Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/36

CAPITOLO XXXVI

../35 ../Indice VI IncludiIntestazione 2 febbraio 2024 75% Da definire

35 Indice VI


[p. 466 modifica]

CAPITOLO XXXVI.

Sacco di Roma fatto da Genserico, Re de’ Vandali. Sue depredazioni navali. Successione degli ultimi Imperatori occidentali, Massimo, Avito, Maiorano, Severo, Antemio, Olibrio, Glicerio, Nipote, Augustolo. Total estinzione dell’Impero dell’Occidente. Regno d’Odoacre, primo Re Barbaro d’Italia.

La perdita, o la desolazione delle Province, dall’Oceano alle Alpi, diminuì la gloria e la grandezza di Roma: ma la separazione dell’Affrica distrusse irreparabilmente l’interna sua prosperità. I rapaci Vandali confiscarono i beni patrimoniali de’ Senatori, ed impedirono i regolari sussidi, che sollevavano la povertà, ed incoraggivano l’ozio de’ plebei. La miseria de’ Romani fu tosto aggravata da un attacco inaspettato; e quella Provincia, che per tanto tempo si era coltivata per loro uso da industriosi e fedeli sudditi, fu armata contro di loro da un ambizioso Barbaro. I Vandali e gli Alani, che seguitavano il fortunato stendardo di Genserico, avevano acquistato un ricco e fertile territorio, che si estendeva lungo la costa sopra novanta giornate di cammino da Tangeri a Tripoli; ma l’arenoso deserto ed il Mediterraneo ristringevano e confinavano da ambe le parti gli angusti lor limiti. La scoperta e la conquista de’ popoli neri, che abitavano sotto la zona torrida, non poteva tentare la ragionevole ambizione di Genserico; ma egli rivolse gli occhi verso il mare; risolvè di formare una forza navale; e l’audace sua risoluzione fu eseguita con ferma [p. 467 modifica]ed attiva perseveranza. I boschi del monte Atlante gli somministrarono un’inesauribile quantità di legname; i suoi nuovi sudditi si abilitarono nelle arti della navigazione, e della costruzion delle navi; esso animò gli arditi suoi Vandali ad abbracciare una maniera di combattere, che avrebbe renduto qualunque paese marittimo accessibile alle loro armi; i Mori e gli Affricani furono adescati dalla speranza della preda; e dopo un intervallo di sei secoli, le flotte, che usciron dal porto di Cartagine, aspirarono di nuovo all’Impero del Mediterraneo. Le prosperità de’ Vandali, la conquista della Sicilia, il sacco di Palermo, ed i frequenti sbarchi sulle coste della Lucania risvegliarono, e misero in moto la madre di Valentiniano, e la sorella di Teodosio. Si formarono alleanze, e si prepararono dispendiosi ed inefficaci armamenti per la distruzione del comun nemico, che riservava il proprio coraggio ad affrontar que’ pericoli, che la sua politica non poteva impedire o evitare. Furono sconcertati più volte i disegni del Governo Romano dalle artificiose dilazioni, ambigue promesse, ed apparenti cessioni di lui; e l’interposizione del Re degli Unni, formidabile suo confederato, richiamò gl’Imperatori dalla conquista dell’Affrica alla cura della domestica lor sicurezza. Le rivoluzioni del Palazzo, che lasciaron l’Impero d’Occidente senza difensore, e senza legittimo Principe, sgombrarono i timori, e stimolarono l’avarizia di Genserico. Equipaggiò esso immediatamente una numerosa flotta di Vandali, e di Mori, e gettò l’ancora alla bocca del Tevere circa tre mesi dopo la morte di Valentiniano, e l’innalzamento di Massimo al trono Imperiale.

[A. 455] Si citò spesse volte la vita privata del Senatore Pe[p. 468 modifica]tronio Massimo1, come un raro esempio d’umana felicità. La sua nascita era nobile ed illustre, mentre discendeva dalla famiglia Anicia; la sua dignità veniva sostenuta da un adequato patrimonio in terre e danari: e questi beni di fortuna erano accompagnati dalle arti liberali e dalle decenti maniere, che adornano o imitano gl’inestimabili doni del genio e della virtù. Il lusso del palazzo e della tavola di esso era ospitale ed elegante. Ogni volta che Massimo compariva in pubblico, era circondato da una serie di grati ed ossequiosi clienti2; e può essere che fra questi egli meritasse, ed avesse di fatto qualche vero amico. Fu premiato il suo merito dal favore del Principe e del Senato: esercitò egli per tre volte l’uffizio di Prefetto del Pretorio d’Italia; fu investito due volte del Consolato, ed ottenne il titolo di Patrizio. Questi civili onori non erano incompatibili col godimento della tranquillità e della quiete; il suo tempo, secondo che richiedeva la ragione o il piacere, veniva esattamente distribuito da un oriuolo ad acqua; e può concedersi, che quest’economia di tempo dimostri il sentimento, che Massimo aveva della propria felicità. Sembra che l’ingiuria, ch’ei ricevè dall’Imperator Valentiniano scusi la più sanguinosa vendetta. Pure un filosofo [p. 469 modifica]avrebbe potuto riflettere, che se la resistenza della sua moglie era stata sincera, la sua castità era tuttavia inviolata, e che questa non si sarebbe mai reintegrata, se essa avea consentito al voler dell’adultero, ed un buon cittadino avrebbe molto esitato prima di gettar se stesso, e la patria in quelle inevitabili calamità, che dovetter seguire l’estinzione della real famiglia di Teodosio. L’imprudente Massimo trascurò queste salutari considerazioni; secondò la propria collera ed ambizione; vide il cadavere sanguinoso di Valentiniano a’ suoi piedi; e si udì salutare Imperatore dall’unanime voce del Senato e del Popolo. Ma il giorno del suo inalzamento fu l’ultimo della sua felicità. Esso fu imprigionato (tal è la viva espressione di Sidonio) nel palazzo; e dopo aver passato una notte senza dormire, sospirava per esser giunto al colmo de’ suoi desiderj, e non aspirava, che a scendere da quella pericolosa elevazione. Oppresso dal peso del diadema, comunicava i suoi ansiosi pensieri al Questore Fulgenzio, suo amico; e quando guardava indietro con inutile pentimento i suoi piaceri della vita passata, l’Imperatore esclamava: „o fortunato Damocle3, il tuo regno principiò e finì nel medesimo pranzo!„ Allusione ben nota, che Fulgenzio poi ripeteva, come un’istruttiva lezione pei Principi, e pei sudditi. [p. 470 modifica]

[A. 455] Il regno di Massimo durò circa tre mesi. Le sue ore, delle quali non potea più disporre, venivano disturbate dal rimorso, dalla colpa, o dal timore, ed era scosso il suo trono dalle sedizioni de’ soldati, del Popolo, e de’ Barbari alleati. Il matrimonio di Palladio suo figlio con la figlia maggiore dell’Imperatore defunto era forse diretto a stabilire l’ereditaria successione della sua famiglia; ma la violenza, ch’ei fece all’Imperatrice Eudossia, non potè nascere, che da un cieco impulso di libidine o di vendetta. La propria moglie, ch’era stata la causa di que’ tragici fatti, opportunamente era morta; e la vedova di Valentiniano fu costretta a violare il decente suo lutto, e forse il vero suo cordoglio, ed a sottomettersi agli abbracciamenti d’un superbo usurpatore, ch’essa sospettava essere stato l’assassino del suo defunto marito. Questi sospetti furono ben tosto verificati per l’indiscreta confessione di Massimo stesso, ed egli capricciosamente provocò l’odio della ripugnante sua sposa, la quale era ben consapevole che discendeva da stirpe Imperiale. Dall’Oriente però non poteva Eudossia sperare alcuno efficace aiuto: suo padre, e Pulcheria sua zia erano morti; sua madre languiva nell’angustia e nell’esilio di Gerusalemme; e lo scettro di Costantinopoli era nelle mani d’uno straniero. Essa rivolse gli occhi verso Cartagine; segretamente implorò l’aiuto del Re de’ Vandali; e persuase Genserico a profittare della bella occasione di coprire i suoi rapaci disegni coi nomi speciosi di onore, di giustizia e di compassione4. Per quanto senno Massimo avesse dimostrato [p. 471 modifica]ne’ posti subordinati, egli era incapace d’amministrare un Impero; e quantunque potesse facilmente sapere i preparativi navali, che si facevano su gli opposti lidi dell’Affrica, aspettò con supina indifferenza la venuta del nemico, senza prendere alcuna misura per difendersi, per trattare, o per opportunamente ritirarsi. Quando i Vandali sbarcarono all’imboccatura del Tevere, l’Imperatore fu ad un tratto svegliato dal suo letargo pei clamori d’una tremante ed esacerbata moltitudine. L’unica speranza, che si presentò all’attonito suo spirito, fu quella d’una precipitosa fuga; ed esortò i Senatori ad imitare l’esempio del loro Principe. Ma appena Massimo si fece veder nelle strade, che fu assalito da una pioggia di pietre: un soldato Romano o Borgognone si attribuì l’onore della prima ferita di esso; il suo lacero corpo fu ignominiosamente gettato nel Tevere; il Popolo Romano vide con piacere la pena data all’autore della pubblica calamità; ed i famigliari d’Eudossia segnalarono il proprio zelo in servizio della loro Signora5.

[A. 455] Il terzo giorno dopo il tumulto, Genserico si avanzò arditamente dal porto d’Ostia alle porte della indifesa [p. 472 modifica]città. Invece d’una sortita di gioventù Romana, uscì dalle porte una disarmata e venerabile processione del Vescovo alla testa del suo clero6. L’intrepido spirito di Leone, la sua autorità ed eloquenza mitigaron di nuovo la fierezza d’un Barbaro conquistatore; il Re de’ Vandali promise di risparmiare la moltitudine, che non avesse fatta resistenza, di non portar l’incendio alle fabbriche, e di liberare i prigionieri dalla tortura; e quantunque tali ordini non fossero seriamente mai dati, nè rigorosamente eseguiti, la mediazione di Leone fu gloriosa per esso, ed in qualche modo giovevole alla Patria. Ma Roma ed i suoi abitanti furono abbandonati alla licenza de’ Vandali, e de’ Mori, le cieche passioni de’ quali vendicarono le ingiurie di Cartagine. Il sacco durò quattordici giorni e quattordici notti; e tutto ciò, che vi rimaneva di pubblica o privata ricchezza, di tesori sacri o profani, fu diligentemente trasportato alle navi di Genserico. Fra le altre spoglie, le splendide reliquie di due tempj, o piuttosto di due religioni, mostrarono un memorabil esempio delle vicende delle cose umane e divine. Dopo l’abolizione del Paganesimo, si era profanato ed abbandonato il Campidoglio; pure tuttavia si rispettavano le statue degli Dei e degli Eroi, ed il curioso tetto di bronzo dorato riservavasi alle mani rapaci di Genserico7. I [p. 473 modifica]sacri arnesi del Culto Giudaico8, la tavola d’oro, ed il candelabro, pur d’oro, con sette rami, in principio fatti secondo le speciali istruzioni di Dio medesimo, e che furono posti nel santuario del suo tempio, si erano pomposamente mostrati al Popolo Romano nel Trionfo di Tito; si erano quindi depositati nel tempio della Pace; ed al termine di quattrocento anni le spoglie di Gerusalemme trasportate furono da Roma a Cartagine da un Barbaro, che traeva l’origine da’ lidi del Baltico. Questi antichi monumenti potevano attirar la curiosità, non meno che l’avarizia. Ma le chiese Cristiane, arricchite ed ornate dalla predominante superstizione di que’ tempi, somministrarono una più abbondante materia al sacrilegio; e la pia liberalità del Papa Leone, che fece fondere sei vasi d’argento, donati da Costantino, del peso di cento libbre l’uno, è una prova del danno, ch’ei procurava di riparare. Ne’ quarantacinque anni, ch’eran passati dopo l’invasione Gotica, la pompa ed il lusso di Roma avevano in qualche modo ripreso vigore; ed era difficile il [p. 474 modifica]soddisfare, o l’evitar l’avarizia d’un conquistatore, che aveva comodità di raccogliere, e navi da portar via le ricchezze della capitale. Gl’Imperiali ornamenti del palazzo, magnifici mobili e addobbi, i vasi massicci furono accumulati con disordinata rapina: l’oro e l’argento montò a più migliaia di talenti; e ciò nonostante fu con molta fatica tolto anche il rame, ed il bronzo. Eudossia medesima, che s’avanzò incontrò al suo amico e liberatore, pianse ben tosto l’imprudenza della propria condotta. Essa fu incivilmente spogliata delle sue gioie; e la sfortunata Imperatrice con le due sue figlie, ch’erano tutto ciò che restava del Gran Teodosio, fu costretta, come una schiava, a seguitare l’altiero Vandalo, che immediatamente sciolse le vele, e tornò con prospera navigazione al porto di Cartagine9. Più migliaia di Romani di ambedue i sessi, scelti per causa di qualche utile o piacevole lor qualità s’imbarcarono lor malgrado sulla flotta di Genserico; e la loro angustia fu aggravata dagl’insensibili Barbari, che nella division della preda separaron le mogli da’ loro mariti, ed i figli da’ padri. La carità di Deogratias10, Vescovo di Cartagine, fu l’unica loro consolazione e sostegno. Ei vendè generosamente i vasi d’oro e d’argento della [p. 475 modifica]Chiesa per comprare la libertà di alcuni, per alleggerire la schiavitù di altri, e per supplire a’ bisogni, ed alle infermità d’una moltitudine di schiavi, che si erano ammalati per le fatiche sofferte nel passaggio dall’Italia nell’Affrica. Due spaziose chiese per ordine di esso furono convertite in ospedali: gli ammalati furono distribuiti in convenienti letti, e generosamente provveduti di cibo, e di medicine; e l’attempato Prelato ripeteva le sue visite, sì di giorno che di notte, con un’assiduità superiore alle sue forze, e con un tenero impegno, che accresceva il valore de’ suoi servigi. Si paragoni questa scena col campo di Canne; e si giudichi tra Annibale ed il successore di S. Cipriano11.

[A. 455] La morte d’Ezio e di Valentiniano aveva allentato i vincoli, che tenevano i Barbari della Gallia in pace e subordinazione. La costa marittima era infestata dai Sassoni; gli Alemanni ed i Franchi si avanzarono dal Reno alla Senna; e l’ambizione de’ Goti pareva che meditasse più estese e permanenti conquiste. L’Imperator Massimo si liberò, mediante una giudiziosa scelta, dal peso di queste distanti cure; fece tacere le sollecitazioni de’ suoi amici, diede orecchio alla voce della fama, e promosse uno straniero al comando generale delle milizie nella Gallia. Avito12, ch’era lo stranie[p. 476 modifica]ro, il merito di cui fu sì nobilmente premiato, discendeva da una ricca ed onorevol famiglia nella diocesi dell’Alvergna. Le vicende di que’ tempi lo spinsero ad abbracciare con uguale ardore la professione militare, e civile; e l’instancabile giovane congiunse gli studi della letteratura e della giurisprudenza coll’esercizio delle armi, e della caccia. Impiegò lodevolmente trent’anni della sua vita nel servizio pubblico; dimostrò alternativamente i suoi talenti nella guerra e nella negoziazione; ed il soldato di Ezio, dopo aver eseguito le più importanti ambasciate, fu innalzato al posto di Prefetto del Pretorio della Gallia. O sia che il merito d’Avito eccitasse l’invidia, o che la sua moderazione desiderasse riposo, tranquillamente si ritirò ad una terra, ch’ei possedeva nelle vicinanze di Clermont. Un copioso torrente, che nasceva dalla montagna, e si gettava precipitosamente in un’alta e schiumosa cascata, scaricava le sue acque in un lago di circa due miglia in lunghezza, e la villa era piacevolmente situata sul margine di esso. I bagni, i portici, gli appartamenti d’estate e d’inverno erano adattati a’ disegni del lusso e del comodo: e l’addiacente campagna somministrava i vari prospetti di boschi, di pasture, e di prati13. Nella sua ritirata, nella quale Avito passava il tempo co’ libri, ne’ divertimenti campestri, nella pratica dell’agricoltura, e nella conversazione degli amici14, ri[p. 477 modifica]cevè il diploma Imperiale, che lo dichiarava Generale della cavalleria e dell’infanteria della Gallia. Preso ch’egli ebbe il comando militare, i Barbari sospesero il lor furore; e di qualsivoglia sorta fossero i mezzi ch’ei potè impiegare, o le concessioni che potè esser costretto a fare, il Popolo godè il vantaggio dell’attuale tranquillità. Ma il destino della Gallia dipendeva da’ Visigoti; ed il Generale Romano, meno sollecito della sua dignità che del pubblico bene, non isdegnò d’andare a Tolosa col carattere d’Ambasciatore. Esso fu ricevuto con cortese ospitalità da Teodorico Re dei Goti; ma mentre Avito gettava i fondamenti d’una stabile alleanza con quella potente nazione, fu sorpreso dalla notizia, che l’Imperator Massimo era stato ucciso, e Roma saccheggiata da’ Vandali. Un trono vacante, ch’egli poteva occupare senza delitto o pericolo, tentò la sua ambizione15; ed i Visigoti facilmente s’indussero a sostenere la sua pretensione col loro irresistibile voto. Essi amavano la persona d’Avito, rispettavano le sue virtù, e non erano insensibili al [p. 478 modifica]vantaggio non meno che all’onore di dare un Imperatore all’Occidente. Approssimavasi allora il tempo, in cui si teneva in Arles l’annuale assemblea delle sette Province; la presenza di Teodorico e dei marziali fratelli potè forse influire nelle loro deliberazioni; ma la scelta loro doveva naturalmente inclinare verso il più illustre de’ lor naturali. Avito, dopo una decente resistenza, accettò da’ rappresentanti della Gallia il Diadema Imperiale; e fu ratificata la sua elezione dalle acclamazioni de’ Barbari e de’ Provinciali. Si richiese, e si ottenne il formal consenso di Marciano Imperatore dell’Oriente: ma il Senato, Roma e l’Italia, quantunque umiliati dalle recenti loro calamità, si sottoposero con segreta ripugnanza alla presunzione del Gallico usurpatore.

[A.453-466] Teodorico, al quale Avito era debitor della porpora, aveva acquistato lo scettro Gotico mediante l’uccisione di Torrismondo suo fratello maggiore; e giustificò questo atroce fatto col disegno, che il suo predecessore avea formato, di violare la sua confederazione coll’Imperonota. Tal delitto potè forse non essere imcompatibile con le virtù d’un Barbaro; ma le maniere di Teodorico erano gentili ed umane, e la posterità può rimirar senza terrore la pittura originale d’un Re Goto, che Sidonio aveva ben esaminato nelle ore della pacifica e sociale conversazione. In una lettera scritta dalla Corte di Tolosa, l’Oratore soddisfa la curiosità d’un suo amico con la seguente descrizionenota. „Per 16 17 [p. 479 modifica]la maestà del suo aspetto imporrebbe Teodorico riverenza anche a quelli, che non ne conoscessero il merito; e quantunque sia nato Principe, il suo merito servirebbe a sublimarlo anche da privato. Esso è di statura piuttosto mediocre, il suo corpo sembra piuttosto pieno che grasso, e nelle proporzionate sue membra l’agilità si unisce alla forza muscolare18. Se si esamina la sua faccia, vi si osserva una spaziosa fronte, larghi e folti sopraccigli, un naso aquilino, tenui labbra, una regolar serie di bianchi denti, ed una bella carnagione, che arrossisce più spesso per modestia, che per isdegno. Si può precisamente indicare l’ordinaria distribuzione del suo tempo, essendo questa esposta alla pubblica vista. Avanti lo spuntar del giorno si porta con un piccolo seguito alla sua cappella domestica, dove si dice la messa da’ ministri Arriani; ma quelli, che pretendono d’interpretare i segreti suoi sentimenti risguardano quest’assidua devozione, come un effetto d’abitudine e di politica. Il resto della mattina s’impiega nell’amministrazione del regno. Il suo Tribunale è circondato da alcuni ufiziali militari [p. 480 modifica]di decente aspetto e portamento: la rumorosa turba delle sue guardie Barbare occupa la sala dell’udienza; ma non è permesso loro di stare dentro i veli o le cortine, che tolgono la camera del consiglio agli occhi volgari. Vengono l’uno dopo l’altro introdotti gli ambasciatori delle nazioni. Teodorico ascolta con attenzione, risponde loro con discreta brevità, e secondo la natura degli affari pronunzia, o differisce la decisiva sua risoluzione. Circa le otto ore (all’ora seconda) si alza dal suo trono, e va al tesoro, o alla scuderia. Se gli piace di andare a caccia, o d’esercitarsi a cavallo, un giovane favorito gli porta l’arco; ma quando è trovata la fiera, lo tende con le proprie mani, e rade volte sbaglia il colpo: come Re, sdegna di portar le armi in tale ignobile occupazione; ma come soldato, si vergognerebbe di ricevere da altri alcun servigio militare a cui potesse supplir da se stesso. Ordinariamente il suo pranzo non è diverso da quello de’ privati; ma ogni sabato, sono invitate molte onorevoli persone alla mensa reale, che in queste occasioni viene imbandita coll’eleganza della Grecia, coll’abbondanza della Gallia, e col buon ordine ed esattezza dell’Italia19. I piatti d’oro e d’argento son meno osservabili pel loro peso, che per la lucentezza e pel curioso lavoro: vien soddisfatto il gusto, senza che vi sia bisogno di estraneo e dispendioso lusso; la grandezza ed il numero de’ bicchieri si regola con una rigorosa coerenza alle leggi della temperanza; [p. 481 modifica]ed il rispettoso silenzio, che vi si osserva, non è interrotto che da una grave ed istruttiva conversazione. Dopo desinare, Teodorico talvolta prende un poco di riposo; e tosto che si sveglia, chiede la tavola e i dadi, incoraggisce i suoi amici a dimenticare la maestà reale, e si compiace quando essi liberamente esprimono le passioni, che s’eccitano dagli accidenti del giuoco. In quest’esercizio, che esso ama come un’immagine della guerra, alternativamente fa prova di ardore, di abilità, di pazienza e di buon umore. Ride, se perde; ed è modesto e tace, se vince. Pure, non ostante quest’apparente indifferenza, i suoi cortigiani prendono i momenti della vittoria per chiedere qualche favore; ed io stesso, nelle mie conversazioni col Re, ho ottenuto qualche vantaggio dalle mie perdite20. Circa l’ora nona (alle tre dopo mezzo giorno) si riprende il corso degli affari, e dura di continuo fin dopo il tramontar del sole, ed allora il segno della cena reale serve per licenziare la stanca folla de’ supplichevoli e de litiganti. Alla cena, ch’è molto famigliare, sono ammessi talvolta de’ buffoni e de’ pantomimi per divertire, non per offendere la compagnia co’ ridicoli loro detti; ma sono rigorosamente bandite le cantatrici, e la musica molle ed effeminata, essendo solo graditi agli orecchi di Teodorico que’ suoni marziali, ch’eccitano lo spirito ad operar valorosamente. Ei si alza da tavola; e sono [p. 482 modifica]immediatamente poste le guardie notturne alle porte del tesoro, del palazzo e degli appartamenti segreti„.

[A.456] Il Re de’ Visigoti nell’atto d’incoraggiare Avito a prender la porpora, gli offrì la sua persona, e le sue forze, come un soldato fedele della Repubblica21. I fatti di Teodorico tosto convinsero il Mondo, ch’egli non avea degenerato dal guerriero valore de’ suoi antenati. Dopo lo stabilimento de’ Goti nell’Aquitania, ed il passaggio de’ Vandali nell’Affrica, gli Svevi, che avevano stabilito il loro regno nella Gallicia, aspiravano alla conquista della Spagna e minacciavano d’estinguere i deboli residui della potenza Romana. I Provinciali di Cartagena e di Tarragona, molestati da un’ostile invasione, rappresentarono i danni che soffrivano, e le loro apprensioni. Fu spedito il Conte Frontone in nome dell’Imperatore Avito con vantaggiose offerte di pace e d’alleanza, e Teodorico v’interpose la valevole sua mediazione, dichiarando, che qualora il Re degli Svevi, suo cognato, immediatamente non si ritirasse, egli sarebbe stato costretto a prender le armi in difesa della giustizia e di Roma. „Digli (rispose il superbo Rechiario) che io non curo la sua amicizia, nè le sue armi, e che anzi proverò in breve, se ardirà d’aspettare la mia venuta sotto le mura di Tolosa„. Una tal disfida mosse Teodorico a prevenire gli audaci disegni del suo nemico: passò i Pirenei alla testa de’ Visigoti; i Franchi, ed i Borgognoni mi[p. 483 modifica]litavano sotto le sue bandiere; e quantunque si professasse fedele servo d’Avito, stipulò particolarmente per se medesimo, e pei suoi successori l’assoluto possesso delle conquiste Ispaniche. Le due armate, o piuttosto le due nazioni s’incontrarono sulle rive del fiume Urbico, alla distanza di circa dodici miglia da Astorga; e parve, che la vittoria decisiva de’ Goti estirpasse per un tempo il nome ed il regno degli Svevi. Dal campo di battaglia, Teodorico avanzossi verso Braga, loro Metropoli, che conservava tuttavia le splendide tracce dell’antico suo commercio e della sua dignità22. Il suo ingresso nella medesima non fu macchiato di sangue, ed i Goti rispettarono la castità delle donne, specialmente delle sacre vergini: ma la maggior parte del Clero e del Popolo cadde in ischiavitù, e fino le chiese e gli altari restaron confusi nell’universale saccheggio. L’infelice Re degli Svevi era fuggito ad uno de’ porti dell’Oceano; ma l’ostinazione de’ venti s’oppose alla sua fuga; fu dato in mano dell’implacabile suo rivale; e Rechiario, che non desiderava, nè aspettava mercede, ricevè con viril costanza la morte, ch’egli trovandosi nelle medesime circostanze, probabilmente avrebbe dato al nemico. Dopo tal sanguinoso sacrifizio alla politica o allo sdegno, Teodorico portò le vittoriose sue armi fino a Merida, città principale della Lusitania, senza incontrar resistenza [p. 484 modifica]veruna a riserva del miracoloso potere di S. Eulalia; ma fu arrestato nella carriera de’ suoi successi, e richiamato dalla Spagna, prima di poter provvedere alla sicurezza delle sue conquiste. Nella ritirata, ch’ei fece verso i Pirenei, vendicò le sue perdite contro il paese pel quale passò, e nel saccheggio di Pollenzia e d’Astorga si dimostrò infedele alleato, non meno che crudele nemico. Mentre il Re de’ Visigoti combatteva e vinceva in nome d’Avito, il regno d’Avito era già terminato; e tanto l’onore, che l’interesse di Teodorico restarono altamente lesi per la disgrazia d’un amico, ch’esso avea collocato sul trono dell’Impero occidentale23.

[A.456] Le vive sollecitazioni del Senato e del Popolo persuasero l’Imperatore Avito a fissare la sua residenza in Roma, e ad accettare il consolato per l’anno venturo. Il primo giorno di Gennaio, Sidonio Apollinare, genero di lui, celebrò le sue lodi in un panegirico di seicento versi; ma questa composizione, quantunque fosse premiata con una statua di bronzo24, sembra che contenga una ben piccola parte sì d’ingegno, che di verità. Il Poeta, se pure è permesso di avvilire tal sacro nome, esagera i meriti d’un Sovrano, e d’un padre; e la sua profezia d’un lungo e glorioso regno fu tosto contraddetta dal fatto. Avito, in un [p. 485 modifica]tempo in cui la dignità Imperiale riducevasi ad una preminenza di travagli e di pericoli, si abbandonò ai piaceri della mollezza Italiana: l’età non aveva estinto in esso le amorose inclinazioni; e viene accusato di avere insultato con indiscreta ed incivile derisione i mariti di quelle ch’egli aveva sedotte, o violate25. Ma i Romani non eran disposti nè a scusare i suoi difetti, nè a riconoscere le sue virtù. Le varie parti dell’Impero si alienavano l’una dall’altra ogni giorno più; e lo straniero della Gallia era l’oggetto dell’odio e del disprezzo popolare. Il Senato sostenne il legittimo suo diritto nell’elezione dell’Imperatore; e la sua autorità, che in principio era derivata dall’antica costituzione ricevè nuova forza dall’attual debolezza d’una decadente Monarchia. Pure anche una tal Monarchia avrebbe potuto resistere a’ voti d’un inerme Senato, se la malcontentezza di questo non fosse stata sostenuta, e forse instigata dal Conte Ricimero, uno de’ principali comandanti delle truppe Barbare, che formavano la difesa militare d’Italia. La madre di Ricimero era figlia di Vallia Re de’ Visigoti; ma dal lato del padre discendeva dalla nazione degli Svevi26. Dalle disgrazie de’ suoi nazionali potè forse inasprirsi l’orgoglio, o il patriottismo di esso; ed ubbidiva con ripugnanza ad un’Imperatore, nell’inalzamento del qua[p. 486 modifica]le egli non era stato consultato. I suoi fedeli ed importanti servigi contro il comun nemico lo renderono sempre più formidabile27; e dopo aver distrutto sulle coste della Corsica una flotta de’ Vandali composta di sessanta galere, tornò Ricimero in trionfo col titolo di Liberator dell’Italia. Egli scelse questo momento per significare ad Avito, che il suo regno era giunto a fine; e il debole Imperatore, distante da’ Goti suoi alleati, fu costretto dopo una breve ed inefficace contesa a dimetter la porpora. La clemenza però, o il disprezzo di Ricimero28 gli permise di passare dal trono al più desiderabile posto di Vescovo di Piacenza: ma lo sdegno del Senato non era ancor soddisfatto; e la sua inflessibil severità pronunziò contro di lui la sentenza di morte. Esso fuggì verso le alpi coll’umile speranza non già d’armare i Visigoti in sua difesa, ma d’assicurare la propria persona ed i suoi tesori nel santuario di Giuliano, uno de’ santi tutelari dell’Alvergna29. La malattia o la mano del carnefice l’arrestò [p. 487 modifica]per viaggio; ed il suo corpo fu decentemente trasportato a Brivas o Brioude nella sua nativa Provincia, e riposò a’ piedi del suo santo avvocato30. Avito non lasciò che una figlia, moglie di Sidonio Apollinare, il quale ereditò il patrimonio del suocero, dolendosi nel tempo stesso, che fossero svanite le sue pubbliche e private speranze. Il suo rammarico l’indusse ad unirsi, o almeno ad appoggiar le misure d’un partito ribelle nella Gallia; ed il Poeta era caduto in qualche mancanza, che dovè poi espiare con un altro tributo d’adulazione verso il nuovo Imperatore31.

[A. 457] Il successore d’Avito presenta la gradita scoperta d’un carattere grande ed eroico, quale sorge alle volte in un secolo degenerato per sostenere l’onor della specie umana. L’Imperator Maioriano ha meritato le lodi de’ suoi contemporanei, e della posterità; e si possono rappresentar queste lodi, con le forti espressioni d’un giudizioso e disinteressato Istorico, il quale racconta: „ch’egli era cortese verso i suoi sudditi; terribile verso i nemici; e che superava in ogni virtù tutti i [p. 488 modifica]suoi antecessori, che regnato avevano sopra i Romani32„. Tale testimonianza può almeno giustificare il panegirico di Sidonio; e noi possiamo assicurarci, che sebbene l’ossequioso oratore avrebbe adulato con uguale zelo il Principe anche più indegno; pure in quest’occasione il merito straordinario del suo Eroe lo fece restar dentro i limiti della verità33. Maioriano traeva il suo nome dall’avo materno, che sotto il regno di Teodosio il Grande avea comandato le truppe della frontiera Illirica. Ei diede la sua figlia per moglie al padre di Maioriano, rispettabile ufiziale, che amministrava le rendite della Gallia con abilità e giustizia, e generosamente preferì l’amicizia d’Ezio alle seducenti offerte d’una Corte insidiosa. Il futuro Imperatore suo figlio, che fu educato nella professione delle armi, dimostrò dalla prima sua gioventù un intrepido coraggio, un prematuro sapere, ed una liberalità illimitata in una tenue fortuna. Seguitò le bandiere d’Ezio, contribuì a’ suoi successi, partecipò, e talvolta ecclissò la sua gloria, ed eccitò finalmente la gelosia del Patrizio, o piuttosto della sua moglie, che [p. 489 modifica]lo costrinse a ritirarsi dalla milizia34. Dopo la morte d’Ezio, Maioriano fu richiamato e promosso; e l’intima sua connessione col Conte Ricimero, fu l’immediato passo, che lo fece salire sul trono dell’Impero occidentale. Nella vacanza, che successe alla deposizione d’Avito, l’ambizioso Barbaro, la cui nascita l’escludeva dall’Imperial dignità, governò l’Italia col titolo di Patrizio; diede all’amico il cospicuo posto di Generale della cavalleria e dell’infanteria; e dopo lo spazio di alcuni mesi, acconsentì all’unanime desiderio de’ Romani, de’ quali erasi Maioriano conciliato il favore, mediante una recente vittoria riportata contro gli Alemanni35. Fu esso investito della porpora a Ravenna; e la lettera, che indirizzò al Senato, è la più acconcia ad esprimere la sua situazione ed i suoi sentimenti: „La vostra elezione, Padri conscritti, e l’ordine dell’esercito più valoroso mi hanno creato vostro Imperatore36. La Divinità propizia diriga e favorisca i consigli ed i successi della [p. 490 modifica]mia amministrazione al vostro vantaggio ed alla pubblica salute. Quanto a me, io non vi aspirava, ma mi son sottomesso a regnare; nè avrei soddisfatto al dovere di Cittadino, se avessi ricusato con bassa ingratitudine, per amore del proprio comodo, di sostenere il peso di quelle fatiche, che mi erano imposte dalla Repubblica. Assistete dunque il Principe, che avete fatto; prendete parte a’ doveri, che mi avete ingiunti, e possano le nostre comuni operazioni promuovere la felicità d’un Impero, che ho ricevuto dalle vostre mani. Assicuratevi, che a’ nostri tempi la giustizia ripiglierà l’antico suo vigore, e la virtù diventerà non solo innocente, ma meritoria. Nessuno abbia timore delle delazioni37, eccettuati gli autori medesimi di esse, che io come suddito ho sempre condannato, e come Principe punirò severamente. La nostra propria vigilanza, e quella del Patrizio Ricimero, nostro padre, regolerà tutti gli affari militari, e provvederà alla salute del Mondo Romano, che ho salvato da’ nemici stranieri e domestici38. Voi conoscete adesso quali [p. 491 modifica]sono le massime del mio governo: potete confidare nel fedele amore, e nelle sincere proteste d’un Principe, ch’è stato già compagno della vostra vita e de’ vostri pericoli, che tuttavia si gloria del nome di Senatore, e che ansiosamente desidero, non vi dobbiate mai pentire del giudizio, che pronunziato avete in suo favore„. Un Imperatore, il quale in mezzo alle rovine del Mondo Romano faceva risorgere quell’antico linguaggio della legge e della libertà, che avrebbe potuto esser proprio di Trajano, doveva trarre dal proprio suo cuore sentimenti sì generosi; mentre non poteva prenderli nè da’ costumi del suo secolo, nè dall’esempio de’ suoi predecessori39.

[A.457-461] Si hanno notizie molto imperfette delle private e pubbliche azioni di Maioriano: ma le sue leggi, memorabili per una forza originale di pensieri e di espressioni, rappresentano il vero carattere d’un Sovrano, che amava il suo Popolo, che ne compativa le angustie, che aveva studiato le cause della decadenza dell’Impero, e che era capace d’applicare (per quanto era praticabile tale riforma) giudiziosi ed efficaci rimedi a’ pubblici disordini40. I suoi regolamenti so- [p. 492 modifica]pra le finanze tendevano manifestamente a togliere, o almeno a mitigare i più intollerabili aggravj. I. Fin dal primo momento del suo regno ei fu sollecito (traduco le proprie di lui parole) a sollevare le stanche sostanze de Provinciali oppresse dal peso accumulato d’indizioni, e soprindizioni41. Con questa mira concesse una remission generale, una finale ed assoluta liberazione di tutti i tributi arretrati, e di tutti i debiti, che sotto qualunque pretesto i Ministri fiscali potevan richiedere al Popolo. Questo savio abbandono di antichi, molesti ed inutili diritti migliorò e purificò le sorgenti della pubblica rendita; ed il suddito, che poteva allora voltarsi addietro senza disperazione, lavorava con gratitudine e speranza in vantaggio proprio, e della Patria. II. Nell’imposizione e collezione delle tasse Maioriano rimise in vigore l’ordinaria giurisdizione de’ Magistrati provinciali; e soppresse le commissioni straordinarie, che si erano introdotte in nome dell’Imperatore medesimo, o de’ Prefetti del Pretorio. I Ministri favoriti, che ottenevano tali irregolari privilegi, erano insolenti nel loro contegno, ed arbitrari nelle richieste; affettavano di sprezzare i tribunali subalterni, e non si mostravano contenti, se i loro profitti non eccedevano del doppio la somma, che si degnavano di pagare al Tesoro. Parrebbe incredibile un esempio della loro estorsione, se non fosse autenticato dal [p. 493 modifica]Legislatore medesimo. Esigevano essi tutti i pagamenti in oro: ma ricusavano la moneta corrente dell’Impero, e volevano solo di quelle antiche monete, ch’eran coniate co’ nomi di Faustina o degli Antonini. Il suddito, che non aveva tali curiose medaglie, ricorreva all’espediente di entrare in composizione sopra le rapaci loro domande; o se lo poteva trovare, raddoppiata veniva la sua imposizione considerato il peso ed il valore delle monete de’ tempi antichi42. „ III. I corpi municipali (dice l’Imperatore), i Senati minori (tal nome dava loro giustamente l’antichità) meritano d’essere considerati come il cuore delle città, ed i nervi della Repubblica. Eppure sono essi ridotti a stato sì basso dall’ingiustizia de’ Magistrati, e dalla venalità de’ Collettori, che molti de’ loro membri, rinunciando alla dignità, ed alla patria loro, si son rifuggiti in distanti ed oscuri esilj„. Ei gli esorta, ed anche li costringe a tornare alle respettive loro città; ma toglie gli aggravi, che gli avevan forzati ad abbandonar l’esercizio delle funzioni loro municipali. Vien loro commesso di riassumere, sotto l’autorità de’ Magistrati Provinciali, il loro ufizio di levare i tributi; ma invece di renderli responsabili di tutta la somma da esigersi nel loro distretto, son obligati solo a rendere un esatto conto de’ pagamenti, che hanno ricevuto realmente, e la nota di quelli, che hanno mancato, i quali restano sempre [p. 494 modifica]debitori del Pubblico. IV. Ma sapeva bene Maioriano, che questi collegiati erano troppo disposti a vendicare l’ingiustizia e l’oppressione, che avevan sofferto, e perciò fece risorgere l’utile ufizio de’ difensiori delle città. Egli esortò il Popolo ad eleggere, in piena e libera adunanza, qualche uomo discreto e di integrità, che ardisse di sostenere i loro privilegi, di rappresentare i loro aggravi, di proteggere il povero dalla tirannia del ricco, e di informare l’Imperatore degli abusi che si commettevano sotto la sanzione del suo nome o della sua autorità.

Lo spettatore, che getta un dolente sguardo sulle rovine dell’antica Roma, è tentato d’accusar la memoria de’ Goti e de’ Vandali, per quel male, ch’essi non ebbero nè tempo, nè forza, e neppure probabilmente la disposizione di fare. La tempesta della guerra potè diroccare qualche alta torre; ma la distruzione, che rovesciò i fondamenti di quelle vaste fabbriche, lentamente e in silenzio, per lo spazio di dieci secoli; ed i motivi d’interesse, che da poi agirono senza vergogna, nè opposizione, furono severamente repressi dal buon gusto o dallo spirito dell’Imperator Maioriano. La decadenza della città aveva appoco appoco diminuito il valore delle opere pubbliche. Il Circo ed i Teatri potevano bene eccitare, ma rade volte soddisfacevano i desideri del Popolo: i tempj, che avevan potuto sottrarsi allo zelo de’ Cristiani, non erano più abitati nè dagli Dei, nè dagli uomini; la diminuita popolazione di Roma si perdeva nell’immenso spazio de’ bagni, e de’ portici di essa; e le magnifiche librerie, ed i tribunali di giustizia eran divenuti inutili per una indolente generazione, il riposo della quale raramente veniva sturbato dallo studio, o dagli affari. [p. 495 modifica]Non si risguardavano più i monumenti della Consolare o Imperial grandezza come un’immortal gloria della Capitale; non erano stimati, che come una miniera inesausta di materiali più a buon mercato, e più atti di quelli che si estraevano da lontane cave. Si facevano continuamente a’ facili Magistrati di Roma delle speciose richieste, con le quali si esponeva la mancanza di pietre o di mattoni per qualche opera necessaria: i più bei pezzi d’architettura venivano barbaramente deturpati per causa di qualche insignificante o pretesa riparazione, ed i degenerati Romani, che convertivano tali spoglie in proprio loro guadagno, demolivano con sacrileghe mani le opere de’ loro Antenati. Maioriano, che più volte avea sospirato sulla desolazione della città, pose un rigoroso freno al male, che andava crescendo43. Riservò egli solamente al Principe ed al Senato la cognizione degli estremi casi, che potevan giustificare la distruzione d’un antico edifizio; impose una pena di cinquanta libbre d’oro (due mila lire sterline) ad ogni Magistrato, che avesse ardito d’accordare tale illegittima o scandalosa [p. 496 modifica]licenza; e minacciò di gastigare la colpevole ubbidienza de’ loro Ministri subalterni con severi colpi di verghe, e coll’amputazione di ambe le mani. In quest’ultimo articolo potrebbe sembrare che il legislatore avesse dimenticato la proporzione fra il delitto e la pena; ma il suo zelo nasceva da un principio generoso, e Maioriano desiderava di difendere i monumenti di que’ secoli, ne’ quali egli avrebbe desiderato e meritato di vivere. L’Imperatore conosceva, ch’era suo interesse l’accrescere il numero de’ suoi sudditi; ch’era suo dovere il conservare la purità del letto maritale; ma i mezzi ch’esso adoperò per conseguire tali salutevoli oggetti, sono d’una specie ambigua, e forse non affatto lodevole. Le pie fanciulle, che consacravano a Cristo la loro verginità, non potevano prendere il velo, fintantochè non fossero giunte al quarantesimo anno dell’età loro. Le vedove, inferiori a quell’età, furono costrette a contrarre altre nozze dentro il termine di cinque anni, sotto pena di perdere la metà de’ loro beni, che passavano a’ più prossimi loro parenti, o al fisco. Erano condannati, o annullati i matrimoni disuguali. La pena della confiscazione de’ beni, e dell’esilio si giudicò sì inadequata per il delitto d’adulterio, che se il reo tornava in Italia, poteva per espressa dichiarazione di Maioriano esser ucciso impunemente44.

[A. 457] Mentre l’Imperatore Majoriano faceva ogni sforzo [p. 497 modifica]per restaurar la felicità e la virtù de’ Romani, dovè affrontare le armi di Genserico, loro nemico il più formidabile, sì per il carattere, che per la situazione di esso. Approdò una flotta di Vandali e di Mori alla bocca del Liris o del Garigliano: ma le truppe Imperiali sorpresero, ed attaccarono i disordinati Barbari, ch’erano imbarazzati dalle spoglie della Campania; furono essi cacciati con grande uccisione alle loro navi, ed il cognato del Re, loro Capitano, fu trovato fra’ morti45. Tal vigilanza annunziava quale sarebbe stato il carattere del nuovo regno; ma la vigilanza più esatta, e le più numerose truppe non erano sufficienti a difendere l’estese coste d’Italia dalle depredazioni d’una guerra navale. La pubblica opinione aveva imposto al genio di Maioriano un’impresa più nobile, e più ardua. Roma solo da esso aspettava la restituzione dell’Affrica; ed il disegno, ch’egli formò d’attaccare i Vandali ne’ nuovi loro stabilimenti fu il risultato d’un’audace e giudiziosa politica. Se l’intrepido Imperatore avesse potuto infondere il proprio coraggio nella gioventù d’Italia; se avesse potuto far risorgere nel campo Marzio i virili esercizi ne’ quali aveva esso già superato i suoi uguali, avrebbe potuto marciare contro Genserico alla testa d’un esercito Romano. Si sarebbe potuto effettuare una tal riforma di costumi nazionali nello generazione, che andava crescendo; ma questa è la disgrazia di que’ Principi, che si affaticano a sostenere una Monarchia decadente, che per ottenere qualche immediato vantaggio, o per allontanar qualche imminente pericolo, son costretti a tollerare, ed anche talvolta a [p. 498 modifica]moltiplicare gli abusi più perniciosi. Maioriano fu ridotto, come i più deboli fra’ suoi predecessori, al vergognoso espediente di sostituire de’ Barbari ausiliari in luogo degl’imbelli suoi sudditi: e potè solo dimostrare la superiore sua abilità nella destrezza e nel vigore con cui sapea maneggiare un pericoloso istrumento, così facile ad offender la mano, che l’adoprava. Oltre i confederati, ch’erano già impegnati al servizio dell’Impero, la fama della sua liberalità e valore attirò le nazioni del Danubio, del Boristene, e forse del Tamai. Molte migliaie de’ più bravi soldati d’Attila, i Gepidi, gli Ostrogoti, i Rugj, i Borgognoni, gli Svevi, e gli Alani si adunarono nelle pianure della Liguria; e la formidabile loro forza veniva bilanciata dalle mutue loro animosità46. Essi passarono le alpi in un rigido inverno. L’Imperatore fece la strada a piedi, tutto armato, battendo con la lunga sua asta il ghiaccio o la neve ben alta, e dando coraggio agli Sciti, che si dolevano dell’estremo freddo, con dir loro allegramente, che sarebbero stati meglio al caldo dell’Affrica. I Cittadini di Lione, che avevano ardito di chiudergli le porte, implorarono ben presto, ed esperimentarono la clemenza di Maioriano. Egli vinse Teodorico in campo di battaglia, ed ammise alla sua amicizia ed alleanza un Re, che aveva trovato non indegno delle sue armi. L’utile riunione, quantunque precaria, della maggior parte della Gallia e della Spagna fu l’effetto della persuasione, ugual[p. 499 modifica]mente che della forza47: e gl’indipendenti Bagaudi, che si erano sottratti, o avevan resistito all’oppressione de’ regni antecedenti, si trovaron disposti a confidare nelle virtù di Maioriano. Il suo campo era pieno di alleati Barbari, era sostenuto il suo trono dallo zelo d’un Popolo affezionato; ma l’Imperatore aveva previsto, ch’era impossibile, senza una forza marittima, di condurre a fine la conquista dell’Affrica. Al tempo della prima guerra Punica, la Repubblica aveva usato una sì incredibile diligenza, che nello spazio di sessanta giorni, da che fu dato il primo colpo di scure nella foresta, si era superbamente messa all’ancora in mare una flotta di centosessanta galere48. In circostanze molto meno favorevoli, Maioriano uguagliò il coraggio, e la perseveranza degli antichi Romani. Furon tagliati i boschi dell’Appennino, si restaurarono gli arsenali, e le manifatture di Miseno e di Ravenna; l’Italia, e la Gallia gareggiarono in ampie contribuzioni pel servigio pubblico; e si riunì nel sicuro e capace porto di Cartagena in Ispagna la flotta Imperiale, composta di trecento grosse galere con un proporzionato numero di navi da trasporto, e di barche [p. 500 modifica]più piccole49, L’intrepido contegno di Maioriano animava le sue truppe con la fiducia della vittoria; e se può darsi fede all’Isterico Procopio, il suo coraggio talvolta lo trasportò oltre i confini della prudenza. Ansioso d’esplorare co’ propri occhi lo stato de’ Vandali, si avventurò, dopo aver travisato il colore dei suoi capelli, d’andare a Cartagine, sotto nome del suo ambasciatore: e Genserico restò di poi mortificato alla notizia, che aveva avuto nelle sue mani, e lasciato andare l’Imperator de’ Romani. Tale aneddoto può rigettarsi come un’improbabil finzione; ma questa è una finzione, che non si sarebbe immaginata, se non nella vita d’un eroe50.

Genserico senz’aver bisogno d’un congresso personale, era sufficientemente informato del genio, e dei disegni del suo avversario. Egli praticò i soliti suoi artifici d’inganno e di dilazione, ma senza frutto. Le sue negoziazioni di pace diventavano sempre più umili, e forse anche più sincere; ma l’inflessibile Maioriano aveva adottato l’antica massima, che Roma non poteva esser salva, finattantochè Cartagine sussisteva in istato d’ostilità. Il Re de’ Vandali diffidava [p. 501 modifica]del valore de’ nazionali suoi sudditi, ch’era snervato dalla mollezza del Mezzodì51; dubitava della fedeltà del Popolo soggiogato, che l’abborriva come un Arriano Tiranno; e la disperata risoluzione, ch’ei prese di ridurre la Mauritania in un deserto52, non serviva ad impedire le operazioni dell’Imperator Romano, che poteva sbarcar le sue truppe su qualunque parte voleva della costa Affricana. Ma Genserico fu salvato dall’imminente ed inevitabile rovina, mediante il tradimento di alcuni potenti sudditi, invidiosi o timorosi del buon successo del loro Signore. Guidato dalla segreta intelligenza con essi, sorprese la flotta, che stava senza difesa nella baia di Cartagena: molte navi furono affondate, prese o bruciate; e furono distrutti in un sol giorno53 i preparativi di tre anni. Dopo questo fatto la condotta dei due avversari gli dimostrò superiori alla loro fortuna. Il Vandalo, invece di insuperbirsi di quest’accidental vittoria, immediata[p. 502 modifica]rinnovò le sue istanze per la pace. L’Imperatore Occidentale, ch’era capace di formare de’ gran disegni, e di soffrire de’ forti rovesci, acconsentì ad un trattato o piuttosto ad una sospension d’armi, con la piena sicurezza, che prima di poter rimettere in ordine la sua flotta, avrebbe avute occasioni per giustificare una seconda guerra. Maioriano tornò in Italia per proseguire i suoi travagli per la pubblica felicità: e siccome era sicuro della propria integrità, potè per lungo tempo ignorare l’oscura cospirazione, che gli minacciava il trono e la vita. La recente disgrazia di Cartagena macchiò la gloria, che aveva abbagliato gli occhi della moltitudine: quasi ogni genere di Ministri civili e militari erano esacerbati contro il Riformatore, giacchè traevano qualche vantaggio dagli abusi, che ei cercava di togliere; ed il Patrizio Ricimero instigava le incostanti passioni de’ Barbari contro un Principe da esso stimato ed odiato. Le virtù di Maioriano non lo poteron difendere dall’impetuosa sedizione, che insorse nel campo vicino a Tortona, a piè dell’Alpi. Ei fu costretto a deporre la porpora; cinque giorni dopo la sua abdicazione fu detto, ch’egli era morto di una dissenteria54; e l’umile tomba, in cui fu posto il suo corpo, fu consacrata dal rispetto e dalla gratitudine delle [p. 503 modifica]posteriori generazioni55. Il carattere privato di Maioriano inspirava rispetto ed amore. La maliziosa calunnia e la satira eccitavano il suo sdegno, o il suo disprezzo, s’egli n’era l’oggetto; ma esso proteggeva la libertà dello spirito, e nelle ore che l’Imperatore accordava alla famigliar conversazione de’ suoi amici, poteva dimostrare il suo gusto per le facezie senza degradare la maestà del suo grado56.

[A.461-467] Non fu probabilmente senza qualche dispiacere, che Ricimero sacrificò l’amico all’interesse della sua ambizione: ma risolvè in una seconda scelta d’evitare l’imprudente preferenza del merito e della virtù superiore. Ad un suo comando l’ossequioso Senato di Roma diede il titolo Imperiale a Libio Severo, che salì sul trono dell’Occidente senza uscire dall’oscurità d’una condizione privata. L’istoria appena si è degnata d’indicarne la nascita, l’innalzamento, il carattere, o la morte. Severo spirò, subito che la sua vita divenne incomoda al suo protettore57; e sarebbe inu[p. 504 modifica]tile il discutere le azioni del suo regno di puro nome nel vacante intervallo di sei anni fra la morte di Maioriano, e l’elevazione d’Antemio. Durante quel tempo il governo era nelle mani del solo Ricimero; e quantunque il modesto Barbaro ricusasse il nome di Re, accumulò per altro dei tesori, formò un esercito a parte, trattò delle alleanze private, e regolò l’Italia coll’istessa dispotica ed indipendente autorità, che fu esercitata in seguito da Odoacre e da Teodorico. Ma le alpi servivano di confini a’ suoi Stati; ed i due Generali Romani, Marcellino ed Egidio si mantennero fedeli alla Repubblica, rigettando con isdegno il fantoccio, a cui esso dava il nome d’Imperatore. Marcellino era tuttavia attaccato all’antica religione, ed i devoti Pagani, che, segretamente trasgredivan le leggi della Chiesa e dello Stato, applaudivano alla profonda sua abilità nella scienza della divinazione. Ma egli era dotato delle più pregevoli qualità dell’erudizione, della virtù e del coraggio58; lo studio delle lettere Latine aveva migliorato il suo gusto, ed i suoi talenti militari gli avevan conciliato la stima e la confidenza del grand’Ezio, nella rovina del quale si ritrovò involto. Mediante una opportuna fuga, Marcellino evitò il furore di Valentiniano, ed arditamente sostenne la sua libertà fra le convulsioni dell’Impero Occidentale. La volontaria o ripugnante sua sommissione [p. 505 modifica]dall’autorità di Maioriano ebbe in premio il governo della Sicilia, ed il comando d’un’armata posta in quell’isola per rispingere o attaccare i Vandali; ma i Barbari suoi mercenari dopo la morte dell’Imperatore furono tentati a ribellarsi dall’artificiosa liberalità di Ricimero. Alla testa di una truppa di fedeli seguaci l’intrepido Marcellino occupò la provincia della Dalmazia, assunse il titolo di Patrizio dell’Occidente, si assicurò dell’amore de’ suoi sottoposti mediante un dolce ed equo governo, formò una flotta, che dominava l’Adriatico, ed alternativamente infestava le coste dell’Italia e dell’Affrica59. Egidio Generale della Gallia che uguagliava, o almeno imitava gli Eroi dell’antica Roma60, dichiarò un odio immortale contro gli assassini del suo amato Signore. Seguiva le sue bandiere un numeroso e valente esercito; e quantunque dagli artifizi di Ricimero, e dalle armi dei Visigoti gli fosse impedito di marciare alle porte di Roma, sostenne però la sua indipendente sovranità di là dalle alpi e rese il nome d’Egidio rispettabile tanto in pace che in guerra. I Franchi, che avevan punito coll’esilio le giovanili follie di Childerico, elessero il Generale Romano per loro Re; con questo singolare onore per altro restò soddisfatta la vanità piuttosto che l’ambizione di esso; e quando la nazione al termine di quat[p. 506 modifica]tro anni si pentì dell’ingiuria, che aveva fatto alla famiglia Merovingica, esso pazientemente consentì al richiamo del Principe legittimo. Non finì l’autorità d’Egidio, che con la sua morte, ed i sospetti di veleno, e di segreta violenza che traevano qualche verisimiglianza dal carattere di Ricimero, furono ardentemente ammessi dall’appassionata credulità de’ Galli61.

[A. 461-467] Il regno d’Italia, nome a cui appoco appoco fu ridotto l’Impero Occidentale, era molestato sotto Ricimero dalle continue depredazioni de’ pirati Vandali62. Alla primavera ogni anno mettevano in or[p. 507 modifica]dine una formidabile flotta nel porto di Cartagine, e Genserico medesimo, quantunque in età molto avanzata, comandava sempre in persona le spedizioni più importanti. I suoi disegni eran celati sotto un impenetrabil segreto sino al momento, ch’ei si metteva alla vela. Quando il suo piloto gli domandava, qual via doveva prendere, con pia arroganza rispondeva il Barbaro; „Lasciane la determinazione ai venti; essi ci trasporteranno a quella rea costa, i cui abitatori hanno provocato la divina giustizia„ ma se Genserico degnavasi di dare ordini più precisi, stimava sempre, che i più ricchi fossero i più colpevoli. I Vandali visitaron più volte le coste della Spagna, della Liguria, della Toscana, della Campania, della Lucania, dell’Abruzzo, della Puglia, della Calabria, della Venezia, della Dalmazia, dell’Epiro, della Grecia e della Sicilia: furono tentati di soggiogare l’isola di Sardegna, così vantaggiosamente situata nel centro del Mediterraneo; e le loro armi sparsero la desolazione o il terrore dalle colonne d’Ercole fino alle bocche del Nilo. Siccome erano più ambiziosi di preda, che di gloria, rare volte attaccavano alcuna piazza fortificata, o s’impegnavano con truppe regolari in aperta campagna. Ma la celerità de’ loro movimenti li rendeva capaci di minacciare e d’attaccare quasi nel medesimo tempo gli oggetti più distanti, che attiravano i lor desiderj; e poichè sempre imbarcavano un sufficiente numero di cavalli, appena avevan preso terra, scorrevano lo sbigottito paese con un corpo di cavalleria leggiera. Nonostante però l’esempio del loro Re, i nativi Alani e Vandali declinarono insensibilmente da questa laboriosa e pericolosa maniera di far la guerra; la robusta generazione de’ primi conquista[p. 508 modifica]tori era quasi estinta, ed i loro figli, ch’erano nati nell’Affrica, godevano i deliziosi bagni e giardini, che s’erano acquistati dal valore de’ loro padri. Si sostituì loro facilmente una varia moltitudine di Mori e Romani, di schiavi e banditi; e tal disperata canaglia, che aveva già violato le leggi del proprio paese, era la più ardente a promuovere gli atroci fatti che disonorarono le vittorie di Genserico. Nel trattamento degl’infelici suoi prigionieri alle volte consultava l’avarizia, ed alle volte abbandonavasi alla crudeltà; e la strage di cinquecento nobili cittadini del Zante, o di Zacinto, i laceri Corpi de’ quali gettò nel mare Jonio, fu rimproverata dalla pubblica esecrazione alla più remota sua posterità.

[A.462] Tali delitti non potevano scusarsi per mezzo d’alcuna provocazione; ma la guerra, che il Re de’ Vandali proseguì contro il Romano Impero, si giustificava con uno specioso e ragionevol motivo. Eudossia, vedova di Valentiniano, ch’egli aveva condotto schiavo da Roma a Cartagine, era l’unica erede della casa di Teodosio; la sua figlia maggiore Eudossia divenne, contro sua voglia, moglie d’Unnerico di lui primogenito; ed il severo padre sostenendo un diritto legale, che non era facile nè a rimuoversi, nè ad eseguirsi, dimandava una giusta porzione dell’Imperial patrimonio. L’Imperatore Orientale offerì un’adeguata, o almeno valutabile compensazione per procurarsi una pace necessaria. Furon restituite onorevolmente Eudossia e Placidia sua figlia minore, ed il furore de’ Vandali si ristrinse dentro i confini dell’Impero Occidentale. Gl’Italiani privi di forze marittime, che sole potevan difendere le loro coste, imploraron l’aiuto delle più fortunate nazioni dell’Oriente, che anticamente [p. 509 modifica]avevan riconosciuto in pace ed in guerra la superiorità di Roma. Ma la perpetua divisione de’ due Imperi ne avea alienato le inclinazioni e gl’interessi; fu addotta la fede d’un recente trattato: ed i Romani d’Occidente invece di armi e di navi, non poteron ottenere, che l’assistenza d’una fredda ed inefficace mediazione. Il superbo Ricimero, che aveva lungamente combattuto con le difficoltà della sua situazione fu ridotto finalmente ad indirizzarsi al trono di Costantinopoli nell’umile linguaggio di suddito; e l’Italia si sottopose ad accettare un Signore dalle mani dell’Imperatore dell’Oriente, come per prezzo e sicurezza della confederazione63. Non è coerente allo scopo del Capitolo, e neppure del volume presente il continuare la serie distinta dell’istoria Bizantina; ma una breve occhiata intorno al regno ed al carattere dell’Imperator Leone può spiegare gli ultimi sforzi che si tentarono per salvare il cadente Impero dell’Occidente64. [p. 510 modifica]

[A. 457-474] Dopo la morte di Teodosio il Giovane, la pace domestica di Costantinopoli non era mai stata interrotta nè da guerra, nè da fazione veruna. Pulcheria aveva dato la sua mano e lo scettro dell’Oriente alla modesta virtù di Marciano; ei ne rispettava con gratitudine l’augusto grado, e la virginal castità; e dopo la morte di lei diede a’ suoi Popoli l’esempio del Culto religioso, dovuto alla memoria della Santa Imperatrice65. Sembrava, che Marciano applicato alla prosperità de’ suoi Stati, mirasse con indifferenza le disgrazie di Roma; e l’ostinazione d’un valoroso ed attivo Principe a ricusare di trarre la spada contro i Vandali fu attribuita ad una segreta promessa, ch’egli aveva fatta, quando si trovava schiavo in mano di Genserico66. La morte di Marciano, dopo un regno di sette anni, avrebb’esposto l’Oriente al pericolo di una popolar elezione, se la superior forza d’una sola famiglia non fosse stata capace di far pendere la bilancia in favore del Candidato, di cui sostenea gl’interessi. Il Patrizio Aspar si sarebbe potuto porre il diadema sul capo, se avesse voluto professare il simbolo Niceno67. Per tre generazioni continue furono le armate Orientali comandate da suo padre, da esso [p. 511 modifica]e da Ardaburio suo figlio: le sue guardie barbare formavano una forza militare, che ingombrava il palazzo e la capitale; e la liberal distribuzione delle sue immense ricchezze rendeva Aspar non meno popolare, che potente. Egli raccomandò l’oscuro nome di Leone di Tracia, Tribuno militare, e suo principal Maggiordomo. La sua nomina fu concordemente ratificata dal Senato; ed il servo d’Aspar ottenne la corona Imperiale dalle mani del Patriarca o del Vescovo, a cui fu permesso d’esprimere mediante questa insolita cerimonia, il volere della Divinità68. Quest’Imperatore il primo, che avesse il nome di Leone, è distinto col titolo di Grande, in grazia di una successiva serie di Principi, che appoco appoco fissarono nell’opinione de’ Greci una misura molto bassa dell’eroica, o almeno della real perfezione. Pure la moderata fermezza, con cui Leone resistè all’oppressione del suo benefattore, dimostrò, ch’ei conosceva il suo dovere e la sua dignità. Aspar restò sorpreso in vedere, che la sua autorità non poteva più creare un Prefetto di Costantinopoli: osò di rimproverare al suo Sovrano un mancamento di fede, ed insolentemente prendendone la porpora: „Non conviene (disse) che quello, che è adornato di questa veste sia colpevole di menzogna.„ „Neppure conviene (replicò Leone), che un Principe sia costretto a sottomettere il suo giudizio, ed il pubblico bene al volere di un suddito69„. Dopo una scena sì straordinaria era im[p. 512 modifica]possibile, che la riconciliazione fra l’Imperatore ed il Patrizio fosse sincera, o almeno stabile e permanente. Si levò segretamente, e s’introdusse in Costantinopoli un’armata d’Isauri70: e mentre Leone sottominava l’autorità, e preparava la rovina della famiglia d’Aspar, il dolce e cauto loro contegno li ritenne dal fare alcun temerario e disperato tentativo, che avrebbe potuto esser fatale a loro stessi, ovvero a’ loro nemici. Le misure di pace e di guerra furono alterate da questa interna rivoluzione. Fintantochè Aspar degradava la maestà del Trono, la segreta corrispondenza di religione e d’interesse l’impegnò a favorir la causa di Genserico. Ma quando Leone si fu liberato da quella servitù ignominiosa, diede orecchio alle querele degl’Italiani; risolvè d’estirpare la tirannia dei Vandali; e si dichiarò alleato del suo collega Antemio, ch’egli solennemente investì del diadema e della porpora dell’Occidente.

[A. 467-472] Si sono forse amplificate le virtù d’Antemio, mentre l’Imperial discendenza, che ei non poteva trarre che dall’usurpatore Procopio, fu estesa ad una successione d’Imperatori71. Ma il merito [p. 513 modifica]degl’immediati suoi genitori, gli onori e le ricchezze loro rendevano Antemio uno de’ più illustri privati dell’Oriente. Procopio suo padre ottenne, dopo essere stato ambasciatore in Persia, il grado di Generale e di Patrizio, ed il nome d’Antemio gli veniva dall’avo materno, celebre Prefetto, che difese con tant’abilità e successo i principi del regno di Teodosio. Il nipote del Prefetto fu innalzato sopra la condizione di suddito privato mercè del suo matrimonio con Eufemia figlia dell’Imperator Marciano. Questa splendida parentela, che avrebbe potuto dispensare dalla necessità del merito, affrettò la promozione d’Antemio alle successive dignità di Conte, di Generale, di Console e di Patrizio; ed il merito o la fortuna di esso gli procurarono gli onori di una vittoria, che si ottenne sulle rive del Danubio contro degli Unni. Senz’abbandonarsi ad una stravagante ambizione, poteva il genero di Marciano sperare d’esser suo successore; ma Antemio soffrì con coraggio e pazienza che altri gli succedesse; ed il seguente suo innalzamento fu generalmente approvato dal pubblico, che lo stimò degno di regnare fino al momento, che salì sul trono72. L’Imperatore Occidentale partì da Costantinopoli accompagnato da più Conti di gran qualità e da un corpo di guardie quasi eguale nella forza e nel numero ad una regolare armata: esso entrò in Roma in trionfo, e la scelta di Leone fu confermata dal Senato, dal [p. 514 modifica]Popolo e da’ Barbari confederati d’Italia73. La solenne inaugurazione d’Antemio fu seguita dalle nozze della sua figlia col Patrizio Ricimero; fortunato avvenimento, che si risguardò come la più stabile sicurezza dell’unione e della felicità dello Stato. Si ostentò magnificamente la ricchezza de’ due Imperi; e molti Senatori si rovinarono affatto per mascherare con un dispendioso sforzo la lor povertà. Fu sospeso nel tempo di questa festa qualunque affare serio; si chiusero i Tribunali; le strade di Roma, i Teatri, e tutti i luoghi sì pubblici che privati risuonavano di canti nuziali, e di danze; e la Sposa Reale vestita di abiti di seta con una corona in capo fu condotta al palazzo di Ricimero, che aveva cangiato la sua veste militare con quella di Console, e di Senatore. In questa memorabile occasione, Sidonio, la cui vecchia ambizione era andata sì fatalmente a male, comparve in qualità d’Oratore dell’Alvergna fra’ Deputati provinciali, che s’indirizzarono al trono con gratulazioni o querele74. Si approssimavano le calende di Gennaio, ed il venale Poeta, che aveva lodato Avito e stimato Maioriano, fu indotto da’ suoi amici a celebrare in versi eroici la felicità, il merito, il secondo consolato, ed i futuri trionfi dell’Imperatore Antemio. Sidonio pronunziò con sicurezza e con plauso un panegirico, che [p. 515 modifica]tuttavia sussiste; e per quanto grande fosse l’imperfezione sì del soggetto, che dell’opera, il gradito adulatore fu immediatamente premiato con la Prefettura di Roma: dignità, che lo collocò fra’ personaggi illustri dell’Impero, finattantochè saviamente non preferì ad essa il più rispettabil carattere di Vescovo e di Santo75.

I Greci ambiziosamente commendano la pietà e la fede cattolica dell’Imperatore, ch’essi diedero all’Occidente; nè lasciano d’osservare, che quando partì da Costantinopoli, ridusse il suo palazzo agli usi pii di un pubblico bagno, d’una chiesa e d’un ospedale pei vecchi76. Pure alcune dubbiose apparenze hanno macchiato la fama teologica d’Antemio. Nella conversazione di Filoteo, settario Macedone, si era imbevuto dello spirito di tolleranza religiosa; e si sarebbero potuti adunare impunemente gli eretici di Roma, se l’ardita e veemente censura, che il Pontefice Ilario pronunziò nella Chiesa di S. Pietro, non l’avesse obbligato a recedere da quella inusitata indulgenza77. Anche gli oscuri e deboli residui del Paga[p. 516 modifica]nesimo concepirono vane speranze per l’indifferenza o parzialità d’Antemio; e la singolare di lui amicizia pel Filosofo Severo, ch’ei promosse al Consolato, fu attribuita ad un segreto disegno di far risorgere l’antico culto degli Dei78. Gl’Idoli eran ridotti in polvere: e la mitologia, che una volta era stata il simbolo delle nazioni, era sì generalmente sprezzata, che si poteva impiegare senza scandalo, o almeno senza sospetto dai poeti Cristiani79. Pure non erano assolutamente cancellati i vestigi della superstizione, e la festa de’ Lupercali, di cui l’origine aveva preceduta la fondazione di Roma, era tuttavia celebrata sotto il Regno d’Antemio. I rozzi e semplici riti di essa esprimevano uno stato di società primitivo, anteriore all’invenzione dell’agricoltura e delle arti. Le rustiche Divinità, che presedevano a’ travagli ed a’ piaceri della vita pastorale, cioè Pane, Fauno, ed il loro seguito di Satiri, erano quali poteva creare la fantasia de’ pastori, scherzose, petulanti, e lascive; la lor potenza era limitata, e la [p. 517 modifica]loro malizia non dannosa. Una capra era la vittima più adattata al carattere ed agli attributi loro; si arrostiva la carne di essa con ispiedi di salcio; ed i licenziosi giovani, che andavano in folla alla festa, correvano nudi pei campi, e con istrisce di cuoio in mano comunicavano, come si supponeva, la fecondità alle donne, ch’essi toccavano80. Fu eretto l’altare di Pane, forse da Evandro l’Arcade, in un oscuro nascondiglio da un lato del colle Palatino, bagnato da una perpetua fontana e adombrato da un bosco che lo dominava. Una tradizione, che Romolo e Remo in quel luogo fossero stati allattati dalla lupa, lo rendeva sempre più sacro e venerabile agli occhi de’ Romani, e quel pezzo di selva fu appoco appoco circondato da’ magnifici edifizi del Foro81. Dopo la conversione della Città Imperiale, i Cristiani continuarono, nel mese di Febbraio, l’annua celebrazione de’ Lupercali, a cui essi attribuivano una segreta e misteriosa influenza sulle naturali forze del Mondo animale e vegetabile. I Vescovi di Roma cercavano d’abolire un uso profano, sì contrario allo spirito del Cristianesimo; ma il loro zelo non era sostenuto dall’autorità de’ Magistrati civili; sussistè quell’inveterato abuso fino al termine del quinto secolo, ed il Pontefice Gelasio, che purificò la capitale [p. 518 modifica]dall’ultimo vestigio d’Idolatria, quietò con una formale apologia il mormorare del Senato e del Popolo82.

[A. 468] L’Imperator Leone, in tutte le sue dichiarazioni pubbliche, assume l’autorità, e professa l’affezione d’un padre verso il suo figlio Antemio, con cui aveva diviso l’amministrazione dell’Universo83. La situazione e forse il carattere di Leone lo dissuasero dall’esporre la sua persona a travagli e pericoli della guerra Affricana. Ma si spiegarono con vigore le forze dell’Impero Orientale per liberare l’Italia ed il Mediterraneo da’ Vandali; e Genserico, il quale aveva sì lungamente oppresso la terra ed il mare, si vide minacciato da ogni parte da una formidabile invasione. Si aprì la campagna con un’ardita e fortunata impresa dal Prefetto Eraclio84. Furono imbarcate sotto il suo comando le truppe dell’Egitto, della Tebaide, e della Libia; [p. 519 modifica]e gli Arabi, con una quantità di cavalli e di cammelli aprirono le vie del deserto. Eraclio sbarcò sulla costa di Tripoli, sorprese e soggiogò le città di quella Provincia, e si preparò mediante una laboriosa marcia, che Catone aveva eseguita anticamente85, ad unirsi coll’armata Imperiale sotto le mura di Cartagine. La notizia di questa perdita estorse da Genserico qualche insidiosa ed inefficace proposizione di pace; ma quel che vie più gli dava da pensar seriamente, era la riconciliazione di Marcellino co’ due Imperi. Quell’indipendente Patrizio era stato indotto a riconoscere il legittimo titolo d’Antemio, ch’esso accompagnò nel suo viaggio a Roma; la flotta Dalmata fu ricevuta ne’ porti dell’Italia; l’attivo valore di Marcellino scacciò i Vandali dall’Isola di Sardegna; ed i languidi sforzi dell’Occidente aggiunsero qualche peso agl’immensi preparativi de’ Romani Orientali. Si è distintamente calcolata la spesa dell’armamento navale, che Leone mandò contro i Vandali; e quel curioso ed istruttivo ragguaglio dimostra la ricchezza del decadente Impero. La cassa regia, o il privato patrimonio del Principe somministrò diciassettemila libbre d’oro; altre [p. 520 modifica]quarantasettemila n’esigerono e posero nell’Erario con settecentomila d’argento i Prefetti del Pretorio. Ma le Città si ridussero ad un’estrema miseria, e l’esatto calcolo delle pene pecuniarie, e delle confiscazioni riguardate come un prezioso oggetto d’entrata, non suggerisce l’idea d’una giusta o umana amministrazione. Tutta la spesa della guerra Affricana, in qualunque maniera fosse somministrata, montò alla somma di cento trentamila libbre d’oro, intorno a cinque milioni e dugentomila lire sterline, in un tempo, in cui sembra, secondo il paragone del prezzo del grano, che il valore della moneta fosse alquanto più alto di quel che sia presentemente86. La flotta, che partì da Costantinopoli per Cartagine conteneva mille e cento tredici navi, ed il numero de’ soldati e de’ marinari passava i centomil’uomini. Fu affidato a Basilisco, fratello dell’Imperatrice Vorina, l’importante comando di essa. La moglie di Leone di lui sorella, aveva esagerato il merito delle anteriori sue spedizioni contro gli Sciti. Ma riservavasi alla guerra Affricana la scoperta della sua colpa, o incapacità; nè i suoi amici poterono salvare altrimenti la militare sua riputazione, che coll’asserire, ch’egli aveva cospirato con Aspar di risparmiar Genserico, e di tradire l’ultima speranza dell’Impero Occidentale. [p. 521 modifica]

Ha dimostrato l’esperienza, che il buon successo di un invasore dipende per lo più dal vigore, e dalla celerità delle sue operazioni. La forza e l’attività della prima impressione si perdono coll’indugio; insensibilmente languisce in un lontano clima la salute ed il coraggio delle truppe; quel grande sforzo militare e navale, che forse non potrà più replicarsi, va consumandosi quietamente; ed ogni ora, che s’impiega nella negoziazione, avvezza il nemico a rimirare ed esaminare quei terrori ostili, che a prima vista giudicò irresistibili. Ebbe la formidabile flotta di Basilisco una prospera navigazione dal Bosforo Tracio fino alla costa d’Affrica. Ei sbarcò le sue truppe al Capo di Bona, o al promontorio di Mercurio, in distanza di circa quaranta miglia da Cartagine87. L’esercito d’Eraclio e la flotta di Marcellino raggiunsero o secondarono il Luogotenente Imperiale; ed i Vandali, che si opponevano a’ suoi progressi per mare o per terra, gli uni dopo gli altri furono vinti88. Se Basilisco avesse profittato del momento della costernazione e si fosse arditamente avanzato verso la capitale, Cartagine avrebbe dovuto arrendersi, e sarebbesi estinto il regno de’ Vandali. Genserico vide con fermezza il pericolo, e l’evitò con la sua antica destrezza. Ei si protestò con espressioni le [p. 522 modifica]più rispettose, ch’era pronto a sottometter la propria persona ed i suoi Stati alla volontà dell’Imperatore ma richiedeva una tregua di cinque giorni per regolare i termini di tal sommissione; e fu generalmente creduto, che la sua segreta liberalità contribuisse al buon successo di questa pubblica negoziazione. In vece di ricusare ostinatamente qualunque indulgenza che il nemico sì ardentemente chiedeva, il colpevole o credulo Basilisco acconsentì alla fatal tregua; e parve che l’imprudente sua sicurezza indicasse ch’egli già si considerava come il conquistatore dell’Affrica. In questo breve intervallo, il vento divenne favorevole a’ disegni di Genserico. Egli equipaggiò le sue più grosse navi da guerra co’ più valorosi fra’ Mori ed i Vandali; e queste si traevan dietro molte grosse barche ripiene di materie combustibili. Nell’oscurità della notte furono spinte quelle distruttive barche contro la flotta de’ Romani, che non avendo alcun sospetto non si guardavano, ma furono svegliati dal sentimento del presente loro pericolo. L’ordine stretto, e la folla, in cui si trovavano, secondò il progresso del fuoco, che si comunicava con rapida irresistibil violenza; ed il romore del vento, lo strepito delle fiamme, le dissonanti grida de’ soldati e de’ marinari, che non potevano nè comandare nè ubbidire, accrebber l’orrore del notturno tumulto. Mentre cercavano di liberarsi delle navi incendiarie, e di salvare almeno una parte della flotta, gli assaltarono le Galere di Genserico con regolare e disciplinato valore, e molti Romani, che fuggivano il furor delle fiamme, furono presi o distrutti da’ Vandali vittoriosi. Fra gli avvenimenti di quella disastrosa notte, l’eroico, o piuttosto disperato coraggio di Giovanni, uno de’ principali ufiziali di Basilisco, ha tolto il suo nome dall’obbli[p. 523 modifica]vione. Quando fu quasi consumata la sua nave, che egli aveva bravamente difesa, si gettò armato nel mare, sdegnosamente ricusò la stima e la pietà di Genso, figlio di Genserico, che lo stimolava ad accettare un onorevol soccorso, e si sommerse nelle onde, gridando coll’ultimo suo respiro, ch’egli non sarebbe mai caduto vivo nelle mani di quegli empj cani. Basilisco, ch’era in un posto molto lontano dal pericolo, mosso da uno spirito ben differente, vergognosamente fuggì al principio della mischia, tornò a Costantinopoli con la perdita di più della metà delle navi e dell’esercito, e si riparò nel santuario di S. Sofia, finattantochè la Sorella non gli ebbe ottenuto dallo sdegnato Imperatore, con le lacrime e con le preghiere, il perdono. Eraclio si ritirò nel deserto; Marcellino andò in Sicilia, dove fu assassinato, forse ad istigazione di Ricimero, da uno de’ propri suoi capitani; ed il Re de’ Vandali dichiarò la sua maraviglia e compiacenza, che i Romani medesimi avessero tolto dal Mondo i suoi più formidabili avversari89. L’esito infelice di questa grande spedizione fece sì che Genserico diventò di nuovo il tiranno del mare: le coste dell’Italia, della Grecia e dell’Asia si trovarono di nuovo esposte alla sua vendetta ed avarizia; tornarono alla sua ubbidienza Tripoli e la Sardegna; aggiunse la Sicilia al numero delle sue Province; e prima di morire, giunto al colmo degli anni e della gloria, vide l’ultima estinzione dell’Impero dell’Occidente90. [p. 524 modifica]

[A. 462-472] Nel lungo ed attivo suo regno, il Monarca Affricano aveva diligentemente coltivato l’amicizia de’ Barbari dell’Europa, per poterne impiegare le armi in opportune ed efficaci diversioni contro i due Imperi. Dopo la morte d’Attila, rinnovò la sua alleanza co’ Visigoti della Gallia; ed i figli di Teodorico il Vecchio, che regnarono l’un dopo l’altro su quella guerriera nazione restarono facilmente persuasi dal sentimento d’interesse a dimenticare il crudele affronto, che Genserico aveva fatto alla loro sorella91. La morte dell’Imperator Majoriano liberò Teodorico II dal freno del timore, e forse dell’onoratezza; egli violò il trattato fatto recentemente co’ Romani; e l’ampio territorio di Narbona, che stabilmente unì a’ suoi Stati, divenne il premio immediato della sua perfidia. La privata politica di Ricimero l’incoraggì ad invadere le Province possedute da Egidio, suo rivale; ma l’attivo Conte mediante la difesa d’Arles e la vittoria d’Orleans salvò la Gallia, e contenne durante la sua vita il progresso de’ Visigoti. Si riaccese tosto la loro ambizione, e fu concepito e quasi condotto a termine, il disegno [p. 525 modifica]d’estinguere il Romano Impero nella Spagna e nella Gallia, sotto il regno d’Enrico, il quale assassinò Teodorico suo fratello; e dimostrò, unitamente ad un’indole più selvaggia, maggiore abilità sì in pace che in guerra. Passò i Pirenei alla testa d’un numeroso esercito, soggiogò le città di Saragozza e di Pamplona, vinse in battaglia i nobili guerrieri della Provincia Tarragonese, portò le vittoriose sue armi nel cuore della Lusitania e permise agli Svevi di ritenere il regno della Gallicia, sottoposto alla Gotica Monarchia di Spagna92. Gli sforzi d’Enrico non furono meno vigorosi, o di minor successo nella Gallia; ed in tutto quel tratto di paese, che, s’estende da’ Pirenei al Rodano ed alla Loira le sole città o Diocesi del Berry e dell’Alvergna ricusarono di conoscerlo per loro Signore93. Gli abitanti dell’Alvergna sostennero nella difesa di Clermont, loro principal città, con inflessibile fermezza la guerra, la peste, e la fame, ed i Visigoti abbandonandone l’inutile assedio, sospesero le speranze di quell’importante conquista. La gioventù della Provincia era animata dall’eroico e quasi incredibil valore d’Ecdicio, figlio dell’Imperatore Avito94, che fece una disperata sortita con soli diciotto cavalli, attaccò arditamente l’armata Gotica, e dopo aver fatto una volante scaramuccia, si [p. 526 modifica]ritirò salvo e vittorioso dentro le mura di Clermont. La carità uguagliava il coraggio di esso: in tempo di un’estrema carestia si nutrivano a sue spese quattromila poveri; e di privata sua autorità levò un esercito di Borgognoni per liberare l’Alvergna. Solo dalle sue virtù i fedeli cittadini della Gallia traevano qualche speranza di salute o di libertà; ed eziandio tali virtù non furono sufficienti ad impedire l’imminente rovina della lor patria, poichè essi erano ansiosi d’apprendere dall’autorità ed esempio di lui, se dovevan preferire l’esilio o la servitù95. Si era perduta la fiducia nella pubblica forza; erano esausti i mezzi dello Stato; ed i Galli avevan pur troppo ragione di credere, che Antemio, che regnava in Italia, fosse incapace di difendere gli angustiati suoi sudditi di là dalle alpi. Non potè il debole Imperatore procurare per difesa loro, che l’opera di dodicimila ausiliari Britanni. Riotamo, uno degl’indipendenti Re, o Capitani dell’Isola, fu indotto a trasferir le sue truppe nel continente della Gallia; ei rimontò la Loira, e piantò il suo quartiere nel Berry, dove il Popolo si dolse di questi gravosi alleati; finattantochè non furono distrutti o dispersi dalle armi de’ Visigoti96. [p. 527 modifica]

[A. 468] Uno degli ultimi atti di giurisdizione, ch’esercitasse il Senato Romano sopra i suoi sudditi della Gallia, fu il processo, e la condanna d’Arvando, Prefetto del Pretorio. Sidonio, che si rallegra di vivere sotto un regno, in cui era permesso di compassionare e d’assistere un reo di Stato, ha esposto con libertà e pateticamente le colpe dell’indiscreto ed infelice suo amico97. I pericoli, che Arvando aveva evitati, gli ispirarono ardire, piuttosto che senno; ed era di tal sorta la varia, quantunque uniforme, imprudenza del suo contegno, che dee comparir molto più sorprendente la prosperità, che la caduta di esso. La seconda Prefettura, che ottenne dentro il termine di cinque anni, distrusse il merito e la popolarità della sua precedente amministrazione. La facile sua natura fu corrotta dall’adulazione, ed esacerbata dall’opposizione; e fu costretto a soddisfare gl’importuni suoi creditori con le spoglie della Provincia; la sua capricciosa insolenza offese i nobili della Gallia, e cadde sotto il peso dell’odio pubblico, per un ordine, che indicava la sua disgrazia; fu citato a giustificare la sua condotta avanti al Senato; ed egli passò il mar di Toscana con un vento favorevole; presagio, com’egli vanamente s’immaginava, delle sue future fortune. Si osservò sempre un decente rispetto pel grado [p. 528 modifica]prefettoriale; ed al suo arrivo in Roma Arvando fu commesso all’ospitalità, piuttosto che alla custodia, di Flavio Ascelo, Conte delle sacre largizioni, che abitava nel Campidoglio98. Agirono ardentemente contro di esso i suoi accusatori, vale a dire i quattro Deputati della Gallia, ch’eran tutti distinti per la nascita, per le dignità, o per l’eloquenza loro. In nome d’una gran Provincia, e secondo la formalità della Giurisprudenza Romana, intentarono un’azione civile e criminale, richiedendo una restituzione tale, che potesse compensare le perdite degl’individui, ed un tal gastigo, che soddisfar potesse la giustizia dello Stato. Le accuse, che gli davano la corrotta oppressione, erano numerose e di peso, ma ponevano la segreta loro fiducia in una lettera, ch’essi avevano intercettato, e che potevan provare, mediante la testimonianza del suo segretario, esser stata dettata da Arvando medesimo. Sembrava, che l’autore di questa lettera dissuadesse il Re de’ Goti dalla pace coll’Imperator Greco: ei suggeriva d’attaccare i Brettoni sulla Loira; e commendava una divisione della Gallia, secondo il Gius delle Genti, fra i Visigoti ed i Borgognoni99. Questi perniciosi disegni che solo un amico poteva palliare co’ nomi di vanità e d’indiscrezione, potevano interpretarsi come tradi[p. 529 modifica]menti, ed i Deputati avevano artificiosamente risoluto di non produrre le loro più formidabili armi fino al momento della decisione della causa. Ma lo zelo di Sidonio scoprì le loro intenzioni. Esso immediatamente avvisò del pericolo il reo, che nulla di ciò sospettava; e sinceramente compianse, senza irritamento veruno, la superba presunzione d’Arvando, che rigettava, ed anche si stimava offeso de’ salutari avvisi de’ suoi amici. Non conoscendo Arvando la sua real situazione, compariva nel Campidoglio con le vesti bianche di un candidato, accettava indistintamente i saluti e l’esibizioni, osservava le botteghe de’ mercanti, i drappi e le gemme, ora coll’indifferenza d’un semplice spettatore, ed ora coll’attenzione d’uno che vuol comprare; e si doleva de’ tempi, del Senato, del Principe e delle dilazioni de’ Tribunali. Ma presto si tolsero di mezzo le sue querele. Fu fissata in una mattina di buon’ora la decisione della sua causa; ed Arvando comparve co’ suoi accusatori avanti ad una numerosa adunanza del Senato Romano. Il tristo abito, ch’essi affettarono eccitò la compassione de’ Giudici, che furono scandalizzati dalla gaia e splendida veste del loro avversario; e quando il Prefetto Arvando, insieme col primo fra’ Deputati Gallici, andarono a prendere i loro posti sopra le sedie Senatorie, fu osservato nel loro contegno l’istesso contrasto d’orgoglio e di modestia. In questo memorabil giudizio, che rappresentava una viva immagine dell’antica Repubblica, i Galli esposero con forza e libertà gli aggravi della Provincia; e tosto che gli animi dell’udienza furono sufficientemente infiammati, recitarono la fatal lettera. L’ostinazione d’Arvando si fondava sulla strana supposizione, che un suddito non si potesse convincere di tradimento, a [p. 530 modifica]meno che non avesse veramente tentato di prender la porpora. Alla lettura di quel foglio esso più volte ad alta voce confessò esser quello veramente stato composto da lui; e la sua sorpresa fu uguale al suo spavento, quando per unanime opinione del Senato fu dichiarato reo di delitto capitale. Fu per ordine di esso degradato dal posto di Prefetto all’oscura condizion di plebeio, ed ignominiosamente tratto da’ servi alla pubblica prigione. Dopo il termine di quindici giorni fu convocato di nuovo il Senato per pronunziar la sentenza di morte contro di lui, ma mentre aspettava esso nell’Isola d’Esculapio, che spirassero i trenta giorni, accordati da un’antica legge a’ malfattori più vili100, i suoi amici s’interposero in suo favore; l’Imperatore Antemio cedè, ed il Prefetto della Gallia ottenne la pena più mite della confiscazione e dell’esilio. Le colpe d’Arvando poteron meritare la compassione; ma l’impunità di Serenato accusava la giustizia della Repubblica, finattantochè non fu condannato sulle querele del Popolo dell’Alvergna ed eseguitane la sentenza. Questo scellerato Ministro, il Catilina del suo secolo e della sua Patria, teneva una segreta corrispondenza co’ Visigoti, per tradir la Provincia, che opprimeva: si esercitava continuamente la sua industria nell’investigare nuove tasse, e falli già dimenticati; e gli stravaganti suoi vizi avrebbero inspirato del disprezzo se non avessero eccitato il timore e l’abborrimento101. [p. 531 modifica]

[A. 471] Tali rei non erano al di sopra delle forze della giustizia; ma per quanto Ricimero fosse colpevole, questo potente Barbaro era capace di combattere o di entrare in trattato col Principe, di cui aveva condisceso ad accettare la parentela. Il regno pacifico e prospero, che Antemio aveva promesso all’Occidente, s’oscurò ben tosto per la disgrazia e per la discordia. Ricimero, temendo o non potendo soffrire un superiore, si ritirò da Roma, e pose la sua residenza in Milano; situazione vantaggiosa per invitare o per richiamare le guerriere tribù, che abitavano fra le alpi e il Danubio102. L’Italia fu appoco appoco divisa in due regni indipendenti e nemici; ed i nobili della Liguria, che tremavano all’approssimarsi d’una guerra civile, si prostrarono a’ piedi del Patrizio, e lo scongiurarono a risparmiare l’infelice loro paese. „Quanto a me (rispose Ricimero in tuono d’insolente moderazione) io son sempre disposto ad abbracciar l’amicizia del Galata103; ma chi vorrà intraprendere d’acquietarne lo sdegno, o di mitigarne l’orgoglio, [p. 532 modifica]che sempre cresce a misura della nostra sommissione?„ Essi l’informarono, che Epifanio, Vescovo di Pavia104, univa la saviezza del serpente coll’innocenza della colomba, e sembrava che confidassero che l’eloquenza di tale ambasciatore sarebbe prevalsa all’opposizione più forte dell’interesse, o della passione. Fu approvata la raccomandazione loro, ed Epifanio, prendendo l’umano ufizio di mediatore, si portò senza indugio a Roma, dove fu ricevuto con gli onori dovuti al suo merito ed alla sua riputazione. Può facilmente supporsi l’orazione d’un Vescovo in favor della pace: dimostrò egli, che in qualunque possibile circostanza il perdono delle ingiurie è sempre un atto di misericordia, o di magnanimità o di prudenza, ed ammonì seriamente l’Imperatore ad evitare una contesa con un fiero Barbaro, che avrebbe potuto esser fatale a se stesso, e che doveva esser rovinosa pei suoi Stati. Antemio riconobbe la verità delle sue massime, ma sentiva con alto dispiacere e sdegno la condotta di Ricimero; e la passione diede eloquenza ed energia al suo discorso. „Quali favori (esclamò egli ardentemente) abbiamo noi ricusato a quest’ingrato? Quali torti non abbiamo sofferti? Senza riguardo alla maestà della porpora, diedi la mia figlia ad un Goto, sacrificai il mio proprio sangue alla salvezza della Repubblica. La liberalità, che avrebbe do[p. 533 modifica]vuto assicurarmi l’attaccamento eterno di Ricimero, l’ha inasprito contro il suo benefattore. Quali guerre non ha egli eccitato contro l’Impero? Quante volte ha instigato ed assistito il furore delle nemiche nazioni? E dovrò adesso accettare la perfida sua amicizia? Posso io sperare, che rispetterà i vincoli di un trattato quegli, che ha già violato i doveri di figlio?„ Ma l’ira d’Antemio si svaporò in queste patetiche esclamazioni; esso cedè appoco appoco alle proposizioni d’Epifanio; ed il Vescovo tornò alla sua Diocesi con la soddisfazione d’aver restituito la pace all’Italia, mediante una riconciliazione105, della sincerità e continuazion della quale si aveva ragione di sospettare. La clemenza dell’Imperatore fu estorta per la sua debolezza; e Ricimero sospese i suoi ambiziosi disegni, finattantochè non avesse preparato segretamente le macchine, con le quali risolvè di rovesciare il trono d’Antemio. Allora mise da parte la maschera della pace e della moderazione. L’esercito di Ricimero ebbe un numeroso rinforzo di Borgognoni e di Svevi Orientali: egli negò qualunque obbedienza all’Imperator Greco, marciò da Milano alle porte di Roma, e posto il campo sulle rive dell’Anio, impazientemente aspettava l’arrivo d’Olibrio, suo imperial candidato.

[A. 472] Il Senatore Olibrio, della famiglia Anicia, poteva stimar se stesso il legittimo erede dell’Impero Occidentale. Aveva egli sposato Placidia figlia minore di Valentiniano, dopo che fu restituita da Genserico, il [p. 534 modifica]quale riteneva sempre Eudossia di lei sorella, come moglie, o piuttosto come schiava del suo figlio. Il Re de’ Vandali sosteneva, con le minacce e con le sollecitazioni, le speciose pretensioni del suo Romano alleato; ed assegnava come uno de’ motivi della guerra il rifiuto, che faceva il Senato ed il Popolo di riconoscere il legittimo loro Principe, e l’indegna preferenza che avevan dato ad uno straniero106. L’amicizia del nemico pubblico avrebbe potuto rendere Olibrio sempre più odioso agl’Italiani; ma quando Ricimero meditò la rovina dell’Imperatore Antemio, tentò, coll’offerta d’un diadema, il candidato, che poteva giustificar la sua ribellione con un nome illustre, e con una regale alleanza. Il marito di Placidia, il quale aveva avuto, come la maggior parte de’ suoi antenati, la dignità consolare, avrebbe potuto continuare a godere una sicura e splendida fortuna, pacificamente restando in Costantinopoli; nè sembra, che fosse tormentato da tal genio, che non può in altro divertirsi o occuparsi, che nell’amministrazion d’un Impero. Ciò non ostante Olibrio cedè alle importunità de’ suoi amici e forse della sua moglie; gettossi temerariamente nei pericoli e nelle calamità d’una guerra civile; e con la segreta approvazione dell’Imperator Leone, accettò la porpora Italiana, che si dava, e si toglieva secondo il capriccioso volere d’un Barbaro. Egli sbarcò senza ostacolo (poichè Genserico era padrone del mare) o a Ravenna, o al porto d’Ostia, ed immediatamente [p. 535 modifica]portossi al campo di Ricimero, dove fu ricevuto come il Sovrano del Mondo Occidentale107.

[A. 432] Il Patrizio, che aveva occupato i ponti dall’Anio fino al ponte Milvio, già possedeva due quartieri di Roma, il Vaticano ed il Gianicolo, che il Tevere separa dal resto della città108; e si può congetturare, che un’assemblea di patteggianti Senatori, imitasse nella scelta d’Olibrio le formalità d’una legittima elezione. Ma il corpo del Senato e del Popolo era fermo in favore d’Antemio; ed il più efficace sostegno d’un’armata Gotica lo pose in grado di prolungare il suo regno, e la calamità pubblica mediante la resistenza di tre mesi, che produsse i mali, che sogliono accompagnarla, della carestia e della peste. Finalmente Ricimero diede un furioso assalto al ponte d’Adriano, o di S. Angelo: e quello stretto passo fu difeso con ugual valore da’ Goti, fino alla morte di Gilimero lor [p. 536 modifica]capitano. Allora le truppe vittoriose, atterrando qualunque riparo, corsero con irresistibil violenza nel cuore della città, e Roma (se possiamo far uso delle parole d’un Papa contemporaneo) fu rovinata dal furore civile d’Antemio, e di Ricimero109. Lo sfortunato Antemio fu tratto dal suo nascondiglio e crudelmente ucciso per ordine del suo genero; il quale aggiunse così un terzo, e forse un quarto Imperatore al numero delle sue vittime. I soldati, che univano la rabbia di faziosi cittadini co’ selvaggi costumi di Barbari, si lasciarono senza ritegno usar la licenza della rapina, e della strage; la folla degli schiavi e de’ plebei, che non erano interessati nel fatto, potè sol guadagnare nell’indistinto saccheggio, e l’aspetto della città dimostrava uno strano contrasto di una somma crudeltà, e d’una assoluta intemperanza110. Quaranta giorni dopo questo calamitoso fatto, soggetto non di gloria, ma di colpa, l’Italia fu liberata, mediante una penosa malattia del tiranno Ricimero, che lasciò il comando della sua armata a Gundobaldo suo nipote, uno de’ Principi dei [p. 537 modifica]Borgognoni. Nel medesimo anno uscirono dal teatro tutti i principali attori di questa grande rivoluzione; e tutto il regno d’Olibrio, di cui la morte non dimostra verun sintomo di violenza, riducesi allo spazio di sette mesi. Lasciò egli una figlia nata dal suo matrimonio con Placidia, e la famiglia del Gran Teodosio trapiantata dalla Spagna in Costantinopoli si propagò nella linea femminina fino all’ottava generazione111.

[A. 472-475] Mentre il trono vacante d’Italia era in arbitrio dei Barbari, che non conoscevano alcuna legge112, nel Consiglio di Leone seriamente si trattava dell’elezione d’un nuovo Collega. L’Imperatrice Verina, cercando di promuovere la grandezza della propria famiglia, aveva dato per moglie una delle sue nipoti a Giulio Nipote che successe a Marcellino, suo zio, nella sovranità della Dalmazia, patrimonio più solido che il titolo, ch’esso fu indotto ad accettare, d’Imperatore dell’Occidente. Ma i passi della Corte Bizantina furono sì languidi ed irresoluti, che passaron più mesi dopo la morte d’Antemio, ed anche dopo quella d’Olibrio, prima che il successore, ad essi destinato, potesse mostrarsi con una rispettabile forza agl’Italiani suoi sud[p. 538 modifica]diti. In questo frattempo, fu investito della porpora Glicerio, oscuro soldato, da Gundobaldo suo protettore; ma il Principe di Borgogna non ebbe forza o volontà di sostener la sua nomina con una guerra civile; la domestica sua ambizione lo richiamò di là dalle alpi113, e fu permesso al suo cliente di cambiare lo scettro Romano col Vescovato di Salona. Tolto di mezzo questo competitore, l’Imperator Nipote fu riconosciuto dal Senato, dagl’Italiani, e da’ Provinciali della Gallia; altamente si celebrarono le morali virtù, ed i talenti militari di esso, e quelli, che trassero qualche privato vantaggio dal suo governo, annunziarono in profetico stile la restaurazione della pubblica felicità114. Le loro speranze (se pur tali speranze vi furono) restaron confuse nel termine d’un solo anno; ed il trattato di pace, con cui fu ceduta l’Alvergna a’ Visigoti è l’unico avvenimento di questo breve ed ignobile regno. Furon sagrificati dall’Imperatore Italiano i più fedeli sudditi della Gallia alla speranza d’una sicurezza domestica115; ma fu turbato ben tosto il suo [p. 539 modifica]riposo da una furiosa sedizione de’ Barbari confederati che, sotto il comando d’Oreste lor Generale, si posero in piena marcia da Roma a Ravenna. Nipote tremò all’avvicinarsi di essi; ed, in vece d’affidarsi giustamente alla fortezza di Ravenna, precipitosamente fuggì alle sue navi, e si ritirò al suo Principato della Dalmazia sull’opposto lido dell’Adriatico. Mediante questa vergognosa abdicazione, egli prolungò la sua vita circa cinque anni in una situazione molto ambigua fra quella d’Imperatore e d’esule, finattantochè fu assassinato a Salona dall’ingrato Glicerio, che fu trasferito forse in premio del suo delitto all’Arcivescovato di Milano116.

[A. 475] Le nazioni, che si eran dichiarate indipendenti dopo la morte d’Attila, si stabilirono, per diritto di possesso o di conquista, nelle illimitate regioni poste a settentrione del Danubio, o nelle Province Romane fra quel fiume e le alpi. Ma la più valorosa lor gioventù si arrolava nell’armata de’ confederati, che faceva la difesa ed il terror dell’Italia117; ed in questa promiscua moltitudine sembra, che predominassero i nomi degli Eruli, degli Scirri, degli Alani, de’ Turcilingi, e de’ Rugi. Oreste118, figlio di Tatullo, e padre dell’ul[p. 540 modifica]Imperatore dell’Occidente, imitò l’esempio di questi guerrieri. Oreste di cui già si è fatta menzione in questa Storia, non aveva mai abbandonato il proprio paese. La nascita, e le ricchezze di esso lo renderono uno de’ più illustri soggetti della Pannonia. Quando fu ceduta agli Unni quella Provincia, egli entrò al servizio d’Attila, suo legittimo Sovrano, ottenne l’ufizio di suo Segretario, e fu mandato più volte ambasciatore a Costantinopoli per rappresentar la persona e significare i comandi dell’imperioso Monarca. La morte di quel conquistatore lo rimise in libertà; ed Oreste potè onorevolmente ricusare tanto di seguire i figli d’Attila ne’ deserti della Scizia, quanto d’obbedire agli Ostrogoti, che avevan usurpato il dominio della Pannonia. Ei preferì di servire i Principi Italiani che succederono a Valentiniano; e siccome era dotato di coraggio, d’industria e d’esperienza, s’avanzò con rapidi passi nella profession militare al segno, che mediante il favore di Nipote medesimo fu inalzato alle dignità di Patrizio e di Generale delle truppe. Queste si erano da gran tempo assuefatte a rispettare il carattere e l’autorità d’Oreste, che affettava d’usare le loro maniere, trattava con loro nella lor propria lingua, ed aveva un’intima connessione co’ nativi loro Capi, mediante una lunga abitudine di famigliarità e d’amicizia. Ad instigazione dunque di esso presero le armi contro quell’oscuro Greco, che presumeva d’aver diritto alla loro ubbidienza; e giacchè Oreste per [p. 541 modifica]qualche segreto motivo, evitava la porpora, con la stessa facilità consentirono a riconoscere Augustolo suo figlio per Imperatore dell’Occidente. Attesa l’abdicazione di Nipote, Oreste giunse al colmo delle sue ambiziose speranze; ma tosto conobbe, prima che spirasse il primo anno, che le lezioni di spergiuro e d’ingratitudine, che può inculcare un ribelle, si ritorcono contro di lui; e che al precario Sovrano d’Italia non era permesso che di scegliere, se voleva esser lo schiavo, o la vittima de’ Barbari suoi mercenari. La pericolosa alleanza di tali stranieri aveva oppresso ed insultato gli ultimi residui della libertà e dignità Romana. In ogni rivoluzione si aumentavan la paga ed i privilegi loro; ma la loro insolenza cresceva ad un segno sempre più stravagante; invidiavano essi la sorte de’ loro confratelli nella Gallia, nella Spagna e nell’Affrica, le vittoriose armi de’ quali avevano acquistato un indipendente e perpetuo patrimonio; ed insistevano sulla perentoria loro domanda, che fosse immediatamente divisa fra loro una terza parte de’ terreni d’Italia. Oreste, con un coraggio, che in un’altra situazione potrebbe aver diritto alla nostra stima, volle piuttosto andare incontro al furore d’una moltitudine armata, che sottoscrivere la rovina d’un innocente Popolo. Ei rigettò l’audace domanda; ed il suo rifiuto fu favorevole all’ambizione d’Odoacre, ardito Barbaro, che assicurò i soldati suoi compagni, che se osavano d’unirsi sotto il suo comando, avrebber potuto esigere la giustizia, ch’era stata negata alle rispettose loro domande. Da tutti i campi e guarnigioni d’Italia i confederati, mossi dal medesimo sdegno e dalle medesime speranze, impazientemente correvano alle bandiere del popolare lor capitano; e l’infelice Patrizio, oppresso [p. 542 modifica]dal torrente, si ritirò in fretta alla forte città di Pavia, sede Episcopale del santo Epifanite. Pavia fu immediatamente assediata, prese d’assalto le fortificazioni, saccheggiata la città, e quantunque il Vescovo s’affaticasse con grande zelo, e con qualche buon esito di salvare i beni della Chiesa, e la castità delle donne schiave, non potè quietarsi il tumulto, che coll’esecuzione d’Oreste119. Paolo, suo fratello, rimase ucciso in una battaglia vicino a Ravenna; ed il misero Augustolo, che non poteva più esigere il rispetto, fu ridotto ad implorar la clemenza d’Odoacre.

[A. 476-490] Questo fortunato Barbaro era figlio d’Edecone, che in alcuni notabili fatti, particolarmente descritti in uno de’ capitoli precedenti, era stato collega d’Oreste medesimo. L’onore d’un ambasciatore dovrebb’essere esente da ogni sospetto; pure Edecone aveva dat’orecchio ad una cospirazione contro la vita del suo Sovrano. Ma quest’apparente delitto fu purgato dal merito o dal pentimento di esso; il suo grado era eminente e cospicuo; godeva il favore d’Attila; e le truppe sotto il suo comando, che guardavano a vicenda il villaggio reale, consistevano in una tribù di Scirri, immediati ed ereditari suoi sudditi. Nella ribellione de’ Popoli, che seguì dopo la morte d’Attila, essi restarono attaccati agli Unni; e più di dodici anni dopo si fa onorevol menzione del nome d’Edecone nella disugual contesa, ch’ebbero con gli Ostrogoti, [p. 543 modifica]la quale finì, dopo due sanguinose battaglie, con la disfatta e dispersione degli Scirri120. Il bravo lor Capitano, che non soppravvisse a questa nazionale calamità, lasciò due figli, Onulfo ed Odoacre, a combattere coll’avversità, ed a sostenere come potevano, per mezzo della rapina o della milizia, i fedeli compagni del loro esilio. Onulfo indirizzò i suoi passi verso Costantinopoli, dove macchiò coll’assassinio di un generoso benefattore la fama, che si era acquistata nelle armi. Odoacre suo fratello menò una vita errante fra’ Barbari del Nerico con un animo ed una fortuna conveniente a’ più disperati avventurieri; e quando ebbe fissata la sua scelta, piamente visitò la cella di Severino, Santo popolare del paese, per chiedere la sua approvazione e benedizione. La piccolezza della porta non serviva ad ammettere l’alta statura d’Odoacre: esso fu costretto a piegarsi, ma in quell’umile attitudine il Santo potè discernere i sintomi della futura sua grandezza; e voltatosi a lui con un tuono Profetico: „Prosegui (gli disse) il tuo disegno, va in Italia; tosto getterai via cotesto vil vestimento di pelli; e la tua ricchezza sarà proporzionata alla liberalità del tuo animo„121. Il Barbaro, l’animo ardito del [p. 544 modifica]quale accettò e verificò la predizione, fu ammesso alla milizia dell’Impero occidentale, ed ottenne tosto un onorevol grado fra le guardie. S’incivilirono appoco appoco i suoi costumi, crebbe la sua scienza militare, ed i confederati d’Italia non l’avrebbero scelto per loro Generale, se le azioni d’Odoacre non avessero stabilito un’alta opinione de’ suoi talenti e del suo coraggio122. Le militari loro acclamazioni lo salutaron col titolo di Re: ma egli s’astenne in tutto il suo regno dall’uso della porpora e del diadema123 per timore di non offender que’ Principi, i sudditi de’ quali colla loro accidentale unione avevano formato un vittorioso esercito, che il tempo ed il governo andava insensibilmente a riunire in una gran nazione.

[A. 476-479] La dignità reale era famigliare a’ Barbari, e l’umile Popolo d’Italia era preparato ad ubbidire senza difficoltà all’autorità, ch’egli si fosse contentato d’esercitare come Vicegerente dell’Imperatore dell’Occidente. Ma Odoacre avea risoluto d’abolire quest’inutile e dispendioso ufizio; ed è tale il peso degli antichi [p. 545 modifica]pregiudizi, che vi volle ardire e penetrazione per iscuoprire l’estrema facilità dell’impresa. Lo sfortunato Augustolo dovè servir d’istrumento alla propria disgrazia; ei notificò al Senato la sua rinunzia; e quell’assemblea, nell’ultimo suo atto d’ubbidienza ad un Principe Romano, continuò ad affettare lo spirito di libertà, e le formalità della costituzione. Fu scritta, per unanime loro decreto, una lettera all’Imperator Zenone, genero e successor di Leone, che ultimamente, dopo una breve ribellione, era di nuovo salito sul Trono Bizantino. Solennemente „disapprovano essi la necessità, o anche il desiderio, che più si continui la successione Imperiale in Italia; mentre, secondo il loro giudizio, la maestà d’un solo Monarca è sufficiente ad occupare e difendere, nell’istesso tempo, sì l’Oriente, che l’Occidente. In nome loro, e del Popolo acconsentono, che sia trasferita da Roma a Costantinopoli la sede dell’Impero universale; e bassamente rinunciano al diritto d’eleggere il loro Signore, unico vestigio che restava di quell’autorità, che aveva dato leggi al Mondo. Dicono, che la Repubblica (ripetono essi tal nome senza rossore) poteva sicuramente confidare nelle civili e militari virtù d’Odoacre; ed umilmente fanno istanza, che l’Imperatore l’investa del titolo di Patrizio, e dell’amministrazione della Diocesi d’Italia„. I Deputati del Senato furono ricevuti a Costantinopoli con qualche segno di disgusto e d’irritamento; e quando furono ammessi all’udienza di Zenone, questi rinfacciò loro severamente il trattamento fatto ai due Imperatori, Antemio e Nipote, che l’Oriente avea l’un dopo l’altro accordato alle preghiere dell’Italia. „Il primo (proseguì egli) è stato da voi [p. 546 modifica]ucciso, ed il secondo scacciato; ma questo è tuttora in vita, e finattantochè vive, è il vostro legittimo Sovrano„. Ma il prudente Zenone ben presto abbandonò la causa disperata del suo deposto collega. Fu appagata la sua vanità col titolo d’unico Imperatore, e con le statue, che si eressero in onor suo ne’ vari quartieri di Roma; mantenne un’amichevole, quantunque ambigua, corrispondenza col Patrizio Odoacre, e gradì le insegne Imperiali, i sacri ornamenti del trono e del palazzo, che il Barbaro volentieri tolse alla vista del Popolo124.

Nello spazio di venti anni dopo la morte di Valentiniano si erano succeduti l’uno dopo l’altro nove Imperatori; ed il figlio d’Oreste, giovane commendabile solo per la sua beltà, meriterebbe meno di tutti la cognizione della posterità, se il suo regno, che porta l’impronta dell’estinzione del Romano Impero nell’Occidente, non avesse formato un’epoca memorabile nell’istoria del genere umano125. Il Patrizio Oreste aveva sposato la figlia del Conte Romolo, di Petovio nel No[p. 547 modifica]rico: il nome d’Augusto, nonostante la gelosia della potenza, in Aquileia si riconosceva come un cognome famigliare; ed i nomi de’ due gran fondatori della città, e della monarchia, si unirono per tal guisa stranamente nell’ultimo de’ loro successori126. Il figlio d’Oreste prese e disonorò i nomi di Romolo Augusto; ma il primo fu convertito in Momillo da’ Greci, ed il secondo si è cangiato da’ Latini nello spregevol diminutivo d’Augustolo. Si risparmiò la vita di questo innocente giovane dalla generosa clemenza d’Odoacre, che lo fece uscire con tutta la sua famiglia dal palazzo Imperiale, gli assegnò l’annua rendita di seimila monete d’oro, e la villa di Lucullo nella Campania per luogo del suo esilio o ritiro127. Appena i Romani poteron respirare da’ travagli della guerra Punica, furono attratti dalle bellezze e da’ piaceri della Campania; e la villa del vecchio Scipione a Literno somministrava un durevole esempio della rustica loro semplicità128. [p. 548 modifica]Le deliziose rive della Baia di Napoli erano coronate di ville; e Silla applaudì la fina perizia del suo rivale, che si era situato sull’alto promontorio di Miseno, che domina da ogni parte la terra ed il mare, per quanto s’estende l’orizzonte129. La villa di Mario fu, pochi anni dopo, comprata da Lucullo, ed il prezzo era cresciuto da duemilacinquecento a più d’ottantamila lire sterline130. Si adornò dal nuovo proprietario con le arti Greche, e co' tesori dell’Asia, e le case ed i giardini di Lucullo ebbero un posto distinto nel numero de’ palazzi Imperiali131. Allorchè i Vandali divennero formidabili per le coste marittime, la villa di Lucullo, sul promontorio di Miseno, appoco appoco [p. 549 modifica]acquistò la forza ed il nome di fortezza, divenuta poi l’oscuro soggiorno dell’ultimo Imperatore dell’Occidente. Circa venti anni dopo quella gran rivoluzione, fu convertita in una chiesa ed in un Monastero per riporvi le ossa di S. Severino. Esse vi riposarono quietamente, fra’ trofei spezzati delle vittorie Cimbriche ed Armene, fino al principio del decimo secolo; quando le fortificazioni, che potean dare un pericoloso ricovero a’ Saracini, furono demolite dal Popolo di Napoli132.

Odoacre fu il primo Barbaro, che regnasse in Italia sopra un Popolo, che aveva una volta giustamente assodato la sua superiorità sopra il resto dell’uman genere. La disgrazia de’ Romani eccita sempre la rispettosa nostra compassione, e siamo altamente mossi dallo sdegno e dolore, che c’immaginiamo aver provato i degenerati lor posteri; ma le calamità dell’Italia appoco appoco avevan superato l’orgoglioso sentimento della libertà, e della gloria. Nel tempo del Romano valore, le Province furono sottoposte alle armi della Repubblica, ed i Cittadini alle sue leggi, finattantochè queste non furono distrutte dalla civile discordia, e sì la città che le Province divennero il servil patrimo[p. 550 modifica]nio di un Tiranno. La forma della costituzione, che alleggeriva o mascherava l’abietta loro schiavitù, restò abolita dal tempo e dalla violenza; gl’Italiani si dolevano a vicenda sì della presenza, che dell’assenza de’ Sovrani, ch’essi abborrivano o disprezzavano; e la successione di cinque secoli li sottopose a’ vari mali della licenza militare, del capriccioso dispotismo e di una elaborata oppressione. Frattanto i Barbari erano usciti dall’oscurità e dal disprezzo, e s’introdussero nelle Province i guerrieri della Germania e della Scizia, come servi, come alleati, e finalmente come padroni de’ Romani, ch’essi insultavano, o proteggevano. L’odio del Popolo restò soppresso dal timore: esso rispettò il coraggio e lo splendore di que’ marziali Capi, che furono adornati degli onori dell’Impero; ed il destino di Roma da gran tempo dipendeva dalla spada di que’ formidabili stranieri. Il crudo Ricimero, che calpestò lo rovine d’Italia, aveva esercitato il potere senza prendere il titolo di Re: ed i pazienti Romani appoco appoco si prepararono a riconoscer la dignità reale d’Odoacre, e de’ Barbari suoi successori.

[A.476-490] Il Re d’Italia non era indegno dell’alto posto, a cui la fortuna ed il valore l’avevano elevato. I suoi costumi selvaggi s’incivilirono per l’uso delle conversazioni; ed egli rispettava, quantunque fosse un Conquistatore, ed un Barbaro, gli usi, ed anche i pregiudizi de’ propri sudditi. Dopo un intervallo di sette anni, Odoacre restituì il Consolato dell’Occidente. Quanto a se, o per modestia o per orgoglio, evitò un onore, che tuttavia s’accettava dagl’Imperatori dell’Oriente; ma la sella curule fu successivamente occupata da undici de’ più illustri Senatori133; ed è ador[p. 551 modifica]nato questo catalogo dal nome rispettabile di Basilio, le virtù del quale meritarono l’amicizia ed il grato applauso di Sidonio, suo cliente134. Eran osservate rigorosamente le leggi degl’Imperatori, e la civile amministrazione d’Italia tuttavia esercitavasi dal Prefetto del Pretorio, e da’ Ministri ad esso subordinati. Odoacre appoggiò a’ Magistrati Romani l’odioso od oppressivo ufizio d’esigere lo rendite pubbliche; ma riservò a se stesso il merito d’una opportuna e popolare indulgenza135. Come gli altri Barbari, egli era stato istruito nell’eresia Arriana; ma rispettava il carattere monastico ed episcopale; ed il silenzio de’ Cattolici dimostra la tolleranza, ch’essi godevano. La pace di Roma richiese l’interposizione di Basilio, Prefetto di essa, nell’elezione d’un Romano Pontefice: ed il decreto, che proibiva al Clero l’alienazione delle sue terre, aveva per fine il vantaggio del Popolo, la devozione del quale avrebbe dovuto tassarsi per riparare le dilapidazioni della Chiesa136. L’Italia fu difesa dalle [p. 552 modifica]armi del suo conquistatore; e rispettate furono le sue frontiere da’ Barbari della Gallia e della Germania, che avevano per tanto tempo insultato la debole stirpe di Teodosio. Odoacre passò l’Adriatico per punire gli assassini dell’Imperator Nipote, e per acquistar la Provincia marittima della Dalmazia. Passò le alpi per liberare il resto del Norico da Fava o Feleteo Re de’ Rugi, che risedeva di là dal Danubio. Il Re fu vinto in battaglia, e condotto via prigioniero; si trapiantò in Italia una numerosa colonia di schiavi e di sudditi; e Roma, dopo un lungo periodo di abbattimento e di vergogna, potè vantare il trionfo del Barbaro suo Signore137.

Nonostante la prudenza ed il buon successo d’Odoacre, il suo regno mostrava il tristo prospetto della miseria, e della desolazione. Fin dal tempo di Tiberio si era sentita in Italia la decadenza dell’agricoltura; e dava un giusto motivo di lamento il dipender che faceva la vita del Popolo Romano dagli accidenti dei venti, e delle acque138. Nella divisione e nella caduta dell’Impero si dispersero le tributarie messi dell’Egitto, [p. 553 modifica]e dell’Affrica; il numero degli abitanti andò continuamente scemando insieme co’ mezzi della sussistenza; ed il paese restò esausto per le irreparabili perdite della guerra, della fame139 e della peste. S. Ambrogio ha deplorato la rovina d’un popolato tratto di paese, che una volta era ornato dalle floride città di Bologna, di Modena, di Reggio, e di Piacenza140. Gelasio Papa era suddito d’Odoacre; ed asserisce con una forte esagerazione, che nell’Emilia, nella Toscana, e nell’addiacenti Province era quasi estirpata la specie umana141. I plebei di Roma, ch’eran nutriti dalle mani del loro Signore, perirono o si dispersero, tostochè mancò la liberalità di esso; la decadenza delle arti ridusse l’industrioso meccanico all’oziosità, ed al bisogno; ed i Senatori, che avrebbero potuto sopportar con pazienza la rovina della patria loro, piangevano la perdita privata delle proprie ricchezze e del lusso. Un terzo di quelle vaste possessioni, alle quali si attribuisce in origine la rovina dell’Italia142, fu riservato pei conquistatori. Le ingiurie s’aggravavano dagli [p. 554 modifica]insulti; il sentimento di ciò, che attualmente soffrivasi, veniva più amareggiato dal timore di mali ancor più terribili; e siccome si concedevano sempre nuove terre a nuovi sciami di Barbari, ogni Senatore temeva, che gli arbitrari soprintendenti si accostassero alla favorita sua villa, o al suo più fertil podere. I meno infelici eran quelli, che si sottomettevano quietamente alla forza, a cui era impossibile di resistere. Poichè desideravano essi di vivere, professavano gratitudine verso il Tiranno, che risparmiava loro la vita; e poichè esso era l’assoluto padrone de’ loro beni, quella porzione, che loro lasciava, dovevano risguardarla come un puro e volontario suo dono143. L’angustia dell’Italia fu mitigata dalla prudenza e dall’umanità di Odoacre, che si era per altro obbligato, per prezzo della sua elevazione, a soddisfar le domande d’una licenziosa o turbolente moltitudine. I Re de’ Barbari venivano spesso contrariati, deposti, ed uccisi da’ nativi lor sudditi; e le varie truppe d’Italiani mercenari, che si associarono sotto le bandiere d’un Generale elettivo, pretendevano un privilegio più esteso di libertà e di rapina. Una Monarchia, priva d’unione nazionale, e d’ereditario diritto, tendeva a disciogliersi; dopo un regno di quattordici anni Odoacre fu oppresso dal genio superiore di Teodorico Re degli Ostro[p. 555 modifica]goti, eroe ugualmente eccellente nelle arti della guerra, che del Governo, che fece tornare un tempo di pace e di prosperità, ed il nome del quale tuttavia eccita meritamente l'attenzione del genere umano.


fine del volume sesto.

Note

  1. Sidonio Apollinare compose la lettera 13 del secondo libro per confutare il paradosso del suo amico Serrano, che conservava un singolare, quantunque generoso, entusiasmo pel defunto Imperatore. Questa lettera, con qualche indulgenza, può meritar la lode d’un’elegante composizione; e sparge molta luce sul carattere di Massimo.
  2. Clientum praevia, pedissequa, circonfusa populositas è l’accompagnamento, che Sidonio medesimo (l. 1. epist. 9) assegna ad un altro Senatore di grado Consolare.
  3. Districtus, ensis, cui super impia
    Cervice pendet, non Siculae dapes
    Dulcem elaborabunt saporem:
    Non avium citharaequae cantus
    Somnum reducent
    ..... Horat. Carm. III. 1.

    Sidonio termina la sua lettera coll’istoria di Damocle, in modo sì inimitabile raccontata da Cicerone (Tusculan. V. 20, 21).

  4. Nonostante la testimonianza di Procopio, d’Evagrio, d’Idazio, di Marcellino ecc., l’erudito Muratori (Annal. d’ Ital. Tom. IV. p. 249) dubita della verità di quest’invito, ed osserva assai giustamente, che non si può dir quanto sia facile il Popolo a sognare, e spacciar voci false. Ma il suo argomento, tratto dalla distanza del tempo e del luogo, è sommamente debole. I fichi, che nascevano vicino a Cartagine, furono portati il terzo giorno al Senato Romano.
  5. .... infidoque tibi Burgundio ductu
    Extorquet trepidas mactandi Principis iras.

    Sidonio, in Paneg. avit. 442. Verso notabile che fa conoscere, che Roma e Massimo furono traditi da’ loro mercenari soldati Borgognoni.

  6. L’apparente successo del Papa Leone può giustificarsi per mezzo di Prospero, e dell’Istoria Miscellanea; ma la improbabile idea del Baronio (an. 455. n. 13) che Genserico risparmiasse le tre chiese Apostoliche, non è sostenuta neppur dalla dubbiosa testimonianza del Libro Pontificale.
  7. La profusione di Catulo, che fu il primo a dorare il tetto del Campidoglio, non fu generalmente approvata (Plin., Hist. Nat. XXXIII. 18), ma essa fu di gran lunga superata dagl’Imperatori, e l’esterna doratura del Tempio costò a Domiziano 1200 talenti (2,400,000 lire sterline). L’espressione di Claudiano, e di Rutilio (luce metalli aemula... fastigia astris, e confunduntque vagos delubra micantia visus) manifestamente provano, che non fu tolta quella splendida copertura nè da’ Cristiani nè da’ Goti (Vedi Donat, Roma ant. lib. II. cap. 6. p. 125). Sembra che il tetto del Campidoglio fosse decorato da statue dorate, e da cocchi tirati da quattro cavalli.
  8. Il curioso lettore può consultare l’erudito ed esatto trattato d’Adriano Reland, de spoliis Templi Hierosolymitani in arcu Titiano Romae conspicuis: in 12 Trajecti ad Rhen. 1716.
  9. L’unica nave di tutta la flotta, che soffrisse naufragio, fu quella, che conteneva i residui del Campidoglio. Se un superstizioso sofista Pagano avesse dovuto raccontar questo accidente, si sarebbe rallegrato, che quel carico di sacrilegio si fosse perduto nel mare.
  10. Vedi Vittore Vitense, de Persec. Vandal. l. 1. c. 8. p. 11, 122. Edit. Ruinart. Deogratias governò la Chiesa di Cartagine solo tre anni. Se non fosse stato sepolto segretamente, si sarebbe diviso in molti pezzi il suo cadavere dalla folle devozione del Popolo.
  11. Della morte di Massimo, e del sacco di Roma per opera de’ Vandali si trova generalmente fatta menzione presso Sidonio (Paneg. avit. 441, 450), Procopio (De Bell. Vandal. l. 1. c. 4, 5. p. 188, 189 e l. 2. c. 9. p. 255), Evagrio (l. II. c. 7), Giornandes (de reb. Get. c. 45. p. 677), e nelle Croniche d’Idazio, di Prospero, di Marcellino e di Teofane, sotto il suo proprio anno.
  12. Bisogna dedurre la vita privata, e l’elevazione d’Avito con qualche sospetto dal Panegirico pronunziato da Sidonio Apollinare, suo suddito e genero.
  13. Ad esempio di Plinio il Giovane, Sidonio (l. II. c. 2) ha fatto la florida, prolissa, ed oscura descrizione della sua villa, che portava il nome d’Avitacum, ed era stata di proprietà d’Avito. Non se ne conosce precisamente il sito. Si consultino però le note di Savaron e di Sirmond.
  14. Sidonio (l. II. Epist. 9) ha descritto la vita rurale de’ nobili Galli in una visita ch’ei fece ad alcuni suoi amici, i beni de’ quali erano nelle vicinanze di Nimes. Le ore della mattina si occupavano nel (Sphaeristerium) giuoco della palla, o nella libreria, che era piena di Autori Latini, sacri e profani: e questi per gli uomini, quelli per le donne. Due volte s’imbandiva la tavola, a desinare ed a cena, con cibi cotti (lesso ed arrosto), e con vino. Nel rimanente del tempo la compagnia dormiva, andava a spasso a cavallo, ed usava i bagni caldi.
  15. Settanta versi del panegirico (505, 575), impiegati a scrivere l’importunità di Teodorico e della Gallia, che cercavan di vincere la modesta ripugnanza d’Avito, vengono cancellati da tre parole d’un onesto Istorico: Romanum ambisset Imperium: Gregor. Turon. l. II. c. II. in Tom. II. p. 168.
  16. Isidoro Arcivescovo di Siviglia, ch’era del sangue reale de’ Goti, confessa, e quasi giustifica (Hist. Goth. p. 718) il delitto, che Giornandes loro schiavo aveva bassamente dissimulato (c. 43. p. 673).
  17. Questa elaborata descrizione (l. I. ep. 2. p. 2, 7) fu dettata da qualche motivo politico. Essa era destinata per pubblicarsi, ed era passata per le mani degli amici di Sidonio, prima che fosse inserita nella collezione delle sue lettere. Il primo libro fu pubblicato separatamente. Vedi Tillemont Mem. Eccl. Tom. XVI. p. 264.
  18. Ho tralasciato in questo ritratto di Teodorico varie minute circostanze, ed espressioni tecniche, le quali potevano esser tollerabili o almeno intelligibili solo per quelli, che avessero frequentato, come i contemporanei di Sidonio, i mercati, dove si esponevano gli schiavi nudi alla vendita (Dubos Hist. crit. Tom. I. p. 404).
  19. Videas ibi elegantiam Graecam, abundantiam Gallicanam, celeritatem Italam, publicam pompam, privatam diligentiam, regiam disciplinam.
  20. Tunc etiam ego aliquid obsecraturus feliciter vincor, et mihi tabula perit, ut causa salvetur. Sidonio d’Alvergna non era suddito di Teodorico; ma potè forse trovarsi impegnato a chieder giustizia o favore alla Corte di Tolosa.
  21. Teodorico medesimo aveva fatta una solenne e volontaria promessa di fedeltà, che si sparse tanto nella Gallia, che nella Spagna

    . . . . . . . .
    . . . . . Romae sum, te duce, amicus;
    Principe te, miles . . . . .

    Sidonio Paneg. Avit. 511.

  22. Quaeque sinu pelagi jactat se Bracara dives.
    Auson. de clar. urbib. p. 245.
    Dal disegno, che aveva formato il Re degli Svevi, è chiaro che si conosceva, e si praticava la navigazione da’ porti della Gallicia al Mediterraneo. Lo navi di Bracara o Braga navigavano cautamente lungo la costa, senz’arrischiarsi di estendersi nell’Atlantico.
  23. Questa guerra Svevica è la parte più autentica della Cronica d’Idazio, che come Vescovo d’Iria Flavia ne fu spettatore egli stesso, e ne soffrì gli effetti. Giornandes (c. 44 p. 675, 676, 677) ha spaziato con piacere intorno ad una vittoria Gotica.
  24. In uno de’ portici o gallerie spettanti alla libreria di Traiano, fra le statue degli scrittori ed oratori celebri. Sidonio Apollinare lib. IX. epist. 16. pag. 284. Carm. VIII. pag 350.
  25. Luxuriose agere volens a Senatoribus projectus est; questa è la succinta espressione di Gregorio di Tours (l. II. c. XI. p. 168). Un’antica Cronica (nel Tom. II. p. 649) fa menzione d’uno scherzo indecente d’Avito, che sembra più applicabile a Roma che a Treveri.
  26. Sidonio (Paneg. Anthem. p. 302 etc.) loda la nascita reale di Ricimero, legittimo erede, com’egli vuole dare ad intendere, di ambedue i regni, Gotico e Svevico.
  27. Vedi la Cronica d’Idazio. Giornandes (c. 44. p. 676) lo nomina con qualche sorta di verità virum egregium, et pene tunc in Italia ad exercitum singularem.
  28. Parcens innocentiae Aviti: questa è la compassionevole, ma sprezzante espressione di Vittore Tunnunense (in Chron. ap. Scaliger. Euseb.). In un altro luogo l’appella vir totius simplicitatis. Questa commendazione è più umile, ma è più solida e sincera delle lodi di Sidonio.
  29. Egli soffrì, come si suppone, il martirio nella persecuzione di Diocleziano (Tillemont, Mem. Eccl. Tom. 5. p. 279, 696). Gregorio di Tours, suo particolar devoto, ha consacrato alla gloria di Giuliano martire un intero libro (de gloria Martyr. l. II. in maxima Bibl. Patr. Tom. XI. p. 861, 871), nel quale racconta circa cinquanta sciocchi miracoli fatti dalle sue reliquie.
  30. Gregorio di Tours (l. II. c. XI. p. 168) è breve, ma esatto nel regno del suo nazionale. Le parole d’Idazio caret imperio, caret et vita, sembra che indichino essere stata violenta la morte d’Avito; ma bisogna, che fosse segreta, mentre Evagrio (l. II. c. 7) potè supporre, che morisse di peste.
  31. Dopo aver modestamente portato gli esempi de’ suoi confratelli Virgilio ed Orazio, Sidonio confessa ingenuamente il suo debito, e promette di pagarlo:

    Sic mihi diverso nuper sub marte cadenti
    Jussisti placido Victor ut essem animo.
    Serviat ergo libi servati lingua Poetae,
    Atque meae vitae laus tua sit pretium.

    Sidon. Apoll., Carm. IV. p. 308. Vedi Dubos, Hist. Crit.

  32. Le parole di Procopio meritano d’esser trascritte: ουτος γαρ ο Μαιοριανος ξυμπαντας του πωποτε Ρωμαιων βεβασιλευκοτας υπεραιρων αρετη πασι; e quindi ανηρ τα μεν εις τους υπηκοους μετριος γεγονως φοβεφος δε τα ες τους πολεμιους (De Bell. Vandal. l. 1. c. 7. p. 194) breve ma piena definizione della virtù reale.
  33. Quel Panegirico fu pronunziato a Lione avanti la fine dell’anno 458 mentre l’Imperatore era tuttavia console. Esso contiene più artifizio che genio, e più fatica che arte. Gli ornamenti son falsi o triviali; l’espressione debole e prolissa; e Sidonio manca dell’abilità di porre il soggetto principale in un aspetto luminoso, e distinto. La vita privata di Maioriano occupa circa 200 versi, 107-305.
  34. Ella ne chiese l’immediata morte, e fu appena contenta della sua disgrazia. Parrebbe, che Ezio, ugualmente che Belisario, e Marlborough, fosse governato dalla propria moglie, la fervente pietà della quale, quantunque capace d’operar miracoli (Gregor. Turon. l. II. c. 7. p. 162), pure non era incompatibile co’ bassi e sanguinari disegni.
  35. Gli Alemanni avevan passato le alpi Rezie, e furono disfatti ne’ Campi Canini, o nella vallata di Bellinzona, per cui scorre il Ticino nella sua discesa dal monte Adula al lago Maggiore (Cluver., Ital. antiq. Tom. 1. pag. 100, 101). Questa vantata vittoria su novecento Barbari (Paneg. Maior. 373. etc.) dimostra l’estrema debolezza dell’Italia.
  36. Imperatorem me factum P. C. electionis vestrae arbitrio, et fortissimi exercitus ordinatione agnoscite (Novell. Majorian. Tit. 3. p. 34. ad Calc. Cod. Theod.). Sidonio vanta l’unanime voce dell’Impero.

    ......... Postquam ordine vobis
    Ordo omnis regnum dederat; plebs, curia, miles,
    Et collega simul.... 386.

    Questo è un linguaggio antico e costituzionale: possiamo qui osservare, che il Clero non era considerato ancora come un ordine distinto dello Stato.

  37. Tanto dilationes, che delationes possono somministrare un senso tollerabile; ma nell’ultima voce si trova più sentimento e più spirito, e perciò le ho dato la preferenza.
  38. Ab externo hoste et a domestica clade liberavimus. Per quest’ultima doveva intendere Maioriano la tirannia di Avito, di cui per conseguenza risguardava egli la morte come un atto meritorio. In quest’occasione Sidonio è timoroso ed oscuro; egli descrive i dodici Cesari, le nazioni dell’Affrica ec. per evitare il pericoloso nome d’Avito (305, 569).
  39. Vedasi tutto l’editto, o la lettera di Maioriano di Senato (Novell. Tit. IV. pag. 34). Pure quest’espressione regnum nostrum porta qualche indizio di quel secolo, e non fa buona lega con la parola Respublica, che esso frequentemente ripete.
  40. Vedi le Leggi di Maioriano (non sono che nove di numero, ma molto lunghe e di vario argomento) al fine del Codice Teodosiano, Novell. L IV. pag. 32, 37. Il Gotofredo non ha fatto alcun comentario a queste aggiunte.
  41. Fessas Provincialium varia atque multiplici tributorum exactione fortunas, et extraordinariis fiscalium solutionum oneribus attritas etc. Novell. Majorian. Tit. IV. pag. 34.
  42. L’erudito Greaves (Vol. I. pag. 329, 330, 331) ha trovato per mezzo di diligenti ricerche, che gli aurei degli Antonini pesavano cento diciotto grani Inglesi, e quelli del quinto secolo solo sessant’otto. Maioriano diede corso a tutta la moneta d’oro, eccettuato solamente il solido Gallico, per la sua mancanza non già nel peso, ma nel titolo.
  43. Tutto l’editto (Novell. Majorian. tit. VI. p. 35) è curioso. Antiquarum aedium dissipatur speciosa constructio: et ut aliquid reparetur magnae diruuntur. Hinc iam occasio nascitur, ut etiam unusquisque privatum aedificium construens per gratiam iudicum..... praesumere de publicis locis necessaria et transferre non dubitet. Con uguale zelo, ma con minor potere il Petrarca nel decimo quarto secolo ripetè le stesse querele (Vit. del Petrarca Tom. I. p. 326, 327). Se io proseguo quest’istoria, non mi dimenticherò della decadenza e della rovina della città di Roma, interessante oggetto, a cui si limitava in principio il mio disegno.
  44. L’Imperatore riprende la dolcezza di Rogaziano, Consolare di Toscana, in un tuono di aspro rimprovero, che sembra quasi una personale animosità (Novella Tit. IX p. 37). La legge di Maioriano, che puniva le vedove ostinate, fu rivocata poco dopo da Severo suo successore (Novell. Sever. Tom. I. p. 37).
  45. Sidonio Paneg. Major. 385, 440.
  46. La rivista dell’armata, ed il passaggio delle alpi sono le parti più tollerabili, del panegirico (470, 552 ), Il Buat (Hist. des Peuples etc. Tom. VIII. p. 49, 55) è un comentatore più soddisfacente, che il Savaron o il Sigismondo.
  47. Τα μεν οελοις, τα δε λογοις; Tal è la giusta e forte distinzione di Prisco (Excerpt. Legat. p. 42) in un breve frammento, che getta molta luce sull’istoria di Maioriano. Giornandes ha soppresso la disfatta e l’alleanza de’ Visigoti, che furono solennemente pubblicate nella Gallicia, e sono notate nella Cronica d’Idazio.
  48. Fioro l. II. c. 2. Egli scherza con l’immagine poetica, che gli alberi si erano trasformati in navi: ed in vero tutto il fatto, come vien raccontato nel primo libro di Polibio, si allontana troppo dal corso probabile degli avvenimenti umani.
  49. Interea duplici texis dum littore classem
    Inferno superoque mari, cedit omnis in aequor
    Sylva tibi etc.
    . . . . . . . .
    Sidonio Paneg. Major. 441, 461.

    Il numero delle navi, che Prisco fissa a 300 vien magnificato mediante un’indefinita comparazione con le flotte d’Agamennone, di Serse e d’Augusto.

  50. Procopio (De Bell. Vandal. l. 1. c. 8. p. 194). Quando Genserico condusse l’incognito suo ospite all’arsenale di Cartagine, le armi da loro stesse fecero dello strepito urtandosi. Maioriano aveva tinto la sua bionda chioma di color nero.
  51. . . . . . Spoliisque potitus
    Immensis, robur luxuria perdidit omne,
    Qua valuit, dum pauper erat.
         Paneg. Major.
    330.

  52. Egli abbruciò i villaggi, ed avvelenò le fonti (Prisco p. 42). Dubos (Hist. Crit. Tom. I p. 475) osserva, che i magazzini, che i Mori avevan posti sotto terra, poterono evitare le sue distruttive ricerche. Si trovano alle volte scavate due o trecento fosse nel medesimo luogo: ed ogni fossa contiene almeno quattrocento misure di grano. Shavv. Viagg. p. 139.
  53. Idazio, che nella Gallicia era sicuro dalla potenza di Ricimero, arditamente ed ingenuamente dichiara: Vandali per proditores admoniti etc. Ei dissimulò però il nome del traditore.
  54. Proc., de bell. Vandal. l. I. c. 8. p. 194. La testimonianza d’Idazio è chiara ed imparziale: Majorianum de Galliis Romam redeuntem et Romano Imperio vel nominis res necessarias ordinantem, Ricimer livore percitus, et invidorum consilio fultus, fraude interficit circumventum. Alcuni leggono Suevorum, ed io ammetterei l’una e l’altra parola, esprimendo esse i diversi complici, che ebbero parte nella cospirazione contro Maioriano.
  55. Vedi gli Epigrammi d’Ennodio n. 135 fra le opere di Sirmondo Tom. I. p. 1903. Il suo stile è grossolano ed oscuro; ma Ennodio fu fatto Vescovo di Pavia cinquanta anni dopo la morte di Maioriano, e le sue lodi meritan fede e riguardo.
  56. Sidonio fa un noioso racconto (l. I. epist. XI. p. 25, 31) d’una cena in Arles, alla quale fu invitato da Maioriano poco tempo avanti la sua morte. Non aveva esso intenzione di lodare un Imperatore defunto; ma un’accidentale sua disinteressata osservazione, Subrisit Augustus, ut erat auctoritate servata, cum se communioni dedisset, joci plenus; vale più di sei cento versi del suo venal panegirico.
  57. Sidonio (Paneg. Amthem. 317) l’invia al cielo:

    Auxerat Augustus naturae lege Severus
    Divorum numerum . . . . .

    ed una vecchia lista degl’Imperatori, composta verso il tempo di Giustiniano, loda la sua pietà, e ne fissa la residenza in Roma (Sirmondo not. ad Isid. p. 111, 112).

  58. Il Tillemont, ch’è sempre scandalizzato dalla virtù degl’infedeli, attribuisce questo vantaggioso ritratto di Marcellino (conservatosi da Suida) al parziale zelo di qualche isterico Pagano Hist. des Emper. Tom. VI p. 330.
  59. Procopio de bell. Vandal. l. I, c. 6. p. 19l. 1n varie circostanze della vita di Marcellino non è facile di conciliare l’Istorico Greco con le croniche Latine contemporanee.
  60. Conviene applicare ad Egidio le lodi, che Sidonio (Paneg. Major. 553) dà ad un anonimo Generale, che comandava la retroguardia di Maioriano. Idazio commenda, per la pubblica fama, la sua cristiana pietà; e Prisco fa menzione (p. 42) delle sue virtù militari.
  61. Gregor. Turon. l. II. c. 12. in Tom. II, p. 168. Il P. Daniel, che aveva idee superficiali e moderne, ha mosso obiezioni contro la storia di Childerico (Hist. de France Tom'. I. Prefac. Historiq. p. lxxviii etc.): ma sono state bene sciolte dal Dubos (Hist. Crit. Tom. I, p. 460, 510), e da due autori, che si disputarono il premio dell’Accademia di Soissons (p. 131, 177, 310, 339). Quanto al termine dell’esilio di Childerico, è necessario o prolungar la vita d’Egidio oltre il tempo assegnato da Idazio, o correggere il testo di Gregorio, leggendo quarto anno invece di octavo.
  62. La guerra navale di Genserico è descritta da Prisco (Exc. Legation. p. 42), da Procopio (de Bell. Vandal. l. I. c. 5. p. 189 190. e c. 22. p. 228), da Vittore Vitense (de persecut. Vandal. lib. I. c. 17) e presso il Ruinart (p. 467, 481), e nei tre panegirici di Sidonio, l’ordine cronologico de’ quali vien assurdamente trasposto nell’edizioni tanto del Savaron, che del Sirmondo (Avit. Carm. VIII. 441, 451. Major. Carm. V. 327, 350, 385, 440. Anthem. Carm. II. 358, 386). In un luogo il Poeta sembra inspirato dal suo soggetto, ed esprime una forte idea con una immagine vivace.

    . . . . . . . Hic Vandalus hostis
    Urget; et in nostrum numerosa classe quotannis
    Militat excidium; conversoque ordine fati
    Torrida Caucaseas infert mihi Byrsa furores.

  63. Il Poeta stesso è costretto a confessare l’angustia di Ricimero:

    Praeterea invictus Ricimer, quem pubblica fata
    Respiciunt, proprio solus vix marte repellit
    Piratam per rura vagum....

    L’Italia dirige le sue querele al Tevere, e Roma, all’istanza del divino fiume, si porta a Costantinopoli, rinunzia i suoi antichi diritti, ed implora l’amicizia dell’Aurora, Dea dell’Oriente. Questa favolosa macchina, di cui aveva già usato, ed abusato il genio di Claudiano, è il costante miserabile ripiego delle muse di Sidonio.

  64. Gli autori originali de’ regni di Marciano, di Leone e di Zenone son ridotti ad alcuni imperfetti frammenti, alle mancanze de’ quali convien supplire per mezzo delle più recenti compilazioni di Teofane, di Zonara o di Cedreno.
  65. S. Pulcheria morì l’anno 453 quattro anni prima del suo nominal marito; e se ne celebra da’ moderni Greci la festa il dì 10 di Settembre. Essa lasciò un immenso patrimonio per servire ad usi pii, o almeno Ecclesiastici. Vedi Tillemont, Mem. Eccl. Tom. XV. p. 181-184.
  66. Vedi Procop., de bell. Vandal. l. I. c. 4. p. 185.
  67. Da questa incapacità d’Aspar a salire sul trono può rilevarsi, che la macchia dell’Eresia era perpetua ed indelebile, mentre quella del Barbarismo svaniva nella seconda generazione.
  68. Teofan. p. 95. Questa sembra che fosse la prima origine di una cerimonia, che di poi tutti i Principi Cristiani del Mondo hanno adottata, e da cui il Clero ha tratto le più formidabili conseguenze.
  69. Cedreno, (p. 345, 346), che aveva a mano gli Scrittori di migliori tempi, ci ha conservato le rimarchevoli parole d'Aspar: Βασιλευ τον αυτην την αλουργιδα πε ιβεβλημενον ου χρη διαψευδεσθαι.
  70. La potenza degl’Isauri agitò l’Impero Orientale ne’ due successivi regni di Zenone e d’Anastasio; ma finì con la distruzione di que’ Barbari, che mantennero la fiera loro indipendenza per circa dugento trent’anni.
  71. ..... Tali tu civis ab urbe
    Procopio genitore micas, cui prisca propago
    Augustis venit a proavis.../i>

    Il Poeta (Sidon. Paneg. Anthem. 67-306) quindi passa a riferir la vita privata, e le avventure del futuro Imperatore, di che doveva egli esser ben poco informato.

  72. Sidonio dimostra con tollerabile ingegno, che questa moderazione aggiunse nuovo splendore alla virtù d’Antemio (210, ec.) il quale evitò uno scettro, e con ripugnanza ne accettò un altro, 22, e ec.
  73. Il Poeta celebra di nuovo la concordia di tutti gli ordini dello Stato (15, 22), e la Cronica d’Idazio fa menzione delle truppe, che l’accompagnarono.
  74. Interveni autem nuptiis Patricii Ricimeris, cui filia perennis Augusti in spem publicae securitatis copulabatur. Il viaggio di Sidonio da Lione, e le feste di Roma son descritte con qualche spirito (l. 1. epist. 5. pag. 913. epist. 9, pag. 21).
  75. Sidonio (l. 1, epist. 9. p. 23, 24) espone assai chiaramente il motivo del suo panegirico, la fatica, ed il premio, che n’ebbe: Hic ipse panegyricus si non iudicium, certe eventum boni operis accepit. Ei fu fatto Vescovo di Clermont l’Anno 471. (Tillemont, Mem. eccl. Tom. XVI. pag. 750.
  76. Il palazzo d’Antemio era situato sulle rive della Propontide. Nel nono secolo Alessio, genero dell’Imperatore Teofilo, ottenne la permissione di comprar quel terreno: e terminò i suoi giorni in un Monastero, ch’ei fondò in quel delizioso luogo. Ducange, Costantinopolis Christiana p. 117, 152.
  77. Papa Hilarius.... apud Beatum Petrum Apostolum palam ne id fieret clara voce constrinxit in tantum, ut non ea facienda cum interpositione iuramenti idem promitteret Imperator. Gelas., Epist. ad Andronicum ap. Baron. an. 467. n. 3. Il Cardinale osserva con qualche compiacenza, ch’era molto più facile seminar l’eresie a Costantinopoli, che a Roma.
  78. Damascio nella vita del Filosofo Isidoro ap. Phot. p. 1049. Damascio, che visse al tempo di Giustiniano, compose un’altra opera consistente in 570 racconti preternaturali di anime, di demonj, di apparizioni ec.; follie del Paganesimo Platonico.
  79. Nelle opere poetiche di Sidonio, ch’egli di poi condannò (l. IX. epist. 16, p. 285) le Divinità favolose sono i principali attori. Se Girolamo fu battuto dai demonj solo per avere letto Virgilio, il Vescovo di Clermont per una imitazione sì misera meritava maggiori percosse dalle Muse.
  80. Ovidio (Fast. l. II. 267-452) ha fatto una piacevole descrizione delle follie dell’antichità, che sempre inspiravano tanto rispetto, che un grave Magistrato correndo nudo per le strade non era un soggetto di maraviglia, nè di derisione.
  81. Vedi Dionis. Alic. l. 1. p. 25, 65. Edit. Hudson. Gli antiquari Romani, Donato (l. II. c. 18. p. 173, 174), ed il Nardini (p. 386, 387) hanno cercato di stabilire la vera situazione del Lupercale.
  82. Il Baronio pubblicò questa lettera di Gelasio Papa, tratta da’ Manoscritti della libreria Vaticana (an. 496, n.28, 45), ed ha per titolo Adversus Andromachum Senatorem, ceterosque Romanos, qui Lupercalia secundum morem pristinum colenda constituebant. Gelasio sempre suppone, che i suoi avversari sieno cristiani solo di nome, e per non ceder loro in assurdi pregiudizi, attribuisce a quell’innocente festa tutte le calamità di quel tempo.
  83. Itaque nos, quibus totius mundi regimen commisit superna provisio,.... Pius et triumphator semper augustus filius noster Anthemius, licet divina majestas, et nostra creatio pietati ejus plenam Imperii commiserit potestatem etc.... Tal è il superiore stile di Leone, che Antemio rispettosamente appella Dominus et Pater meus Princeps sacratissimus Leon. (Vedi novell. Anthem. Tit. II. III. p. 38. ad calcem Cod. Theod).
  84. La spedizione d’Eraclio è piena di difficoltà (Tillem. Hist. des Emper. Tom. VI. p. 640), e si richiede qualche destrezza nel far uso delle circostanze somministrateci da Teofane, senza offendere la testimonianza più rispettabile di Procopio.
  85. La marcia di Catone, che partì da Berenice nella Provincia di Cirene, fu più lunga di quella d’Eraclio da Tripoli. Egli passò il vasto arenoso deserto in trenta giorni, e bisognò prevedersi, oltre gli ordinari bagagli, d’un gran numero di otri pieni d’acqua, e di molti Pselli, che si supponeva, avessero l’arte di succiar le ferite fatte da’ serpenti del nativo loro paese. Vedi Plutarco, in Caton. Uticens. Tom. VI. p. 275. Strab. Georg. l. XVII. p. 1191.
  86. La somma principale vien espressa chiaramente da Procopio (de Bell. Vandal., l. 1. c. 6. pag. 191): le parti minori delle quali era composta, che il Tillemont (Hist. des Emper., Tom. VI. p. 396) ha con gran fatica raccolte dagli scrittori Bizantini, sono meno certe, e meno importanti. L’istorico Malco si duole della pubblica miseria (Excerpt. ex Suida in corp. Hist. Byzant. p. 58); ma è certamente ingiusto, allorchè accusa Leone d’ammassare i tesori, che estorceva dal Popolo.
  87. Questo promontorio è distante quaranta miglia da Cartagine (Procop. l. 1. c. 6. p. 192), e venti leghe dalla Sicilia (Shavv viagg. p. 89). Scipione sbarcò più a dentro nella baia al promontorio Bianco. Vedasi l’animata descrizione di Livio XXIX. 26, 27.
  88. Teofane (p. 100) asserisce, che molte navi dei Vandali furon colate a’ fondo. L’asserzione di Giornandes (de success. regn.) che Basilisco attaccò Cartagine, si deve intendere in un senso ben limitato.
  89. Damascio (in vit. Isidor. ap. Phot. 1048). Paragonando fra loro le tre brevi Croniche di que’ tempi, si vedrà, che Marcellino aveva combattuto vicino a Cartagine, e che fu ucciso in Sicilia.
  90. Quanto alla guerra Affricana vedasi Procopio (de bell. Vandal. l. 1. cap. 6. p. 191, 192, 193). Teofane (p. 99, 100, 101), Cedreno (p. 349, 350) e Zonara (Tom. II. l. XIV. p. 50, 51). Montesquieu (Considerat. sur la grandeur etc. c. XX. Tom. 3. pag. 497) ha fatto una giudiziosa osservazione sulla mancanza di successo di tali grandi armamenti navali.
  91. Giornandes è la miglior nostra guida per i regni di Teodorico II e d’Enrico (de reb. Get. c. 44, 45, 46, 47, p. 675, 681). Idazio termina troppo presto, ed Isidoro è troppo riservato nelle notizie, che ci avrebbe potuto dare su gli affari di Spagna. I fatti relativi alla Gallia, sono con grande studio illustrati nel terzo libro dell’Abbate Dubos Hist. Crit. Tom. 1. p. 424-620.
  92. Vedi Mariana, Hist. Hispan. Tom. 1. lib. V. c. 5. p. 162.
  93. Si fa un’imperfetta, ma original pittura della Gallia, specialmente dell’Alvergna, da Sidonio, il quale, come Senatore, e di poi come Vescovo, era sommamente interessato nel destino del suo Paese. (Vedi l. V. Epist. 1, 5, 9).
  94. Sidonio l. III. ep. 3, p. 65, 68. Gregor. Turon. l. II. c. 24 in Tom. II. p 174. Giornandes c. 45. p. 675. Ecdicio forse non era che figliastro d’Avito.
  95. Si nullae a Republica vires, nulla praesidia, si nullae, quantum rumor est, Anthemii Principis opes, statuit te auctore nobilitas seu patriam dimittere, seu capillos (Sidonio l. II. ep. 1. p. 33). Le ultime parole (Sirmondo not. p. 25) possono ugualmente indicare la tonsura clericale, che in fatti fu scelta da Sidonio medesimo.
  96. Può trovarsi l’istoria di questi Brettoni presso Giornandes (c. 45. p. 678), Sidonio (l. III. ep. 9, p. 73, 74), Gregorio di Tours (l. II. c. 18, in Tom. II. p. 170), Sidonio (che appella questi mercenari soldati argutos, armatos, tumultuosos, virtute, numero, contubernio contumaces) tratta col loro Generale in un tuono d’amicizia, e di famigliarità.
  97. Vedi Sidonio l. 1. ep. 7. p. 15-20, con le note del Sirmondo. Questa lettera fa onore al cuore, non meno che all’ingegno di esso. La prosa di Sidonio, per quanto sia viziata da un gusto falso ed affettato, è molto superiore agli insipidi suoi versi.
  98. Quando il Campidoglio cessò d’essere un Tempio, fu destinato per uso de’ Magistrati civili; ed è sempre la residenza del Senatore di Roma. Era probabilmente permesso a’ Gioiellieri ec. d’esporre, le preziose loro merci ne’ portici.
  99. Haec ad Regem Gothorum charta videbatur emitti pacem cum Greco Imperatore dissuadens, Britannos super Ligerim sitos impugnare oportere demonstrans, cum Burgundionibus Jure Gentium Gallias dividi debere confirmans.
  100. Senatus consultum Tiberianum. Sirmondo not. p. 17; ma quella legge concedeva solo dieci giorni fra la sentenza e l’esecuzione: gli altri venti vi furono aggiunti al tempo di Teodosio.
  101. Catilina seculi nostri: Sidonio l. II. ep. 1. pag. 35. l. V. ep. 13. p. 143. l. VII. ep. 7. p. 185. Egli abbomina i délitti, ed applaudisce al gastigo di Seronato forse coll’indignazione d’un cittadino virtuoso, e forse collo sdegno di un personal nemico.
  102. Ricimero, sotto il regno d’Antemio, disfece, ed uccise in battaglia Beorgor Re degli Alani (Giornandes c. 45. p. 678). La sua sorella era maritata al Re de’ Borgognoni, ed ei manteneva un’intima connessione con la colonia Svevica, stabilita nella Pannonia, e nel Norico.
  103. Galatam concitatum. Il Sirmondo, nelle sue note ad Ennodio, applica quest’espressione ad Antemio stesso. L’Imperatore probabilmente era nato nella Provincia della Galazia, gli abitanti di cui, vale a dire Gallo-Greci, si supponeva, che riunissero in sè i vizi d’un Popolo selvaggio e corrotto.
  104. Epifanio tenne per trent’anni il Vescovato di Pavia, dall’anno 467 al 497; (Vedi Tillemont Mem. Eccl. T. XVI. p. 788). La posterità non avrebbe conosciuto nè il nome nè le azioni di esso, qualora Ennodio, uno de’ suoi successori, non ne avesse scritto la vita (Sirmondo Oper. Tom. 1. p. 1647, 1692), in cui lo rappresenta come uno degli uomini più grandi di quel tempo.
  105. Ennodio (p. 1659, 1664) ha riferito quest’ambasceria d’Epifanio; e la sua narrazione verbosa o turgida, per quanto sembra, illustra diversi passi curiosi nella caduta dell’Impero Occidentale.
  106. Prisco (Excerpt. legat. pag. 74) Procopio (de bell. Vandal. l. 1. c. 6. p. 191). Eudossia e la sua figlia furono restituite dopo la morte di Maioriano. Forse fu dato il consolato ad Olibrio (an. 464) come un presente nuziale.
  107. Si determina l’ostile comparsa d’Olibrio (nonostante l’opinione del Pagi) dalla durata del suo regno. La segreta connivenza di Leone vien confessata da Teofane, e dalla Cronica Pasquale. Noi non sappiamo i suoi motivi; ma in quest’oscuro periodo la nostra ignoranza si estende alla maggior parte de’ fatti pubblici più importanti.
  108. Delle quattordici regioni o quartieri, ne’ quali Roma era stata divisa da Augusto, il solo Gianicolo è dalla parte del Tevere, che guarda la Toscana. Ma nel quinto secolo il sobborgo Vaticano formava una considerabil città; o nella distribuzione Ecclesiastica, ch’era stata fatta recentemente da Simplicio Papa regnante in quel tempo, due delle sette regioni o parrocchie di Roma dipendevano dalla chiesa di S. Pietro. Vedi Nardini Roma antica pag. 67. Richiederebbe una tediosa dissertazione il notare le circostanze, nelle quali sono inclinato a partirmi dalla topografia di quell’erudito Romano.
  109. Nuper Antemii et Ricimeris civili furore subversa est: Gelasio in Epist. ad Andromach. ap. Baron. an. 496. n. 12. Il Sigonio (Tom. 1. l. XIV. de Occident. Imper. p. 542, 543) ed il Muratori (Annal. d. Ital. Tom. IV. p. 308, 309) coll’aiuto d’un Manoscritto meno imperfetto dell’Istoria Miscellanea hanno illustrato quest’oscuro e sanguinoso avvenimento.
  110. Tal era stata la saeva ac deformis urbe tota facies, quando Roma fu assalita e presa dalle truppe di Vespasiano (Vedi Tacito, Hist. III. 82, 83); ed ogni specie di male aveva dopo quel tempo acquistato una gran forza di più. La rivoluzione de’ secoli può riprodurre le stesse calamità; ma posson tornare i medesimi tempi, senza produrre un Tacito, che li descriva.
  111. Vedi Ducange, I p. 74, 75. Arcobindo, che sembra sposasse la nipote dell’Imperator Giustiniano, fu l’ottavo discendente di Teodosio il Vecchio.
  112. Le ultime rivoluzioni dell’Impero occidentale si trovano leggiermente indicate presso Teofane (p. 102), Giornandes (c. 45. p. 679), la Cronica di Marcellino, ed i Frammenti d’uno scrittore anonimo pubblicato dal Valesio al fine d’Ammiano (p. 716, 717). Se Fozio non fosse stato sì miserabilmente conciso, potremmo trarne molte notizie dalle storie contemporanee di Malco, e di Candido. (Vedi i suoi Estratti p. 172, 179).
  113. Vedi Gregor. Turon. l. II. c. 28. in Tom. II. p. 175. Dubos, Hist. Crit. Tom. I. p. 613. Mediante l’uccisione o la morte naturale de’ due suoi fratelli, Gundobaldo acquistò il solo possesso del regno di Borgogna, di cui si accelerò la rovina dalla loro discordia.
  114. Julius Nepos armis pariter summus Augustus ac moribus: Sidonio l. V. ep. 76. pag. 146. Nipote diede ad Ecdicio il titolo di Patrizio, che Antemio gli aveva promesso, decessoris Anthemii fidem absolvit. (Vedi lib. VIII. ep. 7. p. 224).
  115. Epifanio fu mandato ambasciatore da Nipote a’ Visigoti ad oggetto di fissare fines Imperii Italici (Ennod., ap. Sirmond. Tom. I. pag. 1665, 1669). Il patetico suo discorso nascondeva il vergognoso segreto, che tosto eccitò le giuste ed amare querele del Vescovo di Clermont.
  116. Malco ap. Phot. p. 172. Ennod. Epigramm. 82 in Sirmond. oper. Tom. I. p. 1879. Potrebbe però muoversi qualche dubbio sull’identità dell’Imperatore e dell’Arcivescovo.
  117. La notizia, che abbiamo di questi mercenari, che rovesciaron l’Impero Occidentale, si trae da Procopio (de Bell. Goth. l. 1. c. 1. pag. 308). L’opinion popolare, ed i moderni Istorici rappresentano Odoacre nel falso aspetto di uno straniero, e d’un Re, che invase l’Italia con un esercito di stranieri, suoi nativi sudditi.
  118. Orestes, qui eo tempore, quando Attila ad Italiam venit, se illi iunxit, et ejus notarius factus fuerat. Anonim. Vales. pag. 716. Egli sbaglia nella data; ma noi possiam prestar fede alla sua asserzione, che il Segretario di Attila fu padre d’Augustolo.
  119. Vedi Ennodio (in vit. Epiphan. Sirmond. Tom. 1. p. 1669, 1670). Egli dà peso alla narrazione di Procopio, quantunque si possa dubitare, se realmente il diavolo immaginò l’assedio di Pavia per angustiare il Vescovo, ed il suo gregge.
  120. Giornandes c. 53, 54. p. 692, 695, Il Buat (Hist. des Peupl. de l’Europ. Tom. VIII. pag. 221, 228) ha chiaramente spiegato l’origine e le avventure d’Odoacre. Io son quasi disposto a credere, ch’ei fosse quel medesimo, che saccheggiò Angers, e comandò una flotta di pirati Sassoni sull’Oceano. Gregor. Turon. lib. II. c. 18. in Tom. II. p. 170.
  121. Vade ad Italiam, vade vilissimis nunc pellibus coopertus; sed multis cito plurima largiturus =. Anonym. Vales. p. 717. Ei cita la vita di S. Severino, che tuttavia sussiste, e contiene una gran parte d’ignota e valutabile storia: essa fu composta da Eugipio, suo discepolo (l’anno 511), trent’anni dopo la sua morte. (Vedi Tillemont, Mem. Eccl. Tom. XVI. p. 168, 181).
  122. Teofane, che lo chiama Goto, asserisce, ch’egli fu educato e nutrito (τραφεντος) in Italia (p. 102); e poichè questa forte espressione non soffre un’interpretazione letterale, bisogna spiegarla coll’aver lungamente militato fra le guardie Imperiali.
  123. Nomen regis Odoacer assumpsit, cum tamen neque purpura nec regalibus uteretur insignibus: Cassiodoro, in Chron. An. 476. Sembra, ch’egli prendesse il titolo astratto di Re, senz’applicarlo ad alcuna nazione o paese particolare.
  124. Malco, di cui la perdita eccita il nostro rincrescimento, ci ha conservato (in Excerpt. Legation. p. 93) tale straordinaria Ambasciata del Senato a Zenone. Un frammento anonimo (p. 717), e l’estratto di Candido (ap. Phot. p. 176) son parimente di qualche uso.
  125. Non è positivamente determinato l’anno preciso, in cui si estinse l’Impero Occidentale. L’anno dell’era volgare 476 sembra, che abbia in suo favore la testimonianza delle Croniche autentiche. Ma le due date assegnate da Giornandes (c. 46. pag. 680) differirebbero quel grande avvenimento all’anno 479; e quantunque il Buat non abbia fatto uso della sua autorità, egli adduce (Tom. 8. p. 261, 288) molte circostanze, che si combinano a sostener la stessa opinione.
  126. Vedansi le sue medaglie presso il Ducange (Famil. Byzant. pag. 81), Prisco (Excerpt. Legation. pag. 56), Maffei (Osservaz. letter. Tom. 2, pag. 314). Noi possiamo addurre un famoso e simile caso. I minimi sudditi del Romano Impero presero l’illustre nome di Patrizio, che per la conversione dell’Irlanda si è comunicato ad una intiera nazione.
  127. Ingrediens autem Ravennam deposuit Augustulum de regno, cujus infantiam misertus consessit ei sanguinem; et quia pulcher erat, tamen donavit ei reditum sex millia solidos, et misit eum intra Campaniam cum parentibus suis libere vivere. Anonym. Vales. p. 716. Giornandes dice (c. 46. p. 680) in Lucullano Campaniae castello exilii poena damnavit.
  128. Vedi l’eloquente declamazione di Seneca (Epist. 86). Il Filosofo avrebbe potuto dedurne, che ogni lusso è relativo; e che l’antico Scipione stesso, i costumi del quale si erano ingentiliti per mezzo dello studio e della conversazione, fu accusato di questo vizio da’ suoi rozzi contemporanei (Livio XXIX. 19).
  129. Silla, nel linguaggio militare, lodò la sua peritia castrametandi (Plin. Hist. natur. XVIII). Fedro, che si serve de’ suoi ombrosi viali (laeta viridia) per scena d’una insipida favola (II. 5), ne ha descritta la situazione in tale modo:

    Caesar Tiberius quam petens Neapolim,
    In Misenensem villam venisset suam,
    Quae monte summo posita Luculli manu,
    Prospectat Siculum, et prospicit Tuscum mare.

  130. Da sette miriadi e mezza (75,000) a dugento cinquanta miriadi (2,500,000) di dramme. Pure anche quando era in possesso di Mario, era un ritiro lussurioso. I Romani derisero la sua indolenza, ma presto piansero la sua attività. Vedi Plutarco in Mario. Tom. 2. p 524.
  131. Lucullo aveva altre ville d’uguale, quantunque diversa, magnificenza, a Baia, Napoli, Tusculo ec. Ei si vantava di mutare i climi come le cicogne, e le grù. Plut, in Lucullo Tom. 3. p. 193.
  132. Severino morì nel Norico l’anno 482. Sei anni dopo, il suo corpo, che spargeva miracoli, dove passava, fu dai suoi discepoli trasportato in Italia. La devozione d’una dama Napoletana invitò il Santo alla villa Lucullana in luogo di Augustolo, che probabilmente non v’era più. Vedi Baronio (Annal. Eccl. an. 496, n. 50, 51), e Tillemont (Mem. Eccl. Tom. XVI. p. 178, 181), che hanno tratto le loro notizie dalla vita originale scritta da Eugipio. Anche la narrazione dell’ultima emigrazione di Severino a Napoli, è uno scritto autentico.
  133. Posson vedersi i Fasti consolari presso il Pagi o il Muratori. I Consoli, nominati da Odoacre, o forse dal Senato Romano, sembra che fosser riconosciuti per tali anche nell’Impero Orientale.
  134. Sidonio Apollinare (lib. 1. epist. 9. pag. 22. Edit. Sirmond.) ha paragonato fra loro i due principali Senatori del suo tempo (an. 468), Gennadio Avieno, e Cecina Basilio. Al primo assegna le più speciose, ed al secondo le più sode virtù della vita pubblica e privata. Un Basilio, più giovane, forse suo figlio, fu Console nell’anno 480.
  135. Epifanio intercesse pel Popolo di Pavia; ed il Re prima accordò una remissione per cinque anni, ed in seguito lo sollevò dall’oppressione di Pelagio Prefetto del Pretorio (Ennodio in vit. S. Epiphan. in Sirmond. oper, Tom. 1. p. 1670, 1672).
  136. Vedi Baronio (Annal. Eccl. an. 483, n. 10, 15), Sedici anni dopo fu condannato da Simmaco Papa in un Concilio Romano l’irregolar procedere di Basilio.
  137. Le guerre d’Odoacre sono brevemente narrate da Paolo Diacono (De gest. Longobard. lib. 1. c. 19. p. 757. Edit. Grot.), e nelle due Croniche di Cassiodoro, e di Cuspiniano. La vita di S. Severino, fatta da Eugipio, che il Conte di Buat (Hist. des Peupl. Tom. 8. c. 1, 4, 8, 9) ha diligentemente studiata, illustra la rovina del Norico, e le antichità della Baviera.
  138. Tacit. Annal. III, 53. Le ricerche sull’amministrazione delle terre presso i Romani (p. 351, 361) fissano chiaramente il progresso dell’interna decadenza.
  139. È descritta eloquentemente in prosa ed in versi da un Poeta Francese (Les mois Tom. 2. p, 174-206. Edit. in 12) una carestia, che afflisse l’Italia nel tempo dell’irruzione d’Odoacre Re degli Eruli. Io non so donde abbia egli tratto le sue notizie; ma son certo, che racconta de’ fatti incompatibili con la verità dell’Istoria.
  140. Vedasi la lettera 39 di S. Ambrogio, qual è citata dal Muratori nelle Antichità Italiane Tom. I. Diss. XXI. p. 354.
  141. Aemilia, Tuscia, ceteraeque provinciae, in quibus hominum prope nullus existit. Gelas. Epist. ad Andromachum ap. Baron. Annal. Eccl. An. 496, n. 36.
  142. Verumque confitentibus lati fundia perdidere Italiam. Plin. Hist. natur. XVIII. 7.
  143. Tali sono le formule di consolazione, o piuttosto di pazienza, che Cicerone (ad Familiar. lib. IX. epist. 17) suggerisce a Papirio Peto suo amico sotto il militar dispotismo di Cesare. L’argomento però del vivere pulcherrimum duxi è con maggior forza diretto ad un Filosofo Romano, che godeva la libera alternativa della vita o della morte.