Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo XVII

Capitolo XVII. Passaggio de' Greci nell'Italia Meridionale. Magna Grecia

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Capitolo XVII. Passaggio de' Greci nell'Italia Meridionale. Magna Grecia
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CAPO XVII.


Passaggio de’ Greci nell'Italia meridionale. Magna Grecia.


La dimora de’ Greci nell’Italia meridionale è uno dei fatti più indubitati e certi dell’antica istoria, benchè il tempo, l’occasione, il modo, e l’altre circostanze della venuta loro sieno tuttora involte nella più grande oscurità. Poca o niuna fede può darsi alle narrazioni de’ mitografi, che supplivano dopo l’avvenimento alle storie, mischiando a fatti veri casi più sovente favolosi, in cui intervengono pur sempre numi ed eroi. Questi presupposti fondatori e capi o di città, o di nazioni, non potean quindi collegarsi con l’istoria certa se non per mezzo di genealogie fittizie: poichè tutto quel che precede nell’ordine dei tempi veniva soltanto o da tradizioni dubbiosissime, o da memorie più ancora tenebrose. Ed in secoli nei quali la critica non rischiarava per nulla l’istoria, potean bene i primi narratori greci, od i posteriori, divolgar racconti, in cui la finzione appagasse la fantasia d’un popolo altamente poetico. Chi ha letto le sognate genealogie degli Arabi, o quelle imaginate dai nostri monaci cronisti, non può maravigliarsi di ciò. Così dunque coloro che in sue leggende fecero navigare i Licaonidi per queste terre diciassette generazioni innanzi alla guerra troiana, o quelli che dopo [p. 320 modifica]la rovina d’Ilio davano stato in Italia a Nestore, Diomede, Idomeneo, Filottete, Epeo, e altri molti di stirpe eroica, non raccontavano se non che fatti poeticamente figurati, e vere novelle atte a piacere al popolo, od a lusingarlo con blandimenti. Lo stato perturbato delle tribù elleniche, e le spesse incursioni de’ Traci settentrionali, ponean la Grecia in condizione sì tanto infelice, che prima della guerra troiana le sarebbe stato impossibile volgere il pensiero alle contrade occidentali: nè poca difficoltà faceva altresì l’imperizia de’ Greci nella nautica. Massimamente da che in tempi sì remoti i mari di ponente erano pochissimo solcati; ed i pericoli della navigazione sull’Adriatico rendean presso che inconsuete quelle acque tempestose. Non pertanto dopo recata a fine la grande impresa d’Ilio, o altrimenti la gran lotta dell’Europa e dell’Asia, ebbero veramente i Greci mezzi e opportunità di portare arditi il loro nome in sconosciute contrade. Le discordie di famiglie regnanti, e le sanguinose turbolenze che indi si propagarono per tutta Grecia, non meno che le miserie della carestia e della fame, mossero i più audaci a cercarsi altrove nuova stanza. Siccome alcuni per solo effetto di positura geografica si volsero nelle loro migrazioni all’oriente della Grecia, così gli abitanti del Peloponneso s’avviarono all’occidente: e chi qua, e chi là trascorrendo, buon numero di quelli pigliarono terra nelle nostre parti meridionali o in Sicilia: rifugio dapprima e ricovero d’uomini travagliati e di famiglie fuggiasche, piuttosto [p. 321 modifica]che albergo di legittimi o veri coloni. Or questa si è pur sempre l’origino naturale delle colonie: cioè mossa di persone non contente del loro stato, e bisognose di cangiarlo.

Tali erano i primi fondatori e popolatori delle colonie greche. Il più delle volte uomini scapoli e senza moglie, di fiero coraggio adorni, di spirito forniti e per genio indomito aspri guerreggiatori e predatori. Come prima essi comparvero nelle nostre spiagge ogni qualunque lingua di terra, seno di mare, o foce di fiume, bastava loro a prender porto e afferrare al lido. La maggior parte delle marine nell’Italia inferiore, dove si posarono costoro, era in allora, come dicemmo di sopra, poco curata dai montanari indigeni di razza osca, che risedevano ivi attorno per l’Appennino in istato al tutto pastorale e villesco1: onde le maremme stesse di sua natura si ritrovavano aver molti luoghi o paludosi, o infermi, o abbandonati, o privi d’abitatori, giusto come gli Achei trovarono la regione dove edificarono Metaponto2. Per tal modo ebbero i Greci avventizj grande facilità prima a collocarsi per quelle piagge, poscia a dar opera a porvi stabilmente sue dimore mediante la forza dell’armi. Ed a misura che gli stranieri assalitori occupavano d’intorno a se nuovo territorio, gl’indigeni venian di fatto più maggiormente incalzati e respinti nelle [p. 322 modifica]montagne. Così cangiò il nome, lo stato e la fortuna di queste contrade. Perchè mentre i paesani ristrettisi tra l’alture e le valli interne del grande Appennino serbarono quivi per secoli gli abiti della semplice vita rustica, i coloni greci andavano di mano in mano progredendo nella propria civiltà e umanità ellenica, che sotto il bel cielo d’Italia dovea precipuamente portare maturi frutti.

Primi di tutti ad approdare alla riva orientale, secondo un racconto di Erodoto3, sarebbono stati una banda di Cretesi, quivi spinti per furia di vento: circostanza fortunosa ripetuta spesse volte nelle narrative di altre condotte delle colonie, e che può confermare quanto imperiti del mare fossero tenuti nell’opinione de’ suoi connazionali stessi i primi navigatori greci. Ma il più antico e vero civile stabilimento greco, che possa certamente ammettersi dalla storia, si è la colonia de’ Calcidesi in Cuma e nell’isole vicine, reputata la più antica di quante n’esistevano in Italia. Sebbene l’età, in cui cotal fondazione vien posta dai cronologisti, sia indubitatamente di gran tempo anteriore al successo4. Altri Calcidesi venuti ugualmente dall’Euripo, costrettivi dalla fame5, posero mano all’edificazione di Reggio, forse a cinquant’anni prima dell’era romana, in compagnia di que’ Messeni, ch’erano esuli da Macisto per aver violate in Limni le fanciulle [p. 323 modifica]spartane6. Nè diversamente un’altra mano di Calcidesi in quel torno di tempo avea fondato Nasso nella Sicilia, una delle più antiche colonie elleniche di quell’isola7. Apertasi così la via in queste regioni occidentali alla fortuna degli audaci, seguitarono l’un dopo l’altro i condottieri ad invogliarsi di luoghi nominati e fecondi. Sì che i valorosi Partenj usciti di Sparta col buon volere della Pizia sotto la scorta di Falanto, furono tanto avventurati di ridur Taranto in colonia, usurpando agl’Iapigi una regione insigne per fertilità8. Nell’altro lato occidentale della penisola, terra degli Ausoni9, si posero i fuggitivi usciti della Locride orientale, dove alle falde del monte Esope edificarono Locri epizefiria, aiutati, come dicesi, dai coloni siracusani10: città fattasi di poi sì potente e copiosa d’uomini, che potette dar l’essere a due nuove colonie, Ipponio e Medma presso lo stretto siciliano11. Ma d’assai più fortunate si furono le colonie, che circa l’istessa epoca, e in quel gran movimento di [p. 324 modifica]popoli, avean condotte gli Achei. Crotone12 e Sibari13, fondate a un di presso nel medesimo tempo con gli auspicj di Delfo, salirono indi a poco in sì felice stato, che la prima condusse due fiorite colonie del suo sangue a Pandosia14 ed a Terina15: la seconda fabbricò Posidonia 16, Laino e Scidro, tutte in sul lido tirreno17. Altri Achei venuti di fuori diedero uguale nascimento a Caulonia;18 indi a Metaponto fondata da Leucippo, capo di quella colonia19. Si narra di più che al tempo d’Aliatte e di Creso i fuggitivi Ionj di Colofone approdassero alla foce del Siri, e vi fondassero la città di quel nome20. Ma con più certezza i Focesi, scampati dalla servitù persiana, ed ultimi tra gli stranieri d’oltremare qua venuti, fermarono dopo lunghi travagli la loro dimora sul golfo [p. 325 modifica]Pestano, dove edificarono Elea, là presso al fiume Aleuto21.

Queste colonie, le più notabili di tutta la riviera italica, ebbero adunque certa origine e cominciamento intorno il primo e secondo secolo dell’era romana. Nacquero povere ed umili, ma piene di vigore: onde crebbero straordinariamente e in breve tempo di popolazione, non tanto per il sano godimento della libertà sotto un cielo beato, quanto per le successive migrazioni d’altri individui e di famiglie della travagliata Grecia, che qua venuti a porto ottennero dai primi fondatori qualche dritto secondario di cittadinanza, e qualche porzione del terreno. Ma principalmente gli Achei largheggiando della città cogli estranei22, senza distinzione di sangue, pervennero più prestamente che i Dorj e gl’Ionj a conseguire nelle colonie forza e potenza. Le relazioni dell’antichità circa la straordinaria popolazione di Sibari e di Crotone possono, è vero, trovarsi non poco esagerate23: ma qualvolta si considera che le colonie dell’unione Americana quando vivean soggette non avevano due milioni d’abitanti, ed oggidì ne contano dodici e più milioni, questo solo fatto ci debbe persuadere, che anche le prime colonie greche, piantate in terra sì ferace, han dovuto crescere smisuratamente, e sempre più aumentarsi di [p. 326 modifica]numero, non pure con elementi naturali, ma politici. Di qui è che Locri divenne sì grande in meno d’un secolo per l’alta sapienza di Zaleuco suo legislatore. La prosperità di Reggio, e d’altre città calcidiche24, ebbe un fondamento nulla meno durevole e glorioso nelle leggi di Caronda. Elea o Velia, ancorchè nata tra i disagi e in sterile paludoso terreno, dovette a Parmenide le sue ottime leggi, che i cittadini con prescritta usanza promettevano ogni anno sotto giuramento di fedelmente osservare25. E le sue medaglie stesse di bel lavoro manifestano quanto l’arti nobili degnamente fiorissero in quel comune sotto il governo de’ suoi magistrati. Ma i Pitagorici soprattutto il cui istituto movea da un principio religioso e insieme politico, ebbero sicuramente più che altri il merito di concorrere alla fortuna delle loro patrie, unendovi la potenza col senno. Onde per opra loro rigeneratasi Crotone, indi ogni altra città degli Achei, salirono in quell’altezza che a tutti è palese. Ugualmente Sibari nel suo primo vigore cittadinesco era pervenuta in poco più d’un secolo a tale abbondanza di beni, che superava di fatto in dominio, in forza militare e in dovizie, tutte l’altre colonie greche. E se per la sua effeminatezza ancor dura nel mondo l’infamato nome, non può già l’istoria giusta e severa as[p. 327 modifica]solvere le sventure meritate con la perdita delle virtù. Taranto in fine, nel primo fervore della democrazia, venne in grande stato26; e vi si mantenne finchè moderata dalla dolce violenza de’ suoi rettori seguitò i saggi ordinamenti de’ Pitagorici. Ma troppo è vero che la molta felicità e le soprabbondanti ricchezze annullarono i civili doveri, e condussero l’una dopo l’altra le città degl’Italioti a irreparabile rovina.

Frutto d’energia, d’utili traffici, e di belle imprese erano state tuttavia quelle dovizie stesse, che accelerarono e fecero più dolorosa la caduta di tante nobili repubbliche. Taranto e Crotone crebbero a un modo abbondantissime sì per commerci oltramarini, come per la frequentazione dei naviganti ne’ loro sicuri e capaci porti27. E al pari di quelle Sibari, Reggio, Caulonia, Pandosia, Metaponto, e generalmente parlando le città più felici, partecipavano largamente de’ medesimi vantaggi della lieta situazione, e del commercio forestiero, che s’estendeva por l’Egeo insino alla riviera dell’Ionia. Mostrano in effetto i tipi variatissimi delle medaglie quanto ciascun di loro avesse in grande onore la navigazione, il commercio, e l’agricoltura28. [p. 328 modifica]Per la quale specialmente moltissimi luoghi maremmani ed incolti furono dagl’industriosi coloni ridotti in fertili campi. Così le terre d’intorno Sibari, già paludose e acquose, si vuol che rendessero il cento per uno29. I Metapontini divennero opulentissimi per grande abbondanza di biade, e per lo studio che posero nell’arte agraria30: arte maestrevolmente insegnata dai Pitagorici31: e veramente per le cure de’ Greci l’agricoltura nella meridionale Italia s’arricchì di nuove piante e di frutti non meno graditi, che salutari. La vite biblina preziosissima, originaria di Nasso, fu di colà trasportata nel territorio d’Eraclea, indi in Sicilia32. Dall’Asia vennero i primi platani33: e similmente il cipresso, nativo di Creta e dell’isole dell’Arcipelago, si coltivò per la prima volta a Taranto34. Oltracciò la pastorizia era per gl’Italioti un’altra sorgente copiosa di ricchezze, da che massimamente i Tarantini con arte industriosa ottennero dalle loro greggi quella lana finissima35, detta italica, [p. 329 modifica]uguale in pregio al vello di Mileto36. Per tante industrie adunque, e per subiti guadagni, non è maraviglia se l’opulenza mirando a nuovi godimenti fece nascere e prosperare in quelle repubbliche le nobili arti, che diedero loro tanta gloria; mentre che malaugurata sete di maggior dominio, e brame disordinate, le riempierono al di dentro, chi più, chi meno, di passioni ingiuste e crudeli.

Tosto che i nuovi abitatori delle colonie si riconobbero forti e numerosi abbastanza per allargare intorno il conquistato terreno, essi andavano di mano in mano togliendo agl’indigeni paesani Osci qualche nuova parte di contado. Di tal modo questi si ritrovarono ognora più riserrati da un lato e l’altro nelle montagne: laddove Taranto, Reggio, Crotone, Sibari e Metaponto, ampliarono il lor dominio per le parti circonstanti: ne’ quali luoghi è in oltre credibile molto, che o soggettassero coll’armi, o tirassero a se per accordi numero di paesani. E di fatto i discendenti degl’Iapigi debellati, e posti già dai conquistatori tarantini nella condizione stessa degl’Iloti, si sollevarono nella città, intolleranti della dura sorte, e vi distrussero quasi affatto col ferro la classe dei signori37. Le città degli Achei più principali, e le sue colonie, erano di più congiunte fino dall’origine per confederazione: di che abbiamo una prova certa nelle loro [p. 330 modifica]monete: dove Sibari tra l’altre si vede collegata con Posidonia38, Crotone con Pandosia39. Unione che indi fu ristabilita per la mediazione degli Achei del Peloponneso, dopo il miserabile eccidio dei Pitagorici40. Il reggimento loro interno era propriamente quell’ordine misto, o sia temperata aristocrazia, che i prudenti dell’antichità stimavano la forma più sana di governo. Tale soprattutto era l’opinione di Pitagora e dei Pitagorici, i quali avrebbon voluto che la custodia delle leggi non fosse affidata se non che ad uomini degni di eseguirle. Ed affinchè meno instabili fossero nella città gli ordini statuiti, i cittadini maggiori vi traevano dal censo la prerogativa di sedere nel senato, e d’occupare i magistrati: siccome ne abbiamo esempi a Crotone41, a Locri42, a Turio43 ed altrove. Nelle città calcidiche tendeva maggiormente il governo all’oligarchia, dappoichè la potestà degli Ippoboti, o sia de’ facoltosi, che dominava in Calci44, s’era comunicata dalla metropoli alle sue colonie d’Italia e di Sicilia45: onde Cuma46 e Reg[p. 331 modifica]gio47, che avean ristretto in pochi lo stato, passarono con più prontezza e facilità alla tirannide. Taranto da reggimento monarchico-aristocratico48, passò alla democrazia49: ma sì per le rinascenti sedizioni interne, sì per l’ambizione e le malvagie arti dei re di Siracusa, venne meno in tutte la pubblica libertà e la potenza.

Le città greche più antiche degli Italioti, insieme colle lor colonie, formavano intorno le due riviere inferiori del mare Tirreno e dell’Adriatico quel corpo di paesi, che intitolavasi Magna Grecia. Sotto questa denominazione collettiva s'additavano generalmente i luoghi occupati dai Greci d’ogni stirpe; ma non si trova che gli antichi determinassero mai esattamente l’estensione geografica della Magna Grecia, talvolta ristretta alla sola penisola dei Bruzzi, ed ora ampliata a tutta la Sicilia50. Era quel nome illustre di già fiorente nell’età di Pitagora51: e ben a ragione i Greci si gloriavano del loro dominio in queste felici contrade52, non meno prospere per lo stato di tante gloriose repubbliche, che per la dignità della scuola [p. 332 modifica]pitagorica. Ma cotesto nome fastoso mancò interamente con la fortuna: talchè a’ giorni di Tullio se ne faceva menzione soltanto come d’un vecchio titolo, che avea il pregio infelice di rammentare la scaduta grandezza53.

Potenza e ricchezze tiran seco di sua natura brame d’onori, ostentazioni, vanità e pompe false. Quindi non v’era città nella Magna Grecia, che non ambisse trar sua origine da valor soprumano. I fuggiaschi, gli esuli, i guastatori, i violatori, i predoni, veri progenitori, si convertirono in tanti eroi e semidei. Per chimerici trovati di poeti e mitografi ebbe Taranto a suo fondatore Tara figliuol di Nettuno: Crotone Ercole: Cremisa e Petilia Filottete: Metaponto Nestore: Scillace Ulisse: in fine non poche altre città Diomede. Nè queste erano già nude voci, ma credenze di popoli interi, che traean da quelle seminate favole superstiziose e titoli d’onorificenze, e altrettanti pegni di salvezza pubblica. Sì che a Turio si serbavano per sua guardia nel tempio d’Apollo l’arco e le saette d’Ercole donate a Filottete54; a Metaponto i ferrei strumenti co’ quali Epeo fabbricò il fatale inganno55: e, per tacer d’altri luoghi, proteggeva Taranto, piena di nomi e riti spartani, il tumulo di Giacinto eroe [p. 333 modifica]della patria56. Ma quanto più gl’Italioti esaltavano per tal modo se stessi, tanto maggiormente spregiavano i barbari suoi vicini: onde non fa specie alcuna se, per ostentazione di maggioranza, imputavano agli Osci turpi affetti e opere sozze57. Tuttavolta si può sostenere con ragione, che all’epoca della prima comparsa dei Greci nelle terre ausonie, lungi che gl’indigeni vi fossero affatto indisciplinati e sciolti, erano per lo meno al par di quelli osservanti de’ sociali doveri. Perchè, quantunque i costumi generali dell’età ritenessero in ogni luogo molta fierezza, durezza e rusticità, come appare nell’aspra natura degli eroi d’Omero, pure l’universalità de’ popoli italici penetrati di profondi sentimenti religiosi, amantissimi della patria, semplici di costumi, schietti nell’opre, e obbedienti agli ordini stabiliti, vivean forse nello stato meno infelice, secondo il corso delle cose umane. Chè altro non era in fatto la vita pastorale e villesca, cui si riduceva in quel secolo la civile cultura, se non che una vita utilmente operosa, condita d’abbondanza, di comodo e dignità cittadina. E quanto vivace si fosse ne’ loro petti il forte sentimento della propria nazionalità italica a fronte della boria greca, si manifesta da questo, che memori delle ingiurie ricevute si mantennero sempre ostili ai Greci, nè riposero l’onorate spade, infino a tanto che Lucani, Bruzi, Dauni e Messapi, recuperato il perduto de’ padri loro, non occu[p. 334 modifica]parono essi stessi trionfanti le invilite città degli Elleni. La misera condizione, in cui ritornarono i Posidoniati sotto il dominio dei Lucani, trovasi riferita con intimo senso di duolo dal dotto discepolo d’Aristotile58, da che al suo tempo gli antichi coloni achei perduto avendo la favella e il gentil costume natìo, non celebravano più che una sola festa nell’anno per commemorare i cari nomi e l’usanza della patria. In simil forma la lingua osca avea bandita la greca da Cuma, prima che vi desse accesso alla latina59: verificandosi così ne’ Greci italici quel rio destino, che presagiva Platone ai Sicelioti60.

Con tutto questo erano sì grandi, e si frequenti le necessità, che tendevano di continuo ad avvicinare scambievolmente Itali e Greci, che per tali correlazioni e commerci venne a generarsi in tra loro una certa affinità morale che effettivamente produsse un salutare scambio d’idee, d’opere e di costumi. Molto più intrinseche ed importanti si fecero di tempo in tempo le comunicazioni fra i due popoli, allora quando gli Italioti stessi bisognosi di fidarsi in spade straniere, non meno che i tremendi dominatori di Siracusa, usati alle insidie de’ tiranni, ricorsero entrambi al più forte braccio dei barbari, allettandoli con arti e ca[p. 335 modifica]rezze. Ed innanzi dicemmo con quali e quante lusinghe i Tarantini, benchè più potenti, cercassero di ammansare e blandire a sua posta i Sanniti61. Sembra un fatto certo che gl’Italioti prendessero dalle nostre genti, e tenessero in vigore a buon mantenimento e cultura de’ campi lavorativi, non poche delle antiche consuetudini agrarie62. Per lo contrario si ritrovano permanevoli ancora presso i montanari delle due Calabrie non pochi usi popolari, che han contrassegni evidenti di fogge, creanze e mode greche. Onde era naturalissima cosa, che s’introducesse ugualmente nelle parti interne l’idioma greco: ora se i Bruzzi, popoli di lingua osca, venian chiamati bilingui63 perchè usavano promiscuamente ambedue le favelle, a un modo i Greci tolsero per se vocaboli usuali dalle nostre lingue64. Ma quel che più maggiormente tendeva alla migliore civiltà paesana si era il benigno influsso delle discipline pitagoriche fra le nazioni confinanti. Giacchè per fermo non s’attribuirebbero dall’antichità trattati di filosofia ad un Ocello Lucano, ed a molti altri Pitagorici di quel popolo, o della Bruzzia, se non avesse di fatto esistito tra di loro alcuna corrispondenza certa d’insegnamenti dottrinali e di scuole. E non temiamo neppure d’asserire che [p. 336 modifica]quell’Erennio Ponzio sannite, uomo sì prudente, che in sua gioventù avea conversato in Taranto con Archita e Platone65, non fosse egli stesso ammaestrato nelle pitagoriche dottrine. Grandemente abbiamo da deplorare la perdita de’ libri politici, che intorno alle città degli Italioti scrissero Aristotile e Teofrasto: privi affatto per mala sorte di tanta luce, ci bisogna adunque star contenti a pochi fatti, ed a considerazioni generali, anzichè a documenti di maggior rilievo dati fuori dalla sapienza antica.

Note

  1. Vedi p. 168.
  2. Antioch. Ap. Strab. vi. p. 183. Vedi sopra p. 167.
  3. vii. 170. Vedi p. 306.
  4. Vedi p. 275.
  5. Heraclid. Pont. de Polit. p. 214
  6. Antioch. ap. Strab. vi. pag. 177.; Heracl. Pont. pag. 215.; Pausan. iv. 4.; Scymn. Chius 308-311. — Ol. xix. a. c. 704.
  7. Ephor. ap. Strabo. vi. p. 184.; Heraclid. l. c.
  8. Vedi p. 308.
  9. Vedi p. 164.
  10. Aristot. ap. Polyb. xii. 5.; Pausan. iii. 3.; Dionys. Perieg. 365-366.; Eusthat. ad h. l. cf. Strabo v. p. 179.
  11. Ἱππώνιον και Μὲδμαν ᾤκισαν Λόκροι, Scymn. 306-307.; Strab. vi. p. 177. I fiumicelli ancora detti Medama e Mesima presso Nicotera e Miloto, nella Calabria meridionale, additano non dubbiamente il sito della città.
  12. Antioch. ap. Strab. vi. p. 181.; Herodot. viii. 47.; Dionys. ii. 59.; Scymn. 322-325. — Ol. xvii. 3. a. c. 709.
  13. Strabo vi. p. 181.; Aristot. de Rep. v. 3.; Scymnus 336. sqq.
  14. Scymn. 325-328.
  15. Scymn. 304-306.; Phlegon. ap. Steph. v. Τέρινα.; Plin. iii. 5. Crotoniensium Terina.
  16. Strabo vi. p. 174.; Scymn. 245 ex Salmash emend. ἥν φασι Συβαρίτας ἀποικίσαι ποτὲ.
  17. Herodot. vi. 21; Strabo v. p. 173.
  18. Strabo vi. p. 180., Scymn. 317-319.; Pausan. vi. 3.
  19. Antioch. ap. Strab. vi. p. 183.; Scymn. 327-328. La testa eroica di stile ideale del suo fondatore acheo si ha nelle medaglie stesse di Metaponto con la iscrizione ΛΕΥΚΙΠΠΟΣ.
  20. Strabo vi. p. 182.; Athen. xii 4. p. 523 ex Timaeo et Aristot. Steph. v. Σίρις.
  21. Herodot. i. 167.; Antioch. ap. Strab. vi. p. 174. — Ol. lxi. a. c. 533.
  22. Polyb. ii. 38.
  23. Diodor. v. 9.; Scymn. 340. et al.
  24. Plat. de Rep. x. p. 600.; Aristot. de Rep. ii. 10.; Aelian. Var. hist. iii. 17.
  25. Strabo vi. p. 174.; Plutarch. Adv. Colot. T. ii. pag. 1126. Speusip. ap. Diog. Laert. ix. 23.
  26. Strabo vi. p. 193. Ἲσχυσαν δὲ ποτὲ Ταραντῖνοι, καθ´ ὑπερβολὴν, πολιτευόμενοι δημοκρατικῶς.
  27. Polyb. Rel. x. 1.
  28. Insegna la copiosa numismatica della Magna Grecia quali fossero i sentimenti predominanti del popolo. Cerere, Nettunno, Mercurio, il bue, le spighe, i granelli di frumento, le ancore, i rostri, le navi, il corno d’Amaltea ec. sono tanti simboli significativi ed evidenti.
  29. Varro r. r. i. 44
  30. Strabo vi. p. 182.; Pausan. vi. 19.; Sofocle nel Trittolemo dicendo Italia «ricca di bianco grano» volle certamente significare col nome primitivo queste parti estreme; non già la sola Campania, come lo credeva Plinio. xviii. 12.
  31. Massimamente per Archita tarantino. Varro et Columel. r. r. i. 1.
  32. Hippys Rhegin. ap. Athen. i. 24.; Etym. magn. s. v.; Mazoch. Tab. Heracl. p. 202.
  33. Theofrast. Hist. plant. iv. 7.; Plin. xii. 1.
  34. Perciò detto tarentino. Cato r. r. 151.
  35. Varro r. r. ii. 2.; Columel. vii 4.; Horat. ii. od. 6. 10.
  36. Plin. viii. 48.; Clem. Alex. Paedag. ii. 11.
  37. Aristot. de Rep. v. 3. La rivoluzione seguì subito dopo la guerra persiana, intorno l’anno di R. 274.
  38. Medaglia nel Museo Brittannico, proveniente dalla raccolta del fu R. Paine-Knight.
  39. Vedi i Monum. dell’Italia ec. tav. lx. 1.
  40. Polyb. ii. 39.
  41. Dicearch. ap. Jamblic. p. 45, et Porph. p. 18.
  42. Polyb. xii. 16.
  43. Aristot. de Rep. v. 7.
  44. Herodot. v. 77.; Plutarch. Pericl.
  45. Aristot. ap. Strab. x. p. 308.
  46. Dionys. vii. 4-7.
  47. Aristot. de Rep. v. 12.; Antioch. ap. Strab. vi. p. 178.
  48. Herodot. iii. 136: nel qual luogo si fu menzione di un Aristofilide re dei tarantini.
  49. Aristot. de Rep. v. 3., vi. sub fin.
  50. Polyb. ii. 3.; Strabo v. p. 175.
  51. Polyb. l. c.
  52. Ipsi de ea (Italia) judicavere Graeci genus in gloriam suam effusissimus; quotam ex ea appellando Graeciam magnam. Plin.
  53. Cicer. de Orat. ii. 87., iii. 34., de Rep. i. 10. et alibi.; Senec. ad Helv. 6.; Valer. Max. viii. 7. 2 ext.
  54. Auct. de Mirab. p. 1161.; Euphorion. ap Tzetz. ad Lycophr. 911.
  55. Auct. de Mirab. l. c; Justin xx. 2.
  56. Polyb. viii. 30. 35.
  57. Vedi p. 186.
  58. Aristoxen. ap. Athen. xiv. 7.
  59. Cumanos Osca mutavit vicinia. Vellej. i. 4.; Liv. xi. 42.; Strabo v. p. 168.
  60. Epist. viii. ad Dion. prop. et amicos p. 353: se pure l’epistola è di Platone.
  61. Vedi p. 220.
  62. Mazoch. Tab. Heracl. p. 205 sqq.
  63. Ennius et Lucil. ap. Fest. v. Bilingues et Brutales. Vedi sopra p. 300.
  64. Mazoch. Lexic. Heracleot. p. 281. passim.
  65. Cicer., de Senect. 12.