Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo III
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CAPO III.
Dell'antica forma d'istoria:
alterazioni di essa e favole poetiche
Al primo vedere il cielo dove un popolo respira si può giudicare se desso meriti una storia. Nè dubbiamente gli Etruschi, i Sanniti ed i Volsci, più che altri gloriosi, ebbero i loro istorici. Tali scritture nulla di meno perirono, nè alcun frammento originale è fino a noi pervenuto. Ma chi non sa che le lettere seguono la sorte degl’imperi? E qual meraviglia che spenta una volta con la dominazione italica anche la viva favella, per cedere il luogo a quella del Lazio, siensi perduti irreparabilmente con essa i monumenti scritti della nazione.
Gli annali ed i commentarj urbani, dettati dai pontefici, furono le prime e sole testimonianze della storia pubblica. Privi d’eloquenza, come gli annali massimi romani, erano sì fatti libri tanto più autentici, in quanto che per istituzione civile facean certa fede delle magistrature annuali, degli atti pubblici, e d’ogni altra memoria del comune. Al tempo di Varrone si leggevano tuttora annali o storie etrusche, scritte nell’ottavo secolo della nazione: epoca che può corrispondere circa la fine del quarto secolo di Roma. Nè solamente i popoli maggiori, come una sola Roma, avevano suoi fasti, ma i meno potenti, se non ancora ciascuna città in particolare, serbavano nei propri archivi documenti, memorie, e libri municipali. Non è questo il luogo di favellare dei libri sacri scritti in tela di lino, sorta di volumi antichissimi molti de’ quali vide Frontone custoditi in Anagni1. Né qui diremo, tampoco delle canzoni o poesie nazionali più divolgate, e singolarmente de’ bellici carmi2, che commendando l’opre dei valorosi dovean essere a un modo buoni documenti istorici. Tali erano altresì le iscrizioni tutte monumentali, che in bronzo e in pietra conservavano per ciascuna città la memoria dei trattati o di qualunque altro evento degno di storia. Così da tutti insieme questi originali documenti delle nostre italiche antichità sorgeva la pura fonte, donde i primi prosatori latini (che pur scrivevano quando la vecchia lingua era intelligibile e vivente) avrebbero dovuto attingere i più abbondanti, e più sicuri materiali di storia, se di quella avesser mai conosciuto l’importanza, l’uso e la dignità. Ma poiché fin d’allora la nascente letteratura romana, senza forze da reggersi di per se, andava dietro studiosamente alle sole norme ed agli esempi dei Greci, ci bisogna prima vedere in qual modo eglino ragionavano delle cose italiche, e mostrar di poi come le scritture greche potentemente influirono nello spirito e nelle scritture dei loro alunni del Lazio.
L’antico conversare dei Greci nella bassa Italia divulgò tra essi le prime notizie delle popolazioni, che avean ritrovate in possesso de’ luoghi stessi che vi occuparono. Soprattutto gli scrittori che fiorirono nella Sicilia, e in quella parte della penisola italica, che fu detta di poi Magna Grecia, sì presto coltivata e civile, ebbero più potenti motivi di investigare prima d’ogni altri le origini, i costumi, e le vicende dei popoli nel mezzo de’ quali vivevano. Un Teagene da Reggio, che scriveva nell’età di Cambise circa l’olimpiade LXIII3, è il più antico istoriografo di cui si trovi fatta menzione fra gl’Italioti, come si chiamavano con proprio e qualificato nome i Greci nativi d’Italia. Ippi di Reggio, che visse durante la guerra persiana, aveva dettato un intero libro delle origini italiche, o fondazioni di popoli e di città 4, argomento egualmente accetto alla penna de’ vicini Siciliani. Antioco di Senofane siracusano, pressoché contemporaneo d’Erodoto, e già fiorente nella olimpiade XC5, sembra che più diligentemente di qualunque altro studiasse nelle nostre antichità6. Sono spesso citati Timeo, il qual scriveva intorno all’anno 480, Callia l’istorico d’Agatocle, Filisto genero del primo Dionisio, Alcimo7, Atana, e non pochi altri Siciliani, i quali più o men diffusamente trattarono nelle loro storie di cose italiche. E Timeo specialmente, comechè tanto credulo ed inesatto favellatore, e sì alto riprovato dai suoi 8, ebbe non ostante in sorte d’essere più che ogni altri, e più di frequente seguitato dai susseguenti narratori. Talune città, come Cuma, ebbero storie sue proprie9. Ma se dai frammenti che ancor si conservano di quelle giudicar dobbiamo o della veracità, o della critica de’ loro autori, è pur forza dire, che lungi dal rischiarare le nostre origini con sinceri documenti, pregiudicarono anzi grandemente alla verità istorica con la pubblicazione d’ogni sorta di favole e novelle10. Il bisogno di piacere a un popolo già tanto esaltato dai racconti d’Esiodo e d’Omero, aveva impresso alla prosa narrativa una forma al tutto poetica, che ottenne plauso dal volgo e dispregio dai sapienti11. Nè lo stesso Ecateo da Mileto, predecessore di Erodoto, e uno de’ principali a dar fuori in istile sciolto la storia, potè tacere della vanità e stravaganza delle tradizioni già in quel tempo accreditate fra i suoi nazionali dalla sola vecchiezza12. I Greci antiquarj erano inoltre assai poco eruditi nelle cose proprie, non che nelle forestiere: per ciò Platone medesimo, sotto il nome de’ sacerdoti egizij ebbe a dire opportunamente quanto inconsiderata fosse in ciò la greca presunzione ed ignoranza13. A udire le lor costanti asserzioni, qualunque de’ greci o troiani eroi che abbia sopravvissuto alle sue gloriose fatiche, o sia scampato dal fuoco argivo, è stato strascinato dai fati a questa terra. Ercole, Giasone, Diomede, Ulisse, Antenore, Enea ed altri mille valorosi, navigarono in Italia, vi condussero colonie, o ebbero fine tra noi. Per modo che i Greci, attribuendosi con le forze della penna tutte le cose che fanno onore, si davano pure grandissimo vanto di aver nominate essi stessi, popolate, e incivilite le nostre contrade. Per opra loro l’antica storia italica perpetuamente collegata con genealogie e tradizioni poetiche, che dan per fatti e casi de’ popoli i fatali destini degli eroi, non fu che una mera finzione. E sì largamente le narrative tutte del ciclo mitico erano fregi di gloria e d’onore, che i dicitori greci d’ogni età, e soprattutto gli alessandrini, aggiungendo sempre alle favole antiche maraviglie nuove, accrebbero fuor di misura le strane leggende, che andava celebrando per entro Italia, come in Asia e in Affrica, altrettanti duci e popolatori ellenici di stirpe eroica, quanti almeno essi ne avevano immaginati per la loro terra « tragica e mostruosa ».
Secondo che portavano queste narrazioni favolose, di buon’ora registrate in quell’istorico romanzo che succedette all’epica poesia, la massima parte delle colonie e città d’Italia ebbero un fondatore di greca stirpe. Ma non ammettendo i Greci nessun’altra distinzione del mondo conosciuto fuorché in greco e in barbaro, non fa né pure meraviglia, se accomodato ciascun nome, giusta il costume loro, all’analogia ed al suono della propia favella, la geografia italica trovossi al par della istoria generalmente ripiena di finzioni e di voci grechesche: né soltanto città e intere provincie, ma i mari, i fiumi e gli uomini, apparvero nelle scritture sotto le denominazioni novelle postevi dagli Elleni. Nella serie medesima delle nazioni il nome originario dei Ra–seni, degli Aurunci e Osci, prese quello di Tirreni e d’Ausoni usato alla greca: onde ecco perché l’istoria nostra più antica, la qual non può cavarsi altrimenti che dagli scrittori greci, ci s’affaccia ancora tutta piena d’ellenismo; e se, ingannati per tante apparenze di vero, molti attribuirono alla sola Grecia la civiltà dell’Italia. Quella stessa eredità di genealogie eroiche, d’origini straniere, e di ogni maniera d’eventi favolosi che i poeti e mitologi avean lasciato agli storici compilatori, fu poscia raccolta e ampliata più copiosamente dai vani e menzogneri Greci che vissero nel secolo d’Alessandro, e sotto i Tolomei, quando alla loro nazione par che mancasse con la libertà anche l’amore del vero. Tutti gli scritti che ne rimangono di quell’età fan certa fede, che lo studio inutilmente copioso della grammatica era il tema più gradito delle lettere. Gli storici aspirando, nulla men che i poeti, a comparire più eruditi, che fedeli, posero grandissimo studio a favellare sopra le origini, ed a ridire l’un l’altro cose inaudite, maravigliose e pellegrine: in guisa che, se per mala sorte alcuna città non avesse avuto principio o nome greco, non sarebbe stata, al dir di loro, al mondo. Trenta e più scrittori di storie italiche tutti Greci14, e tutti egualmente oscuri per poco o niun criterio, attesero moltissimo a favoleggiare, come si vede per alquanti frammenti, o delle origini di Roma, il che vuol dire di quel che più importava alla storia, o delle fondazioni di più antiche città: nè fu meno favolatore Sostrato, che scrisse de’ fatti dei Tirreni, e Zenodoto da Trezene degli Umbri15. Con tutto questo i loro scritti erano citati, e seguitati frequentemente in età prive ancora di luce critica: onde per la mancanza di migliori o d’altri più divolgati documenti, quelle stesse fole sopravvissero alla perdita degli scrittori, e furono indi appresso rispettate per cieca venerazione al greco sapere.
Roma, più intenta a meritare che a scrivere istorie, non ebbe arti proprie, nè altra istruzione che di lettere e discipline etrusche ne’ primi secoli. Ma non sì tosto i vincitori dilatarono il dominio verso la bassa Italia, intorno al principio del quinto secolo, crebbe ne’ loro petti anche la brama di dirozzarsi per ogni sorte di studi liberali. Al loro ingresso trionfale in quelle provincie, molto tempo innanzi occupate e ingentilite da greche colonie, vi trovarono già confermata per tutto l’influenza dello spirito greco, principiando dalla Campania fino al mare siciliano. Quivi i conquistatori, che tenean sì la forza, ma non animo adorno, tirati da nuovi bisogni riceverono veramente dagl’Italioti il primo insegnamento dell’arti elleniche, perciocché Roma guerriera non aveva avuto insino allora commercio certo con la Grecia d’oltre mare, nè forse appena notizia del nome dei Greci16. Poste per conseguente in obblio le antiquate dottrine degli Etruschi, primi maestri, si formarono quindi innanzi i Romani una nuova letteratura calcata in tutto sopra quella dei Greci: nè tardò l’istoria a prendere anche essa l’ambiziosa ostentazione, e il mirabile favoloso delle scritture greche. Fabio Pittore, primo annalista di Roma, il quale dopo la battaglia di Canne era stato nunzio in Grecia, dove attinse quel suo genio di fingimenti che fu di sì malo esempio agli altri storiografi latini, aveva egli stesso seguito in moltissimi luoghi relativi alla nascita di Romolo, alle sue fortune, ed alla fondazione della città, i portentosi racconti già pubblicati la prima volta nell’Ellade da Diocle di Pepareto17. Così di fatto cominciò la storia romana, come quella de’ Greci, in romanzo. Nella sua ognor crescente grandezza dava il popolo romano facile orecchio a ignote favole, che promulgavano la sua origine divina, e ne promovevano insieme la gloria; quasi come d’una cittadinanza privilegiata dai cieli sopra tutti gli altri italici o vinti, o domati dal suo valore. Per esser letti e graditi ripetevano ciecamente i cronisti siffatte vanità: e trascurando, come di sopra dicemmo, le memorie patrie, che avrebbero potuto tuttavia assai utilmente consultare, tenner dietro più volentieri a narrazioni mirabili e nuove: sorte che provaron comune nonchè anche le moderne nazioni dell’Europa ne’ principj della rinata letteratura istorica. Tutti i frammenti che abbiamo de’ primi annalisti romani fanno indubitata fede, che viziata universalmente per istraniera sementa la domestica storia italica, attendeva ciascuno a mischiare con greche favole nomi e fatti romani: sì certamente che Dionisio poteva affermare, essere i loro scritti molto conformi a quelli de’ greci narratori 18. Che più? Le muse di Calabria19, maestre principali della letteratura latina, aggiunsero lor magistero alle prime composizioni storiche, ed insegnarono ad abbellirle e ornarle con le dovizie poetiche della Grecia. Di tal modo le cronache di Nevio e d’Ennio, ripiene di macchine mitologiche e d’ornative finzioni20, diedero certamente ai fatti italici e romani della prima età quella forma epica, che per continue imitazioni e ripetizioni de’ prosatori, si vede trasferita in tutta la storia de’ primi cinque secoli di Roma. Porcio Catone fu per avventura il primo che scrivesse con senno la storia nel suo celebrato libro delle Origini: perchè con istudio d’antichi monumenti diede opera a cercare donde avesse tratto il nascimento ciascuna città d’Italia21: ed alla sua diligenza son dovute in effetto buona parte delle notizie più rilevanti, che possono ancora riferirsi con faccia di vero intorno le più antiche vicende dei popoli italiani. Non ostante ciò il sagace Censore sprezzante le millanterie de’ Greci, non potè sottrarsi pienamente al genio de’ suoi tempi: onde narra Plutarco22, e lo confermano i latini scrittori23, come avesse egli stesso abbellito le Origini con opinioni, esempi e storie tolte dai libri greci. Il dottissimo de’ Romani, Varrone, non ebbe certo il buon senso di Catone. Poco abbiamo di suo circa l’antica storia italica; ma i suoi frammenti medesimi storici e filologici mostrano assai chiaramente, che il di lui vantato o smisurato sapere non era infatti se non se una volgare e languida imitazione delle lettere attiche. Per questi grandi esempi di chi signoreggiava la letteratura romana, s’afforzò più maggiormente lo studio vano che indi posero i grammatici, che trattavano l’arte etimologica, in rivestire d’ogni maniera le antichità italiche con apparato di voci, leggende e storie greche: sola erudizione per verità in cui consisteva tutta intera l’archeologia dei Quiriti. Uno de’ maggiori corruttori della storia italica fu quel Cornelio Alessandro, il Polistore, greco egli stesso, che al tempo di Silla pubblicava racconti affatto insoliti, incredibili e favolosi24. Nè meno curante di inette etimologie e di sognate origini si mostrò Giulio Igino, liberto d’Augusto, che scrisse largamente sopra la fondazione delle città italiche, appoggiandosi a documenti greci di nessuna fedeltà25. Pure ambedue erano tenuti quasi come maestri di storia: ed assai volte gli scritti loro si trovano citati per buone autorità non solo dai grammatici, ma da Plinio stesso, che ne fece uso senza sospetto nella sua descrizione dell’Italia: anzi dicesi che Livio abbia tolto dal Polistore l’elenco pur troppo falso e imaginario, ch’esso ha dato dei re Albani26. Quindi è vano il cercare scienza critica negli antiquarj del Lazio, non meno creduli, che seguaci il più delle volte servili, alle narrative de’ Greci: di che, senz’addurne altre prove, abbiamo in veridico testimonio Strabone27. Di tutte l’arti e le scienze quella che gli antichi conobbero il meno, e che tardò più d’ogni altra a perfezionarsi, può dirsi l’arte di distinguere il verisimile dall’inverisimile, il credibile dall’incredibile. In qualunque modo si divolgasse dapprima la tradizione di una colonia troiana nel Lazio, che difficilmente vorremmo ammettere come una tradizione del paese, certo è che su tal fondamento l’adulazione istorica, tosto che la letteratura greca fu accolta, condusse apertamente i Romani a falsificare la propia lor genealogia per modo, che nessuno ignora con qual predilezione dessi stessi ostentavano la provenienza da Ilio, e da’ suoi eroi il cui nome formava il più bel decoro dei Fasti. Nulla di certo si può riferire circa il tempo nel quale i Latini vennero chiamati dai Greci gente troiana, tessendo a lor senno ora l’una, ora l’altra favola28. Né qui addurremo neppure ipotesi onde indagarlo. Al nostro intento di mostrar che questa voce prendesse radice in Roma subito dopo il suo commercio con la Grecia, basta l’aver per fatto istorico che le iscrizioni poste da Tito Quinzio Flaminio in Delfo dopo la prima guerra macedonica (an. 557), nominavano già i Romani stirpe di Enea29. E questo grido borioso par che massimamente gradisse all’alterigia soldatesca, poiché lo troviamo ripetuto in altro monumento trionfale contemporaneo30. Onde ne conseguita, che in quel secolo stesso potevan bene gl’Iliesi da se vantarsi scopertamente della loro affinità primitiva col popolo romano, ed egli stesso, sì superbo, non isdegnare l’adozione di quella nobil metropoli31. Cotesta pretesa parentela, dalla Pizia gentilmente approvata32, e confermata dai libri sibillini33, levava non ha dubbio gran romore anche nel Lazio, massime per la tromba popolare di Ennio34. Perocché non poco concorrevano a spargere e ad accreditare quelle favole i grandi ingegni de’ poeti, che sempre valgono assai ad accendere la fantasia d’un popolo35. S’insinuavano così in tutte le menti romane finzioni vestite di maestà: e quando alfine la casa Giulia fu assunta in trono, divenne altresì massima di stato il venerare una opinione adulatrice, che, in confermando gli avventurosi presagi delle speranze di Roma antica, si conciliava mirabilmente con la religione, e insieme con la politica del principato, a causa di quel magnifico oracolo di Giove promettente alla prole di Venere un imperio eterno36. Similmente la non mai sazia ambizione dei grandi si vantava a un modo o di genealogie troiane, a illustrar le quali scrissero più volumi Varrone ed Igino37, o d’origini achee: in guisa che la famiglia dei Mamilii, per tacer d’altre molte, oriunda di Tuscolo, qualificava senza più il suo stipite come diramato da Ulisse38. E già nel sesto e settimo secolo non era più lecito dubitare della veracità di queste voci gloriose, su di cui appoggiavasi l’ideal sistema, che con uno stesso ordito collegava insieme le antichità della Grecia con quelle del Lazio. Gli scrittori del buon secolo furono costretti di rispettare e ripetere divolgate finzioni, che la fortuna medesima di Roma facea venerande a tal che una decente mescolanza di prodigio e di favola credevasi sempre opportuna, dice Livio con dolci parole, a riflettere un bel splendore in sull’origine della città39. Sì tenacemente il cittadinesco orgoglio, generatore d’altere pretensioni, ne assume all’uopo anche la difesa. Chè pur troppo hanno le repubbliche, per soverchio entusiasmo, condiscendenti istoriografi come i regnanti. L’esempio dei Romani fu di leggieri imitato dai loro socj italici, allora che trascurate, e quasi perdute con la libertà ne’ discendenti le memorie degli avi, tutto incominciarono a ripetere o dai Troiani o dai Greci, per consolatoria visione di passate glorie. Questa folle vanità di cui furon presi di rinunziare senza rispetto ai loro padri indigeni, per ricercarli lontanamente fra gli estranei, fece sì, che già prima d’Augusto, come cantano i poeti, ogni popolo, ogni municipio, ogni terra, con licenza pari d’antichità, volle per se il titolo di qualche genealogia eroica: quasi come se priva di cotesto domestico vanto ciascuna città nostra dovesse parer sempre barbarica. Chè di già i Romani fin dall’età di Catone, aveano appreso dai Greci, ed insegnato ai nostrali d’Italia, a chiamar barbari coloro per cui erano essi stessi originati, e venuti in vigore40. Non per questo però mancavano neppure in Roma scrittori, che riprovassero altamente sì fatta corruzione delle storie. Sempronio Asellione, che intendeva bene qual differenza passa tra il cronista e l’istorico, non acconsentiva per fermo a tanta depravazione.41. E Plinio in tra gli altri grida con giusto disdegno farsi vergogna dover ricorrere alle tastimonianze de’ Greci nelle cose italiche42 . Ma che? Tutti dicevano bugiarda la Grecia43, e tutti a un modo ne pregiavano le menzogne. Sì tanto, senz’altro studio di cautela, mai non cessavano poeti, eruditi ed istorici, di ricantare le stesse fole, né di tendere per qualunque forma a rinvenire nelle tradizioni elleniche il fondamento delle storie patrie. Vuol la debolezza dell’umana mente che la facoltà del giudizio tardi arrivi alla maturità, così negl’individui, come nelle nazioni: ad ambidue ragione e filosofia son l’ultime a mostrarsi. I fatti straordinari, le origini gloriose, la discendenza degli eroi piacquero sempre: e chi può dire quando dispiaceranno al mondo?
Ma la moderna critica istorica, comechè spesso ristretta nella sapienza del dubbio, ha pur finalmente tolto via quel timido rispetto, che prevaleva ne’ tempi addietro per opinioni scritte e ricopiate da tanti secoli. Nè di poco momento a questi studi si è il vantaggio inestimabile, che tien la nostra generazione, di poter discutere francamente molti punti di storia e di credenza, che la pubblica religione dei Greci e Romani imponeva a ciascuno di cautamente rispettare. Per esser venuti più tardi compete a noi giustamente d’esaminare ogni fatto, anziché di credere: ed a buon dritto possiamo dire, che la venuta d’Ercole e d’Enea in Italia sono favole, senza aver timore dell’Areopago, né del Collegio dei pontefici.
Di tal modo, senza discostarci dalle sole valide autorità degli scrittori gravi ed approvati, seguiteremo con sicurtà a posar le storie italiche in sulla ragion critica de’ fatti, piuttosto che sopra qualunque delle meno sicure o fallaci tradizioni ripetute in sull’altrui credulità, ma sanamente riprovate dalle filosofie. Le quali soprattutto c’insegnano veder più addentro nell’istoria umana: nè di limitare con tanta bonarietà alla sola Grecia le indagini, che posson dare a conoscere le origini dell’italica civiltà. Perocchè queste meno incertamente sono da rintracciarsi negli ammaestramenti, che alla nostra gente paesana vennero di più lontano, prima ancora che le razze greche ponessero il piede nella incognita Esperia. Ammaestramenti misteriosi di cui, per buona ventura, ritrovansi non poche sicurissime orme sì ne’ costumi religiosi, come ne’ più antichi monumenti de’ popoli stessi, e massimamente in quelli che ritengono maggior numero di simboli orientali, e le usate fogge dell’Egitto44. In questa forza d’autorità che fanno i monumenti figurati, vero e autentico archivio di memorie nazionali, debbono le nostre istorie trovar confidentemente quei sussidj, che invano si desiderano nelle scritture di Greci o Romani, e che talvolta c’illudono o c’ingannano; dove nelle cose stesse raro è menzogna. Nè può mancare tampoco la speranza, che aumentate in più gran copia le prove, mediante la giornaliera scoperta d’altri documenti di simil natura, non sieno per dimostrarsi ogni dì più chiaramente le correlazioni morali, che per grandi analogie d’istituzione avvicinavano, e in certo modo univano i vecchi popoli d’Italia coi più sapienti e civili del mondo antico.
Note
- ↑ Op. p.100
- ↑ Dionisio fa particolare menzione de’ canti marziali dei Volsci. VIII 86. Così Virgilio de’ prischi Latini (VII. 698) e Silio de’ Sabini. VIII. 422. seqq.
- ↑ An. di R. 226; Tatian. Adv. Græc. 48.; Euseb. Præp. evang. X.; Anonim. Ad Olymp. LXIII
- ↑ Κτισεις Ἱταλιας Suid. v. Ἵπυς; Eudociae, Ἰωνὶα T. 1. p. 245. Lico da Reggio, vissuto sotto Tolomeo Lago, Glauco da Reggio, Aristonico Tarentino, e parecchi altri storiografi, uscirono medesimamente dalla Magna Grecia.
- ↑ An. 334.
- ↑ Ἀντὶοχος Ξενοφάνεως τὰδε συνέγραφε περὶ Ἰταλὶας, ἐκ τὼν ἁρχαὶων λὸγων τὰ πιστὸτατα καὶ σαφέστατα Dionys. I. 12.
- ↑ Ἰταλικὸν portava per titolo il suo libro. Athen. X. II.
- ↑ Derisoriamente detto γραοσυλλέκτρια. Un libro intero degli errori di Timeo scrisse Istro discepolo di Callimaco. Athen. VI. 20. Polibio lo vitupera anch’esso fortemente, e il taccia più volte con giustissima ragione d’eccessiva ignoranza de’ luoghi e delle cose italiche. Hist. passim, et in Excerpt. Vat. T. II. p. 380 seqq. ed. Majo
- ↑ Fest. v. Romam.
- ↑ Fest. l.c.; Dionys. I. 82. et al.
- ↑ Dionigi di Alicarnasso De Thucyd. 5. ; Strabo. xi. pag. 350. Son noti i lamenti di Tucidide stesso nel suo proemio.
- ↑ Οἱ γὰρ Ἑλλήνων λόγοι πολλοί τε καὶ γελοῖοι, ὡσ ἐμοὶ φαίνονται etc. Hecat. fragm. ap. Demetr. de Elocut. c.12
- ↑ In Tim. T. III p. 22
- ↑ V. Fabric. Bibl. Græc.
- ↑ Pseud. Plutarch. Parallel. 56.; Solin. 8.
- ↑ Il nome di Roma era noto appena in Grecia innanzi d’Alessandro (Ios. Flav. adv. Apion. I. 4). Teopompo, contemporaneo di Filippo, era stato il primo che ne avesse fatto menzione, narrando l’impresa de’ Galli (Plin. III. 5). Ebbe Aristotile notizie di Roma; ma Teofrasto, che scriveva verso l’anno 440, dice Plinio (l.c.): primus externorum aliqua de Romanis diligentius scripsit. Se poi non esagerava Livio, i Romani stessi avevano per incognite le terre della Grecia al tempo di Tarquinio superbo: ignotus ea tempestate terras, et ignotiora maria. I. 56.
- ↑ Plutarch. Romul. Certamente questo Diocle era uno scrittore di bassa levatura; ma il debole criterio del senatore romano si manifesta ne’ frammenti che di lui abbiamo, ed è spesse volte notato da Polibio e da Dionisio.
- ↑ Εἰσὶ δὲ ταῖς Ἑλληνικαῖς χρονογραφίαις ἑοικυῖαι i. 7. Vedi i frammenti degli antichi storici latini raccolti dal Corzio
- ↑ Calabræ pierides. Horat. iv. Od. 8. 2.
- ↑ Nevio dava principio alla storia della prima guerra punica colla fuga d’Enea sopra una nave costruitagli da Mercurio: diceva nominata Procida in memoria d’una parente d’Enea (Serv. ix. 715): e di tal modo, come dimostrano altri frammenti del poema, tutto era pieno di miti e di personaggi favolosi. Ennio non abbondava nulla meno negli annali di consimili episodi, che indi passarono da’ suoi esametri nelle prose di Lutazio, d’Acilio, di Pisone e degli altri cronisti del vi e del vii secolo.
- ↑ Unde quæque civitas orta sit Italica. Corn. Nepot. Cato. 3.
- ↑ Cato maj
- ↑ Catonem nostras quoque historias, et romana nomina, Græcorum fabulis aggregare. Tacit. de causa corr. n. 3. Che l’autore delle Origini, C. Sempronio, ed altri molti annalisti avessero seguito a un modo le narrative dei Greci, lo dice pure a chiare note Dionisio: ἑλληνικῶν τε μύθω χρησάμενοι. I. ii.
- ↑ Plutarch. Parallell. 81.; Serv. x. 389., viii. 330
- ↑ Serv. iii. 553., vii. 670., viii. 638.; Macrob. Sat. i. 7., v. 18.
- ↑ Serv. viii. 330
- ↑ Οἱ δὲ τῶν Ῥωμαίων συγγαφεῖς μιμοῦνται μὲν τὸυς Ἕλληνας ἀλλ’ οὺκ ἐπιπολύ. καὶ γὰρ ἃ λέγουσι, παρὰ τῶν Ἑλλήνων μεταφέρουσιν. ἐς ἑαυτῶν δ’ οὐ πολὺ μὲν προσφέρονται τὸ Φιλόδημον. ὥσθ’ ὁπόταν ἔλλειψις γὲνηταί παρ’ ἐκείνων, ὀυκ ἔςι πολὺ τὸ ἀναπληρούμενον ὑπὸ τῶν ἐτέρων. Ἄλλως τὲ καὶ τῶν ὀνομὰτων ὅσα ἐνδοξὸτατα τῶν πλείστων ὄντων Ἑλληνικῶν iii. p. 114.
- ↑ Dionys. i. 72.
- ↑ Plutarch. Flamin.
- ↑ Nella colonna di Duilio gli Egestani della Sicilia, tenuti di sangue troiano, vi sono chiamati Cocnati popli romani
- ↑ Vedi la lettera citata di Seleuco ap. Svetonio. Claud. 25
- ↑ Plutarch. de Pithiæ orac. T. ii. p. 399.
- ↑ Dionys. i. 49
- ↑ Erano gli annali un’opera altamente nazionale e popolare: da ciò il detto volgare di popolus Ennianus. Senec. ap. Gell. ii. 12
- ↑ È pur cosa curiosa l’udire anche oggidì in bocca dei romaneschi: semo romani! sangue troiano! Pater Æneas romanæ stirpis origo
- ↑ Imperium sine fine dedi. Virgil. Æn. i. 261 sqq.
- ↑ Serv. v. 389. 704. Troiugenas chiama Giovenale (i. 100) coteste nobili famiglie che vantavano sangue troiano. Al tempo di Dionisio se ne contavano ancora cinquanta. i. 85.
- ↑ Così la Fabia da un figlio d’Ercole; la Lamia da Lamo re dei Lestrigoni ec. Ben Vespasiano si rideva del suo genealogista, che lo celebrava per originato d’un socio d’Ercole. Sveton. Vesp. 12.
- ↑ Datur hæc venia antiquitati ut miscendo humana divinis, primordia urbium augustioria faciat. In Proem.
- ↑ Cato ap. Plin. XXXIX. I.; Tib. Gracchus ap Cicer. De Nat. deor. II. 4.; Plaut. in Captiv. 4. V. 101-104.
- ↑ Id fabulas pueris est narrare, non historias scribere. In Rerum gestarum ap. Gell. V. 18.
- ↑ Pudet a Græcis Italiæ rationem mutuari. iii. 5.; Mirum est quo procedat Græcas credulitas! Nullum tam impudens mendacium est, ut teste careat. viii. 22.
- ↑ Et quidquid Græcia mendax audet in historia. Juven. x. 174.; Græcis, historiis plerumque poeticæ similis est licentia. Quintil. ii. 4.
- ↑ Vedi i monumenti tav. xiv e sqq. (La spiegazione delle tavole si darà nel terzo volume. L’Edit.)