Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo VIII
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CAPO VIII.
Ausoni, Opici, Osci: scorrerie degl'Illirj.
Niun fatto manifesta più certamente la grande antichità e insieme la copiosa propagazione d’una primitiva razza italica, quanto l’esistenza di taluni popoli di questa terra o mal conosciuti nelle storie, o cancellati affatto dal numero delle nazioni. Tal è senza dubbio quella generazione d’uomini paesani robustissimi, che prima dell’epoca da cui han principio le memorie istoriche italiane tenne già in suo dominio quasi la metà della penisola, e dal cui tronco derivarono parecchie altre popolazioni forti e nominate. Gli scrittori greci e romani fecero poca attenzione a questa gente, la quale apparteneva ad un ordine di cose e di tempi assai più remoti di quel che somma l’usata cronologia, e ch’essi stessi non conobbero se non per tradizione in istato di decadenza, o piuttosto di annichilamento. Non ostante ciò, se ben ragguardiamo addentro, ancor poche ricordanze delle sue fortune sono sufficienti a darne contezza delle più principali vicende di quel gran popolo, che sotto il differenziato nome di Ausoni, Aurunci, Opici ed Osci, comprende insieme una sola identica stirpe, tanto abbondante di numero, quanto travagliata per frequenti mutazioni di sorte. La nominazione generica di Ausoni, tutta greca, fu posta per avventura da navigatori dell’Ellade, che pigliaron terra alle parti più meridionali della penisola, per loro chiamata Ausonia1: tanto che il mare stesso siciliano s’appellava primieramente Ausonio dal nome del popolo, che abitava dintorno i lidi dell’estrema Italia2. Quindi cotesta denominazione di Ausoni, bene applicata ad un’alta antichità, s’appartiene più propriamente al tempo mitico, che all’istorico: ed infatti la ritroviamo convenevolmente adoperata sia nelle storie principali dell’età favolosa, come quelle dei Licaondi3, degli Argonauti4 e de’ casi troiani5, sia nel presupposto linguaggio dei vetusti oracoli6. Di tal modo il nome degli antichi Ausoni passò dai racconti poetici de’ mitologi nel dominio dell’istoria: e già vivente Ecateo7 veniva usato grecamente nell’orazione sciolta per denotare ora l’una, ora l’altra popolazione della bassa Italia. Ma il nome originario della razza occupante le stesse regioni meridionali si era nell’universale quello di Opici, o altrimenti di Osci8, che si rinviene da per tutto come legame di consanguinità di grandissima parte de’ primi popoli italiani. Quantunque buon numero di loro fosse pure contrassegnato col nome più speciale di Aurunci9, il qual fu l’ultimo a perdersi, e serba ancora l’antica sua forma italica. Perciò come prima i Greci ebbero per la frequentazione meglio avverate notizie de’ luoghi e delle genti, intorno alle quali presero dimora, essi adoperarono più comunemente e con buona ragione il proprio italico appellativo di Opici, che distingueva, e vie maggiormente differenziava dagli Elleni, lo stipite principale degli abitatori paesani. Ed Antioco siracusano, diligente indagatore, fu anche il primo a dimostrare per via d’istoria, che gli Opici, soprannominati Ausoni, non erano di fatto che un solo ed unico popolo10. Conferma lo stesso positivamente Aristotile11; e ben Tucidide, in suo grave dettato istorico, chiamava Opici coloro, che dall’interno paese cacciarono i Siculi nell’isola12. Quegli dunque, e non altri, era il popolo che fin dall’età prisca abitò l’Italia inferiore, e si ritrovava quivi per entro propagato e accomodato nelle sue sedi paterne.
Or di questa grande ed unica famiglia degli Ausoni, Opici, e Aurunci, diramatasi buon’ora in tante segregate tribù pastorali, si conoscono indubitatamente sue dimore ne’ luoghi natali dalle due Calabrie insino al Tevere. Non altro che Ausoni, secondo le più antiche storie dei Greci, trovarono essi stanziati così in quella punta di terra che sporge nel mar di sopra, e prese il nome d’Iapigia13, come nell’opposta regione figurata qual penisola, inverso lo stretto siciliano, che fu dipoi l’Enotria e l’Italia primitiva14. Quivi non che il capo Zefirio, in cui stanziarono i Locresi15, antichissima colonia, ma il paese intorno a Reggio, dove si pose al tempo della prima guerra messeniaca16 la colonia calcidica, era di fatto terra degli Ausoni17: ed alquanto più sopra stava in mano loro il lido dove fu edificata Temesa18; se pure dessa è la medesima città, che provvedeva di rame i Greci nell’età di Omero19. Di là dal Silaro tutto il paese sopra il mare fino alla Tirrenia veniva a un modo chiamato dai Greci Ausonia ed Opicia, dal nome de’ suoi abitatori20: per il che molto giustamente nella contrada degli Opici stessi ponevano gli storici i principj di Cuma eolica21, la più vecchia colonia, dice Strabone, di quante i Greci ne conducessero di fuori in Italia ed in Sicilia22. Che la Campania fosse stata innanzi a qualunque altro popolo abitata dagli Opici, lo riconobbe certamente Antioco23: nel distretto ivi contiguo, là presso al Liri, si conservò più stabilmente il nome originario e il seme dei vecchi Aurunci: e proseguendo più avanti per i Volsci troviamo non poche altre memorie di questa gente osca insino ai Rutuli e al Lazio, che Aristotile, ricopiando come pare Antioco, teneva per una contrada dell’Opicia24. La geografia dei Greci antichi, che pure è la sola che possa seguitarsi in queste ricerche, conosceva troppo male l’interno paese per aver da esso loro notizie chiare e distinte de’ luoghi e dei popoli che vivevano su per le montagne, e in sul suo terreno, discosti dal lido; ma non però di meno i Greci stessi non ignoravano che il tronco intero numerosissimo degli Ausoni ed Opici, ben qualificato per indigeno25, si dilatava molto addentro in terra ferma tra l’uno e l’altro mare. Gli scrittori romani ugualmente conobbero questa grande estensione degli Ausoni dall’alto Appennino infino al mare siciliano26. E tutto in somma quel che si narrava di loro ne dimostra con certezza, che questa razza antichissima e nostrale fu anche il ceppo, di che nacquero i popoli più veramente istorici, che ora vedremo in tumulto, e in movimenti vari di fortune.
Per ristringere le notizie meno incerte intorno a questi remoti secoli, e dare alla narrazione quella maggiore unità che comporta il nostro divisato argomento, denoteremo quindi innanzi, senz’altra distinzione di titolo, li più antichi abitatori della meridionale Italia col solo generico nome di Osci, già usato volgarmente anche dagli scrittori latini. In questo lato dove il grande Appennino, spartito in alte giogaie e valli infinite, si distende per lunghissimo tratto fino al capo di Spartivento, giace la parte più montuosa, aspra, e selvaggia della penisola, la qual per natura fu anche l’originaria e primitiva abitazione degli Osci. Perocchè, se consideriamo le qualità fisiche de’ luoghi inferiori, e de’ piani che guardano sopra l’uno e l’altro mare, si fa manifesto che quelle piagge una volta sotto le acque salse, e quindi o paludose, o insalubri, o pestilenti, furono le ultime accessibili ai popolatori paesani. Certamente la spaziosa pianura della Puglia, vestita d’un profondo strato di terra densa nera e ferace, era stata da prima golfo di mare, o più tosto una vasta laguna fin sotto al Volture, vulcano antichissimo, e come mostrano le sue rovine uno de’ più terribili27. Nè diversamente le altre marine lungo l’Adriatico portano di luogo in luogo fino alle lagune della Venezia, segni evidentissimi del successivo e continovato traportamento della riva28. In sull’opposta spiaggia occidentale tutte le nostre maremme hanno del pari vestigi apparenti della presenza delle acque: e le osservazioni singolari fatte poco anzi alle paludi Pontine, e al piè dei monti di Sezze e di Piperno, distanti sedici mila metri dal lido, provano con certezza indubitabile, che il mare ha quivi bagnato le radici di quella costa d’Appennino29. La pianura stessa, chiamata oggi Campagna di Roma, era verisimilmente in origine un golfo di mare ripieno poscia di getti vulcanici, del sedimento dei fiumi30. Ma tuttochè giustamente questo stato fisico del paese si voglia riferire ad un’epoca lontanissima, la qual si perde nell’oscurità di secoli totalmente distaccati dalla storia, pure anche dove giunge l’ordine, e la sequenza continuata dei tempi, ritroviamo che le marine erano sempre prossime a natura di palude, e di suolo acquidoso. Così, per tacer d’altri luoghi, lo spazioso piano tra il Crati e il Sibari, dove gli Achei edificarono Sibari circa l’anno 720 prima dell’era volgare31, trovavasi in allora talmente paludoso, a causa delle acque che ivi cadono abbondanti giù dai monti lucani, che per seccarlo intorno abbisognarono quei molti fossi e canali discorrenti al mare, e che gl’industriosi Greci seppero di più far valere non meno alla fertilità dei campi, che ai comodi loro cittadineschi32. Pisso o Bussento colonia di Reggio, fondata nell’altro lido da Micito circa il 280 di Roma sul fiume di quel nome presso la moderna Policastro, non trovò miglior territorio, poichè la maggior parte dei suoi coloni non vollero fermarvisi33. Nè sito più salutifero avean tolto per se forse a sessant’anni prima i Focesi dell’Ionia, là dove fabbricarono Elea sul fiume Alento34. I montanari all’opposto, essenzialmente pastori, non si curavano di occupare terreni d’aria malvagia, nè paludi, nè memme, dove la vegetazione non potea tampoco fornire nè buoni, nè sufficienti pascoli: e per certo gli abiti della vita loro consueta li teneano discosti dal mare, o non usati a quello. Erano dunque i littorali generalmente disabitati, incolti, e mal guardati dai paesani. E questa, al giudizio nostro, è anche la cagione principalissima per cui gli stranieri, che vennero i primi nelle riviere dell’Italia, vi si poterono assai facilmente collocare con poca o niuna opposizione degl’indigeni, ritiratisi più indentro alle loro solite montuose, e più sicure dimore. Nè quivi essi mancavano di mezzi a sostentare la vita loro, ed a crescere insieme numerosi e gagliardi. Sono gli Appennini concatenati l’uno coll'altro per 640 miglia italiane dal Col di Tenda fino al Capo dell’armi. Dividono, come sa ognuno, per lungo Italia; e giusto nel centro di essa s’aggruppano e s’innalzano le più alte vette appennine, quasi riunite nella regione nominata degli Abruzzi, allato della Sabina, dell’Umbria e del Piceno. Da queste altissime cime, tra le quali il gran Sasso leva su la sua cresta nevosa sopra tutti gli altri, si diramano gli Appennini in altri monti inferiori, colli, vallate e pianure per indi risalire irregolarmente ora a gradi, ora a salti: e là di per tutto, fra l’asprezza de’ luoghi, mirabil cosa è a vedere, come la natura si mostri ancora nella sua primitiva forza di vegetazione, e in giovanil vigore. Per queste coste e pendici alpine, continovate insino a Reggio di Calabria, abbondano numerosissime praterie in mezzo a boschi folti di alberi d’alto fusto, dove non solo germogliano in copia l’erbe più acconce al nutrimento del bestiame, ma rigogliose v’appaiono sì le piante silvestri, come le dimestiche: e questi luoghi stessi, nella prima età, han dovuto essere anche maggiormente fecondi delle terre leggiere, che le alluvioni continuamente trasportano alle pianure più depresse. Trovavansi così quelle montagne bastevoli a nutrire popolazioni copiose: e atteso massimamente la vita pastorale, pochissimi erano i bisogni degli abitatori, non che agevoli a soddisfare per la natura del paese. Qui ne’ montanari, e nei pastori degli Abruzzi e delle Calabrie, tu vedi tutt’ora uomini grandi, forzuti, e maravigliosamente gagliardi; nell’aspetto fieri; adatti a sostener le dure fatiche; buoni a portar grandi pesi; e prolifici molto: la cui ben disposta macchina fisica è in certo modo dimostranza della forza interna. Nè con altre forme poderose, o con disposizioni diverse, ci vengono rappresentati dagli antichi i rozzi e indomiti pastori Osci nativi delle stesse montagne. E forse per là entro, ne’ luoghi più riposti, non è al tutto spenta nè pure oggigiorno la semenza di quella schietta indigena razza italiana.
In questo stato di semplice, agreste, e consueta vita pastorale, vivevano universalmente le tribù degli Osci, allora quando apparvero la prima volta gli stranieri ai nostri lidi meridionali. Nessuna certa, nè più antica invasione forestiera, innanzi alla gallica, venne oltre dal settentrione, chiuso dalla vasta zona delle Alpi, sì fattamente ingombre di serraglio nella prima salvatichezza, che senz’altre difese rendean da per se l’accesso dell'Italia superiore quasi impossibile. E ben confermano le memorie istoriche, che la violenta forza e l’urto che posero in tumulto e in movimento generale i popoli dell’interno, si mosse da queste parti di mezzogiorno. Antichissimi in tra gli estranei compariscono gl’Illirici alla costa orientale, e nominatamente i Liburni, se pure dessi non furono anche i primi a mettere là dentro il piede. In qualunque modo la numerosa popolazione illirica, ramo dell’immensa e feconda razza cimmeria, dalle regioni del Caucaso, girando intorno al Ponto Eusino, fosse venuta nella Tracia, e di qua nelle contrade poste tra la Pannonia e il mare Adriatico, il che non attendo a investigare, certissimo è che al principio delle notizie istoriche di questi luoghi tutto quanto il paese sopra il mare, dove il sol nasce, principiando dal fiumicello Arsia, confine dell’Istria, fino alla foce del Drilo, e di colà fino alla Caonia, se non più addentro nell’Epiro, trovavasi a un pari occupato da nazioni illiriche ferocissime35: la cui inondazione, puossi probabilmente credere, che non poco premesse anche i popoli Epiroti, o altrimenti Pelasghi, che abitavano là intorno, già fuggiaschi di Tessaglia dopo il diluvio di Deucalione. E forse questi tremendi avvenimenti, che a gran pena si scorgono al barlume delle prime tradizioni, diedero impulso o cagione al passaggio di quelle bande di venturieri Pelasghi, che secondo il racconto di Ellanico, traversando il mare furon portate in balìa del vento a Spina, tra le bocche impaludate del Po, d’onde appresso, varcati i monti, penetrarono nell’interno, e vi si travagliarono grandemente contrastando ora agli uni, ora agli altri popoli paesani36. Il che per avventura successe intorno la medesima epoca, in cui i Liburni, ed altri Illirici, andavano infestando con rubamenti e correrie la spiaggia del Piceno e le prossime maremme. Dimoranti insieme in sulla costa posta dirimpetto all’Italia, dove tuttora stanziavano fermi al tempo di Filippo il Macedone, epoca in cui probabilissimamente scriveva Scilace37, s’erano essi talmente abituati al mare, che in ogni età successiva attesero per proprio e nazional mestiere all’arte dei corsali38. I Liburni stessi abitavano le isole vicine, e principalmente Scheria o Corcira, innanzi che vi fossero espulsi e mandati fuori dai Greci39. Onde si può ben comprendere per tutto questo, quanto facilmente audaci naviganti, traversando il golfo, potessero con mala cupidigia trasportarsi sopra legni sottili da un lido all’altro.
Che i Liburni ed altre generazioni illiriche mandassero antichissimamente sciami di loro gente in Italia è cosa manifesta, non tanto per le sue stazioni nel Piceno, di che s’era serbata la memoria sino al tempo di Plinio40, quanto ancora per altre tracce del lor soggiorno nelle marine dell’Adriatico oltre Puglia. Or, come questi crudeli e micidiali pirati e predatori apparvero in numero a quelle piagge, o scarsamente abitate, o indifese, corsero addosso alle popolazioni osche che stavano intorno nelle più prossime valli e ne’ monti, d’onde investite, predate, e scacciate dagli assalitori, si rifuggirono per la lor salute ne’ sommi gioghi degli Appennini. Fra coloro che si scontrarono i primi con quei feroci furono, come sembra certo, le tribù che indi presero il nome di Umbri, nati e cresciuti per quelle pendici41: e, secondo che porta il costume pastorale, venuti fuori tutti insieme del loro nido, si spinsero gagliardamente su nelle sommità del territorio di Rieti incontro le genti di minor forza, colà dimoranti, che dagli scrittori son genericamente dette Aborigeni, poichè il loro nome propio e natale s’era perduto. Fu probabilmente l’empito grande delle spesse e rovinose invasioni de’ Liburni, che pose di tal guisa in movimento tutti i popoli Oschi, i quali abitavano alla sinistra costa dell’Appennino: e da queste altezze fra Amiterno e Rieti, di qual luogo Varrone fa muovere gli Aborigeni42, furon costoro risospinti e cacciati oltre l’Arno e il Tevere, dove abbattutisi ne’ Siculi-Aurunci, seguitaron dopo quelle fiere guerre, che cagionarono all’ultimo la rovina e la fuga di quelli43. Non è dubbiosa, al parer nostro, l’originale attenenza degli Aborigeni, che indi tolsero il nome di Casci o prischi Latini, col gran ramo degli Osci, usciti delle montagne degli Abruzzi qual riboccante torrente. E qualora consideriamo, che questa regione porge fisicamente il doppio fenomeno della massima elevazione appennina, e di centralità dell’Italia, puossi anche da questo intendere più facilmente, come molte popolazioni e tribù d’una medesima razza abbiano potuto disgiungersi l’una dall’altra, e seguire vie differenti, passando per lo tramezzo delle valli. Così lo stipite dei Sabini, secondo la narrativa di Catone44, provenne da una mano di coloro, che tenevano in vicinanza di Amiterno rustico domicilio: gli stessi che Zenodoto da Trezene chiamava Umbri45: nè altri erano per sorte, che un drappello di quella moltitudine di pastori Osci, che in frangenti sì rischiosi penetrò più addentro in questi luoghi alpestri, dove per affinità di sangue mischiatisi con i montanari, vi diedero origine per concordia e unione alla progenie sabina. Non diversamente altre tribù, che ritennero il nome speciale di Umbri e dimoravano là presso dell’alta Sabina, s’allogarono in altre terre; ma con maggior numero discesi dalla costa occidentale degli Appennini, dove il loro abbassamento è più breve, e più declive che non verso il mare di sopra, se ne vennero giù in più fertile territorio, e vi progredirono buon tratto nell’Etruria meridionale: donde poi, per altri successi, ne furono scacciati da coloro, che aveano essi stessi respinto46. E qui rammenteremo che Filisto47, il quale confinato in Adria picena, dove scrisse buona parte della sua storia48, poteva avervi inteso notizie locali, e memorie di tradizione intorno agli antichissimi Umbri, narrava che le genti guerriere da cui vennero fugati i Siculi nell’isola, ch’egli impropriamente chiama Liguri, erano stati Umbri unitamente con Pelasghi: laddove Zenodoto49 poneva soltanto questi ultimi come assalitori e fugatori degli Umbri nella Sabina. La qual nominazione generica di Pelasghi si vuol qui intendere sanamente, in senso collettivo, dei soli stranieri; o Tessali, o Liburni, o Illirici che si fossero; i quali venuti dall’altra sponda dell’Adriatico si portarono con furia e terrore sopra i nostri paesani, dando così cagione e incitamento a quelle interne mutazioni che per moli di guerra, per mischianze, e per discorrimenti frequenti di moltitudine d’uomini, cambiarono alla fine l’essere, la dimora e il nome di considerabil parte dei popoli italiani. Grandissimi eventi, toccati in breve dagli scrittori, ma da cui trasse indubitatamente origine un ordin nuovo di cose. Certamente i compilatori delle storie che possiamo allegare, e che riportavano a lor senno ora una tradizione, ed ora un’altra, non tutti convengono in una medesima sentenza: non tutti narrano a un modo gli stessi fatti: e bene spesso pigliando un nome etnico per un altro, o confondono in uno popoli diversi, o cadono in ambiguità. Nè per essere antichi, e classici vuolsi già avere tanta bonarietà, da credere, ch’essi non abbiano mai errato. I vetusti Greci massimamente, al cui fonte beviamo, parlarono in oltre delle cose nostre assai lievemente, e solo per incidenza, nè si piccavano di voler far da critici ricercatori. Con tutto questo se badiamo alla sostanza più che alla forma dei lor racconti, vi si rinvengono ancora ricordanze manifeste di quei notabili avvenimenti, che abbiamo di sopra divisato, e che per qualunque mutazione di sorte non s’erano mai cancellati dalla memoria delle nazioni. Questi successi stessi si ritrovavano d’altronde consentanei alla ragione delle cose, perchè non solo confacenti alla qualità dei tempi procellosi, ma all’essere di popoli nomadi, mobili per istato, e per ancora violenti, precipitosi, mal disciplinati e materiali. Sì che a schiarire possibilmente le nostre prime storie, più presto congetturali, che appoggiate in testimonianze di contemporanei, si vuol anche concedere all’investigatore di rimettersi fermo in sulla traccia degli eventi principali, tanto più degni di fede, quanto più corrispondenti tra loro per unità di vicende; e quindi seguirne il filo con quel maggior fondamento di vero che può competentemente ottenersi dalla probabilità istorica. Chè, almeno di questo, il discreto intendimento del lettore filosofo ed erudito s’appaga.
La dimora dei Liburni e degl’Illirici per la costa orientale del mar di sopra era accertata dalle memorie e dai vestigi che rimanevano di loro nel paese, cominciando dal Piceno insino all’estrema Iapigia, dopo ancora che vi furono spenti e s’era annullato del tutto il nome loro. Fra i molti e vari popoli attenenti alla nazione illirica, Plinio, allegando Varrone, nomina specialmente i Varei, o Ardiei, quali occupatori d’Italia50: e non dubbiamente dice lui stesso, che là nel Piceno il castello di Tronto, presso alla foce del fiume di quel nome, era al suo tempo l’unico avanzo, o piuttosto segnale, de’ passati possessi de’ Liburni in quelle spiagge51. Ugualmente Illirici, e della tribù de’ Siculoti52, han dovuto essere quei Siculi, che Plinio pone insieme con Liburni nella regione picena fra il Tronto ed il Matrino53. Dove appunto una non piccola contrada interiore, irrigata dal Vomano, porta tuttora con singolar concordanza di vocabolo, il nome di Valle Siciliana54. La strana tradizione da Plinio medesimo riferita55, e verisimilmente tolta da Catone, che tredici popoli della terra dei Pediculi, nominati dai Greci Peucezi, vi fossero stati procreati da nove coppie dell’illirico, non poteva avere nessun altro accettabil fondamento, fuor che nella stazione di una mano di coteste genti stranie in quelle contrade littorali. E Peucezi chiamava infatti grecamente Callimaco un popolo dei Liburni56. Così altri favolosi racconti foggiati alla greca di popolatori illirici ne’ Peligni57 e nella Daunia58; siccome le tradizioni poetiche d’Iapige e Dauno, ambo Licaonidi, venuti colà nell’Iapigia insieme con Illirici59; tenean viva la ricordanza delle invasioni di quei barbari nelle nostre terre. Anzi è credibile assai, che ivi nella Puglia le tribù dei Monadi e dei Dardi vi fossero di sangue illirico, con Apina e Trica loro terre, disfatte secondo la favola da Diomede; ed il cui povero stato passò in proverbio a denotare cose ignobili e vili60. Nè di ciò è lieve indizio, che i Trikalli e Dardi sien anche oggidì due tribù pastorali dell’alta Albania61. E in vero talmente scambievole ha dovuto essere altre volte la frequentazione delle genti tra l’uno e l’altro lido, che l’isola di Sason all’imboccatura dell’Adriatico presso l’Acroceraunia, ed in ogni tempo nido di corsali62, vien chiamata ella stessa calabrese da Lucano63. Ciò non pertanto, benchè gl’Illirici annidatisi nelle mentovate coste vi avessero un tempo la possessione di molti luoghi, a comodo massimamente delle lor piraterie, non bisogna già credere per questo, che dessi sieno stati i popolatori dell’Italia quasi intera, come presumono i troppo zelanti scrittori dalmatini64. Perocchè indubitabilmente dovunque abbiamo tracce sicure delle abitanze degl’Illirici alle marine, là di presso albergavano per avanti le nostre indigene popolazioni degli Osci, i quali si mantennero sempre fermi nelle montagne. E qual popolo, qual civiltà, quali ordini potean venire a noi da una nazione cotanto salvatica e fiera, che quasi con bestial vita Liburni, Dalmati e Illirici, non avean mai vacato all’agricoltura, avanti che i Romani, ributtandoli dentro terra, non gli sforzassero di darsi mal suo grado a quell’arte primiera65? Nè tampoco costoro si tennero lungamente, nè senza grandi contrasti per la costa italica, o poco addentro. Perchè gli Umbri vendicatisi su di loro gli scacciarono a tempo e luogo dal Piceno66: gli altri montanari Osci non istettero per salvezza di sè di far guerra: e dal lato loro anche i Greci che successivamente si collocarono nell’Iapigia, nulla meno contribuirono a fugare ed a metter fuori gli Illirici da quello marine. Di tal modo fu alla fine discacciata ed estinta di luogo in luogo totalmente la schiatta loro. Sì che non fa nè pure maraviglia che nessuna terra, nè altra permanente e ferma popolazione di quelli durasse ai secoli futuri.
Ma gl’Illirici non erano stati i soli stranieri che colle loro spesse invasioni e scorrerie avessero posto in moto, e in trambusto grande per le montagne, i nostri popoli Oschi. Poichè in quel corso di tempo che cotesti feroci violentemente urtarono sopra le tribù degli Umbri, e d’altri montanari, che si portarono avanti l’uno in sull’altro per l’Italia centrale, bande numerose d’ogni generazione Greci o fuggitivi, o venturieri, navigando pel mare Ionio, si dirizzarono ai nostri lidi più meridionali. Tra questi una mano di Cretesi spinti dalla tempesta afferrarono alle spiagge dell’Iapigia, come riferisce Erodoto67: altri Dorj, Ionj, Calcidesi, ed Achei del Peloponneso in gran numero, apertasi la strada prima agli scoprimenti, poscia alla fortuna, se ne vennero a cercare in questa terra straniera vita migliore, e vi diedero principio di tempo in tempo dopo la guerra troiana a quelle ben avventurate colonie, che assai prestamente crebbero in possanza e dovizie, si nell’Italia inferiore, come in Sicilia. Per tal modo tutta la riviera, che dal promontorio del Gargano gira intorno al capo di Leuca, e di la internandosi nella spaziosa baja di Taranto va seguitando il lido fino all’ultima punta d’Italia, per indi volgersi lungo tratto all’occidente oltre il Faro siciliano, si trovò all’ultimo generalmente occupata da popoli dell’Ellade, che indi posero a quelle beate contrade il nome di Magna Grecia. L’epoca della loro venuta, non men che la forma delle istituzioni, e l’alta lor ventura, saranno più sotto nobile materia di trattazione. Ma già si può intendere quanto duramente, e per quanti lati, le razze paesane fossero ivi, per le violenze de’ nuovi assalitori, vie più incalzate e riserrate ne’ monti Appennini. Per certo il terrore che suol generare ogni improvvisa invasione costrinse, quanto la viva forza, i popoli più prossimi alla marina di ritirarsi addentro in montuosi, sicuri, e distanti luoghi di rifugio. Gli animosi stranieri sopravvenuti l’un dopo l’altro in moltitudine, si presero così per lo sforzo d’armi offensive e difensive le terre lungo le spiagge a mare. Pure, anzichè i Greci dilatassero molto i conquisti nelle parti interne, e di mano in mano vi calcassero o vi distruggessero le schiatte indigene, come già nell’America i conquistatori europei, avvenne al contrario nel corso di pochi secoli, che i fieri paesini Osci, naturalmente nimici, sopravvivessero ai Greci, e restassero dominatori del natio terreno. Nè havvi cosa più vera, che tutti i coloni Italioti nel loro stato di massima forza, e di civiltà, si videro sempre attorniati da popoli numerosi, che si erano mantenuti liberi e invitti nelle sue dimore, sino a tanto che per nuovi accidenti e fortune non vendicarono aspramente su gli stessi Greci le ingiurie ricevute dai loro antichi.
Or la popolazione che dopo i primi troiani, e ne’ due primi secoli dell’era romana, occupava il mezzodì dell’Italia, trovavasi divisa e distinta in due corpi principali: le genti paesane di stirpe e lingua osca, che avean dominio nelle montagne; e le colonie greche poste al mare, la cui fondazione era recente, e in istato d’incremento. Queste ultime disseminate per la costa formavano, come una zona dintorno agli indigeni fortificati nell’alto Appennino, e ne’ monti minori che diramano da quello. Ivi traevano loro vita pastorale e guerriera, duri di costumi, semplici e materiali; mentre che i Greci con ogni loro studio andavan avanzando in questa terra la propria civiltà ellenica, che dovea ingentilire il mondo. E non per tanto dallo stipite di quegli stessi popoli Osci, agresti sì, ma di forte petto, e non digiuni d’acconci precetti di morale, di ordine e di subordinazione alla legge, nè privi cerio di buona parte d’umanità, nacquero le nazioni che sopra tutte l’altre italiche si segnalarono maggiormente per virtù pubbliche, e per inestinguibile amore della indipendenza. I Sabini, gli Ernici, gli Equi, i Marsi, i Volsci, i Sanniti, i Lucani, ed i loro vicini e congiunti, tutti popoli delle montagne, ed a un pari originati e cresciuti del sangue degli Osci, se cedevano ai Greci italici in vivo e prestante ingegno, gli eguagliavano almeno, se non gli superavano, nella ferma stabilità dell’animo, nel valor guerriero, e soprattutto nella sollecita cura dell’arti rurali, che senza dar mai ricchezze che corrompono, dan sempre quelle che bastano ad animi sani. I costumi degli originari Osci si mantennero così ognor villeschi è vero, ma più lungamente schietti ed immaculati: in guisa che nè il sentimento della libertà, nè la pratica di qualunque doveri morali, massimo bene dei popoli, non s’estinsero in alcun di loro, se non se colla vita politica. Nè a questo contribuiva poco la necessità di soggiornare in contrade aspre, malagevoli e alpestri: dove la franchezza, o sia il governo ordinato per comune legge, è il solo principal bene che meriti d’esser guardato. Vuolsi in fatti aver per cosa di grande momento, come non solo i Greci per l’Italia meridionale, ma nè pure gli Etruschi nella centrale, non portarono mai la loro dominazione nelle interne regioni degli Osci: anzi nel tempo della lor massima forza i conquistatori Etruschi, costeggiando l’Appennino nei Volsci, s’arrestarono nella bassa Opicia, o sia in Campania, allato ai monti del Sannio e della Lucania. Ai soli Romani, guerrieri indomiti, instancabili, e d’alto animo quanto i popoli Sabelli, era riserbata dai cieli la possa di soggettarli.
Ma ritornando ai primitivi Osci e riguardando di nuovo alla loro grande famiglia avanti che si ordinassero stabilmente in tante differenti nazioni con distinti nomi, come or di seguito racconteremo, l’essere loro morale trovavasi in certo modo sotto l’influenza di cause fisiche sì potenti, che senza più irrevocabilmente fissarono il genio e gli abiti d’un popolo nato alla vita rustica. Perchè in quella prima rozzezza dimorando nelle alte selve e ne’ monti tra li semplici armenti, vissero in ogni tempo nello stato di pastori e di coltivatori, nè mai diedero opera alle navigazioni ed ai commerci oltramarini, che sì efficacemente e speditamente apron le vie alla civiltà più compita delle nazioni. I costumi degli antichissimi Osci eran dunque quali potean confarsi a intrattabili montanari. Spediti, repentini e gagliardi, guerreggiavano feroci in battaglia sparsa per le loro balze e dirupi, lanciando, contro a’ nemici, forti aste, dardi, ghiande di piombo ed ogni altra qualità di saettume; armi consuete de’ fanti leggieri franchi tiratori di mano: taluni portavano anche a difesa del capo coperture di bucce di sughero, o di pelli di fiere68. Non ostante ciò in veder che le leggi sacre, statuite per vigor della prima instituzione, serbavano il nome italico di Osche69, si può aver per fermo, che l’intera generazione degli Osci fosse stata fino da remotissimi tempi governata per ordini e modi sacerdotali. E lo persuade più maggiormente il nazional costume delle sacre primavere, in virtù delle quali soltanto ebbero cominciamento civile i popoli del loro propio sangue, intitolati del nome di Sabelli. Dal radicato domma teocratico derivò certamente quella gran forza di religione, che predominava ne’ loro ordinati istituti e costumi. Nè altri, fuor che i Greci leggieri, avean potuto notare così in comune la stirpe degli Osci con macchia di effrenata disonestà e di bruttezza, come sdegnosamente lo rinfaccia loro Catone70. Bastava è vero la diversità non che del sangue, ma dell’idioma, perchè gli Elleni, sprezzatori di ogni altro popolo, apponessero alla razza osca indole e natura barbarica, specialmente in onta de’ duri suoni di sua favella; pure non senza grande levità ed ingiustizia questo innocentissimo vocabolo di opico, o sia d’osco, indi passò nella bocca medesima de’ Greci, spoglio d’ogni onesto significato, qual equivalente a lordo ed a sordido71. Non altramente i grammatici latini grecizzanti appropriarono uno stesso schifo dettato alla voce di osco: ancorchè altri la tenessero quasi significatrice di sacro72. Gli epici bensì, promulgatori veri della fama, non cessavano di lodare sì l’antica potenza, sì la virtù militare degli Osci73. E non il nome soltanto, ma la lingua e gli usi e riti loro paterni, che avremo spesse volte occasion di rammentare, appaiono pur sempre nelle carte vetuste quali importanti vestigi delle nostre prime antichità italiane: essendo certo che fino dal tempo in cui il fecondo seme degli Osci diè l’essere alle generazioni degli Umbri, Sabini, Piceni, Sanniti, ed altri popoli congiunti, andava di luogo in luogo mancando il nome originale de’ padri. Vedremo inoltre al suo luogo come la favella osca, dilatatasi per l’Italia meridionale, sopravvisse lungamente alla distruzione del popolo, ed ebbe ancora per naturale affinità grandissima parte nell’antico latino.
Note
- ↑ V. sopra p. 62. Antiqui Ausonii (Virgil.) quia qui primi Italiani tenuerunt, Ausones dicti sunt. Etymol, magn. v. Αὔσονες. Eusthat. ad Perieg. 78.
- ↑ Dionys. i. ii.; Strabo v. p. 161.; Plin. iii. 17: quoniam Ausones tenuere primi.
- ↑ Dionys. i. ii.; Nicander. ap. Anton. Lib. 31.; Strabo ix. p. 279.
- ↑ Apollodor. i. 9. 24.; Apollon. ix. 553. 660.
- ↑ Lycophr. 702: lo stesso in Virgilio, in Trifiodoro ed altri.
- ↑ Orac. Pyth. ap. Diodor. excerpt. in coll. Vat. T. ii. p. 11. ed. Maio.
- ↑ Ap. Steph. Byzant. v. Νῶλα.; Suid. v. Αὐσονίων.
- ↑ In omnibus fere antiquis commentariis scribitur opicus pro osco. Festus. v. Oscum. Così dalla stessa radice OP si formò Opscus e Oscus.
- ↑ Aurunci, isti Graece Ausones nominantur. Serv. vii. 726.; Οἰκήτωρες Ἰταλίας Gloss. vet. v. Aurunci.
- ↑ Antioch. ap. Strab. v. p. 167.
- ↑ Ὀπικοί, καὶ πρότερον καὶ νῦν καλούμενοι τὴν ἐπωνομίαν Αὔσονες Polit. VII. 10.
- ↑ Thucyd. vi. i.
- ↑ Ἐξελάσαντες δὲ τοὺς ἐνταυθοῖ οἰκοῦντας Αὔσονας, αὐτοὶ καθιδρύθησαν. Nicand. ap. Anton. Lib. 31.
- ↑ Dionys. i. ii.
- ↑ Dionys. Perieg. 365.
- ↑ Circa l'Ol. xix. an. 704. A. C.
- ↑ Αὔσονα χώραν. Diodor. excerpt. in coll. Vat. T. ii. p. ii.
- ↑ Αὐσόνων κτίσμα. Strabo, vi. p. 176.; Plin. iii. 5.
- ↑ Odyss. I. 184. Per alcuni critici si tien più probabile che il poeta mentovasse una città omonima di Cipro. Cf. Steph. Byz. s. v.
- ↑ Aristot. Polit. vii. 10.
- ↑ Thucyd. vi. 4.; Dionys. vii. 3.; Hyperochus, Hist. Cum. ap. Pausan. x. 12.; Pausan. vii. 22.
- ↑ Strabo, v. p. 168.
- ↑ Ap. Strab. v. p. 167.; Polyb. ibid.
- ↑ Dionys. i. 72.
- ↑ Τὴν Ἰταλίαν ᾤκησαν πρῶτοι Αὔσονες ἀυτόχθονες. Aelian. ix. 16.
- ↑ Festus v. Ausoniam.
- ↑ Tata, Lett. sul monte Volture.; Giovene, Notizie geolog. sulle due Puglie. Mem. della soc. ital. T. xix.
- ↑ Vedi sopra p. 110 e appresso cap. xviii.
- ↑ De Prony, Descript. hydrogr. et hist. des marais Pontins. p. 73. p. 176.
- ↑ Breislak, Osserv. litologiche ec.; Brocchi, Dello stato fisico del suolo di Roma.
- ↑ Ol. xv. I. Vedi appresso Cap. xx.
- ↑ Diodor. xii.; 9. Athen. xii. 3.; Tralasciate le cure questi luoghi sono ritornali come prima paludosi, ed infetti d’aria pestilente.
- ↑ Strabo, vi. p. 174. Per queste maremme trovavasi lo stagno, detto lucano Λευκανίδος λίμνης; di sua natura insalubre, perchè vi si raccoglieva dentro promiscuamente acqua dolce e salsa. Plutarch. Crasso.
- ↑ Serv. vi. 366.; Suida. v. Ἐλέα La sterilità e infelicità del suolo è facile a riconoscersi anche oggidì presso Castello a mare della Bruca, dove fu l’antica Velia.
- ↑ Vedi Thunmann, nelle sue Investigazioni intorno la lingua degli Albanesi e dei Valacchi. Parte 1a Lipsia 1774. p. 169-366. — Discendenza degli antichi Illirici, per innanzi abitatori della Tauride e della Tracia, sono ancora nelle alte montagne dell’Albania gli Schipatari odierni, del qual nome s’ignora affatto l’etimologia: e la cui lingua radicalmente differisce dalla slava, o schiavona, che voglia dirsi. I pochi vocaboli slavi che vi s’incontrano vengono dal commercio dei loro antenati cogli Slavi, che passarono con altri barbari ad occupare l’Illirico nel sesto e settimo secolo della nostra era. loc. cit. p. 246.
- ↑ Vedi sopra p. 85.
- ↑ Peripl. p. 7.
- ↑ Illyrii, Liburnique, gentes ferae, et magna ex parte latrociniis maritimis infames. Liv. x. 2.
- ↑ Strabo, vi. p. 186.
- ↑ Plin. iii. 13-14
- ↑ Vedi sopra p. 73.
- ↑ Varro, L. L. iv. 10.
- ↑ Vedi p. 69.
- ↑ Ap. Dionys. ii. 49.
- ↑ Ibid.
- ↑ Vedi p. 78.
- ↑ Dionys. i. 22.
- ↑ Plutarch. Dion.
- ↑ Dionys. i. 49.
- ↑ Populatores quondam Italiae Vardaei. iii. 22. Ἀρδιαῖοι in Strabone.
- ↑ Quod solum Liburnorum in Italia reliquum est. iii. 13.
- ↑ Siculotae. Plin. iii. 22.; Ptolom. ii. 4.
- ↑ Siculi et Liburni plurima ejus tractum tenuere, in primis Palmensem, Practutianum, Adrianumque agrum. Plin. iii. 14.
- ↑ Vedi la carta geogr. del regno di Napoli di Rizzi Zanoni. — Delfico, Dell’Interamnia Pretuzia, c. 1: dove l’indagatore mostra che quel nome locale è non solo antico per documenti, ma di più domestico.
- ↑ iii. 11.
- ↑ Et quos Callimachus Peucetias appellat. Plin. iii. 21.
- ↑ Festus v. Peligni.
- ↑ Festus v. Daunia.
- ↑ Nicander ap. Anton. Lib. 31.
- ↑ Plin. iii. 11.; Martial. i. ep. 114, xiv, ep. 1.
- ↑ Pouqueville, Voyage dans la Grèce. T. ii. p. 512. T. iii. p. 30.
- ↑ Sason, piratica statione nota. Plin. iii. 26. Oggidì chiamata Sazeno. Sul nostro lido eravi pure Sasina portas tra Gallipoli e Taranto. Plin. iii. 11.
- ↑ Lucan. ii. 627. cf. Paulmier de Grantesmenil, Gr. ant. p. 179
- ↑ Le opinioni del P. Dolce e dell’Appendini danno un sistema filologico afifatto esagerato sì per la troppa estensione del popolo, come della lingua: ed il concetto loro, che Siculi, Umbri, ed altre nazioni dell’Italia discendano direttamente da quelli dell’Illirico, riposa sopra supposti al tutto congetturali, e di più riprovati a ragione dai buoni critici. Non contrastiamo già che la lingua dei Schipatari o Skippetars non conservi radici dell’antico illirico, e che non sia da studiare anche in quella per la maggiore intelligenza delle primitive lingue italiche: il che toccheremo meglio al suo luogo. Ma sono forse i moderni Slavi dalmatini, ancorchè chiamati Illirici, quel ch’egli si credono veramente: cioè a dire una legittima generazione degli antichi Illirj di quelle contrade?
- ↑ Strabo, vii. 218.
- ↑ Umbri eos expulere. Plin. iii. 14.
- ↑ Herodot. vii. 170.
- ↑ Virgil. vii. 688. 742.
- ↑ Cloatius ap. Fest. v. Oscum.
- ↑ Nos quoque dictitant barbaros, et spurcius nos quam alios Opicos appellatione foedant. Cato ap. Plin. xxix. i.
- ↑ L’osce loqui era quanto dire loqui barbarice: ma di più la dissolutezza propria dei Campani, popolo di sangue osco, ebbe l’appellativo di Opica. Ligurire inguina si traduceva per ἕπικιζειν e nelle vecchie glosse la parola Opicus si spiega per ἀῥῥητοποιὸς. Massimamenle poi Aristide Quintiliano (ii. p. 72.), spaccia franco Opici e Lucani, d’una stessa razza, per ischiavi dei sensi, ed uomini stolidi e brutali: ἀναίσθητοι καί βοσκηματώδεις, ὡς οἵ τε περὶ Ὀπίκιαν καὶ Λευκανίαν. — È noto a tutti il verso di Giovenale, in cui descrive la suppellettile del povero Codro. I sorci son penetrati nel vecchio armadio de’ libri greci; Divini opici rodebant carmina mures. iii. 207. Che significano questi sorci oschi? Si risponde con ragione dai buoni chiosatori: indotto e barbarico, a paragone de’ canti greci. Ed il satirico si fa suo proprio interpetre, dove introduce la Romana, che è una dottoressa, a correggere il parlare rustico dell’amica: amicae opicae verba. vi. 454. Egualmente in Ausonio opicas chartas vale quanto dire scritture dettate in istile rozzo e impulito, in Professorib. 22. Cf. Amalthea T. iii. p. 276.
- ↑ Festus. v. Oscum.
- ↑ Virgil. vii. 728-730.; Sil. viii. 526-529.