Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/34
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Traduzione dall'inglese di Davide Bertolotti (1820-1824)
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CAPITOLO XXXIV.
[A. 376-433] Il Mondo occidentale fu oppresso da’ Goti e dai Vandali, che fuggivano gli Unni; ma le imprese degli Unni medesimi non corrisposero alla loro potenza e prosperità. Lo vittoriose lor Orde si erano sparse dal Volga al Danubio; ma la pubblica forza fu esausta dalla discordia degl’indipendenti lor capitani; il lor valore si consuma oziosamente in oscure e predatorie scorrerie; e spesso avvilirono la nazionale lor dignità, contentandosi per la speranza della preda d’arrolarsi sotto le bandiere de’ lor fuggitivi nemici. Nel regno d’Attila1 gli Unni divennero di nuovo il terrore del Mondo; ed io descriverò adesso il carattere e le azioni di quel formidabil Barbaro, che insultò ed invase a vicenda l’Oriente e l’Occidente, e sollecitò la rapida caduta del Romano Impero.
Nel corso dell’emigrazione, che impetuosamente si fece da’ confini della China a quelli della Germania, le più potenti e popolate Tribù ordinariamente si trovarono sulle frontiere delle Province Romane. Fu per qualche tempo da ripari artificiali sostenuto il peso, che andava sempre crescendo; e la facile condiscendenza degl’Imperatori invitava, senza soddisfare, le insolenti domande de’ Barbari, che avevano acquistato un ardente appetito pei comodi della vita civile. Gli Ungheri, che sono ambiziosi d’inserire il nome d’Attila fra’ nativi loro Sovrani, possono asserire con verità, che le Orde sottoposte a Roas o Rugilas suo zio, avevan formato i loro accampamenti dentro i limiti della moderna Ungheria2, in una fertil campagna, che abbondantemente suppliva a’ bisogni d’una nazione di cacciatori e di pastori. In tal vantaggioso posto Rugilas, ed i suoi valorosi fratelli, de’ quali continuamente cresceva il potere e la riputazione, disponevano alternativamente della guerra e della pace co’ due Imperi. La sua alleanza co’ Romani dell’Occidente veniva secondata dalla personale amicizia, che aveva pel Grande Ezio, ch’era sempre sicuro di trovare nel campo Barbaro un ospitale ricevimento ed un potente sostegno. Ad istanza di esso, ed in nome dell’usurpatore Giovanni, sessantamila Unni avanzaronsi verso i confini dell’Italia; la marcia e la ritirata loro fu ugualmente dispendiosa per lo Stato, e la riconoscente politica d’Ezio abbandonò il possesso della Pannonia a’ suoi fedeli confederati. I Romani Orientali non erano meno timorosi delle armi di Rugilas, che ne minacciava le Province od anche la Capitale. Alcuni Storici Ecclesiastici hanno distrutto i Barbari co’ fulmini e con la peste3; ma Teodosio fu ridotto al più umile espediente di stipulare un annuo pagamento di trecento cinquanta libbre d’oro, e di mascherare questo vergognoso tributo col titolo di Generale, che il Re degli Unni condiscese a ricevere. Era spesso interrotta la pubblica tranquillità dalla feroce impazienza de’ Barbari, e da’ perfidi intrighi della Corte di Bisanzio. Quattro dipendenti nazioni, fra le quali possiamo distinguere i Bavari, si sottrassero alla sovranità degli Unni; e la loro rivolta fu incoraggita e protetta da un’alleanza co’ Romani; finattantochè le giuste pretensioni e la formidabil potenza di Rugilas furono con effetto esposte dalla voce di Eslao suo ambasciatore. La pace fu l’unanime desiderio del Senato: ne venne ratificato il decreto dall’Imperatore; e furono eletti due ambasciatori, cioè Plinta Generale d’origine Scita, ma di grado Consolare, ed il Questore Epigene, savio e sperimentato politico, a cui fu procurato tal ufizio dal suo ambizioso collega.
[A. 443-453] La morte di Rugilas sospese il proseguimento del trattato. I due suoi nipoti, Attila e Bleda, che successero al trono dello zio, acconsentirono ad un personale abboccamento con gli ambasciatori di Costantinopoli; ma siccome orgogliosamente ricusarono essi di smontar da cavallo, il negozio fu trattato a cavallo, in una spaziosa pianura vicino alla città di Margus nella Mesia superiore. I Re degli Unni si presero i reali vantaggi non meno che i vani onori della negoziazione. Essi dettaron le condizioni della pace, ed ogni condizione fu un insulto alla Maestà dell’Impero. Oltre la libertà d’un sicuro ed abbondante mercato sulle rive del Danubio, richiesero che fosse aumentata l’annua contribuzione da trecento cinquanta fino a sette cento libbre d’oro; che si pagasse una multa o riscatto d’otto monete d’oro per ogni schiavo Romano che fosse fuggito dal Barbaro suo Signore; che l’Imperatore dovesse rinunziare a tutti i trattati ed impegni co’ nemici degli Unni; e che tutti i fuggitivi, che si erano rifuggiti alla Corte o nelle Province di Teodosio, fossero consegnati alla giustizia del loro offeso Sovrano. Questa giustizia fu rigorosamente esercitata contro alcuni sfortunati giovani di stirpe reale. Furono essi per comando d’Attila crocifissi dentro il territorio dell’Impero: e tosto che il Re degli Unni ebbe impresso ne’ Romani il terror del suo nome, concesse loro un breve ed arbitrario respiro, mentre soggiogava le ribelli o indipendenti nazioni della Scizia o della Germania4.
Attila, figlio di Mundzuk, traeva la sua nobile e forse regia origine5 dagli antichi Unni, che avevano una volta conteso co’ Monarchi della China. La sua figura, secondo l’osservazione d’un Istorico Goto, portava l’impronta della nazionale sua stirpe; ed il ritratto d’Attila presenta la vera deformità d’un moderno Calmucco6; cioè un grosso capo, una carnagione ulivastra, piccoli occhi molto incavati, un naso schiacciato, pochi peli in luogo di barba, larghe spalle, ed un breve corpo quadrato, di nerboruta forza, quantunque di forma sproporzionata. L’altiero passo e portamento del Re degli Unni esprimeva la coscienza della sua superiorità sopra il resto dell’uman genere; ed era solito di girar fieramente gli occhi, come se avesse desiderato di godere del terrore che inspirava. Pure questo selvaggio Eroe non era inaccessibile alla pietà: i supplichevoli suoi nemici potevano confidare nella sicurezza della pace o del perdono; ed Attila fu risguardato da’ suoi sudditi come un giusto ed indulgente Signore. Si dilettava della guerra; ma dopo che fu salito sul trono in un’età matura, terminò col senno più che con la mano la conquista del Settentrione; e la fama di avventuroso soldato fu vantaggiosamente cambiata in quella di prudente e felice Generale. Gli effetti del valor personale sono di così poco momento, fuorchè nella poesia o ne’ romanzi, che anche fra’ Barbari la vittoria dee dipendere dal grado d’abilità, con cui si combinano e si guidano le passioni della moltitudine pel servizio d’un sol uomo. I conquistatori Sciti, Attila e Gengis, superavano i rozzi lor nazionali nell’arte piuttosto che nel coraggio, e si può notare che le monarchie tanto degli Unni che de’ Mogolli furono inalzate da’ lor fondatori sulla base della popolare superstizione. Il miracoloso concepimento, che la credulità e la frode attribuirono alla vergine madre di Gengis, l’elevò sopra il livello della natura umana; e il nudo profeta, che in nome della Divinità l’investì dell’Impero della terra, infiammò il valore de’ Mogolli con un irresistibil entusiasmo7. Gli artifizi religiosi d’Attila non furono meno abilmente adattati al carattere del suo secolo e del suo paese. Era ben naturale, che gli Sciti adorassero con particolar devozione il Dio della guerra; ma siccome essi erano incapaci di formare o un’idea astratta, o un’immagine corporea, veneravano la lor tutelare Divinità sotto il simbolo d’una scimitarra di ferro8. Uno de’ pastori degli Unni vide che una vitella, che pascolava, si era ferita in un piede, e per curiosità seguitò la traccia del sangue, finattantochè fra l’erba trovò la punta d’un’antica spada, ch’ei trasse dalla terra, e la presentò ad Attila. Quel magnanimo, o piuttosto artificioso Principe accettò con pia gratitudine questo celeste favore; e come il legittimo possedere della spada di Marte sostenne il suo divino ed invincibil diritto al dominio della terra9. Se in questa solenne occasione si praticarono i riti della Scizia, s’alzò in una spaziosa pianura un grand’altare, o piuttosto una catasta di legna, trecento braccia lunga ed altrettanto larga; e fu collocata la spada di Marte sulla cima di questo rustico altare, ch’era ogni anno consacrato dal sangue di pecore, di cavalli e della centesima parte degli schiavi10. O sia che i sacrifizi umani facessero una parte del culto d’Attila, o ch’ei si rendesse propizio il Dio della guerra con le vittime, che continuamente offeriva nel campo di battaglia, il favorito di Marte acquistò ben tosto un carattere sacro, che rendè le sue conquiste più facili e più durevoli; ed i Principi Barbari confessavano, nel linguaggio della devozione o dell’adulazione, che non potevano ardire di mirare con occhio fisso la divina maestà del Re degli Unni11. Bleda suo fratello, che regnava sopra una parte considerabile della nazione, fu costretto a cedergli lo scettro e la vita. Pure anche quest’atto crudele fu attribuito ad un soprannaturale impulso; ed il vigore, con cui Attila maneggiava la spada di Marte, convinse il Mondo, ch’essa era stata riservata solo per l’invincibil suo braccio12. Ma l’estensione del suo Impero somministra l’unica prova, che ci resti, del numero e dell’importanza delle sue vittorie; ed il Monarca Scita, per quanto ignorante si fosse del valor della scienza e della filosofia, potrebbe forse dolersi che gl’imperiti suoi sudditi fossero privi dell’arte, che avrebbe potuto perpetuar la memoria delle sue imprese.
Se si fosse tirata una linea di separazione fra gli inciviliti e selvaggi climi del globo, fra gli abitanti della città, che coltivavan la terra, ed i cacciatori e pastori, che abitavano nelle tende, Attila avrebbe potuto aspirare al titolo di supremo ed unico Monarca de’ Barbari13. Egli solo, fra’ conquistatori de’ tempi antichi e moderni, riunì i due vasti regni della Germania e della Scizia; e queste incerte denominazioni, applicate al suo regno, possono intendersi in un ampio senso. La Turingia, che s’estendeva oltre i presenti suoi limiti fino al Danubio, era nel numero delle sue Province; ei s’interpose, coll’autorità di potente vicino, ne’ domestici affari de’ Franchi; ed uno de’ suoi luogotenenti gastigò, e quasi esterminò i Borgognoni del Reno. Soggiogò le isole dell’Oceano, i regni della Scandinavia, circondati e divisi dalle acque del Baltico; e gli Unni poterono trarre un tributo di pelli da quella settentrionale ragione, che il rigore del clima, ed il coraggio degli abitanti ha difeso da tutti gli altri conquistatori. Verso l’Oriente è difficile di circoscrivere il dominio d’Attila sopra i deserti Scitici; pure possiamo assicurarci, che regnò sulle rive del Volga; che il Re degli Unni era temuto non solo come un guerriero, ma come un mago14; che insultò e vinse il Kan dei formidabili Geugensi; e che mandò Ambasciatori per trattare un’uguale alleanza coll’Impero della China. Nella superba rivista delle nazioni, che riconobbero la sovranità d’Attila, e che nel tempo della sua vita non ebbero neppure il pensiero di ribellarsi, i Gepidi e gli Ostrogoti si distinsero pel numero, per la bravura e pel merito personale de’ loro Capi. Il celebre Ardarico, Re de’ Gepidi, era il fedele e sagace consigliere del Monarca, che stimava l’intrepido suo genio, mentre amava le dolci e discrete virtù del nobile Valamiro, Re degli Ostrogoti. Una folla di Re volgari, condottieri di altrettante guerriere tribù, che militavano sotto lo stendardo d’Attila, era dispota ne’ gradi inferiori di guardie e domestici intorno alla persona del loro Signore. Essi attendevano i suoi cenni; tremavano al suo sguardo; ed al primo segno della sua volontà eseguivano, senza parlare o esitare, i suoi vigorosi ed assoluti comandi. In tempo di pace, i Principi dipendenti, con le nazionali lor truppe, seguivano il campo Reale in regolare ordinanza; ma quando Attila univa le militari sue forze, poteva mettere in campo un’armata di cinquecento, o secondo un altro computo, di settecentomila Barbari15.
[A. 430-440] Gli Ambasciatori degli Unni potevano risvegliar l’attenzione di Teodosio, rammentandogli, ch’essi erano suoi vicini tanto in Europa, che in Asia; poichè toccavano il Danubio da una parte, e giungevan dall’altra fino al Tanai. Al tempo d’Arcadio suo padre, una truppa di venturieri Unni avea devastato le Province dell’Oriente, dalle quali essi avevan portato via ricche spoglie ed innumerabili schiavi16. S’avanzarono, per un segreto sentiero, lungo i lidi del mar Caspio; traversarono le nevose montagne dell’Armenia; passarono il Tigri, l’Eufrate e l’Alis; reclutarono la stanca loro cavalleria con le generose razze de’ cavalli della Cappadocia; occuparono il montuoso paese della Cilicia; e disturbarono i festosi canti e balli dei cittadini di Antiochia. L’Egitto tremò all’avvicinarsi di essi, e i monaci ed i pellegrini della Terra Santa si preparavano ad evitare il loro furore con prontamente imbarcarsi. La memoria di tale invasione era tuttavia fresca negli animi degli Orientali. I sudditi d’Attila potevano seguire con superiori forze il disegno, che questi venturieri avevano sì arditamente tentato; e presto divenne un soggetto di dubbiosa congettura, se la tempesta fosse per cadere sugli Stati Romani o della Persia. Si erano mandati alcuni grandi vassalli del Re degli Unni, ch’erano essi medesimi nel numero dei potenti Principi, a ratificare un’alleanza o società di armi coll’Imperatore, o piuttosto col Generale dell’Occidente. Nel tempo della loro residenza a Roma, essi riferirono le circostanze d’una spedizione, che avevano ultimamente fatta nell’Oriente. Dopo aver passato un deserto ed una palude, supposta dai Romani la Palude Meotide, penetrarono nelle montagne, ed arrivarono nel termine di quindici giorni di cammino a’ confini della Media, dove s’avanzarono fino alle ignote città di Basic e di Cursic. Nelle pianure della Media incontrarono un’armata Persiana; e l’aria, secondo le loro espressioni, fu oscurata da un nuvolo di frecce. Ma gli Unni furon costretti a ritirarsi pel numero dei nemici. Eseguirono l’incomoda lor ritirata per una strada diversa; perdettero la maggior parte del loro bottino; e finalmente tornarono al campo Reale con qualche cognizione del paese e con una impaziente brama di vendetta. Nella libera conversazione degli Ambasciatori Imperiali, che esaminarono alla Corte d’Attila il carattere e i disegni del loro formidabil nemico, i Ministri di Costantinopoli espressero la speranza, in cui erano, che la sua forza si sarebbe impiegata e divisa in una lunga e dubbiosa contesa coi Principi della casa di Sassan. Ma gl’Italiani, più accorti, avvertirono gli Orientali loro fratelli della follia e del pericolo di tale speranza, e li convinsero, che i Medi ed i Persiani erano incapaci di resistere alle armi degli Unni, e che una facile ed importante conquista avrebbe accresciuto l’orgoglio non meno che il potere del vincitore. Attila invece di contentarsi di una moderata contribuzione e di un titolo militare, che l’uguagliava solo ai Generali di Teodosio, si sarebbe avanzato ad imporre un vergognoso ed intollerabile giogo sul collo degli abbattuti e schiavi Romani, che allora sarebbero stati circondati da ogni parte dall’Impero degli Unni17.
[A. 441] Mentre le potenze dell’Europa e dell’Asia procuravano d’allontanare l’imminente pericolo, l’alleanza d’Attila mantenne i Vandali nel possesso dell’Affrica. Erasi concertata fra le Corti di Ravenna e di Costantinopoli un’impresa per la ricuperazione di quella valutabil Provincia; ed i porti della Sicilia erano già pieni delle forze militari e navali di Teodosio. Ma il sottil Genserico, ch’estendeva le sue negoziazioni a tutto il Mondo, prevenne i loro disegni, eccitando il Re degli Unni ad invader l’Impero Orientale; ed un accidente di poco momento divenne tosto il motivo o il pretesto d’una guerra distruttiva18. Sotto la fede del trattato di Margo si teneva un mercato libero dalla parte settentrionale del Danubio, ch’era difeso da una fortezza Romana chiamata Costanza. Una truppa di Barbari violò la sicurezza del commercio; uccise o disperse i mercanti, che niente sospettavano di questo; e gettò a terra la fortezza. Gli Unni giustificarono quest’oltraggio come un atto di rappresaglia; dissero, che il Vescovo di Margo era entrato nel loro territorio per iscoprire e rubare un tesoro nascosto de’ loro Re; e vigorosamente richiedevano il colpevol Prelato, la sacrilega preda ed i sudditi fuggitivi, che s’eran sottratti alla giustizia d’Attila. Il rifiuto della Corte di Bizanzio fu il segnal della guerra; ed i Mesj a principio applaudirono la generosa fermezza del loro Sovrano. Ma furono tosto spaventati dalla distruzione di Viminiaco e delle vicine città; ed il Popolo fu persuaso ad abbracciare l’utile massima, che può giustamente sacrificarsi un cittadino privato, per quanto sia rispettabile ed innocente, alla salvezza della patria. Il Vescovo di Margo, che non aveva lo spirito d’un martire, risolvè di prevenire i disegni, che sospettava. Egli trattò arditamente co’ Principi degli Unni, si assicurò per mezzo di solenni giuramenti del perdono e del premio; pose un numeroso distaccamento di Barbari in una segreta imboscata sulle rive del Danubio; ed all’ora stabilita aprì con le proprie mani le porte della sua città Episcopale. Questo vantaggio, che s’era ottenuto per tradimento, servì come di preludio a più onorevoli e decisive vittorie. La frontiera Illirica era coperta da una catena di castelli e di fortezze; e quantunque la maggior parte di esse non fossero che semplici torri con una piccola guarnigione, ordinariamente servivano a rispingere o impedire le scorrerie d’un nemico, che non sapeva l’arte d’un assedio regolare, e non ne tollerava la lunghezza. Ma questi piccoli ostacoli furono tolti ad un tratto di mezzo dall’inondazione degli Unni19. Essi distrussero col ferro e col fuoco le popolate città di Sirmio e di Singiduno, di Raziaria e di Marcianopoli, di Naisso e di Sardica, dove ogni circostanza, nella disciplina del Popolo e nella costruzion delle fabbriche, era stata appoco appoco adattata al solo oggetto della difesa. Tutta la larghezza dell’Europa, che s’estende più di cinquecento miglia dall’Eussino all’Adriatico, fu nell’istesso tempo invasa, occupata e desolata da migliaia di Barbari, che Attila condusse in campo. Il pericolo però e l’angustia pubblica non poterono muover Teodosio ad interrompere i suoi divertimenti e la sua devozione, o a comparire in persona alla testa delle legioni Romane. Ma furono in fretta richiamate dalla Sicilia le truppe, ch’erano state mandate contro Genserico; furono sprovviste le guarnigioni dalla parte della Persia; e fu raccolto in Europa un esercito, fomidabile per le armi ed il numero, se i Generali avessero avuto la scienza del comando, ed i soldati osservato il dovere dell’ubbidienza. Furono vinte le armate dell’Impero Orientale in tre successive battaglie; e si può descrivere il progresso di Attila osservando i campi, ne’ quali fu combattuto. I due primi conflitti, sulle rive dell’Uto e sotto le mura di Marcianopoli, si fecero nell’estese pianure fra il Danubio ed il monte Emo. Essendo incalzati i Romani da un vittorioso nemico, appoco appoco ed ignorantemente si ritirarono verso il Chersoneso della Tracia; e quell’angusta penisola, ultima estremità della terra, fu segnata dalla terza loro irreparabil disfatta. Mediante la distruzione di quest’esercito, Attila acquistò l’incontrastabil . possesso del campo. Dall’Ellesponto fino alle Termopile ed ai sobborghi di Costantinopoli, saccheggiò senza resistenza e senza pietà le Province della Tracia e della Macedonia. Eraclea ed Adrianopoli poterono forse evitare questa terribile invasione degli Unni; ma si usano le parole più espressive di total estirpazione e rovina per indicar le calamità, ch’essi apportarono a settanta città dell’Impero Orientale20. Teodosio, la sua Corte e l’imbelle Popolo, furono difesi dalle mura di Costantinopoli; ma queste mura erano state scosse di fresco da un terremoto, e la caduta di cinquant’otto torri vi aveva aperto una grande e terribile breccia. Il danno in vero fu prontamente riparato; ma l’accidente aggravavasi da un superstizioso timore, che il Cielo stesso aveva abbandonato la città Imperiale ai pastori della Scizia, che non conoscevano le leggi, il linguaggio e la religion dei Romani21.
In tutte le invasioni, che i pastori Sciti hanno fatto ne’ civili Imperi del mezzogiorno, si mostrano essi uniformemente dominati da uno spirito selvaggio e distruttivo. Le leggi di guerra, che frenano l’esercizio della rapina e della strage delle nazioni, son fondate su due principj di sostanziale interesse; cioè sulla cognizione dei vantaggi durevoli, che si possono ottenere per mezzo d’un uso moderato della conquista, e sopra un giusto timore, che la desolazione, che si cagiona al paese nemico, possa esercitarsi a vicenda sul proprio. Ma tali considerazioni di speranza e di timore sono quasi ignote nello stato delle nazioni pastorali. Gli Unni d’Attila possono senza ingiustizia paragonarsi a’ Mogolli ed ai Tartari, avanti che i primitivi loro costumi fosser cangiati dalla religione e dal lusso; e la prova dell’Istoria Orientale può spargere qualche lume su’ brevi ed imperfetti annali di Roma. Dopo che i Mogolli ebbero soggiogate le Province settentrionali della China, fu seriamente proposto, non già nel tempo della vittoria e della passione, ma in un tranquillo Consiglio adunato per deliberare, d’esterminar tutti gli abitanti di quella popolata regione per potere convenire il terreno vacante in pascolo pei bestiami. La fermezza d’un Mandarino Chinese22, che insinuò alcuni principj di ragionevol politica nella mente di Gengis, lo distolse dall’esecuzione di tale orribil disegno. Ma nelle città dell’Asia, che si presero da’ Mogolli, fu esercitato l’inumano abuso de’ diritti della guerra con una forma regolare di disciplina, che con ugual ragione, quantunque senza uguale autorità, può attribuirsi ai vittoriosi Unni. Agli abitanti, sottoposti alla lor discrezione, ordinavano di abbandonare le loro case, e d’adunarsi in qualche pianura vicina alla città, dove facevasi una divisione dei vinti in tre parti. La prima era formata da’ soldati della guarnigione e da’ giovani capaci di portar le armi; e subito se ne decideva il destino: o venivano essi arrolati fra’ Mogolli, o erano messi a morte sul luogo medesimo dalle truppe, che con le lancie in resta e con gli archi tesi formavano un cerchio attorno la moltitudine degli schiavi. La seconda parte, composta di giovani e belle donne, di artefici d’ogni grado e professione, e dei più ricchi ed onorevoli cittadini, dai quali poteva sperarsi un privato riscatto, era distribuita in uguali o proporzionati lotti. Ai rimanenti, la vita o la morte de’ quali era ugualmente inutile pei conquistatori, si permetteva di tornare alla città, che in quel tempo era stata spogliata d’ogni cosa che avesse valore; ed imponevasi a que’ miserabili abitatori una tassa per la permissione di respirare la nativa loro aria. Tal era il contegno de’ Mogolli, quando non volevan usare alcun rigore straordinario23. Ma il più casuale eccitamento, il più tenue motivo di capriccio o di convenienza, spesso li provocava ad involgere un intero Popolo in un promiscuo macello; e fu eseguita la rovina di più floride città con tale instancabil perseveranza, che, secondo la propria loro espressioni, i cavalli potevan correre senz’arrestarsi sul suolo dove esse una volta erano state. Le tre grandi Capitali del Khorasan, Maru, Neisabur ed Herat, furon distrutte dalle armi di Gengis; e l’esatto calcolo, che fu fatto degli uccisi montò a quattro milioni trecento quarantasettemila persone24. Timur, o Tamerlano fu educato in un secolo meno barbaro, e nella professione della religione Maomettana: pure se Attila uguagliò le ostili devastazioni di Tamerlano25, tanto il Tartaro, quanto l’Unno potrebbero meritare ugualmente l’epiteto di flagello di Dio26.
Si può asserire, con maggior sicurezza, che gli Unni spopolassero le Province dell’Impero pel numero de’ sudditi Romani, che condussero in ischiavitù. Nelle mani d’un savio Legislatore tale industriosa colonia avrebbe potuto contribuire a spargere pei deserti della Scizia i semi delle arti utili e di lusso; ma questi schiavi, ch’erano stati presi in guerra, furono a caso dispersi fra le orde, che dipendevano dall’Impero d’Attila. La stima del respettivo loro valore formavasi dal semplice giudizio degl’incolti e spregiudicati Barbari. Non potevano forse conoscere il merito d’un Teologo, profondamente perito nelle controversie della Trinità e dell’Incarnazione; rispettavano però i Ministri d’ogni religione, e l’attivo zelo de’ Missionari Cristiani, senz’accostarsi alla persona o al palazzo del Monarca, promuoveva con buon successo la propagazione dell’Evangelio27. Le tribù pastorali, che non sapevano la distinzione della proprietà delle terre, dovevano trascurar l’uso ugualmente che l’abuso della civile giurisprudenza; e l’abilità d’un eloquente Giuresconsulto non poteva che eccitarne il disprezzo o l’abborrimento28. Il perpetuo commercio degli Unni e de’ Goti aveva sparso la famigliar cognizione de’ due nazionali dialetti; ed i Barbari erano ambiziosi di conversare in Latino, ch’era il militar idioma anche dell’Impero Orientale29. Ma sdegnavano il linguaggio e le scienze de’ Greci; ed il vano sofista o il grave filosofo, che aveva goduto il lusinghiero applauso delle scuole, trovavasi mortificato in vedere, che il robusto suo servo era uno schiavo di maggior valore ed importanza di lui medesimo. Le arti meccaniche venivano incoraggite e stimate, poichè tendevano a soddisfare i bisogni degli Unni. Fu impiegato un architetto, ch’era al servizio d’Onegesio, uno dei favoriti d’Attila, a costrurre un bagno; ma tal opera fu un raro esempio di lusso privato; e le professioni di fabbro, di legnaiuolo, d’artefice d’armi erano molto più adattate a fornire ad un Popolo vagabondo gl’istrumenti utili di pace e di guerra. Ma il merito del medico si ammetteva con universal favore e rispetto; i Barbari, che disprezzavano la morte, potevan temere la malattia; ed il superbo conquistatore tremava alla presenza d’uno schiavo, al quale attribuiva forse un immaginario potere di prolungare o di mantenere la sua vita30. Potevano gli Unni esser provocati ad insultar la miseria de’ loro schiavi, su’ quali esercitavano un dispotico dominio31; ma i loro costumi non erano suscettibili d’un raffinato sistema d’oppressione; e gli sforzi del coraggio e della diligenza venivano spesso ricompensati col dono della libertà. All’istorico Prisco, l’ambasceria del quale è una sorgente di curiosa istruzione, avvicinossi nel campo d’Attila uno straniero, che lo salutò in lingua Greca, ma all’abito e alla figura sembrava un ricco Scita. Nell’assedio di Viminiaco esso aveva perduto, secondo il racconto fattone da lui medesimo, i suoi beni e la libertà: era divenuto schiavo d’Onegesio; ma i suoi fedeli servigi contro i Romani e gli Acatziri l’avevano a grado a grado inalzato alla condizione de’ nazionali Unni, ai quali era attaccato per mezzo de’ vincoli domestici di una seconda moglie e di varj figli. Le spoglie della guerra avevan restaurato ed accresciuto il privato suo patrimonio; egli era ammesso alla tavola dell’antico suo padrone: e l’apostata Greco benediceva l’ora della sua schiavitù, mentre gli aveva procurato un indipendente e felice stato, ch’ei godeva mediante l’onorevole titolo del servizio militare. Questa riflessione fece naturalmente nascere una disputa sopra i vantaggi e i difetti del governo Romano, che fu severamente attaccato dall’Apostata, e difeso da Prisco in una lunga e debole declamazione. Il liberto d’Onegesio espose con veri e vivaci colori i vizi del decadente Impero, de’ quali esso era stato sì lungamente la vittima, cioè la crudele assurdità de’ Principi Romani, ch’erano incapaci di difendere i loro sudditi da’ pubblici nemici, e che non volevano affidar loro le armi per la propria difesa; l’intollerabile peso delle imposizioni rendute viepiù oppressive dalle intrigate o arbitrarie maniere d’esigerle; l’oscurità delle numerose leggi fra loro contraddittorie; le lunghe e dispendiose formalità dei processi giudiziali; la parziale amministrazione della giustizia; e l’universal corruzione, che accresceva la potenza del ricco, ed aggravava le disgrazie del povero. Si risvegliò finalmente nel cuore del fortunato esule un sentimento di patriotica simpatia; e compiangeva con gran copia di lagrime la colpa o la debolezza di que’ Magistrati, che avevano pervertite le leggi più salutevoli e savie32.
[A. 446] La timida o interessata, politica de’ Romani occidentali aveva abbandonato agli Unni l’Impero d’Oriente33. Alla perdita degli eserciti, ed alla mancanza di disciplina o di valore non suppliva il personal carattere del Monarca. Teodosio poteva sempre affettare lo stile non meno che il titolo d’Invincibile Augusto; ma fu ridotto ad implorar la clemenza d’Attila, che imperiosamente dettò queste umilianti e dure condizioni di pace. I. L’imperator dell’Oriente cedè per un’espressa o tacita convenzione un importante e vasto paese, che s’estendeva lungo le rive meridionali del Danubio, da Singiduno o Belgrado fino a Nove nella Diocesi della Tracia. Ne fu definita la larghezza mediante l’incerto computo di quindici giornate di cammino: ma dalla proposta d’Attila di rimuovere il luogo del mercato nazionale, tosto si vide, ch’ei comprendeva dentro i limiti de’ suoi Stati la rovinata città di Naisso. II. Il Re degli Unni richiese ed ottenne, che il suo tributo o sussidio fosse aumentato da settecento libbre d’oro all’annua somma di duemila e cento, e ne stipulò l’immediato pagamento di seimila per risarcirlo delle spese, o per espiare la colpa della guerra. Potrebbe taluno immaginarsi, che tal domanda, la quale appena arrivava alla misura d’una ricchezza privata, dovesse facilmente soddisfarsi dall’opulento Impero dell’Oriente; ma la pubblica angustia somministra una osservabil prova del povero o almeno disordinato stato delle Finanze. Una gran parte delle tasse, che s’estorcevan dal Popolo, veniva ritenuta e arrestata nel passaggio, che dovea fare pei più sordidi canali al tesoro di Costantinopoli. Teodosio ed i suoi favoriti dissipavan le rendite in un dispendioso e prodigo lusso, che si copriva co’ nomi d’Imperiale magnificenza o di carità cristiana. S’erano esauriti gli immediati sussidj per l’improvvisa necessità dei militari apparecchi. Una personale contribuzione, rigorosamente ma capricciosamente imposta su’ membri dell’Ordine Senatorio, fu l’unico espediente, che potesse disarmare, senza perdita di tempo, l’impaziente avarizia d’Attila, e la povertà de’ Grandi li costrinse a prendere lo scandaloso partito d’esporre al pubblico incanto le gioie delle loro mogli, e gli ereditari ornamenti de’ loro palazzi34. III. Pare che il Re degli Unni avesse fissato come un principio di giurisprudenza nazionale, ch’ei non potesse mai perdere il dominio, che aveva una volta acquistato sulle persone, che si erano volontariamente o con ripugnanza sottomesse alla sua autorità. Da questo principio concludeva, e le conclusioni d’Attila erano irrevocabili leggi, che gli Unni, i quali erano stati presi in guerra, fossero rilasciati senza dilazione e senza riscatto; che ogni schiavo Romano, che avesse ardito di fuggire dovesse comprare il diritto alla sua libertà col prezzo di dodici monete d’oro; e che tutti i Barbari, disertati dal campo di Attila, fossero restituiti senza promessa o stipulazione alcuna di perdono. Nell’esecuzione di questo crudele ed ignominioso trattato, i Ministri Imperiali furon costretti ad uccidere varj fedeli e nobili disertori, che ricusarono d’andare incontro ad una certa morte; ed i Romani perderono qualunque ragionevol diritto alla amicizia d’ogni popolo Scita, mediante questa pubblica confessione, ch’essi mancavan di fede o di potenza per difendere i supplichevoli, che s’erano rifuggiti al trono di Teodosio35.
La fermezza d’una sola città, così oscura, che fuori di quest’occasione non è stata mai rammentata da verun istorico o geografo, fece vergogna all’Imperatore ed all’Impero. Azimo o Azimunzio, piccola città della Tracia sulle frontiere Illiriche36, s’era distinta pel marzial coraggio della sua gioventù, l’abilità e la riputazione dei Capitani che aveva scelti, e le ardite loro imprese contro l’innumerabil esercito dei Barbari. Gli Azimuntini, invece d’aspettar quietamente che le truppe degli Unni s’avvicinassero, le attaccarono con frequenti e felici sortite, ed esse a grado a grado evitarono di accostarvisi; di più riscattarono dalle loro mani le spoglie ed i prigionieri, e reclutarono le domestiche loro forze mediante la volontaria associazione dei fuggitivi e dei disertori. Dopo la conclusion del trattato, Attila tuttavia minacciava l’Impero d’un’implacabile guerra, se gli Azimuntini non venivano persuasi o costretti ad eseguire le condizioni, che il loro Sovrano aveva accettate. I Ministri di Teodosio con vergogna e verità confessarono, ch’essi non avevano più autorità veruna sopra una società di uomini, che sì bravamente sostenevano la loro naturale indipendenza; ed il Re degli Unni si contentò di concludere un cambio uguale co’ cittadini d’Azimo. Essi domandarono la restituzione d’alcuni pastori, ch’erano stati accidentalmente sorpresi co’ loro bestiami. Ne fu concessa una rigorosa quantunque inutil ricerca; ma gli Unni furono costretti a giurare, che essi non ritenevano alcun prigioniero appartenente a quella città, prima di poter ricovrare i due lor nazionali restati in vita, che gli Azimuntini si erano riservati come pegni per la salvezza dei perduti loro compagni. Attila, per la sua parte, restò soddisfatto e deluso dalla solenne loro asserzione, che il resto degli schiavi era stato messo a morte, e che avevano costantemente per costume di licenziar subito i Romani e i disertori, che avevano ottenuto la sicurezza della pubblica fede. Può condannarsi o scusarsi da’ Casisti questa officiosa e prudente dissimulazione, secondo che sono inclinati alla rigida opinione di S. Agostino o al sentimento più dolce di S. Girolamo e di S. Grisostomo; ma ogni soldato ed ogni politico dee confessare, che se fosse stata incoraggita e moltiplicata la razza degli Azimuntini, i Barbari non avrebbero più calpestato la maestà dell’Impero37.
Sarebbe stato maraviglioso, in vero, se Teodosio avesse comprato con la perdita dell’onore una sicura e solida tranquillità; o se la sua sommissione non avesse invitato a ripeter le ingiurie. La Corte di Bisanzio fu insultata da cinque o sei successive ambasciate38ed i Ministri d’Attila avevano tutti la commissione di sollecitare la tarda o imperfetta esecuzione dell’ultimo trattato; di produrre i nomi dei fuggitivi e dei disertori, che erano tuttavia protetti dall’Impero; e di dichiarare con apparente moderazione che qualora il loro Principe non avesse una compita ed immediata soddisfazione, sarebbe impossibile per lui, quand’anche lo volesse, di frenare lo sdegno delle sue guerriere tribù. Oltre i motivi di alterigia e d’interesse, che potevan muovere il Re degli Unni a continuare questa sorta di negoziazione, agiva sopra di esso anche l’oggetto meno onorevole d’arricchire i suoi favoriti a spese dei nemici. S’era esaurito il tesoro Imperiale a procurare i buoni ufizi degli Ambasciatori e dei principali lor famigliari, la favorevole relazione dei quali poteva influire a mantenere la pace. Il Barbarico Monarca era lusingato dalle liberali accoglienze dei suoi Ministri; computava con piacere il valore e la splendidezza dei loro doni; esigeva rigorosamente l’esecuzione d’ogni promessa, che potesse contribuire al privato loro vantaggio, e trattò come un importante affare di Stato il matrimonio di Costanzo suo Segretario39. Questo Gallico avventuriere ch’era stato raccomandato da Ezio al Re degli Unni, s’era impegnato a favorire i Ministri di Costantinopoli pel convenuto premio d’una ricca e nobile moglie, e fu scelta la figlia del Conte Saturnino per adempire le obbigazioni della sua patria. La ripugnanza della vittima, alcune domestiche turbolenze, e l’ingiusta confiscazione de’ beni di lei raffreddaron l’ardore dell’interessato suo amante; ma egli tuttavia domandava in nome di Attila un matrimonio equivalente, e dopo molte ambigue dilazioni e scuse, la Corte Bizantina fu costretta a sacrificare a quest’insolente straniero la vedova d’Armazio, la nascita, l’opulenza e la bellezza della quale le davano uno dei più illustri posti fra le matrone Romane. Per queste importune ed oppressive ambascerie Attila pretendeva una conveniente corrispondenza: ei bilanciava con sospettoso orgoglio il carattere ed il grado degli Ambasciatori Imperiali; ma condiscese a promettere, che si sarebbe avanzato fino a Sardica per ricevere qualche Ministro che fosse stato investito della dignità Consolare. Il Consiglio di Teodosio evitò questa proposizione, rappresentando lo stato desolato e rovinoso di Sardica, ed anche s’avventurò a far intendere, che ogni Ufiziale dell’esercito o del palazzo era qualificato per trattare co’ più potenti Principi della Scizia. Massimino40, rispettabile cortigiano, che avea lungamente esercitato la sua abilità in impieghi civili e militari, accettò con ripugnanza l’incomoda e forse pericolosa commissione di riconciliare il torbido spirito del Re degli Unni. L’istorico Prisco41 suo amico prese l’opportunità d’osservare il Barbaro Eroe nelle pacifiche e domestiche azioni della vita; ma il segreto dell’ambasceria (fatale e colpevol segreto) non fu affidato che all’interprete Vigilio. Nell’istesso tempo tornarono da Costantinopoli al campo Reale gli ultimi due Ambasciatori degli Unni, Oreste nobile suddito della Pannonia, ed Edecone valente Capitano della Tribù degli Scirri. Gli oscuri lor nomi furono in seguito illustrati dalla straordinaria fortuna e contrasto dei loro figli: i due servitori d’Attila divennero padri dell’ultimo Imperadore dell’Occidente, e del primo Re barbaro d’Italia.
[A. 448] Gli Ambasciatori, che erano seguitati da un numeroso treno di uomini e di cavalli, fecero la prima loro fermata in Sardica alla distanza di trecento cinquanta miglia o di tredici giorni di cammino da Costantinopoli. Siccome i residui di Sardica erano tuttavia compresi dentro i limiti dell’Impero, toccava ai Romani ad esercitare gli ufizi dell’ospitalità. Essi provvidero coll’aiuto dei Provinciali un sufficiente numero di bovi e di pecore, ed invitarono gli Unni ad una splendida o almeno abbondante cena. Ma tosto fu disturbata l’armonia del convito dal vicendevole pregiudizio ed indiscretezza. Si sostenne ardentemente la grandezza dell’Imperatore e dell’Impero da’ loro Ministri; gli Unni con ugual calore sostennero la superiorità del vittorioso loro Monarca: s’infiammò viepiù la contesa dalla temeraria ed inopportuna adulazione di Vigilio, che con veemenza rigettò il confronto d’un puro mortale col divino Teodosio; e con estrema difficoltà Massimino e Prisco poterono mutar la materia della conversazione, o addolcire gli animi sdegnati dei Barbari. Quando s’alzaron da tavola, l’Ambasciatore Imperiale presentò ad Edecone ed Oreste dei ricchi doni di vesti di seta, e di perle dell’India, che essi accettarono con rendimento di grazie. Ma Oreste non potè a meno di fare intendere, che egli non era stato sempre trattato con tal liberalità e rispetto: e l’offensiva distinzione, che si fece fra il suo civile ufizio, ed il posto ereditario del suo collega sembra, che rendesse Edecone un amico dubbioso, ed Oreste un irreconciliabil nemico. Dopo questo riposo fecero circa cento miglia da Sardica a Naisso. Quella florida città, che avea data i natali al Gran Costantino, era caduta a terra; gli abitanti di essa erano stati distrutti o dispersi; e la vista di alcuni malaticci individui, a’ quali tuttavia permettevasi d’esistere fra le rovine delle Chiese, non serviva che ad accrescer l’orrore di quello spettacolo. La superficie del paese era coperta di ossa di morti; e gli Ambasciatori, che dirigevano il loro corso al Nord-ovest, furono costretti a passare i colli della moderna Servia prima di scendere nelle piane e paludose terre, che vanno a terminare al Danubio. Gli Unni eran padroni di quel gran fiume: facevan la loro navigazione in ampi canotti formati dal tronco di un solo albero incavato; i Ministri di Teodosio furono trasportati sicuri all’altra riva, ed i Barbari loro compagni subito s’affrettarono verso il campo d’Attila, che era preparato ugualmente pei divertimenti della caccia o della guerra. Appena Massimino erasi allontanato circa due miglia dal Danubio, che principiò a sperimentare la fastidiosa insolenza del vincitore. Gli fu assolutamente proibito d’alzar le sue tende in una piacevol vallata per timore che non violasse il distante rispetto dovuto all’abitazione Reale. I Ministri d’Attila insistettero perchè comunicasse loro gli affari e le istruzioni, che ei riservava per la persona del loro Sovrano. Allorchè Massimino moderatamente allegò il costume contrario delle nazioni, restò sempre più confuso nel sapere, che le risoluzioni del Sacro Consistoro, quei segreti (dice Prisco) che non dovrebbero rivelarsi neppure agli Dei, erano stati per tradimento aperti al pubblico nemico. Ricusando egli d’adattarsi a tali vergognosi termini, fu immediatamente dato ordine all’Ambasciatore Imperiale di partire; l’ordine però fu revocato; ei fu richiamato indietro; e gli Unni rinnovarono gli inutili loro sforzi per vincere la paziente fermezza di Massimino. Finalmente per intercessione di Scotta fratello di Onegesio, del quale s’era comprata l’amicizia con un liberal dono, fu ammesso alla presenza Reale; ma invece d’ottenere una decisiva risposta, fu costretto ad intraprendere un lontano viaggio verso il Settentrione, affinchè Attila potesse godere la superba soddisfazione di ricevere nel medesimo campo gli Ambasciatori dell’Impero Orientale ed Occidentale. Fu regolato il suo cammino dalle guide, che l’obbligavano a fermarsi, ad affrettar la sua marcia, o a deviare dalla strada maestra, secondo che meglio si attagliava al comodo del Re. I Romani che traversarono le pianure dell’Ungheria, crederono di passare vari fiumi navigabili o in canotti, o in battelli portatili; ma v’è motivo di sospettare, che il tortuoso corso del Teiss o del Tibisco si presentasse loro in diversi luoghi sotto vari nomi. Dai vicini villaggi ricevevano una copiosa e regolar quantità di provvisioni, cioè idromele invece di vino, miglio in luogo di pane, ed un certo liquore chiamato Camus, che secondo la descrizione di Prisco, era stillato dall’orzo42. Tal nutrimento pareva forse grossolano e non delicato a persone assuefatte al lusso di Costantinopoli: ma nei loro accidentali bisogni furono aiutati dalla gentilezza ed ospitalità di quegli stessi Barbari, che erano così terribili e senza pietà nella guerra. Gli Ambasciatori si erano attendati sulla riva di una gran palude. Una violenta tempesta di vento e di pioggia, di tuoni e di fulmini rovesciò le lor tende, gettò il lor bagaglio ed i loro arnesi nell’acqua, e disperse i loro famigliari, che andavano errando nell’oscurità della notte incerti della strada, in cui si trovavano, e timorosi di qualche incognito pericolo, finattantochè risvegliarono con le lor grida gli abitanti d’un vicino villaggio, che apparteneva alla vedova di Bleda. L’officiosa benevolenza di questi illuminò tosto quel luogo, ed accese in pochi momenti un opportuno fuoco di canne; furono generosamente soddisfatti i bisogni ed anche i desiderj dei Romani; e sembra, che fossero imbarazzati dalla singolar gentilezza della vedova di Bleda, che aggiunse agli altri di lei favori il dono, o almeno l’imprestito di un sufficiente numero di belle ed ossequiose donzelle. Il giorno seguente fu destinato al riposo, a raccogliere ed asciugare il bagaglio, ed a rinfrescar gli uomini ed i cavalli; ma la sera, prima di proseguire il loro viaggio gli Ambasciatori dimostrarono alla cortese Signora del villaggio la lor gratitudine mediante un dono molto gradito di coppe di argento, di lane rosse, di frutti secchi e di pepe d’India. Dopo quest’avventura tosto raggiunsero Attila, dal quale erano stati separati circa sei giorni; e lentamente s’avanzarono verso la Capitale d’un Impero che nello spazio di più migliaia di miglia non conteneva neppure una città.
Per quanto possiam rilevare dall’incerta ed oscura geografia di Prisco, pare che questa Capitale fosse collocata fra il Danubio, il Tibisco ed i Colli Carpazi nelle pianure dell’Ungheria superiore, e più probabilmente nelle vicinanze di Giasberin, d’Agria, o di Tokai43. Nel suo principio non poteva essere, che un campo accidentale, che mediante la lunga e frequente residenza d’Attila era divenuto appoco appoco un grosso villaggio, atto a ricevere la sua Corte, le truppe che lo seguitavano, e la varia moltitudine degli oziosi o attivi schiavi e domestici44. I bagni eretti da Onegesio erano il solo edifizio di pietra; se n’erano trasportati i materiali dalla Pannonia, e poichè il vicino paese era privo anche di grosso legname può supporsi, che le minori abitazioni del villaggio reale fossero formate di paglia, di terra o di grossa tela. Le case di legno dei più illustri fra gli Unni erano costrutte ed ornate con rozza magnificenza secondo il grado, le sostanze, o il gusto dei proprietarj. Sembra, che fossero disposte con qualche specie di ordine o di simetria, ed ogni luogo diveniva più onorevole a misura che più era vicino alla persona del Sovrano. Il Palazzo d’Attila, che avanzava tutte le altre case dei suoi Stati, era tutto fabbricato di legno, ed occupava un ampio spazio di terreno. L’esterno recinto chiudevasi da un’alta muraglia o palizzata di tavole piane squadrate, intersecata da alte torri fatte più per ornamento che per difesa. Questa muraglia, che pare circondasse il declive d’un colle, conteneva una gran quantità di edifizi di legno adattati all’uso della Corte. Era assegnata una casa a parte a ciascheduna delle numerose mogli d’Attila; ed invece del rigoroso ritiro imposto dalla gelosia Asiatica, esse ammettevano gentilmente gli Ambasciatori Romani alla lor presenza, alla loro tavola, ed anche alla libertà di un innocente abbracciamento. Quando Massimino presentò i suoi doni a Cerca, Regina principale, egli ammirò la singolare architettura della sua abitazione, l’altezza delle rotonde colonne, la grossezza e bellezza del legname, che era con arte lavorato o tornito o lustrato o inciso; e l’attento di lui occhio fu capace di scoprire qualche gusto negli ornamenti, o qualche regolarità nelle proporzioni. Dopo aver passato le guardie, che stavano avanti la porta, gli Ambasciatori furono introdotti nell’appartamento privato di Cerca. La Moglie d’Attila ricevè la lor visita, sedendo o piuttosto coricata sopra un morbido letto; il pavimento era coperto di un tappeto; i famigliari formavano un cerchio attorno la Regina; e le sue damigelle assise in terra s’impiegavano a lavorare i ricami di vari colori, che adornavano gli abiti dei guerrieri Barbari. Gli Unni erano ambiziosi di far pompa di quelle ricchezze, che erano il frutto e la prova delle loro vittorie; i finimenti dei loro cavalli, le loro spade e fino le scarpe loro erano guarnite d’oro e di pietre preziose, e le loro tavole erano profusamente coperte di piatti, di bicchieri e di vasi d’oro e d’argento, che eran opere di Greci artefici. Il solo Monarca aveva il sublime orgoglio di star sempre attaccato alla semplicità dei suoi maggiori Sciti45. Le vesti d’Attila, le sue armi ed i finimenti del suo cavallo erano semplici, senz’ornamenti e d’un solo colore. La tavola reale non ammetteva che piatti e bicchieri di legno; ei non mangiava che carne; ed il Conquistatore del Settentrione mai non gustò il lusso del pane.
Quando Attila diede udienza la prima volta ai Romani Ambasciatori sulle rive del Danubio, la sua tenda era circondata da una formidabile guardia. Il Monarca stesso era assiso sopra una sedia di legno. L’aria minacciante, gli sdegnosi gesti ed il tuono impaziente di esso rendettero attonito il costante Massimino; ma Vigilio avea più ragion di tremare, mentre chiaramente intese la minaccia, che se Attila non avesse rispettato il diritto delle genti, avrebbe fatto affiggere il bugiardo interprete ad una croce, abbandonando il suo corpo agli avoltoi. Il Barbaro condiscese a produrre un’esatta nota per dimostrare l’audace falsità di Vigilio, che aveva asserito non potersi trovare più di diciassette disertori. Ma egli arrogantemente dichiarò, che temeva solo la vergogna di combattere coi fuggitivi suoi schiavi; mentre disprezzava i loro impotenti sforzi a difendere le Province, che Teodosio aveva affidato alle loro armi: „Poichè qual fortezza (proseguì Attila) qual città in tutta l’estensione del Romano Impero può sperare d’esser sicura ed inespugnabile, se a noi piaccia di toglierla dalla terra„? Licenziò nonostante l’interprete, che tornò a Costantinopoli con la sua perentoria domanda d’una più compita restituzione e d’un’ambasceria più splendida. Appoco appoco si calmò la sua collera, ed il domestico suo contento in un matrimonio, che celebrò per istrada con la figlia d’Eslam, potè forse contribuire a mitigare la nativa fierezza del suo naturale. Si solennizzò l’ingresso di Attila nel regal villaggio con una ceremonia ben singolare. Una numerosa truppa di donne si fece incontro all’Eroe ed al Sovrano loro. Esse andavano avanti di lui disposte in lunghe regolari file: gli spazi fra queste file erano occupati da bianchi veli di lino fino che le donne tenevano da ambe le parti con le mani alte, e che formavano un baldacchino per un coro di fanciulle, che cantavano inni e canzoni in lingua Scita. La moglie d’Onegesio, suo favorito, con un seguito di donne salutò Attila alla porta della propria casa, sulla strada, che conduceva al palazzo; e gli presentò secondo l’uso del paese il suo rispettoso omaggio, invitandolo a gustare il vino ed il cibo ch’ella aveva preparato pel ricevimento di lui. Appena il Monarca ebbe accettato l’ospitale suo dono, i domestici della medesima alzarono una piccola tavola d’argento ad una conveniente altezza, stando egli sempre a cavallo; ed Attila dopo d’aver toccato colle sue labbra il bicchiere, salutò di nuovo la moglie d’Onegesio, e continuò il suo viaggio. Nel tempo della sua residenza nella Capitale dell’Impero il Re degli Unni non consumava le ore nella segreta oziosità d’un serraglio, e sapeva conservare la sublime sua dignità senza nascondersi alla pubblica vista. Frequentemente adunava il Consiglio, e dava udienza agli Ambasciatori delle nazioni: ed il suo Popolo poteva appellare al supremo Tribunale, su cui stava in certi determinati tempi, e secondo l’Oriental costume avanti la porta principale del suo palazzo di legno. I Romani sì dell’Oriente che dell’Occidente furono due volte invitati a’ banchetti, nei quali Attila trattava i Principi e Nobili della Scizia. Massimino ed i suoi colleghi furono fermati sulla soglia per fare una devota libazione alla salute e prosperità del Re degli Unni; e dopo tal ceremonia vennero condotti ai rispettivi lor posti in una spaziosa sala. Nel mezzo di essa innalzavansi sopra vari gradini la tavola ed il letto reale, coperto di tappeti e di fina biancheria i od erano ammessi a parte del semplice o famigliar pranzo d’Attila un figlio, uno zio, o forse un Re favorito. Erano disposte per ordine da una parte e dall’altra due fila di piccole tavole, ciascheduna delle quali conteneva tre o quattro convitati; la destra stimavasi la più onorevole; ma i Romani confessano ingenuamente, che essi furono posti dalla sinistra; e che Beric, incognito Capitano probabilmente di stirpe Gotica, precedeva i rappresentanti di Teodosio e di Valentiniano. Il Barbaro Monarca riceveva dal suo coppiere un bicchiere pieno di vino, e cortesemente beveva alla salute del più distinto fra’ convitati, che si alzava in piedi, ed esprimeva nell’istessa guisa i fedeli e rispettosi suoi voti. Questa ceremonia si faceva successivamente a tutte o almeno alle più illustri persone dell’adunanza, e vi si doveva impiegare un tempo considerabile, poichè si ripeteva tre volte ad ogni portata, che ponevasi in tavola. Restò però il vino anche dopo che erano levati i cibi; e gli Unni continuarono a soddisfare la loro intemperanza per lungo tempo dopo che i sobri e decenti Ambasciatori dei due Imperi s’erano ritirati dal notturno convito. Ma prima di ritirarsi ebbero una singolare occasione d’osservare i costumi della nazione nei suoi divertimenti conviviali. Stavano davanti al letto d’Attila due Sciti, e recitavano i versi che avevan composti per celebrare il valore e le vittorie di esso. Si fece nella sala un profondo silenzio; l’attenzione dei convitati venne richiamata dalla vocale armonia, che rammentava e perpetuava la memoria delle proprie lor geste. Dagli occhi dei guerrieri usciva un marziale ardore, che li dimostrava impazienti della battaglia; e le lagrime dei vecchi esprimevano la generosa loro disperazione di non poter più essere a parte del pericolo e della gloria del campo46. A questo trattenimento, che potrebbe risguardarsi come una scuola di valor militare, successe una farsa, che abbassava la dignità della natura umana. Un buffone Moro ed uno Scita eccitavano a vicenda il brio dei rozzi spettatori con la deforme loro figura, co’ ridicoli abiti, coi gesti caricati, con gli assurdi discorsi e con lo strano non intelligibil mescuglio delle lingue Latina, Gotica ed Unna; e la sala risuonava di alti e licenziosi scrosci di risa. In mezzo a questo smoderato fracasso il solo Attila senza mutar positura mantenne la sua costante ed inflessibile gravità, che non lasciò mai, fuori che nell’entrare d’Irnac, che era il più piccolo dei suoi figli: abbracciò egli il fanciullo con un sorriso di tenerezza paterna, lo prese gentilmente per le gote, e dimostrò una parziale affezione, che veniva giustificata dalla sicurezza, datagli da’ suoi Profeti, che Irnac sarebbe stato il futuro sostegno della famiglia e dell’Impero di esso. Due giorni dopo gli Ambasciatori ebbero un secondo invito, ed ebbero motivo di lodare la cortesia ugualmente che l’ospitalità d’Attila. Il Re degli Unni ebbe un lungo e famigliare discorso con Massimino; ma la sua civiltà fu interrotta da crude espressioni e da superbi rimproveri; e fu mosso da un motivo d’interesse a sostenere con indecente zelo le private pretensioni di Costanzo suo segretario. „L’Imperatore (disse Attila) gli ha da gran tempo promesso una ricca moglie; Costanzo non dev’esser deluso; nè un Imperator Roman dovrebbe meritare il nome di bugiardo„. Il terzo giorno, gli Ambasciatori furono licenziati; fu accordata la libertà di vari schiavi, per un moderato riscatto, alle premurose loro preghiere; ed oltre i presenti reali fu loro permesso d’accettare da ciascheduno de’ nobili Sciti l’onorevole ed utile dono d’un cavallo. Massimino tornò per la medesima strada a Costantinopoli; e quantunque si trovasse impegnato accidentalmente in una disputa con Beric, nuovo Ambasciatore d’Attila, si lusingava d’aver contribuito, mediante il laborioso suo viaggio, a confermar la pace e l’alleanza delle due nazioni47.
Ma il Romano Ambasciatore non sapeva il disegno del tradimento, che si era coperto sotto la maschera della pubblica fede. La sorpresa e la gioia d’Edecone allorchè osservava lo splendor di Costantinopoli, avea incoraggito l’interpetre Vigilio a procurargli un segreto abboccamento coll’Eunuco Crisafio48, che governava l’Imperatore e l’Impero. Dopo qualche preliminare discorso, ed un vicendevole giuramento di segretezza, l’Eunuco, che secondo i propri sentimenti o la propria esperienza non avea concepito alcuna sublime idea della virtù ministeriale, si avventurò a proporre la morte d’Attila, come un importante servigio, per cui Edecone avrebbe potuto meritare una gran parte della ricchezza e del lusso che egli ammirava. L’Ambasciatore degli Unni diede orecchio alla seducente offerta; e dichiarò con apparente zelo, che esso aveva il potere e la facilità d’eseguire la sanguinosa impresa: ne fu comunicato il disegno al Maestro degli Ufizi, e Teodosio acconsentì all’assassinamento dell’invincibile suo nemico. Ma svanì questa perfida cospirazione per la dissimulazione o pel pentimento d’Edecone, e quantunque potesse esagerare l’interna sua ripugnanza pel tradimento, ch’egli pareva approvare, destramente si procurò il merito d’una opportuna e volontaria confessione. Ora se vogliamo esaminar l’ambasceria di Massimino e la condotta d’Attila, dobbiamo applaudire a quel Barbaro, che rispettò le leggi dell’ospitalità, e generosamente trattò e lasciò libero il Ministro d’un Principe, che avea cospirato contro la sua vita. Ma comparirà sempre più straordinaria la temerità di Vigilio, che consapevole del suo delitto e pericolo, tornò al campo reale in compagnia del proprio figlio, e portando seco una pesante borsa d’oro, somministratagli dall’Eunuco favorito per soddisfare le richieste d’Edecone, e corrompere la fedeltà delle guardie. L’interprete fu subito preso, e tratto al Tribunale d’Attila, dove asserì la sua innocenza con apparente fermezza, finattantochè la minaccia d’uccidere immediatamente il suo figlio, gli trasse di bocca una sincera confessione del colpevol fatto. Sotto nome di riscatto o di confiscazione, il rapace Re degli Unni accettò dugento libbre d’oro per la vita d’un traditore, ch’egli sdegnava di punire. Diresse il suo giusto risentimento contro un oggetto più nobile. Furono immediatamente spediti a Costantinopoli Eslao ed Oreste, suoi Ambasciatori, con una perentoria istruzione, che era molto più sicuro per essi l’eseguire, che il non osservarla. Entrarono arditamente alla presenza Imperiale con la fatal borsa appesa al collo d’Oreste, il quale interrogò l’Eunuco Crisafio, che stava vicino al trono, se riconosceva la prova della sua colpa. Ma l’ufizio del rimprovero era riserbato alla superior dignità d’Eslao suo collega, che gravemente s’indirizzò all’Imperatore dell’Oriente con queste parole. „Teodosio è figlio d’un illustre e rispettabile padre: Attila parimente è disceso da una nobile stirpe, ed ha sostenuto, con le proprie azioni, la dignità che ereditò dal suo genitore Mundzuk. Ma Teodosio ha perduto i suoi paterni onori, ed acconsentendo a pagar tributo, si è abbassato alla condizion d’uno schiavo. Egli è dunque giusto, che veneri quell’uomo, che la fortuna ed il merito hanno posto sopra di lui, invece di tentare come un malvagio schiavo di cospirare furtivamente contro il suo Signore„. Il figlio d’Arcadio, il quale solo era assuefatto alla voce dell’adulazione, udì con sorpresa il severo linguaggio della verità: arrossì e tremò; nè osò di negare direttamente la testa di Crisafio, che Eslao ed Oreste avevan ordine di domandare. Fu subito spedita una solenne Ambasceria, munita di pieno potere e di magnifici doni, per calmare la collera d’Attila; e fu secondato il suo orgoglio con la scelta di Nomio e d’Anatolio, due Ministri di grado Consolare o Patrizio, l’uno dei quali era gran Tesoriere e l’altro era Generale degli eserciti dell’Oriente. Egli condiscese ad incontrar questi Ambasciatori sulle rive del fiume Drence; e quantunque a principio affettasse un sostenuto e superbo contegno, l’ira di esso appoco appoco fu ammollita dalla loro eloquenza e liberalità. Si contentò di perdonare all’Imperatore, all’Eunuco ed all’interpetre; s’obbligò con giuramento ad osservare le condizioni della pace; rilasciò un gran numero di schiavi; abbandonò al loro destino i fuggitivi e i disertori; e cedè un vasto territorio al mezzodì del Danubio, che egli avea già spogliato di ricchezze e di abitatori, Ma si comprò questo trattato ad un prezzo, che avrebbe potuto sostenere una vigorosa e felice guerra; ed i sudditi di Teodosio furon costretti a redimere la vita d’un indegno favorito per mezzo di opprimenti imposizioni, che essi avrebbero più volentieri pagate per la sua morte49.
[A. 450] L’Imperator Teodosio non sopravvisse lungamente alla più umiliante circostanza d’una vita priva di gloria. Andando a cavallo a caccia nelle vicinanze di Costantinopoli, fu tratto dal suo cavallo nel fiume Lico; nella caduta restò offesa la spina del dorso; e pochi giorni dopo spirò nel cinquantesimo anno della sua età, e quarantesimo terzo del regno50. Pulcheria, di lui sorella, all’autorità della quale si era opposta sì negli affari civili che negli Ecclesiastici la perniciosa influenza degli Eunuchi, fu di comun consenso proclamata Imperatrice dell’Oriente, ed i Romani si sottoposero per la prima volta all’Impero d’una donna. Appena fu Pulcheria salita sul trono, che soddisfece il pubblico risentimento con un atto di popolar giustizia. L’Eunuco Crisafio, senz’alcuna legal forma di giudizio, fu decapitato avanti le porte della città: e le immense ricchezze, che dal rapace favorito s’erano accumulate, non servirono che ad affrettare e giustificare la sua punizione51. In mezzo alle generali acclamazioni del clero e del popolo, l’Imperatrice non dimenticò il pregiudizio ed il danno, a cui era esposto il suo sesso, e saviamente risolvè d’impedire ogni susurro con la scelta d’un collega, che sempre rispettasse il superior grado e la verginal castità della sua moglie. Essa sposò Marciano, Senatore di circa sessant’anni, ed il marito, solo di nome, di Pulcheria, fu solennemente investito della porpora Imperiale. Il solo zelo, da lui dimostrato per la fede Ortodossa, che fu stabilita nel Concilio di Calcedonia, avrebbe potuto inspirare la grata eloquenza dei Cattolici. Ma la condotta di Marciano nella vita privata, e di poi sul trono, può sostenere una più ragionevol credenza, che egli era atto a restaurare ed invigorire un Impero, che s’era quasi disciolto per la successiva debolezza di due Monarchi ereditari. Esso era nato nella Tracia, ed educato nella professione delle armi; ma la gioventù di Marciano era stata duramente esercitata dalla povertà e dalla disgrazia, mentre l’unica sua ricchezza, quando arrivò a Costantinopoli la prima volta, consisteva in dugento monete d’oro, che aveva prese in prestito da un amico. Passò diciannove anni al domestico e militar servizio d’Aspar e d’Ardaburio, suo figlio; seguitò quei potenti Generali nella guerra Persiana ed Affricana; ed ottenne per loro mezzo l’onorevole posto di Tribuno e di Senatore. La sua dolce disposizione e gli utili suoi talenti, senza eccitare la gelosia dei suoi Signori, procurarono a Marciano la stima ed il favore di essi; egli aveva veduto e forse provato gli abusi d’una oppressiva e venale amministrazione; ed il proprio suo esempio diede peso ed energia alle leggi, che ei promulgò per la riforma dei costumi52.
Note
- ↑ Si posson trovare i materiali autentici per l’istoria di Attila presso Giornandes (de reb. Get. c. 34, 50. p. 660, 668. Edit. Grot.), e Prisco (Excerpta de Legation. p. 33, 76. Paris 1648). Io non ho veduto le vite d’Attila composte da Giovenco Celio Calano Dalmatino nel XII secolo, o da Nicola Olao Arcivescovo di Gran nel XVI. Vedi Mascov., Istor. de’ German. IX. 23, e Maffei, Osservaz. letterar. Tom. 1. p. 88, 89. Tuttociò, che vi hanno aggiunto i moderni Ungheri, dev’esser favoloso. Suppongono questi, che quando Attila invase la Gallia e l’Italia, sposò innumerabili donne etc., avesse l’età di centoventi anni. Thwrocz., Chron. p. 1 c. 22 in Script. Hund. Tom. 1. p. 76.
- ↑ L’Ungheria è stata successivamente occupata da tre colonie Scite, 1. dagli Unni d’Attila; 2. dagli Arabi nel sesto secolo; e 3. da’ Turchi o Magiari l’anno 889 che sono gl’immediati e genuini maggiori de’ moderni Ungheri, la connessione de’ quali co’ due Popoli precedenti è sommamente debole e lontana. Sembra che il Prodromus e la Notitia di Matteo Belio contenga un ricco fondo di cognizione intorno all’Ungheria antica e moderna. Io ne ho veduti gli estratti nella Biblioteca antica e moderna (Tom. XXII. p. 1, 51) e nella Biblioteca ragionata (Tom. XVI. p. 127, 175).
- ↑ Socrate l. VII c. 43. Teodoreto l. 5. c. 36. Il Tillemont, che sempre s’appoggia alla fede de’ suoi autori Ecclesiastici, vigorosamente sostiene (Hist. des Emper. T. VI. p. 136, 607), che le guerre e le persone non erano le medesime.
- ↑ Vedi Prisco p. 47, 48 ed Hist. des Peuples de l’Europe Tom. VII. c. XII, XIII, XIV, XV.
- ↑ Prisc. p. 39. I moderni Ungheri ne hanno fatta la genealogia, che ascende nel trentesimo quinto grado a Cham figlio di Noè; non sanno però il vero nome di suo padre (De Guignes, Hist. des Huns. Tom. II. p. 297).
- ↑ Si paragoni Giornandes (cap. 35. p. 661) con Buffon (Hist. nat. Tom. III. p. 380). Il primo avea diritto d’osservare, originis suae signa restituens. Il carattere ed il ritratto d’Attila sono probabilmente trascritti da Cassiodoro.
- ↑ Abulpharag., Dynast. vers. Procock. p. 28l. Istoria genealogica de’ Tartari d’Abulghazi Bahader Kan part. III c. 15, part. IV. c. 3. Vita di Gengis-khan, di Petit de la Croix l. 1 c. 1, 6. Le relazioni de’ Missionari, che visitarono la Tartaria nel secolo XIII (Vedi il settimo volume dell’Istoria de’ viaggi) esprimono il linguaggio e le opinioni popolari. Gengis è chiamato il figlio di Dio ec.
- ↑ Nec Templum apud eos visitur, aut delubrum, ne tugurium quidem, culmo tectum cerni usquam potest; sed gladius Barbarico ritu humi figitur nudus, eumque ut Martem regionum, quas circumcircant praesulem verecundius colant. Ammian. Marcellin. XXXI. 2. con le dotte note del Lindenbrogio, e del Valesio.
- ↑ Prisco riferisce questa notabile istoria tanto nel suo proprio testo (p. 65), quanto nella citazione che ne fa Giornandes (c. 35. p. 662). Egli avrebbe potuto spiegare la tradizione o la favola, che caratterizzava questa famosa spada, ed il nome non meno che gli attributi della Divinità Scita, che ha traslatato nel Marte de’ Greci e de’ Romani.
- ↑ Erodoto (L. IV. c. 62). Per amore d’economia ho fatto il calcolo secondo lo stadio minore. Ne’ sacrifizi umani essi tagliavano la spalla ed il braccio della vittima, che gettavano in aria, e traevano auspici e presagi dalla maniera, con cui cadeva sulla catasta.
- ↑ Prisco (p. 55). Anche un eroe più civilizzato, lo stesso Augusto, si compiaceva se la persona, sulla quale fissava gli occhi, pareva inabile a sostenere il divino loro splendore. Sueton., in August. c. 79.
- ↑ Il Conte di Buat (Hist. des Peuples de l’Europe Tom. VII. p. 428, 429) tenta di purgare Attila dall’uccisione del fratello; ed è quasi inclinato il rigettare la concorde testimonianza di Giornandes, e delle Croniche di quel tempo.
- ↑ Fortissimarum gentium dominus, qui inaudita ante se potentia solus Scythica et Germanica regna possedit. Giornandes c. 49. p. 684. Prisco p. 64, 65. Il Guignes, mediante la sua cognizione del Chinese, ha acquistato (Tom. II. p. 295-301) una giusta idea dell’Impero d’Attila.
- ↑ Vedi Hist. des Huns Tom. II. p. 296. I Geugensi credevano, che gli Unni potessero eccitare a lor piacimento, tempeste di vento e di pioggia. Questo fenomeno era prodotto dalla pietra Gezi, alla magica forza della quale fu attribuita la perdita d’una battaglia da’ Tartari Maomettani del decimoquarto secolo. Vedi Cherefeddin Ali, Hist. de Timur Bec. Tom. 1. p. 82, 83.
- ↑ Giornandes c. 35. p. 661. c. 37. p. 667. Vedi Tillemont Hist. des Emper. Tom. VI. p. 129, 138. Cornelio ha rappresentato l’orgoglio d’Attila verso i Re suoi sottoposti; e principia la sua tragedia con questi ridicoli versi.
Ils ne sont pas venus nos deux Rois! qu’on leur die
Qu’ils se font trop attendre, et qu’Attilla s’ennuie.I due Re de’ Gepidi e degli Ostrogoti son profondi politici e sensibili amanti; e tutta l’opera presenta i difetti senza il genio del Poeta.
- ↑
.... Alii per Caspia claustra
Armeniasque nives inopino tramite ducti
Invadunt Orientis opes: jam pascua fumant
Capadocum, volucrumque parens Argaeus equorum
Jam rubet altus Halys; nec se defendit iniquo
Monte Cilix: Syriae tractus vastantur amaeni;
Assuetumque choris et lauta plebe canorum
Proterit imbellem sonipes hostilis Orontem.Claudian. in Rufin. l. II. 28, 35. Vedi ancora il medesimo in Eutrop. l. I, 243, 251 e la forte descrizione di Girolamo che scriveva per propria esperienza Tom. I. p. 26. ad Heliodor. p. 200, ad Oceanum. Filostorgio (l. IX. c. 8) fa menzione di tal invasione.
- ↑ Vedi l’originale conversazione appresso Prisco p. 64, 65.
- ↑ Prisco p. 33l. 1a sua storia conteneva un copioso ed elegante ragguaglio della guerra (Evagr. l. 1. c. 17), ma gli estratti, relativi alle ambasciate, sono le uniche parti, che son giunte fino ai nostri tempi. Potè riscontrarsi però l’opera originale dagli scrittori, dai quali prendiamo le nostre imperfette notizie, cioè da Giornandes, da Teofane, dal Conte Marcellino, da Prospero Tirone, e dall’Autore della Cronica Alessandrina o Pasquale. Il Buat (Hist. des Peuples de l’Europe Tom. VII. c. 15) ha esaminato la causa, le circostanze e la durata di questa guerra, e non accorda, che s’estendesse oltre l’anno 444.
- ↑ Procop. de aedific. l. IV. c. 9. Queste fortezze furono di poi restaurate, fortificate ed ampliate dall’Imperator Giustiniano; ma presto vennero distrutte dagli Abari, che succederono al potere ed al dominio degli Unni.
- ↑ Septuaginta civitates (dice Prospero Tirone) depraedatione vastatae. L’espressione del Conte Marcelli non è anche più forte, Pene totam Europam, invasis excisisque civitatibus atque castellis, conrasit.
- ↑ Il Tillemont (Hist. des Emper. Tom. VI. p. 106, 107) ha fatto grand’attenzione a questo memorabile terremoto, che fu sentito da Costantinopoli sino ad Antiochia ed Alessandria, ed è celebre presso tutti gli Scrittori Ecclesiastici. Nelle mani di un Predicator popolare un terremoto è uno stromento di mirabil effetto.
- ↑ Ei rappresentò all’Imperator de’ Mogolli, che le quattro Province (Petheli, Chantong, Chansi e Leaotong) che già possedeva, potevan rendere annualmente, sotto una dolce amministrazione, cinquecentomila once d’argento, 400,000 misure di riso e 800,000 pezze di seta. Gaubil Hist. de la Dynast. des Mongous p. 58, 59. Yelutchousay (così chiamavasi il Mandarino) era un saggio e virtuoso Ministro, che salvò la sua patria, e ne incivilì i conquistatori. Vedi p. 102, 103.
- ↑ Sarebbero infiniti gli esempi, che potremmo addurre; ma il curioso lettore può consultare la vita di Gengis-khan fatta da Petit de la Croix, l’Histoire des Mongous, ed il lib. 15 dell’Istoria degli Unni.
- ↑ A Maru 1,300000; ad Herat 1,600000; a Neisabour 1,747000. D’Herbelot, Biblioth. Orient. p. 380, 38l. Io mi servo dell’ortografia delle carte di Danville. Bisogna confessare però, che i Persiani eran disposti ad esagerar le loro perdite, ed i Mogolli a magnificare le loro imprese.
- ↑ Chereffeddin Ali, suo servile panegirista, ci somministrerebbe degli esempi altrettanto orribili. Nel suo campo avanti Delhi Timur trucidò 100,000 prigionieri Indiani, che avevano sorriso, quando fu alle viste l’armata de’ lor nazionali, Hist. de Timur Bec. Tom. III, p. 90. Il popolo d’Ispahan somministrò 70,000 teschi umani per la costruzione di varie alte torri (Id. Tom. I, p. 434). Un simile tributo fu levato in occasione della rivolta di Bagdad (T. III, p. 370); e l’esatto numero, che Chereffeddin non potè sapere dai propri Ufiziali, si fissa da un altro Istorico (Alimed Arabsiada Tom. II, pag. 175 Vedi Manger) a 90,000 teste.
- ↑ Gli antichi Giornandes, Prisco ec. non fanno menzione di quest’epiteto. I moderni Ungheri hanno immaginato, che fosse dato ad Attila da un eremita della Gallia, e ch’ei si dilettava d’inserirlo fra’ titoli della sua real dignità. Mascou IX. 25 e Tillemont, Hist. des Emper. Tom. VI, p. 143.
- ↑ I Missionari di S. Gio. Grisostomo avevan convertito un gran numero di Sciti, che abitavano di là dal Danubio in tende e carri. Teodoreto lib. V c. 31. Foz. pag. 1517. I Maomettani, i Nestoriani ed i Cristiani Latini si crederono sicuri di guadagnare i figli ed i nipoti di Gengis, che trattò con imparzial favore que’ Missionari rivali fra loro.
- ↑ I Germani, ch’esterminarono Varo e le sue legioni erano particolarmente irritati contro le leggi ed i legali Romani. Uno dei Barbari, dopo l’efficaci precauzioni di tagliar la lingua, e cucir la bocca d’un avvocato, osservò con molta soddisfazione, che la vipera non potea più fischiare. Flor. IV. 12.
- ↑ Prisco p. 59. Pare che gli Unni preferissero la lingua Gotica e la Latina alla propria, ch’era probabilmente un duro e sterile idioma.
- ↑ Filippo di Comines, nell’ammirabile sua pittura degli ultimi momenti di Luigi XI. (memor. lib. VI, c. 12), rappresenta l’insolenza del suo medico, il quale, in cinque mesi, estorse 54,000 luigi ed un ricco Vescovato da quel fiero ed avaro tiranno.
- ↑ Prisco (p. 61), inalza l’equità delle leggi Romane, che difendevano la vita d’uno schiavo. Occidere solent , dice Tacito de’ Germani, non disciplina et severitate, sed impetu et ira, ut inimicum, nisi quod impune. De morib. Germanor. c. 15. Gli Eruli, che erano sudditi d’Attila, s’arrogavano ed esercitavano il potere di vita e di morte su’ loro schiavi. Se ne veda un notabil esempio nel secondo libro di Agatia.
- ↑ Vedasi l’intera conversazione presso Prisco p. 59, 62.
- ↑ Nova iterum Orienti assurgit ruina... cum nulla ab Occidentalibus ferrentur auxilia. Prospero Tirone compose la sua Cronica nell’Occidente, e quest’osservazione contiene una censura.
- ↑ Secondo la descrizione o piuttosto l’invettiva del Grisostomo, un incanto del lusso Bizantino doveva dare un gran prodotto. Ogni casa ricca possedeva una tavola semicircolare d’argento massiccio, che appena due uomini potevano alzare, un vaso d’oro sodo del peso di quaranta libbre, de’ bicchieri, de’ piatti dell’istesso metallo ec.
- ↑ Gli articoli del Trattato, esposti senza grand’ordine o precisione, si posson vedere appresso Prisco, p. 34, 35, 36, 37, 53 ec. Il Conte Marcellino dà qualche conforto coll’osservare, I. che Attila stesso sollecitò la pace ed i presenti, che prima avea ricusato; e II. che verso il medesimo tempo gli Ambasciatori dell’India presentarono all’Imperator Teodosio una molto grossa tigre addomesticata.
- ↑ Prisco p. 35, 36. Fra le cent’ottantadue fortezze o castella della Tracia enumerate da Procopio (de Aedific. l. IV, c. XI, Tom. II, pag. 92 edit. Paris), ve n’è una col nome di Esimontou, la cui posizione è indicata dubbiosamente nelle vicinanze d’Anchialo e del Ponto Eussino. Il nome e le mura d’Azimunzio sussisterono forse fino al regno di Giustiniano; ma la gelosia dei Principi Romani si era presa la cura d’estirpare la razza de’ bravi suoi difensori.
- ↑ La disputa fra S. Girolamo e S. Agostino, che cercavano con diversi espedienti di conciliare l’apparente contesa dei due Appostoli S. Pietro e S. Paolo, dipende dallo scioglimento d’un’importante questione (Middleton, Oper. vol. II, p. 5, 10), che si è frequentemente agitata fra’ Teologi Cattolici e Protestanti, ed anche fra’ giurisconsulti e filosofi d’ogni secolo.
- ↑ Montesquieu (Considérations sur la grandeur etc. c. 19), ha dipinto con audace e felice pennello alcune delle più forti circostanze dell’orgoglio d’Attila e del disonore dei Romani. Ei merita lode per aver letto i Frammenti di Prisco, che erano stati troppo trascurati.
- ↑ Vedi Prisco pag. 69, 71, 72 ec. Io mi sarei quasi indotto a credere, che questo avventuriero fosse di poi crocifisso per ordine d’Attila sul sospetto di tradimento, ma Prisco ha troppo chiaramente distinto due persone col nome di Costanzo, che pei simili avvenimenti della loro vita si sarebber potuti facilmente confondere.
- ↑ Nel trattato di Persia concluso l’anno 422 il savio ed eloquente Massimino era stato assessore d’Ardaburio (Socrate, lib. VII, c. 20). Quando fu inalzato al trono Marciano, fu dato l’ufizio di gran Ciamberlano a Massimino, che in un pubblico editto è posto fra’ quattro principali Ministri di Stato (Novell. ad Calc. Cod. Theod. p. 31). Egli eseguì una militare e civil commissione nelle Province Orientali; e la sua morte dispiacque ai Selvaggi dell’Etiopia, dei quali esso avea represso le scorrerie. Vedi Prisco p. 40, 41.
- ↑ Prisco era nativo di Panium nella Tracia, e meritò per la sua eloquenza un onorevole posto fra’ Sofisti di quel tempo. La sua storia Bizantina, che appartiene ai propri suoi tempi, era contenuta in sette libri. Vedi Fabricio, Bibl. Graec. VI, p. 235, 236. Nonostante il caritatevol giudizio dei Critici, io sospetto, che Prisco fosse Pagano.
- ↑ Gli Unni continuavano tuttavia a disprezzare i lavori dell’agricoltura; essi abusavano del privilegio di una nazione vittoriosa; ed i Goti, loro industriosi sudditi, che coltivavano la terra, temevano la lor vicinanza come quella di tanti lupi rapaci (Prisco p. 45). Nell’istessa guisa i Sarti ed i Tadgici provvedono alla propria lor sussistenza, ed a quella dei Tartari Usbecchi, lor oziosi e rapaci Sovrani. Vedi Ist. Genealog. dei Tartari p. 423, 456 ec.
- ↑ È certo che Prisco passò il Danubio ed il Teiss, e che non arrivò al piè dei monti Carpazi. Agria, Tokai e Giasberin sono situate nei piani circonscritti da questi limiti. Il Buat (Hist. des Peuples ec. Tom. VII, pag. 461) ha scelto Tokai; Otrokosci, erudito Unghero (p. 180 ap. Mascou IX, 23), ha preferito Giasberin, luogo circa trenta sei miglia all’occidente di Buda e del Danubio.
- ↑ Il real villaggio d’Attila si può paragonare alla città di Karacorum, residenza dei successori di Gengis; la quale, sebbene sembri, che fosse un’abitazione più stabile, pure non uguagliava la grandezza o lo splendore della città ed Abbazia di S. Dionigi nel secolo XIII. (Vedi Rubruquis nell’Istor. general. dei viaggi Tom. VII, p. 286). Il campo d’Aurengzebe, quale viene sì piacevolmente descritto da Bernier (Tom. II, p. 217, 235), mescolò i costumi della Scizia con la magnificenza ed il lusso dell’Indostan.
- ↑ Allorchè i Mogolli facevan mostra delle spoglie dell’Asia nella Dieta di Toncal, il Trono di Gengis era sempre coperto di quel primo tappeto di lana nera, sul quale fu collocato, quando fu inalzato al comando dei guerrieri suoi nazionali. Vedi Vie de Gengiscan l. IV, c. 9.
- ↑ Se prestiam fede a Plutarco (in Demetrio Tom. V, p. 24) gli Sciti avevano per costume, allorchè si davano al piacere della tavola, di risvegliare il languido loro coraggio con la marziale armonia, che veniva dal suono delle corde dei loro archi.
- ↑ Si può vedere presso Prisco (p. 49, 70) la curiosa narrazione di quest’Ambasceria, che richiedeva poche osservazioni, e non era suscettibile d’alcuna prova di Autori contemporanei. Ma non mi son limitato all’ordine di quella, e ne avea precedentemente tratte le circostante istoriche, che erano meno intrinsecamente connesse col viaggio e coll’affare dei Romani Ambasciatori.
- ↑ Il Tillemont ha dato molto esattamente la serie dei Ciamberlani, che regnarono in nome di Teodosio. Crisafio fu l’ultimo, e secondo l’unanime testimonianza dell’Istoria, il più cattivo di questi favoriti (Vedi Hist. des Emper. Tom. VI. p. 117-119. Mem. Eccl. Tom. XV. p. 438). La parzialità, che aveva per l’Eresiarca Eutiche, suo compare, l’impegnò a perseguitare il partito cattolico.
- ↑ Può vedersi questa segreta cospirazione, e le importanti sue conseguenze nei frammenti di Prisco p. 37, 38, 39 54, 70, 71, 72. La Cronologia di quell’Istorico non è stabilita da veruna data precisa; ma la serie delle negoziazioni fra Attila e l’Impero Orientale dee porsi dentro i tre o quattro anni, che precederono la morte di Teodosio, seguita nel 450.
- ↑ Teodoro Lettore (Vedi Vales., Hist. Eccl. Tom. III. p. 563) e la Cronica Pasquale fanno menzione della caduta senza specificare il male; ma la conseguenza di ciò era così facile a vedersi, e tanto improbabile che fosse inventata, che possiamo sicuramente credere a Niceforo Callisto, Greco del decimo quarto secolo.
- ↑ Pulcheriae nutu (dice il Conte Marcellino) sua cum avaritia interemptus est. Essa abbandonò l’Eunuco alla pia vendetta d’un figlio, il padre del quale aveva sofferto ad istigazione del medesimo.
- ↑ Procopio de Bell. Vandal. l. I. c. 4. Evagr. l. II. c. 1. Teofane p. 90, 91. Novell, ad calc. Cod. Teodos. Tom. VI. p. 30. Le lodi, che S. Leone ed i Cattolici hanno dato a Marciano, sono state diligentemente trascritte dal Baronie per servire d’incoraggiamento a’ futuri Principi.