia; e l’inutile loro valore fu solamente fatale a loro medesimi. I carri, che avevan seguitato ben carichi la loro marcia, somministrarono una ricca preda; e la vergine sposa, e le sue ancelle si sommisero a’ nuovi amanti, che l’accidente della guerra aveva ad esse imposto. Questo vantaggio, ottenuto dall’abilità e dall’attività d’Ezio, potè far qualche torto alla militar prudenza di Clodione; ma tosto il Re de’ Franchi riprese la sua forza e riputazione, e si mantenne sempre in possesso del regno Gallico dal Reno fino alla Somma24. Sotto il suo regno, e probabilissimamente per l’intraprendente coraggio de’ suoi sudditi, le tre capitali Magonza, Treveri, e Colonia provaron gli effetti dell’ostile crudeltà ed avarizia. La disgrazia di Colonia si prolungò per la perpetua dominazione degli stessi Barbari, che abbandonarono le rovine di Treveri; e Treveri, che nelle spazio di quarant’anni era stata assediata e saccheggiata quattro volte, si dispose a perdere la memoria delle sue afflizioni ne’ vani divertimenti del Circo25. [p. 425 modifica]La morte di Clodione, dopo un regno di venti anni, espose il suo reame alle discordia ed all’ambizione de’ due suoi figli. Meroveo, ch’era il più giovane26, fu indotto ad implorare la protezione di Roma; ei fu ricevuto alla Corte Imperiale come alleato di Valentiniano, e figlio adottivo del Patrizio Ezio; e rimandato alla patria con splendidi doni, e con le più generose promesse di amicizia e d’aiuto. Nel tempo della sua assenza il fratel maggiore aveva implorato, con uguale ardore, il formidabile soccorso d’Attila; ed il Re degli Unni abbracciò un’alleanza, che gli facilitava il passaggio del Reno, e giustificava con uno specioso ed onorevol pretesto l’invasion della Gallia27.

Allorchè Attila dichiarò la sua risoluzione di sostenere la causa de’ Vandali e de’ Franchi di lui alleati, nel tempo stesso, e quasi con uno spirito di [p. 426 modifica]romanzesca cavalleria, il selvaggio Monarca si professò amante e campione della Principessa Onoria. La sorella di Valentiniano era stata educata nel palazzo di Ravenna; e siccome il matrimonio di essa avrebbe potuto cagionar qualche rischio allo stato, fu innalzata, mediante il titolo d’Augusta28, sopra le speranze del suddito più presuntuoso. Ma appena la bella Onoria fu giunta all’età di sedici anni, detestò quella inopportuna grandezza, che doveva per sempre toglierle i diletti d’un onesto amore: Onoria gemeva in mezzo alla varia e non gradita pompa; ella cedè finalmente all’impulso della natura; e si gettò nelle braccia d’Eugenio suo Ciamberlano. La colpa e la vergogna di essa (tal è l’assurdo linguaggio d’un uomo imperioso) vennero tosto scoperte da’ segni della sua gravidanza, ma il disonore della famiglia reale si pubblicò al Mondo per l’imprudenza dell’Imperatrice Placidia, che mandò la sua figlia, dopo un rigoroso e vergognoso confino, in un lontano esilio a Costantinopoli. L’infelice Principessa passò dodici o quattordici anni nella noiosa compagnia delle sorelle di Teodosio, e di quelle vergini elette, alla corona delle quali Onoria non poteva più aspirare, e delle quali essa con ripugnanza imitava la monastica assiduità nelle preghiere, nel digiuno e nelle vigilie. Stanca d’un celibato sì lungo, e senza speranza di libertà, s’indusse a prendere una strana e disperata risoluzione. Il nome d’Attila era in Costantinopoli famigliare e formidabile; e le sue [p. 427 modifica]frequenti ambascerie tenevano aperto un continuo commercio fra il campo di esso ed il Palazzo Imperiale. La figlia dunque di Placidia, tratta dall’amore, o piuttosto dalla vendetta, sacrificò qualunque dovere e ogni pregiudizio; ed offrì d’abbandonare la una persona nelle braccia d’un Barbaro, di cui non sapeva il linguaggio, che appena aveva la figura umana, e del quale aborriva la religione e i costumi. Per mezzo d’un fedele Eunuco essa mandò ad Attila un anello in segno della sua affezione; ed istantemente lo scongiurò a domandarla come sua legittima sposa, a cui segretamente avesse promesso le nozze. Tale indecente proposizione però fu ricevuta con freddezza e disprezzo; ed il Re degli Unni continuò ad accrescere il numero delle sue mogli, finattantochè non fu risvegliato il suo amore dalle più forti passioni dell’ambizione e dell’avarizia. L’invasion della Gallia fu preceduta e giustificata da una formal domanda della Principessa Onoria, con una giusta ed ugual porzione del patrimonio Imperiale. Gli antichi Tangiù, suoi Maggiori, aveano spesso richiesto per ispose nel medesimo perentorio ed ostil modo le figlie della China: e le pretensioni d’Attila non erano men offensive alla maestà di Roma. Fu dato a’ suoi Ambasciatori un fermo, ma moderato rifiuto. Si negò fortemente il diritto della successione delle donne, quantunque potesse in favore di quello trarsi uno specioso argomento da’ recenti esempi di Placidia e di Pulcheria; e si opposero gl’indissolubili vincoli d’Onoria alla richiesta del suo Scitico amante29. Come si seppe la sua [p. 428 modifica]relazione col Re degli Unni, la rea Principessa venne rimandata, come un oggetto d’orrore, da Costantinopoli in Italia; le fu risparmiata la vita: ma si fece la ceremonia del suo matrimonio con un marito oscuro e solo di nome, prima che fosse rinchiusa in una perpetua carcere a piangere que’ delitti e quelle sventure, che Onoria avrebbe potuto evitare, se non fosse nata figlia d’un Imperatore30.

L’erudito ed eloquente Sidonio, nativo della Gallia, e contemporaneo, che dopo fu Vescovo di Clermont, aveva promesso ad uno de’ suoi amici di comporre un’istoria regolare della guerra d’Attila. Se la sua modestia non l’avesse distolto dall’esecuzione di tale interessante opera31, avrebbe l’Istorico riferito, con la semplicità propria del vero, que’ memorabili avvenimenti, a’ quali con incerte e dubbiose metafore il Poeta concisamente ha fatto allusione32. [p. 429 modifica]Obbedirono alle belliche intimazioni di Attila i Re, e le nazioni della Germania e della Scizia, dal Volga forse fino al Danubio. Dal villaggio reale, posto nelle pianure dell’Ungheria, si mosse il suo stendardo verso l’Occidente, e dopo una marcia di sette o ottocento miglia, giunse dove si uniscono il Reno ed il Necker; ed ivi incontrossi co’ Franchi, aderenti al figlio maggiore di Clodione suo alleato. Una truppa di Barbari sciolti, che fosse andata in cerca di preda, avrebbe potuto sceglier l’inverno per la comodità di passare il fiume sul ghiaccio, ma l’innumerabile cavalleria degli Unni esigeva tale abbondanza di foraggio o di provvisioni, che non poteva ottenersi che in una stagione più mite; la foresta Ercinia somministrò i materiali per un ponte di barche, e le migliaia de’ nemici si sparsero con irresistibil violenza nelle Province Belgiche33. La costernazione della Gallia fu universale,. [p. 430 modifica]e le varie avventure delle sue città si sono adornate dalla tradizione con martirj e miracoli34. Troia fu salvata pe’ meriti di S. Lupo; S. Servazio fu tolto dal Mondo, affinchè non vedesse le rovine di Tongres; e le preghiere di S. Genovieffa fecer deviare la marcia d’Attila dalle vicinanze di Parigi. Ma siccome la maggior parte delle città Gallicane eran prive sì di Santi, che di soldati, esse furono assediate, e prese dagli Unni, che praticarono le solite loro massime di guerra, avendone Metz dato l’esempio35. Essi compresero in una promiscua strage i sacerdoti, che servivano all’altare, e gl’infanti, che nel tempo del pericolo erano stati providamente dal Vescovo battezzati; quella florida città fu abbandonata alle fiamme, ed una solitaria cappella di S. Stefano indicava il luogo, dove Metz precedentemente era stata. Dal Reno e dalla Mosella avanzossi Attila nel cuor della Gallia; attra[p. 431 modifica]versò la Senna ad Auxerre; e dopo una lunga e laboriosa marcia pose il suo campo sotto le mura d’Orleans. Egli desiderava di assicurare la sue conquiste con impossessarsi d’un vantaggioso posto, che dominava il passo della Loira; e contava sul segreto invito di Sangiban Re degli Alani, che aveva promesso di dargli in mano la città, e di ribellarsi dall’Imperatore. Ma fu scoperto quel tradimento, e renduto inefficace: Orleans era stata fortificata con recenti ripari; e furono vigorosamente rispinti gli assalti degli Unni dal fedele valor de’ soldati, o de’ cittadini che difeser la piazza. La pastoral diligenza d’Aniano, Vescovo di antica santità e di consumata prudenza, esaurì ogni arte di religiosa politica per sostenere il loro coraggio fino all’arrivo dell’aspettato soccorso. Dopo un ostinato assedio, le mura erano scosse dalle macchine militari che le battevano; gli Unni avevano già occupato i sobborghi; ed il Popolo, ch’era inabile alle armi, stava prostrato a pregare. Aniano, che ansiosamente contava i giorni e le ore, mandò un fedel messaggiero ad osservar dalle mura l’aspetto della distante campagna. Tornò questi per due volte senz’alcuna notizia, che inspirar potesse conforto o speranza; ma la terza volta portò la nuova d’una piccola nube, che appena esso aveva potuto discernere all’estremità dell’orizzonte: „È l’aiuto di Dio„ esclamò il Vescovo in un tuono di pia fiducia; e tutta la moltitudine ripetè con esso, „È l’aiuto di Dio„. Quell’oggetto lontano, sul quale stavano fissi gli occhi di tutti, diveniva ogni momento più grande, e più distinto; appoco appoco si ravvisarono le bandiere Romane e Gotiche; ed un vento favorevole, dissipando la polvere, fece scuoprire in buona ordinanza gl’im[p. 432 modifica]pazienti squadroni di Ezio e di Teodorico, che si avanzavano velocemente al soccorso d’Orleans.

La facilità, con cui Attila era penetrato nel cuor della Gallia, può attribuirsi alla sua insidiosa politica ugualmente che al terrore delle sue armi. Le sue pubbliche dichiarazioni venivano abilmente mitigate dalle sue private proteste; egli alternativamente lusingava e minacciava i Romani ed i Goti; e le Corti di Ravenna e di Tolosa, vicendevolmente sospettose l’una dell’altra, miravano con supina indifferenza l’avvicinamento del comune loro nemico. Ezio era il solo custode della pubblica sicurezza; ma le più savie di lui misure venivano sconcertate da una fazione, che dopo la morte di Placidia infestava il palazzo Imperiale; la gioventù Italiana tremava al suono della tromba; ed i Barbari, che per timore o per affetto erano inclinati a favorire la causa d’Attila, aspettavano con dubbiosa e venal fede l’evento della guerra. Il Patrizio passò le alpi alla testa di alcune truppe, la forza ed il numero delle quali appena meritava il nome d’esercito36. Ma giunto che fu ad Arles o a Lione, restò confuso alla nuova, che i Visigoti ricusando d’intraprender la difesa della Gallia, avevan determinato d’aspettare ne’ propri lor territori il formidabile invasore, ch’essi protestavano di disprezzare. Il Senatore Avito, che dopo avere onorevolmente esercitata la Prefettura Pretoriana, erasi ritirato alle sue terre nell’Alvernia, fu indotto ad accettare un’impor[p. 433 modifica]tante ambasciata al Re de’ Visigoti, ch’egli eseguì con abilità e buon successo. Rappresentò a Teodorico, che ad un ambizioso conquistatore, il quale aspirava al dominio della Terra, non poteva resistersi che mediante la stabile ed unanime alleanza delle potenze, ch’ei cercava d’opprimere. La vivace eloquenza d’Avito infiammò i guerrieri Goti con la descrizione delle ingiurie, che a’ loro maggiori avean fatte gli Unni, l’implacabil furore de’ quali sempre li perseguitava dal Danubio fino al piè de’ Pirenei. Insistè fortemente, ch’era dovere d’ogni Cristiano il salvare dalla sacrilega violazione le chiese di Dio e le reliquie de’ Santi, e ch’era interesse d’ogni Barbaro, che avesse acquistato uno stabilimento nella Gallia, il difendere i campi e le vigne, che, si coltivavano per proprio uso, dalla desolazione de’ pastori Sciti. Teodorico cedè all’evidenza della verità; prese partito più prudente nel tempo stesso e più onorevole; e dichiarò, che come fedele alleato d’Ezio e de’ Romani, era pronto ad esporre la vita ed il regno per la comun salvezza della Gallia37. I Visigoti, ch’erano in quel tempo nel maturo vigore della lor fama e potenza, obbedirono volentieri al segnal della guerra; prepararono le loro armi e cavalli, e si unirono sotto le bandiere del lor vecchio Re, che volle insieme co’ suoi due figli maggiori [p. 434 modifica]Torrismondo e Teodorico comandare in persona il numeroso e prode suo Popolo. L’esempio de’ Goti determinò varie tribù o nazioni, che sembravano fluttuanti fra gli Unni e i Romani. L’instancabile diligenza del Patrizio appoco appoco raccolse le truppe della Gallia e della Germania, che anticamente si erano riconosciute sudditi o soldati della Repubblica, ma che allora pretendevano i premj di milizia volontaria, ed il posto d’indipendenti alleati, vale a dire i Leti, gli Armorici, i Breoni, i Sassoni, i Borgognoni, i Sarmati o Alani, i Ripuari ed i Franchi, che seguitavano Meroveo come loro legittimo Principe. Tal era la moltiplice armata, che sotto la condotta d’Ezio e di Teodorico avanzavasi con rapide marce a soccorrere Orleans, e ad attaccare l’innumerabil esercito d’Attila38.

All’approssimarsi che fecero, il Re degli Unni levò immediatamente l’assedio, e sonò la ritirata per richiamare le più avanzate delle sue truppe dal saccheggio d’una città, nella quale eran già entrate39. [p. 435 modifica]Il valore d’Attila era sempre guidato dalla prudenza; e siccome previde le fatali conseguenze d’una disfatta nel cuor della Gallia, ripassò la Senna, ed aspettò il nemico nelle pianure di Scialons, dove il terreno piano ed uguale era adattato alle operazioni della sua cavalleria Scita. Ma in questa tumultuaria ritirata la vanguardia de’ Romani e de’ loro alleati continuamente incalzava, ed alle volte attaccava le truppe, che Attila avea poste nella sua retroguardia; le colonne ostili nell’oscurità della notte, e nell’incertezza delle strade s’incontraron per avventura l’una coll’altra senza volerlo; e la sanguinosa battaglia de’ Franchi e de’ Gepidi, nella quale restaron uccisi quindicimila Barbari40, fu un preludio d’un azione più generale e decisiva. I campi Catalauni41 circondavano Scialons, e s’estendevano, secondo l’incerta misura di Giornandes, alla lunghezza di cento cinquanta miglia, ed alla larghezza di cento su tutta quella Provincia, a cui si dà meritamente il nome di Campagna42. Questa spaziosa pianura però conteneva alcune ineguaglianze di terreno; e l’importanza d’un’altura, che dominava il [p. 436 modifica]campo d’Attila, si conobbe, e si disputò da’ due Generali. Il giovane e valoroso Torrismondo fu il primo ad occuparne la cima; i Goti si gettarono con irresistibile urto su gli Unni, che cercavano di salire dalla parte opposta; ed il possesso di quel vantaggioso luogo inspirò tanto alle truppe, quanto ai lor condottieri una gran sicurezza della vittoria. L’ansietà d’Attila l’indusse a consultare i suoi sacerdoti ed aruspici. Si raccontava, che dopo aver osservavo le viscere delle vittime, e scopertene le ossa, predissero in misterioso linguaggio, la propria di lui disfatta, con la morte del suo principal nemico; e che il Barbaro, accettando un tal partito, venne ad esprimere l’involontaria sua stima pel superior merito d’Ezio. Ma l’insolito abbattimento, che sembrava invadere gli Unni, impegnò Attila ad usar l’espediente sì famigliare a’ Generali antichi, d’animar le sue truppe con una militare aringa; ed il suo linguaggio fu quello d’un Re che spesso avea combattuto e vinto alla testa di essi43. Gli esortò vivamente a considerare la passata lor gloria, il presente pericolo, e le future loro speranze. Disse, che la stessa fortuna, che aprì i deserti e le paludi della Scizia al disarmato loro valore, che aveva fatto prostrare a’ lor piedi tante guerriere nazioni, avea riservato il gaudio di quella memorabil campagna pel compimento delle loro vittorie. Artificiosa[p. 437 modifica]mente appresentò loro le cautele de’ nemici, la stretta loro confederazione, ed i vantaggiosi posti, che si erano procurati, come gli effetti non della prudenza ma del timore. I soli Visigoti formavano la forza ed il nervo dell’armata nemica; e gli Unni potevano sicuramente sprezzare i degenerati Romani, l’ordine chiuso e ristretto de’ quali dimostrava il loro sgomento, essendo essi incapaci di sostenere sì i pericoli, che le fatiche d’una giornata di battaglia. La dottrina della predestinazione, sì favorevole al marzial valore, venne premurosamente inculcata dal Re degli Unni, che assicurò i suoi soldati, che i guerrieri protetti dal cielo, erano salvi ed invulnerabili fra’ dardi del nemico; ma che gl’infallibili Fati avrebbero colpito le loro vittime anche nel seno d’una ignobile pace. „Io stesso, continuò Attila, scaglierò il primo dardo, e quello sciagurato che ricusa d’imitar l’esempio del suo Sovrano, è condannato ad una inevitabile morte„. Fu rinvigorito lo spirito dei Barbari dalla presenza, dalla voce e dall’esempio dell’intrepido lor capitano; ed Attila, cedendo alla loro impazienza, li dispose in ordine di battaglia. Alla testa de’ suoi valorosi e fedeli Unni, egli occupava in persona il centro dell’esercito. Le nazioni sottoposte al suo Impero, vale a dire i Rugi, gli Eruli, i Turingi, i Franchi, i Borgognoni si estendevano, da ambe le parti, negli ampi spazi de’ campi Catalauni; l’ala destra era comandata da Ardarico, Re de’ Gepidi; ed i tre bravi fratelli, che regnavano sopra gli Ostrogoti, erano nella sinistra per opporsi alle infiammate tribù de’ Visigoti. La disposizione degli Alleati si regolò con un diverso principio: Sangibano, infedele Re degli Alani, fu posto nel centro, dove potevano bene osser[p. 438 modifica]varsi i suoi movimenti, e poteva subito punirsi la sua perfidia. Ezio prese il comando dell’ala sinistra, e Teodorico della destra; mentre Torrismondo continuò ad occupare le alture, che sembra si estendessero sul fianco, e forse anche sulla retroguardia dell’armata Scita. Si erano adunate nella pianura di Scialons le nazioni che abitavano dal Volga all’Atlantico; ma molte di queste si eran divise per le fazioni, l’emigrazioni, o le conquiste; e l’apparenza delle conformi armi ed insegne, che si minacciavano l’una coll’altra, presentava l’immagine d’una guerra civile.

La disciplina e la tattica de’ Greci e de’ Romani forma una parte interessante de’ loro costumi nazionali. L’attento studio delle operazioni militari di Senofonte, di Cesare, o di Federigo, allorchè son descritte da quel medesimo genio che le immaginò e l’eseguì, possono servire a migliorare (se pur tal miglioramento è desiderabile) l’arte di distrugger la specie umana. Ma la battaglia di Scialons può solo eccitar la nostra curiosità per la grandezza dell’oggetto; poichè non operò in essa che il cieco impeto de’ Barbari, ed è stata riferita da scrittori parziali, che la civile o ecclesiastica lor professione allontanava dalla cognizione degli affari militari. Cassiodoro però aveva famigliarmente conversato con molti guerrieri Gotici, che militarono in quella memorabil giornata „orrida, com’essi dicevano, varia, ostinata, e sanguinosa in modo, che non le se ne poteva paragonare un’altra o ne’ presenti tempi, o ne’ passati„. Il numero degli uccisi montò a centosessantaduemila, o secondo un’altra relazione a trecentomila persone44; e queste [p. 439 modifica]incredibili esagerazioni suppongono un’effettiva perdita sufficiente a giustificare l’osservazione dell’Istorico, che la pazzia de’ Re può distruggere delle intiere generazioni nello spazio d’un’ora. Dopo una reciproca e reiterata scarica di armi da avventare, nelle quali poterono gli arcieri di Scizia segnalare la superiore loro destrezza, la cavalleria e l’infanteria delle due armate furiosamente s’attaccarono in una più stretta pugna. Gli Unni che combattevano sotto gli occhi del lor Re, penetrarono nel debole e dubbioso centro degli alleati, separarono le loro ali una dall’altra, e girando con rapido sforzo a sinistra, diressero tutta la forza loro contro i Visigoti. Mentre Teodorico scorreva lungo le linee, per animar le sue truppe, ricevè un colpo mortale dal dardo d’Andage nobile Ostrogoto, e cadde subito da cavallo. Il Re ferito restò, nel general disordine, oppresso e calpestato dalla sua propria cavalleria; e questa importante morte servì a spiegare l’ambigua profezia degli aruspici. Attila già esultava nella fidanza della vittoria, quando il valoroso Torrismondo discese da’ colli, e verificò il rimanente della predizione. I Visigoti che si eran posti in confusione per la fuga o tradimento degli Alani, appoco appoco si rimisero in ordine di battaglia; e gli Unni furono [p. 440 modifica]indubitatamente vinti, poichè Attila fu costretto a ritirarsi. Egli aveva esposto la sua persona con la temerità d’un soldato privato; ma le intrepide truppe del centro si erano avanzate oltre il resto della linea: il loro attacco fu sostenuto debolmente, i loro fianchi restaron senza difesa, ed i conquistatori della Scizia e della Germania scamparono da una total disfatta per l’approssimarsi della notte. Si ritirarono dentro il cerchio de’ carri, che fortificavano il loro campo; o gli squadroni, smontati da cavallo, si preparavano ad una difesa, a cui nè le armi nè l’indole loro punto erano adatte. L’evento fu dubbioso, ma Attila s’era riservato un ultimo ed onorevol ripiego. Furono di suo ordine raccolte le selle ed i ricchi fornimenti della cavalleria in un rogo funereo; ed il magnanimo Barbaro avea risoluto, qualora fosse stato forzato il suo trinceramento, di gettarsi nelle fiamme, e privare i suoi nemici della gloria, che per la morte o schiavitù d’Attila45 avrebbero potuto acquistare.

Ma i suoi nemici avevan passato la notte in ugual disordine ed ansietà. L’imprudente coraggio di Torrimondo l’indusse ad inseguire il nemico, finattantochè inaspettatamente si trovò con pochi seguaci nel mezzo de’ carriaggi Sciti. Nella confusione d’un combattimento notturno fu gettato a terra da cavallo, ed il Principe Goto sarebbe perito, come suo padre, se la giovanile sua forza, e l’intrepido zelo de’ suoi com[p. 441 modifica]pagni non l’avesse liberato da tale pericolosa situazione. In simil guisa, ma dalla parte sinistra della linea, Ezio medesimo, separato da’ suoi alleati, non sapendo la loro vittoria, e dubbioso del loro destino, incontrò ed evitò le truppe ostili ch’erano sparse per le pianure di Scialons, e finalmente giunse al campo de’ Goti, cui non potè fortificare, che con un tenue trinceramento di scudi fino alla punta del giorno. Il Generale Imperiale ebbe tosto la soddisfazione di veder la disfatta d’Attila, che rimase inattivo dentro le sue trincere; e quando rimirò la sanguinosa scena, osservò con segreta compiacenza, che la perdita era principalmente caduta su’ Barbari. Il corpo di Teodorico, trafitto da onorate ferite, fu trovato sotto un mucchio di cadaveri; i suoi sudditi piansero la morte del Re e del Padre loro; ma le loro lagrime furon mescolate con canti ed acclamazioni, e ne furon fatte le cerimonie funebri in faccia ad uno sconfitto nemico. I Goti, battendo le loro armi, elevarono sopra uno scudo Torrismondo suo figlio maggiore, a cui giustamente attribuivan la gloria del loro felice successo; ed il nuovo Re accettò l’obbligo della vendetta, come una sacra porzione della paterna sua eredità. Pure i Goti medesimi eran sorpresi dal fiero ed indomito aspetto del loro formidabil nemico; ed i loro Istorici hanno paragonato Attila ad un leone, circondato nella sua tana, e che minaccia i cacciatori con sempre maggior furore. Ai Re ed alle nazioni, che avessero abbandonato le sue bandiere nel tempo delle avversità fu fatto intendere, che il cadere in disgrazia del loro Monarca sarebbe stato per esse il più imminente ed inevitabil pericolo. Tutti i suoi strumenti di musica militare suonavano in alto ed animoso tuono di disfida; e le [p. 442 modifica]prime truppe, che s’avanzavano all’assalto, erano rispinte o abbattute da nuvoli di dardi, che piovevano da ogni parte delle trincere. In un generale consiglio di guerra fu determinato d’assediare il Re degli Unni nel suo campo, d’intercettarne le provvisioni, e di ridurlo all’alternativa d’un vergognoso trattato, o d’una disuguale battaglia. Ma l’impazienza de’ Barbari sdegnò ben presto queste caute e dilatorie misure; e la matura politica d’Ezio temeva, che dopo l’estirpazione degli Unni la Repubblica fosse oppressa dall’orgoglio e dal potere della nazione Gotica. Il Patrizio esercitò il superiore ascendente dell’autorità e della ragione, per calmar le passioni, che il figlio di Teodorico risguardava come doveri; gli rappresentò con apparente affetto e real verità i pericoli dell’assenza e della dilazione; e persuase Torrismondo ad impedire, col suo pronto ritorno, gli ambiziosi disegni de’ suoi fratelli, che potevan occupare il trono, ed il tesoro di Tolosa46. Dopo la partenza de’ Goti, e la separazione dell’armata confederata, Attila restò sorpreso all’alto silenzio, che regnava nella pianura di Scialons: il sospetto di qualche stratagemma ostile lo ritenne più giorni dentro il cerchio de’ suoi carriaggi; e la sua ritirata di là dal Reno dichiarò l’ultima vittoria che si ottenne a nome dell’Impero Occidentale. Meroveo coi [p. 443 modifica]suoi Franchi, tenendosi ad una prudente distanza, e magnificando l’opinione della propria forza per mezzo de’ copiosi fuochi che ogni notte accendeva, continuò a seguitare la retroguardia degli Unni, finattantochè giunsero a’ confini delle Turingia. I Turingi militavano nell’esercito d’Attila; essi attraversarono sì nella loro marcia, che nel ritorno i territori de’ Franchi; e fu probabilmente in questa guerra, che esercitarono le crudeltà, che circa ottant’anni dopo furono vendicate dal figlio di Clodoveo. Uccisero essi gli ostaggi ugualmente che i prigionieri loro: dugento giovani fanciulle furono tormentate con atroce ed instancabile rabbia; i lor corpi furono messi in pezzi da cavalli selvatici, o le ossa loro stritolate sotto il peso de’ carri, che vi giravano sopra: e le lor membra insepolte furono abbandonate sulle pubbliche strade in preda a’ cani, ed agli avoltoi. Tali erano quegli antichi selvaggi, le immaginarie virtù de’ quali hanno talvolta eccitato la lode, e l’invidia de’ secoli inciviliti47.

Nè lo spirito, nè le forze, nè la riputazione d’Attila soffrirono diminuzione alcuna pel cattivo successo della spedizione Gallica. Nella seguente primavera rinnuovò la sua domanda della Principessa Onoria, e dei [p. 444 modifica]suoi beni patrimoniali. La domanda fu di nuovo rigettata o delusa; e lo sdegnato amante subito si mise in campagna, passò le alpi, invase l’Italia, ed assediò Aquileia con un’innumerabile armata di Barbari. Non sapevano questi le maniere di fare un assedio regolato, che anche fra gli antichi esigeva qualche cognizione, o almeno qualche pratica delle arti meccaniche. Ma il lavoro di molte migliaia di Provinciali e di schiavi, le vite de’ quali venivan sacrificate senza pietà, eseguiva le più penose e pericolose operazioni. Potè corrompersi l’abilità degli artefici Romani per la distruzione della lor patria. Le mura d’Aquileia furono assalite da una formidabile quantità di arieti, che le battevano: di torri mobili, e di macchine, che scagliavano pietre, dardi, e fuoco48; ed il Monarca degli Unni si servì del forte impulso della speranza, del timore, dell’emulazione, e dell’interesse per rovesciare l’unico baluardo, che impediva la conquista dell’Italia. Aquileia era in quel tempo una delle più ricche, delle più popolate e forti città marittime della costa Adriatica. Gli alleati Gotici, che sembra, militassero sotto i nativi lor Principi Alarico ed Antala, comuni[p. 445 modifica]carono a’ cittadini l’intrepido loro coraggio; e questi si rammentavano tuttavia la gloriosa ad efficace resistenza, che i loro antenati avean fatto ad un feroce inesorabile Barbaro, che disonorò la maestà della porpora Romana. Si consumaron tre mesi senza effetto nell’assedio d’Aquileia, finattantochè la mancanza delle provvisioni, ed i clamori dell’esercito costrinsero Attila ad abbandonar quell’impresa, ed a comandare con ripugnanza, che le truppe, nella seguente mattina, levasser le tende, ed incominciassero a ritirarsi. Ma mentre cavalcava intorno alle mura pensoso, tristo e sconcertato, osservò una cicogna, che preparavasi a lasciare il suo nido, ch’era in una delle torri della città, ed a fuggire con la piccola sua famiglia verso la campagna. Ei profittò, con la pronta penetrazione d’un Politico, di questo insignificante avvenimento che il caso aveva offerto alla superstizione; ed esclamò in alto ed allegro tuono, che un uccello così domestico, e sì costantemente attaccato alla società umana non avrebbe mai abbandonato le sue antiche sedi, qualora quelle torri non fossero state condannate ad un’imminente ruina e solitudine49. Il favorevole augurio inspirò negli Unni la sicurezza della vittoria; fu rinnovato e proseguito l’assedio con nuovo vigore; si fece una larga breccia in quella parte delle mura, da cui la cicogna aveva preso la fuga; gli Unni salirono all’assalto con irresistibil furore; e la seguente gene[p. 446 modifica]razione potè appena scoprir le rovine d’Aquileia50. Dopo questa terribile distruzione, Attila seguitò la sua marcia; e cammin facendo ridusse in mucchi di sassi e di ceneri le città d’Altino, di Concordia e di Padova. Furono esposte alla rapace crudeltà degli Unni le città mediterranee di Vicenza, di Verona e di Bergamo. Milano e Pavia si sottoposero senza resistenza a perder le loro ricchezze; ed applaudirono alla straordinaria clemenza, che salvò dalle fiamme le loro fabbriche sì pubbliche che private, e risparmiò le vite d’una moltitudine di prigionieri. Con ragione si possono aver per sospette le tradizioni popolari di Como, di Turino e di Modena; pure concorrono esse con le più autentiche prove a convincerci, che Attila estese le sue devastazioni sulle ricche pianure della moderna Lombardia, che son divise dal Pò, e circondate dalle Alpi, e dell’Appennino51. Quando egli prese possesso del palazzo reale di Milano, restò sorpreso e irritato alla vista d’una pittura, che rappresentava i Cesari assisi sul trono, ed i Principi Sciti prostrati a’ lor piedi. La vendetta, che Attila prese contro questo [p. 447 modifica]monumento di vanità Romana, fu innocente ed ingegnosa. Ei comandò ad un pittore, che rovesciasse le figure e le attitudini; e sulla medesima tela furon dipinti gl’Imperatori che si accostavano, in atto supplichevole, a votare i lor sacchi d’oro tributario avanti al trono del Monarca Scita52. Gli spettatori dovettero confessare la verità e la ragionevolezza di tal variazione; e furono forse tentati d’applicare in questa singolare occasione la ben nota favola della disputa fra il leone e l’uomo53.

È un detto degno del feroce orgoglio di Attila, che non nacque mai più erba in quel luogo, per cui era passato il suo cavallo. Pure quel selvaggio distruttore, senza volerlo, gettò i fondamenti d’una Repubblica, che fece risorgere nello stato feudale d’Europa l’arte e lo spirito dell’industria commerciante. Il celebre nome di Venezia54 estendevasi anticamente ad una vasta [p. 448 modifica]e fertil Provincia d’Italia, da’ Confini della Pannonia fino al fiume Adda, e dal Po alle Alpi Rezie e Giulie, Avanti l’invasione de’ Barbari, cinquanta città Venete fiorivano in pace e in prosperità: Aquileia era nel posto più cospicuo; ma l’antica dignità di Padova era sostenuta dall’agricoltura e dalle arti; ed il patrimonio di cinquecento cittadini, arruolati all’ordine equestre, doveva secondo il computo più tenue ascendere ad un milione settecentomila lire sterline. Molte famiglie d’Aquileia, di Padova e delle addiacenti città, che fuggivano dalla spada degli Unni, trovarono un salvo, quantunque oscuro, rifugio nelle vicine isole55. All’estremità del golfo, dove l’Adriatico debolmente imita le maree dell’Oceano, quasi cento piccole isole son separate con poco fondo d’acqua dal Continente, e difese da’ flutti mediante varie lingue di terra, che ammettono l’ingresso de’ Vascelli per mezzo di alcuni segreti e stretti canali56. Fino alla metà del quinto secolo, questi luoghi remoti e separati restaron senza coltivazione, con pochi abitanti e quasi senza nome veruno. Ma si formarono appoco appoco i costumi dei Veneti fuggitivi, le loro arti ed il loro governo dalla nuova situazione, in cui si trovarono, ed una dell’e[p. 449 modifica]pistole di Cassiodoro57, che descrive la lor condizione, circa settant’anni dopo, può risguardarsi come il primo documento della Repubblica. Il Ministro di Teodorico li paragona, col suo studiato declamatorio stile, ad uccelli acquatici, che avevan posti i lor nidi in seno alle acque; e quantunque convenga, che le Province Venete avevano anticamente contenuto molte nobili famiglie, fa conoscere però, ch’essi erano allora dalla disgrazia tutti ridotti all’istesso livello d’un umile povertà. Il comune e quasi universal cibo d’ogni ceto di persone era pesce; le uniche ricchezze loro consistevano in abbondanza di sale, ch’estraevan dal mare: ed il cambio di quella merce, sì necessaria per la vita umana, sostituivasi ne’ vicini mercati al corso della moneta d’oro e d’argento. Un Popolo, di cui poteva dubbiosamente assegnarsi l’abitazione alla terra od all’acqua, divenne ben presto ugualmente famigliare con ambidue gli elementi; e le domande dell’avarizia successero a quelle della necessità. Gl’Isolani, che da Grado a Chiozza erano intimamente connessi l’uno coll’altro, penetrarono nel cuor dell’Italia per la sicura, quantunque laboriosa, navigazione de’ fiumi e de’ canali Mediterranei. I loro vascelli, che conti[p. 450 modifica]nuamente crescevano in grandezza ed in numero, frequentavano tutti i porti del Golfo, e lo sposalizio, che Venezia celebra ogni anno coll’Adriatico, fu contratto nella sua prima infanzia. La lettera di Cassiodoro, Prefetto del Pretorio, è diretta a’ Tribuni marittimi; e gli esorta, con dolce tuono d’autorità, ad animare lo zelo de’ loro compatriotti pel pubblico servizio, che esigeva la loro assistenza per trasportare le provvisioni del vino e dell’olio, dalla provincia dell’Istria alla real città di Ravenna. Si spiega il dubbioso ufizio di questi Magistrati mediante la tradizione, che nelle dodici isole principali si creavano dodici Tribuni o Giudici con un’annua e popolar elezione. L’esistenza della Repubblica Veneta sotto il regno Gotico d’Italia, viene attestata dal medesimo autentico documento, che distrugge l’alta lor pretensione d’una perpetua ed originale indipendenza58.

Gl’Italiani, che da gran tempo aveano rinunziato all’esercizio delle armi, restaron sorpresi, dopo quarant’anni di pace, all’avvicinarsi d’un formidabile Barbaro, ch’essi abborrivano come il nemico della religione, ugualmente che della Repubblica loro. In mezzo alla generale costernazione, il solo Ezio era incapace di timore; ma era impossibile, ch’egli conducesse a termine, solo e senz’aiuto, veruna militare impresa, degna dell’antica sua fama. I Barbari, che avevan [p. 451 modifica]difeso la Gallia, ricusarono di marciare in soccorso dell’Italia; e gli aiuti, promessi dall’Imperatore orientale, erano distanti e dubbiosi. Ezio, alla testa delle sue truppe domestiche, si manteneva sempre in campagna, ed inquietava o ritardava la marcia d’Attila; nè mai con maggior verità si dimostrò grande, quanto nel tempo, in cui la sua condotta veniva biasimata da un ignorante ed ingrato Popolo59. Se lo spirito di Valentiniano fosse stato suscettivo di alcun sentimento generoso, avrebbe preso tal Generale per sua guida ed esempio. Ma il timido nipote di Teodosio invece di pigliar parte a pericoli, fuggì il suono della guerra; e la precipitosa sua ritirata da Ravenna a Roma, da una inespugnabil fortezza ad un’aperta capitale, dimostrò la sua segreta intenzione d’abbandonar l’Italia, tosto che si avvicinasse il pericolo, all’Imperial sua persona. Tal vergognosa abdicazione, però, fu sospesa da quello spirito di dubbio e di dilazione, che ordinariamente accompagna i pusillanimi consigli, e talvolta corregge le perniciose loro disposizioni. L’Imperatore occidentale, col Senato e Popolo di Roma, prese la risoluzione più salutare di calmare, mediante una solenne e supplichevole ambasceria, lo sdegno d’Attila. Fu accettata quest’importante commissione [p. 452 modifica]da Avieno, che per la sua nascita e ricchezza, per la sua consolar dignità, per la numerosa copia dei suoi aderenti, e per le personali sue qualità, teneva il primo posto nel Senato Romano. Lo specioso ed artificial carattere d’Avieno60 era mirabilmente accomodato a trattare una negoziazione sì di pubblico che di privato interesse; il suo collega Trigezio aveva esercitato la prefettura Pretoriana d’Italia; e Leone, Vescovo di Roma, acconsentì ad esporre la propria vita per la Salute del suo gregge. Si era esercitato, e dimostrato il genio di Leone61 nelle pubbliche disgrazie; ed egli ha meritato il nome di grande per l’efficace zelo, con cui si studiò di stabilire le sue opinioni e la sua autorità, sotto i venerabili nomi di Fede ortodossa, e d’Ecclesiastica disciplina. Furono introdotti nella tenda d’Attila i Romani ambasciatori, allorchè si trovava accampato in quel luogo, dove il Mincio con lenti giri si perde negli schiumosi flutti del lago Benaco62, e con la sua cavalleria Scitica [p. 453 modifica]calpestava le possessioni di Catullo e di Virgilio63. Il Barbaro Monarca gli ascoltò con favorevole ed anche rispettosa attenzione, e si comprò la liberazione dell’Italia con un’immensa somma o dote accordata per la Principessa Onoria. Lo stato, in cui si trovava il suo esercito, ne facilitò forse il trattato, ed affrettonne la ritirata. Lo spirito marziale de’ soldati erasi rilassato per l’abbondanza, e per l’indolenza che produce un clima caldo. I pastori del Norte, l’ordinario cibo de’ quali consisteva in latte ed in carne cruda, troppo liberamente si abbandonarono all’uso del pane, del vino, e de’ cibi preparati e conditi dall’arte di cucinare; ed il progresso delle malattie vendicò in qualche modo le ingiurie degl’Italiani64. Quando Attila dichiarò la sua risoluzione di portare le vittoriose sue armi alle porte di Roma, fu ammonito da[p. 454 modifica]gli amici, non meno che da’ nemici, che Alarico non aveva lungamente sopravvissuto alla presa di quella eterna città. Il suo spirito, superiore al pericolo reale, fu assalito da immaginari terrori; nè potè fuggir l’influenza della superstizione, che sì spesso avea secondato i suoi disegni65. La forte eloquenza, il maestoso aspetto, e le vesti sacerdotali di Leone eccitarono la venerazione d’Attila verso il Padre spirituale de’ Cristiani. L’apparizione de’ due Apostoli S. Pietro e S. Paolo, che minacciarono il Barbaro d’un’immediata morte, se non ascoltava le preghiere del loro Successore, è una delle più nobili leggende dell’Ecclesiastica tradizione. La salute di Roma potè meritare l’interposizione degli enti celesti; e si deve qualche indulgenza ad una favola, che si è rappresentata dal pennello di Raffaello, e dallo scalpello dell’Algardi66.

[A. 453] Il Re degli Unni, prima d’abbandonar l’Italia, minacciò di tornare in aria più terribile ed implacabile, se la Principessa Onoria, sua sposa, non fosse stata consegnata a’ suoi ambasciatori dentro il termine convenuto nel trattato. Frattanto però Attila sollevò la sua tenera ansietà coll’aggiungere una bella ragazza, [p. 455 modifica]chiamata Ildico, al catalogo innumerabile delle sue mogli67. Fu celebrato il lor matrimonio con barbarica pompa e solennità nel suo palazzo di legno di là dal Danubio; ed il Monarca, oppresso dal vino e dal sonno, si ritirò, ad un’ora tarda, dal banchetto al letto nuziale. I suoi Ministri continuarono a rispettare i piaceri o il riposo di lui, la maggior parte del giorno seguente, finattantochè l’insolito silenzio eccitò i loro timori e sospetti; e dopo d’aver tentato di svegliare Attila con alte e ripetute grida, entrarono finalmente nell’appartamento reale. Essi trovarono la sposa che sedeva tremante accanto al letto, tenendosi il volto coperto col proprio velo, e dolendosi del proprio pericolo, ugualmente che della morte del Re, ch’era spirato in quella notte68. Ad un tratto [p. 456 modifica]gli si era rotta un’arteria, e stando esso in positura supina, fu soffogato da un torrente di sangue, che invece di trovare un passaggio pel naso, regurgitò nei polmoni e nello stomaco. Fu solennemente esposto il suo corpo, in mezzo della campagna, sotto un padiglione di seta; e gli scelti squadroni degli Unni, girandovi intorno con misurate evoluzioni, cantavano un inno funereo alla memoria d’un Eroe, glorioso nella vita, invincibile nella morte, padre del suo Popolo, flagello de’ nemici, o terrore del Mondo. I Barbari, secondo il nativo loro costume, si tagliarono una parte di capelli, deturparono i loro volti con deformi ferite, e piansero il bravo lor Capitano come meritava, non con lagrime femminili, ma col sangue di guerrieri. Il cadavere d’Attila fu rinchiuso in tre casse, una d’oro, una d’argento, e l’altra di ferro, e segretamente sepolto in tempo di notte; furon gettate nel suo sepolcro le spoglie delle nazioni; gli schiavi che avevano scavato la terra, furono crudelmente uccisi; e gli stessi Unni, che si erano abbandonati a sì eccessivo dolore, stavano a mensa con dissoluta ed intemperante allegrezza intorno al recente sepolcro del Re. Si raccontava in Costantinopoli, che in quella fortunata notte, nella quale esso morì, Marciano vide in sogno l’arco d’Attila rotto in due parti; e convien confessare, che ciò prova quanto raramente l’immagine di quel formidabile Barbaro fosse lontana dalla mente d’un Imperator Romano69.

La rivoluzione, che rovesciò l’impero degli Unni, stabilì [p. 457 modifica]la fama d’Attila, il solo genio del quale avea sostenuto quella vasta e sconnessa fabbrica. Dopo la sua morte i capitani più arditi aspirarono al grado di Re: i Re più potenti ricusarono di riconoscere un superiore; ed i numerosi figli, che tante diverse madri avean partorito al defonto Monarca, divisero e disputaron fra loro, come un patrimonio privato, il sovrano Impero della Germania e della Scizia. L’audace Ardarico sentì, e rappresentò agli altri la vergogna di questa servil divisione; ed i valorosi Gepidi, suoi sudditi, con gli Ostrogoti, sotto la condotta di tre valorosi fratelli, incoraggirono i loro alleati a rivendicare i diritti della libertà e della dignità reale. In una sanguinosa e decisiva battaglia sulle rive del fiume Netad, nella Pannonia, la lancia de’ Gepidi, la spada de’ Goti, i dardi degli Unni, l’infanteria di Svevia, la leggiera armatura degli Eruli, e la grave degli Alani si affrontarono, o si sostennero fra di loro; e la vittoria d’Ardarico fu accompagnata dalla strage di trentamila de’ suoi nemici. Ellae, primogenito d’Attila, perdè la vita e la corona nella memorabil battaglia di Netad: il suo giovanil valore l’aveva innalzato al trono degli Acatziri, popolo Scita, ch’esso avea soggiogato; e suo padre, che amava l’eccellenza del merito, avrebbe invidiato la morte d’Ellac70. Dengisico [p. 458 modifica]suo fratello, con un’armata di Unni tuttavia formidabili nella fuga e rovina loro, si mantenne in campagna più di quindici anni sulle rive del Danubio. Il palazzo d’Attila, coll’antica regione della Dacia da’ colli Carpazi fino all’Eussino, divenne la sede di una nuova potenza, che fu istituita da Ardarico Re de’ Gepidi. Le conquiste Pannoniche, da Vienna fino a Sirmio, furon occupate dagli Ostrogoti; e le tribù, che avevano sì valorosamente sostenuto la nativa lor libertà, si stabilirono irregolarmente, occupando varj luoghi, secondo il grado delle respettive lor forze. Il regno di Dengisico, circondato ed oppresso dalla moltitudine degli schiavi di suo padre, fu ristretto al cerchio de’ suoi carriaggi; il disperato di lui coraggio lo spinse ad invader l’Impero d’Oriente; ma restò ucciso in battaglia; e la sua testa, ignominiosamente esposta nell’Ippodromo, somministrò un grato spettacolo al Popolo di Costantinopoli. Attila, o per tenerezza o per superstizione, s’era dato a credere che Irnae, il minor de’ suoi figli, fosse destinato a perpetuar la gloria della sua stirpe. Il carattere di questo Principe, che cercò di moderare la temerità del fratello Dengisico, era più conveniente allo stato di decadenza degli Unni; ed Irnae, con le orde a lui sottoposte, si ritirò nel cuore della bassa Scizia. Essi tosto furon sopraffatti da un torrente di nuovi Barbari, i quali seguitarono la medesima strada, che i propri loro maggiori avevano precedentemente scoperta. I Geugensi o Avari, de’ quali i Greci Scrittori fissano la sede su’ lidi dell’Oceano, urtarono le vicine tribù, finattantochè gli Iguri del Norte, uscendo da’ freddi paesi della Siberia, che producono le più preziose pelli, si sparsero [p. 459 modifica]nel deserto fino al Boristene, ed alle porte Caspie, e finalmente estinsero l’impero degli Unni71.

[A. 454] Tal evento avrebbe potuto contribuire alla salvezza dell’Impero Occidentale, sotto il regno d’un Principe che si fosse conciliata l’amicizia, senza perder la stima, de’ Barbari. Ma l’Imperatore dell’Occidente, il debole e dissoluto Valentiniano, ch’era giunto al suo trentesimo quinto anno senza giungere all’età della ragione o del coraggio, abusò di quest’apparente sicurezza, per far crollare i fondamenti del proprio trono, mediante l’uccisione di Ezio. Per un istinto di animo basso e geloso, egli odiava quell’uomo, che universalmente si celebrava come il terrore de’ Barbari, ed il sostegno della Repubblica; e l’eunuco Eraclio, suo nuovo favorito risvegliò l’Imperatore da quel supino letargo, che avrebbe potuto coprirsi, durante la vita di Placidia72, con la scusa di figliale pietà. La fama d’Ezio, la sua ricchezza e dignità, la numerosa e marzial copia di Barbari suoi seguaci, i suoi potenti aderenti, che occupavano gl’impieghi civili dello Stato, [p. 460 modifica]e le speranze di Gaudenzio suo figlio, che aveva già contratto la promessa di matrimonio con Eudossia figlia dell’Imperatore, l’avevano inalzato sopra il grado di suddito. Gli ambiziosi disegni, de’ quali esso fu segretamente accusato, eccitarono i timori, ugualmente che lo sdegno di Valentiniano. Ezio medesimo, sostenuto dalla coscienza del proprio merito, de’ suoi servigi, e forse della sua innocenza, pare che tenesse un altiero ed indiscreto contegno. Il Patrizio offese il suo Sovrano con una ostile dichiarazione; aggravò l’offesa, costringendolo a ratificare, con solenne giuramento, un trattato di riconciliazione e d’alleanza; pubblicò i suoi sospetti; trascurò la propria sicurezza; e per una vana opinione, che il nemico da lui disprezzato fosse incapace fino d’un delitto virile, espose la sua persona, entrando nel palazzo di Roma. Mentre egli insisteva, forse con ardore smoderato, sulle nozze del suo figlio, Valentiniano, sfoderata la spada, la prima spada che avesse giammai sguainato, l’immerse nel petto d’un Generale, che aveva salvato il suo impero: i suoi cortigiani ed eunuchi ambiziosamente si studiarono d’imitare il loro Signore; ed Ezio, trafitto da cento ferite, cadde morto alla presenza reale. Nel momento stesso fu ucciso Boezio, Prefetto del Pretorio; e prima che fosse divulgato il fatto, furon chiamati al Palazzo i principali amici del Patrizio, e separatamente ammazzati. L’orrido avvenimento, palliato sotto gli speciosi nomi di giustizia e di necessità, fu subito comunicato dall’Imperatore a’ propri soldati, sudditi, ed alleati. Le nazioni, ch’erano indifferenti o nemiche d’Ezio, generosamente deplorarono l’indegno destino d’un Eroe: i Barbari, suoi aderenti, dissimularono il loro sdegno e dispiacere; ed il pubblico disprezzo, che [p. 461 modifica]da tanto tempo si aveva per Valentiniano, si convertì ad un tratto in un alto ed universale abborrimento. Tali sentimenti rade volte penetrano le mura d’un palazzo; pure l’Imperatore fu confuso dall’onesta risposta d’un Romano, di cui non aveva sdegnato di cercare l’approvazione: „Io non so, disse, o Signore, quali sono i motivi e le occasioni, che avete avuto; quel che so, è che voi avete operato come un uomo che taglia la sua destra con la sinistra„73.

Sembra, che la lussuria di Roma attirasse le lunghe e frequenti visite di Valentiniano, il quale per conseguenza era più disprezzato a Roma, che in qualunque altra parte de’ suoi Stati. Era insensibilmente risorto nel Senato uno spirito repubblicano, a misura che l’autorità ed anche gli aiuti di esso divennero necessari a sostenere il suo debol governo. Il superbo contegno d’un Monarca ereditario offendeva l’orgoglio di quello; ed i piaceri di Valentiniano erano ingiuriosi alla pace ed all’onore delle famiglie nobili. La nascita dell’Imperatrice Eudossia era uguale alla sua, e le grazie, non meno che il tenero affetto di essa, meritavano quelle testimonianze d’amore, che l’incostante di lei marito dissipava in vaghi ed illegittimi oggetti. Petronio Massimo, ricco Senatore della famiglia Anicia, ch’era stato due volte Console, aveva una casta e bella moglie; l’ostinata di lei resistenza non servì che ad irritare i desideri di Valentiniano; ed esso risolvè di soddisfarli o per inganno, o per forza. Uno [p. 462 modifica]de’ vizi della Corte era il giuoco precipitoso: l’Imperatore, che a caso o per astuzia aveva vinto a Massimo una somma considerabile, scortesemente volle il suo anello in pegno del debito; e lo mandò per un fedel messaggiero alla moglie di esso con un ordine, in nome del marito, ch’ella immediatamente si portasse presso l’Imperatrice Eudossia. La moglie di Massimo, senza sospetto alcuno, si fece nella propria lettiga trasportare al Palazzo Imperiale; gli emissari dell’impaziente amante di lei la condussero ad una remota, e tacita camera; e Valentiniano violò, senza rimorso, le leggi dell’ospitalità. Le lacrime di lei, quando tornò a casa; la sua profonda afflizione e gli amari suoi rimproveri contro il marito, ch’essa risguardava come complice della sua vergogna, eccitarono Massimo ad una giusta vendetta; il desiderio della vendetta era stimolato dall’ambizione, ed egli poteva con fondamento aspirare, mediante i liberi voti del Senato Romano, al trono d’un odiato e disprezzabil rivale. Valentiniano, il quale supponeva che ogni petto umano fosse, come il suo, privo d’amicizia e di gratitudine, aveva imprudentemente ammesso fra la sue guardie vari domestici seguaci di Ezio. Due fra questi, di stirpe barbara, furono indotti ad eseguire un sacro ed onorevol dovere con punir di morte l’assassino del loro Signore; e l’intrepido loro coraggio non aspettò lungamente il favorevol momento di farlo. Mentre Valentiniano si divertiva nel campo di Marte ad osservare alcuni esercizi militari, essi ad un tratto l’assalirono con le armi sguainate, uccisero il colpevole Eraclio, e passarono il cuore all’imperatore, senza che il numeroso suo seguito facesse la minima opposizione, sembrando che tutti si rallegrassero della morte del Tiranno. Tale fu [p. 463 modifica]il fine di Valentiniano III74, ultimo Imperator Romano della famiglia di Teodosio. Imitò esso fedelmente l’ereditaria debolezza del suo cugino, e de’ suoi due zii, senza ereditare le gentili maniere, la purità e l’innocenza, che ne’ loro caratteri alleggeriscono il difetto di mancanza di spirito e d’abilità. Valentiniano era meno scusabile, poichè aveva le passioni senza le virtù, si potea dubitare fino della sua religione; e quantunque non deviasse mai ne’ sentieri dell’eresia, scandalizzò i devoti Cristiani col suo attaccamento alle profane arti della magia e della divinazione.

[A. 455] Fino da’ tempi di Cicerone, e di Varrone, era opinione degli Auguri Romani, che i dodici avoltoi, veduti da Romolo, rappresentassero i dodici secoli assegnati alla fatal durata della sua città75. Questa profezia, disprezzata forse nel tempo della prosperità e del vigore, inspirò al Popolo molte triste apprensioni, quando fu prossimo al suo termine il duodecimo secolo, oscurato dalla vergogna e dalla disgrazia76; ed [p. 464 modifica]anche la posterità dee confessare con qualche sorpresa, che l’arbitraria interpretazione d’un’accidentale o favolosa circostanza si è realmente verificata nella caduta dell’occidentale Impero. Ma la sua rovina fu annunziata da un augurio più chiaro del volo degli avoltoi: il Governo Romano sembrava ogni giorno meno formidabile a’ suoi nemici, e più odioso ed oppressivo a’ suoi sottoposti77. S’erano moltiplicate le tasse con la pubblica calamità; si trascurava l’economia, a misura ch’era divenuta più necessaria; e l’ingiustizia dei ricchi scaricava i disuguali pesi sulla plebe, ch’essi defraudavano de’ doni, che talvolta ne avrebbero potuto sollevar la miseria. La severa inquisizione, che confiscava i loro beni, e tormentava le persone, costringeva i sudditi di Valentiniano a preferire la più semplice tirannia de’ Barbari, a fuggire a’ boschi, ed alle montagne, o ad abbracciare l’abbietta e vil condizione di servi mercenari. Essi deponevano ed abborrivano il nome di Cittadini Romani, che in altri tempi [p. 465 modifica]aveva eccitato l’ambizion dell’uman genere. Le Province Armoriche della Gallia, e la maggior parte della Spagna, si erano ridotte ad uno stato d’irregolare indipendenza, per mezzo delle confederazioni de’ Bagaudi; ed i Ministri Imperiali perseguitavano con leggi di proscrizioni, e con armi inefficaci i ribelli, che da loro medesimi, si erano creati78. Se tutti i conquistatori Barbari fossero stati annichilati ad un tratto, l’intera lor distruzione non avrebbe fatto risorgere l’Impero dell’Occidente: e se Roma tuttavia sopravvisse, sopravvisse priva di libertà, di virtù, e d’onore.

Note

    traduntur. Prosper. Tyron., Chron. in Histor. de Franc. Tom. 1. p. 639. Pochi versi dopo, Prospero nota che furono assegnate agli Alani delle terre nella Gallia ulteriore. Senz’ammetter la correzione dell’Ab. Dubos (Tom. 1. p. 300), la ragionevole supposizione di due colonie, o guarnigioni di Alani confermerà i suoi argomenti, e toglierà le obiezioni.

  1. Vedi Prisco p. 39, 72.
  2. La Cronica Alessandrina o Pasquale, che fa menzione di questa orgogliosa ambasciata al tempo di Teodosio, può averne anticipata la data; ma il debole annalista era incapace d’inventare il genuino ed originale stile di Attila.
  3. Il secondo libro dell’Istoria critica dello stabilimento della Monarchia Francese (Tom. 1, p. 189, 424) sparge gran luce sopra lo stato della Gallia, quando fu invasa da Attila; ma l’Abbate Dubos, ingegnoso autore di essa, troppo spesso si abbandona al sistema ed alle congetture.
  4. Vittore Vitense (de persecut. Vandal. l. 1, c. 6, p. 8. Edit. Ruinart) lo chiama acer consilio et strenuus in bello. Ma quando divenne disgraziato, il suo coraggio fu censurato come una disperata temerità; e Sebastiano meritò, o piuttosto gli fu attribuito l’epiteto di praeceps (Sid. Apolim., Carm. IX. 181). Sono leggiermente notate le sue avventure in Costantinopoli, nella Sicilia, nella Gallia, nella Spagna, e nell’Affrica dalle Croniche di Marcellino, e d’Idazio. Nella sua disgrazia egli ebbe sempre un numeroso seguito di compagni; mentre potè saccheggiar l’Ellesponto, e la Propontide, e prendere la città di Barcellona.
  5. Reipublicae Romanae singulariter natus, qui superbiam Svevorum, Francorumque barbariem immensis caedibus servire Imperio Romano coegisset. (Giornand., de Reb. Get. c. 34 p. 660).
  6. Questo ritratto è ricavato da Renato Profuturo Frigerido, scrittore contemporaneo, conosciuto solo per mezzo di alcuni estratti, che ci sono stati conservati da Gregorio di Tours (L. II. c. 8. in. Tom. II. p. 163). Era probabilmente dovere, o almeno interesse di Renato il magnificare le virtù d’Ezio: ma egli avrebbe dimostrato maggior destrezza, se non avesse insistito sulla sua inclinazione a soffrire, ed a perdonare.
  7. L’Ambasceria era composta del Conte Romolo, di Promoto, Presidente del Norico, e di Romano, Duce militare. Essi erano accompagnati da Tatullo, illustre cittadino di Petovio, città dell’istessa Provincia, e padre d’Oreste, che aveva sposato la figlia del Conte Romolo. Vedi Prisco p. 57, 65. Cassiodoro (part. 1, 4) fa menzione d’un’altra ambasceria, che fu sostenuta da suo padre, e da Carpilione figlio d’Ezio; e siccome Attila non v’era più, esso potè sicuramente vantare il virile ed intrepido loro contegno nella sua presenza.
  8. Deserta Valentinae urbis rara Alanis partienda
  9. Vedi Prosp. Tyr. p. 639. Sidonio (Paneg. Avit. 246) si duole in nome dell’Alvernia sua Patria.

    Lithorius Scythicos equites, tunc forte subacto
    Celsus Aremorico, Geticum rapiebat in agmen
    Per terras, Arverne, tuas, qui proxima quaeque
    Discursu, flammis, ferro, feritate, rapinis,
    Delebant; pacis fallentes nomen inane.

    Un altro Poeta, cioè Paolino del Perigord, conferma questo lamento. Nam socium vix ferre queas, qui durior hoste. Vedi Dubos Tom. 1 p. 330.

  10. Teodorico II figlio di Teodorico I, dichiara ad Avito la sua risoluzione di riparare o d’espiare la colpa, che aveva commesso il suo avo:

    Quae noster peccavit avus, quem fuscat id unum,
    Quod Te, Roma, capit... (Sidon., Panneg. Avit. 505)

    Questo carattere, applicabile solo al Grande Alarico, stabilisce la genealogia de’ Re Goti, che fin qui era stata ignota.

  11. Il nome di Sapaudia, da cui vien quello di Savoja, è rammentato per la prima volta da Ammiano Marcellino; e dalla Notizia si collocano due posti militari dentro i limiti di quella Provincia; a Grenoble nel Delfinato era stazionata una coorte; ed Ebrodunum o Iverdon difendeva una flotta di piccoli vascelli, che dominavano il lago di Neufchatel. Vedi Vales., Notit. Galliar. p. 503. Danville, Notice da l’ancien. Gaul. p. 284, 579.
  12. Salviano ha tentato di spiegare il moral governo della Divinità; il che può facilmente farsi col supporre, che la calamità de’ malvagi sono giudizi, e quelle de’ giusti prove di Dio.
  13. ... Capto terrarum damna patebant
    Lithorio, in Rhodanum proprios producere fines,
    Theudoridae fixum: nec erat pugnare necesse,
    Sed migrare Getis; rabidam trux asperat irum
    Victor, quod sensit Scythicum sub moenibus hostem
    Imputat, et nihil est gravius, si forsitan umquam
    Vincere contingat trepido
    ... (Paneg. Avit. 300 etc.).

    Sidonio quindi prosegue, secondo il dovere d’un Panegirista, a trasferire tutto il merito da Ezio ad Avito suo Ministro.

  14. Teodorico II venerava nella persona d’Avito il carattere di suo precettore:

    ..... Mihi Romula dudum
    Per te Jura placent: parvumque ediscere jussit
    Ad tua verba pater, docili quo prisca Maronis
    Carmine molliret Scythicos mihi pagina mores.

    Sidon., Panegyr. Avit. 495. etc.

  15. I nostri autori pel regno di Teodorico I. sono Giornandes (de reb. Getic. c. 34 e 36), e le Croniche d’Idazio, e de’ due Prosperi inserite negl’Istorici di Francia (T. 1. p. 612-640). A questi possiamo aggiungere Salviano (de Gubern. Dei l. VII. p. 243, 244, 245) ed il Panegirico d’Avito fatto da Sidonio.
  16. Reges criuitos se creavisse de prima, et ut ita dicam nobiliori suorum familia (Gregor. Turon. l. II. c. 9. p. 166 del secondo volume degl’istorici di Francia). Gregorio stesso non fa menzione del nome di Merovingi, che si trova però indicato al principio del settimo secolo, come distintivo della famiglia reale, ed anche della Monarchia Francese. Un ingegnoso critico ha fatto derivare i Merovingi dal gran Maroboduo, ed ha provato chiaramente, che il Principe, che diede il suo nome alla prima stirpe, fu più antico del padre di Childerico. Vedi Memoir. de l’Acad. des Inscript. Tom. XX. p. 52-90. Tom. XXX. p. 557, 587.
  17. Questo costume Germano, che si trova continuato da Tacito fino a Gregorio di Tours, finalmente fu adottato anche dagl’Imperatori di Costantinopoli. Montfaucon da un manoscritto del decimo secolo ha tratto e rappresentato tal cerimonia, che l’ignoranza di quel tempo applicò al Re David. Vedi Monum. de la Monarch. Franc. Tom. I. Disc. prelim.
  18. Caesaries prolixa... crinium flagellis per terga dimissis etc. Vedi la Prefazione al terzo volume degl’Istorici di Francia, e l’Abbate le Boeuf (Dissert. Tom. III. p. 47, 79). Questo particolar uso de’ Merovingi si è notato da’ Nazionali e dagli stranieri, da Prisco Tom. I. p. 608, da Agatia T. II. p. 49, e da Gregorio di Tours L. III. 18. VI. 24. VIII. 10. Tom. II. p. 196, 278, 316.
  19. Vedasi una pittura originale della figura, delle vesti, delle armi, e del carattere degli antichi Franchi presso Sidonio Apollinare (Panegir. Major. 238, 254) e tali pitture, quantunque fatte rozzamente, hanno un reale ad intrinseco valore. Il P. Daniel (Hist. de la milice Franc. Tom. 1 p. 2-7) ha illustrato tal descrizione.
  20. Dubos, Hist. crit. etc. Tom. 1. p. 271, 272. Alcuni Geografi hanno posto Dispargo sulla parte Germanica del Reno. Vedi una nota degli Editori Benedettini agl’Istorici di Francia Tom. II. p. 166.
  21. La selva Carbonaria era quella parte della gran foresta delle Ardenne, che si trova fra la Schelda e la Mosa. Vales., Notit. Gall. p. 126.
  22. Gregor. Turon. l. II, c. 9 in Tom. II, p. 166, 167. Fredegar. Epitom. c. 9 pag. 395 Gest. Reg. Francor, c. 5 in Tom. II, p. 544 Vit. S. Remig. ab Hincmar. in Tom. III, p. 373.
  23. .... Francus qua Cloio patentes
    Atrebatum terras pervaserat... (Panegyr. Major. an. 212). Il posto preciso fu un castello o villaggio chiamato vicus Helena; e sì il nome che il luogo da’ moderni Geografi si sono scoperti a Lens. Vedi Valesio, Notit. Gall. p. 246. Longuerue, descript. de la Franc. Tom. II p. 88.
  24. Vedasi una inesatta narrazione del fatto presso Sidonio, Panegyr. Majorian. 212, 230. I Critici Francesi, impazienti di stabilire la loro Monarchia nella Gallia, hanno tratto un forte argomento dal silenzio di Sidonio, che non ardisce dire perchè i Franchi superati fosser costretti a ripassare il Reno. Dubos Tom. 1. p. 322.
  25. Salviano (De Gubern. Dei l. VI) ha esposto con istile declamatorio e vagante le disgrazie di queste tre città, che sono distintamente riportate dall’erudito Mascovio; Istor. degli antichi Germani IX. 21.
  26. Prisco, nel raccontare la contesa, non dice i nomi dei due fratelli; il secondo de’ quali giovane senza barba con lunga ondeggiante chioma aveva esso veduto a Roma (Histor. de Franc. Tom. I. p. 607, 608). Gli Editori Benedettini son disposti a credere, che questi fossero figli di qualche incognito Re de’ Franchi, che regnava sulle rive del Necker; ma sembra, che gli argomenti del Foncemagne (Mem. de l’Acad. Tom. VIII. p. 464) provino, che la successione di Clodione fosse disputata da’ due suoi figli, e che il minore di essi fosse Meroveo padre di Childerico.
  27. Durante la stirpe de’ Merovingi, il trono fu ereditario; ma tutti i figli del defunto Monarca avevano ugual diritto alla lor parte delle ricchezze e degli Stati di esso. Vedi la dissertazione del Foncemagne ne’ tomi VI e VII delle Memorie dell’Accademia.
  28. Sussiste tuttavia una medaglia, che dimostra l’avvenente figura d’Onoria col titolo d’Augusta; e nel rovescio si legge impropriamente salus Reipublicae intorno al monogramma di Cristo. Vedi Du Cange Famil. Byzant. p. 67, 70.
  29. Vedi Prisco p. 39, 40. Poteva plausibilmente allegarsi, che se le donne potevan succedere al trono, Valentiniano medesimo, che avea sposato la figlia ed erede di Teodosio il Giovane, avrebbe avuto diritto all'Impero orientale.
  30. Le avventure d’Onoria sono imperfettamente riferite da Giornandes (de success. regn. c. 97 e de reb. Get. c. 42 p. 674), e nelle Croniche di Prospero e di Marcellino; ma non possono essere coerenti o probabili, se non separiamo con un intervallo di tempo e di luogo il suo intrigo con Eugenio, e l’invito che fece ad Attila.
  31. Exegeras mihi, ut, promitterem tibi, Attila bellum stylo me posteris intimaturum.... coeperam scribere, sed operis arrepti fasce perspecto, taeduit inchoasse: Sidon. Apolin. lib. VIII Ep. 15 p. 246.
  32. ..... Subito cum rupta tumultu
    Barbaries totas in te transfuderat Arctos
    Gallia. Pugnacem Rugum, comitante Gelono
    Gepida trux sequitur. Scyrum Burgundio cogit,
    Chunus, Bellonotus, Neurus, Bastarna
    , Toringus

    Bructerus, ulvosa quem vel Nicer abluit unda,
    Prorumpit Francus. Cecidit cito secta bipenni
    Hercynia in lintres, et Rhenum texuit alno.
    Et iam terrificis diffunderat Attila turmis
    In campos se Belga tuos....

    (Paneg. Avit. 320).

  33. La narrazione più autentica e circostanziata di questa guerra trovasi presso Giornandes (de reb. Getic. c. 36, 41 p. 662, 672) che alle volte ha compendiata, ed alle volte copiata l’istoria più estesa di Cassiodoro. Giornandes, che sarebbe superfluo di citare più volte, può correggersi, ed illustrarsi per mezzo di Gregorio di Tours (l. 2 c. 5, 6, 7) e delle Croniche d’Idazio, d’Isidoro, e de’ due Prosperi. Tutte le antiche testimonianze sono state raccolte ed inserite fra gl’Istorici di Francia, ma il Lettore dee stare in guardia contro un supposto estratto della Cronica d’Idazio (fra i frammenti di Fredegario Tom. II pag. 462) che spesso contraddice il testo genuino del Vescovo di Galizia.
  34. Le antiche leggende meritano qualche riguardo in quanto son costrette ad unire alle loro favole la vera storia de’ loro tempi. Vedansi le vite di S. Lupo, di S. Aniano Vescovi di Metz, di S. Genovieffa ec. fra gl’Istorici di Francia Tom. I, p. 644, 645, 649 Tom. III, p. 369.
  35. Lo Scetticismo del Conte di Buat (Hist. des Peupl. Tom. VII, p. 539, 540) non può combinarsi con alcuno principio di ragione, o di critica. Non è forse Gregorio di Tours preciso, e positivo nel suo racconto della distruzione di Metz? Alla distanza di non più di cento anni poteva egli ed il Popolo ignorare il destino d’una città, ch’era la residenza attuale de’ Re d’Austrasia, suoi sovrani? L’erudito Conte, che sembra avere intrapreso l’apologia d’Attila e dei Barbari, cita il falso Idazio parcens civitatibus Germaniae et Galliae, e non si rammenta, che il vero Idazio ha espressamente affermato, plurimae civitates affractae, fra le quali conta anche Metz.
  36. ....... Ut liquerat Alpes
    Aetius, tenue et rarum sine milite ducens
    Robur, in auxiliis Geticum male credulus agmen
    Incassum propriis praesumens adjere castris.

  37. Si descrive imperfettamente la politica d’Attila, d’Ezio, e de’ Visigoti nel Panegirico d’Avito, e nel cap. 36 di Giornandes. Tanto il Poeta, che l’Istorico erano preoccupati da personali o nazionali pregiudizi. Il primo esalta il merito e l’importanza d’Avito: Orbis, Avite, salus, etc. L’altro è ansioso di porre i Goti nell’aspetto più favorevole. Pure la coerenza dell’uno coll’altro, quando son bene interpetrati, è una prova della loro veracità.
  38. L’enumerazione dell’armata d’Ezio si fa da Giornandes c. 36 p. 644. Edit. Grot. Tom. II, p.23 degl’Istorici di Franc. con le note dell’Editore Benedettino. I Leti erano una razza promiscua di Barbari nati o naturalizzati nella Gallia; i Ripari o Ripuari traevano il loro nome dalla loro situazione su’ tre fiumi, il Reno, la Mosa, e la Mosella; gli Armorici possedevano le città indipendenti fra la Senna e la Loira; si era piantata una colonia di Sassoni nella diocesi di Bayeux; i Borgognoni erano stabiliti nella Savoia; ed i Breoni erano una guerriera tribù de’ Reti, all’Oriente del lago di Costanza.
  39. Aurelianensis urbis obsidio, oppugnatio, irruptio, nec direptio (l. V Sidon. Appollin. l. VIII Epist. 15 p. 246). La liberazione d’Orleans si sarebbe facilmente potuta convertire in un miracolo, ottenuto e predetto dal Santo Vescovo.
  40. Nelle comuni edizioni, si legge XCM; ma v’è qualche autorità di Manoscritti (e qualunque autorità è sufficiente) pel numero più ragionevole di XVM.
  41. Scialons, o Duro-Catalaunum, di poi Catalauni, anticamente formava una parte del territorio di Rheims, da cui non è distante che 27 miglia. Vedi Valesio notit. Gall. p. 136. Danville notice de l’ancien. Gaule p. 212, 279.
  42. Si fa spesso menzione della Campania, o Sciampagna da Gregorio di Tours; e quella gran Provincia, di cui Rheims era la Capitale, obbediva al governo d’un Duca. Valesio notit. 120, 123.
  43. Io so, che queste orazioni militari soglion ordinariamente comporsi dagl’Istorici; pure i vecchi Ostrogoti, che avevan militato sotto Attila, poterono raccontare il suo discorso a Cassiodoro: le idee, ed anche l’espressioni hanno cert’aria originale Scita; ed io dubito se ad un Italiano del sesto secolo fosse caduta in mente la frase hujus certaminis gaudia.
  44. L’espressioni di Giornandes, o piuttosto di Cassiodoro, sono estremamente forti: bellum atrox, multiplex, immane, pertinax, cui simile nulla usquam narrat antiquitas: ubi talia gesta referuntur, ut nihil esset, quod in vita sun cospicere potuisset egregius, qui hujus miraculi privaretur aspectu. Dubos (Hist. crit. Tom. I, p. 392, 393 ) tenta di conciliare i 162,000 di Giornandes co’ 300,000 d’Idazio, e di Isidoro, supponendo, che il maggior numero contenesse la total distruzione della guerra, gli effetti delle malattie, la strage del Popolo inerme ec.
  45. Il Conte di Buat (Hist. des Peuples etc. Tom. VII, p. 554, 573) seguitando sempre il falso Idazio, e di nuovo rigettando il vero, ha diviso la disfatta d’Attila in due gran battaglie; la prima vicino ad Orleans, la seconda nella Sciampagna: nell’una, secondo esso, Teodorico fu ucciso; nell’altra fu vendicato.
  46. Giornandes, de reb. Getic. c. 41 p. 67l. 1a politica d’Ezio, e la condotta di Torrismondo son molto naturali; ed il Patrizio, secondo Gregorio di Tours (lib. II, c. 7, p. 163), allontanò il Principe de’ Franchi con suggerirgli un simil timore. Il falso Idazio ridicolosamente pretende, ch’Ezio facesse di notte una segreta visita al Re degli Unni e de’ Visigoti; da ciascheduno dei quali ricavasse un dono di diecimila monete d’oro per prezzo d’una quieta ritirata.
  47. Queste crudeltà, che sono pateticamente deplorate da Teodorico, figlio di Clodoveo (Gregorio di Tours lib. III, c. 10 p. 190), convengono al tempo, ed alle circostanze della invasione d’Attila. La tradizion popolare attestò per lungo tempo la sua residenza in Turingia; e si suppone aver esso adunato un couroultai, o dieta nel territorio d’Eisenach. Vedi Mascovio (IX. 30), che stabilisce con minuta accuratezza l’estensione dell’antica Turingia, e ne trae il nome dalla Gotica tribù de’ Tervingi.
  48. Machinis constructis, omnibusque tormentorum generibus adhibitis Giornandes c. 42 p. 673. Nel secolo decimo terzo i Mongoli batterono le città della China con grandi macchine costruite da’ Maomettani o Cristiani, ch’erano al loro servizio; esse gettavano pietre di peso da 150 a 300 libbre. I Chinesi usavano la polvere da cannoni, ed anche le bombe in difesa del loro paese, circa cento anni prima che fossero conosciute in Europa; eppure anche quella celesti o infernali armi furono insufficienti a difendere una pusillanime nazione. Vedi Gaubil, Hist. des Mongous pag. 70, 71, 155, 157 ec.
  49. Si racconta la medesima storia da Giornandes, e da Procopio (de Bell. Vand. l. 1 c. 4 p. 187, 188); e non è facile il decidere quale de’ due sia l’originale. Ma l’Istorico Greco è caduto in un errore inescusabile nel porre l’assedio d’Aquileia dopo la morte d’Ezio.
  50. Giornandes, circa cento anni dopo, asserisce, che Aquileia era tanto rovinata, ut vix ejus vestigia, ut appareant, reliquerint. Vedi Giornandes, de reb. Get. c. 42 pag. 673. Paul. Diac. lib. 2, c. 14, p. 785. Luitprando, Hist. lib. III, c. 2. Il nome d’Aquileia fu dato talvolta a Forum Julii (Cividal del Friuli) Capitale più recente della Provincia Veneta.
  51. Nel descriver questa guerra d’Attila, guerra sì famosa, ma sì mal conosciuta, ho preso per mie guide due dotti Italiani, che hanno esaminato il Soggetto con certi particolari vantaggi; il Sigonio, de Imper. Occid. l. XIII nelle sue opere Tom. 1 p. 495, 502, ed il Muratori, Annali d’Ital. Tom. IV. p. 129, 235 ediz. in 8.°.
  52. Questo fatto può trovarsi in due diversi articoli (μεδιολανον e κορυκος) della miscellanea compilazione di Suida.
  53. Leo respondit, humana hoc pictum manu:
    Videres hominem deiectum, si pingere
    Leones scirent...... Append. ad Phaedr., Fab.
    25.

    Il Leone, appresso Fedro, molto stoltamente s’appella dalle pitture all’anfiteatro; ed ho piacere d’osservare, che il naturale e giudizioso La Fontaine (l. III. Fab. X.) abbia tralasciato questa molto difettosa ed impropria conclusione.

  54. Paolo Diacono (de Gest. Longob. l. II, c. 14, p. 784) descrive le Province d’Italia verso il fine dell’ottavo secolo: Venetia non solum in paucis insulis, quas nunc Venetias dicimus, constat, sed ejus terminus a Pannoniae finibus usque Adduam fluvium protelatur. L’istoria di quella Provincia fino al tempo di Carlo Magno forma la prima e più importante parte della Verona illustrata (p. 1, 388), nella quale il Marchese Scipione Maffei si è dimostrato capace di grandi vedute, non meno che di minute ricerche.
  55. Non si dimostra quest’emigrazione con alcuna prova contemporanea: ma il fatto si prova dal successo, e se ne possono esser conservate le circostanze dalla tradizione. I cittadini d’Aquileia si ritirarono all’Isola di Grado, quelli di Padova a Rivus altus, o Rialto, dove poi fu edificata la città di Venezia ec.
  56. La topografia, e le antichità delle isole Venete da Grado a Clodia o Chiozza sono esattamente fissate nella Dissertazione Corografica de Italia medii aevi p. 151, 155.
  57. Cassiodoro, Var. l. XII, ep. 24. Il Maffei (Verona illustr. P. 1. p. 240, 154) ha tradotto e spiegato questa curiosa Lettera, da erudito antiquario, e da suddito fedele, che risguardava Venezia, come l’unica legittima prole della Repubblica Romana. Egli fissa la data della lettera, e conseguentemente la Prefettura di Cassiodoro all’anno 523; e di tanto maggior peso è l’autorità del Marchese, ch’esso aveva preparato un’edizione delle opere di Cassiodoro, e pubblicò una dissertazione sulla vera ortografia del suo nome. (Vedi Osservazioni Letterar. Tom. II. p. 290, 339).
  58. Vedasi nel secondo tomo dell’Istoria del Governo di Venezia d’Amelot della Houssaie una traduzione del famoso Squittinio. Questo libro, che è stato esaltato molto al di là de’ suoi meriti, è macchiato in ogni verso dalla non ingenua malevolenza di parte: ma vi son mescolate insieme le principali prove genuine con le apocrife; ed il lettore sceglierà facilmente la via di mezzo.
  59. Il Sirmondo ha pubblicato (not. ad Sidon. Apollin. p. 19) un curioso passo, tratto dalla cronica di Prospero. Attila, redintegratis viribus, quas in Gallia amiserat Italiam ingredi per Pannonias intendit; nihil duce nostro Hetio secundum prioris belli opera prospiciente ec. Egli rimprovera Ezio d’aver trascurato di guardar le alpi, e del disegno d’abbandonar l’Italia. Ma questa temeraria censura può almeno contrabbilanciarsi dalle favorevoli testimonianze d’Idazio e d’Isidoro.
  60. Si vedano gli originali ritratti d’Avieno, e di Basilio, suo rivale, delineati e posti in confronto fra loro, nelle Lettere (l. I. p. 22) di Sidonio. Esso avea studiato i caratteri de’ due Capi del Senato; ma si attaccò a Basilio, come ad un amico più solido e disinteressato.
  61. Si posson ravvisare i principj ed il carattere di Leone in cento quarantuna lettere originali, che illustrano l’istoria Ecclesiastica del suo lungo e laborioso Pontificato, dall’anno 440 al 46l. Vedi Du Pin, Bibl. Eccles. Tom. III, Par. II, p. 120, 165.
  62. ........ Tardis ingens ubi flexibus errat
    Mincius, et tenera praetexit arundine ripas.
    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
    Anne lacus tantos te, Lari maxime teque,
    Fluctibus et fremitu assurgens, Benace, marino.

  63. Il Marchese Maffei (Verona illustrat. part. I. p. 95, 129, 221 Part. II. §. 6) ha schiarito con gusto ed erudizione questa interessante topografia. Esso pone l’abboccamento d’Attila e di S. Leone vicino ad Ariolica o Ardelica, ora Peschiera, all’unione del lago e del fiume; fissa la villa di Catullo nella deliziosa penisola di Sarmio, e scuopre l’Andes di Virgilio nel Villaggio di Bande, precisamente situato qua se subducere colles incipiunt, dove i colli Veronesi insensibilmente s’abbassano verso la pianura di Mantova.
  64. Si statim infesto agmine urbem petiissent, grande discrimen esset. Sed in Venetia, qua fere tractu Italia mollissima est, ipsa soli coelique clementia robur elanguit. Ad hoc panis usu, carnisque coctae, et dulcedine vini mitigatos etc. Questo passo di Floro (III. 5) è anche più applicabile agli Unni, che a’ Cimbri, e può servire come di comentario al contagio celeste, con cui Idazio ed Isidoro hanno afflitto le truppe d’Attila.
  65. L’istorico Prisco ha fatto positivamente menzione dell’effetto, che produsse tal esempio sull’animo d’Attila. Giornandes c. 42 p. 673.
  66. La pittura di Raffaello è nel Vaticano; il basso, o piuttosto l’alto rilievo dell’Algardi è in uno degli altari di S. Pietro (Vedi Dubos, Reflex. sur la Poes. et sur la Peint. Tom. I. p. 519, 520). Il Baronio (Annal. Eccl. an. 452, n. 57, 58) sostiene bravamente la verità di quest’apparizione, che per altro vien rigettata da’ più eruditi e pii Cattolici.
  67. Attila, ut Priscus historicus refert, extinctionis suae tempore puellam Ildico nomine decoram valde sibi in matrimonium post innumerabiles uxores.... socians. Giornandes c. 49 p. 683, 684; quindi aggiunge (c. 50, p. 686). Filii Attilae, quorum per licentiam libidinis pene populus fuit. Fra’ Tartari d’ogni tempo è stata in uso la poligamia. Si regola il grado delle mogli volgari soltanto dalla bellezza della loro persona; ed una matrona avanzata prepara, senza lagnarsi, il letto destinato per la giovane sua rivale. Ma nelle famiglie reali, le figlie de’ Kan comunicano a’ loro figli un diritto anteriore all’eredità. Vedi (Istor. Genealog. p. 406).
  68. La nuova del fatto, raccontato come un delitto di essa, giunse a Costantinopoli, dove gli fu dato un nome ben differente; e Marcellino osserva, che il tiranno d’Europa fu ucciso nella notte, dalla mano e dal coltello d’una donna. Cornelio, che ha adattato alla sua tragedia il fatto genuino, descrive l’irruzione del sangue in quaranta ampollosi versi, ed Attila esclama con ridicolo furore:

    .... S’il ne veut s’arréter (il suo sangue)
    (Dit-il) on me payera ce qu’il va m’en coûter.

  69. Giornandes riporta le curiose circostanze della morte e de’ funerali d’Attila (c. 49, p. 683, 684, 685), e probabilmente le trascrisse da Prisco.
  70. Vedi Giornandes de reb. Got. c. 50 p. 685, 686, 687, 688. La distinzione, ch’ei fa delle armi d’ogni nazione, è curiosa ed importante: Nam ibi admirandum reor fuisse spectaculum, ubi cernere erat cunctis, pugnantem Gothum ense furentem, Gepidam in vulnere suorum cuncta tela frangentem, Svevum pede, Hunnum sagitta praesumere, Alanum gravi, Herutum levi armatura aciem instruere. Io non so precisamente la situazione del fiume Netad.
  71. Due Istorici moderni hanno sparso molta nuova luce sulla rovina, e divisione dell’Impero d’Attila: il Buat con la sua laboriosa e minuta diligenza (Tom. VIII, p. 3, 31, 68, 94); ed il Guignes mediante la straordinaria sua cognizione della lingua e degli scritti Chinesi. (Vedi Hist. des Huns Tom. II, p. 315, 319).
  72. Placidia morì a Roma il dì 27 Novembre dell’anno 450. Essa fu sepolta a Ravenna, dove il sepolcro ed anche il cadavere di lei, assiso sopra una sedia di cipresso, fu conservato per più secoli. L’Imperatrice ricevè molti complimenti dal Clero ortodosso; e l’assicurò, che il suo zelo per la Trinità era stato ricompensato con un’augusta trinità di figliuoli. (Vedi Tillemont, Hist. des Emper. Tom. VI. p. 240).
  73. Aetium Placidus mactavit semivir amens. Tal è l’espressione di Sidonio (Paneg. Avit. 359). Il poeta conosceva il Mondo, e non era disposto ad adulare un Ministro che aveva ingiuriato o disonorato Avito, o Maioriano, successivi eroi del suo canto.
  74. La cognizione che abbiamo, delle cause e circostanze delle morti di Valentiniano e d’Ezio, è oscura ed imperfetta. Procopio (De Bell. Vandall. l. 1, c. 4, p. 186, 187, 188) è uno scrittor favoloso, pei fatti che precedono i suoi tempi. Bisogna supplire e correggere i suoi racconti con cinque o sei Croniche, nessuna delle quali fu composta in Roma o in Italia; e che non esprimono che in tronchi sensi i romori popolari, quali giungevano nella Gallia, nella Spagna, nell’Affrica, in Costantinopoli, o in Alessandria.
  75. Quest’interpretazione di Vezio, celebre augure, era citata da Varrone nel libro XVIII delle sue Antichità. Censorino, de die Natal. c. 17, p. 90, 91 Edit. Havercamp.
  76. Secondo Varrone, il duodecimo secolo doveva spirare l’anno 447. Ma l’incertezza della vera Era di Roma può permettere qualche estensione di tempo. I poeti di quel secolo, Claudiano (De bell. Getic. 265), e Sidonio (in Paneg. avit. 357), si possono risguardar come buoni testimoni dell’opinioni popolare:

    Jam reputant annos, interceptoque volatu
         Vulturis, incidunt properatis saecula metis.
    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
    Jam prope fata tui bissenas vulturis alas
         Implebant; scis namque tuos, scis Roma labores.

    Vedi Dubos, Hist. crit. Tom. 1, p. 340, 346.

  77. Il quinto libro di Salviano è pieno di patetici lamenti, e di veementi invettive. La smoderata sua libertà serve a provare la debolezza non meno che la corruzione del Governo Romano. Il suo libro fu pubblicato dopo la perdita dell’Affrica (an. 439), e prima della guerra d’Attila (anno 451).
  78. I Bagaudi di Spagna, che si mescolarono in regolari battaglie con le truppe Romane, son rammentati più volte nella Cronica d’Idazio. Salviano ha descritto le angustie, e la ribellione loro con espressioni molto forti: Itaque nomen civium Romanorum.... nunc ultro repudiatur ac fugitur, nec vile tamen, sed etiam abominabile pene habetur.... Et hinc est, ut etiam hi, qui ad Barbaros non confugiunt, Barbari tamen esse coguntur, scilicet ut est pars magna Hispanorum, et non minima Gallorum.... De Bagaudis nunc mihi sermo est, qui per malos judices et cruentos spoliati, afflicti, necati postquam ius Romanae libertatis amiserant, etiam honorem Romani nominis perdiderunt.... vocamus rebelles, vocamus perditos, quos esse compulimus criminosos. De Gubern. Dei l. V, p. 158, 159.