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L’esercito italiano durante il colèra del 1867

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L’esercito italiano durante il colèra del 1867
Il mutilato Una medaglia

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L’ESERCITO ITALIANO

DURANTE IL COLÈRA DEL 1867.


Ogniqualvolta io ripenso a quanto l’esercito ha fatto e patito per il paese durante il colèra del mille ottocento sessanta sette, e riprovo quel vivo senso d’ammirazione e di gratitudine che mi si destava in quei giorni alla notizia d’ogni nuovo suo atto di carità e di coraggio civile, mi prende il dubbio che la maggior parte di quegli atti siano già dai più dimenticati, che molti non siansi saputi mai, che tutti poi, o quasi tutti, sien noti troppo vagamente per essere, come e quanto si conviene, estimati e lodati. Forse i ricordi di tutti que’ begli atti individuali il popolo li ha già confusi in un solo concetto, — l’esercito ha fatto del bene, — come dopo una battaglia vinta esprime ed esalta nel nome d’un generale le gesta e le glorie di centomila soldati. E maggiormente mi confermo in codesto timore quando considero che il paese, il quale delle guerre non è che spettatore e può e suole notar molte cose, essendo stato invece, in questa occorrenza del colèra, attore e vittima ad un tempo del terribile dramma, è naturale che poco badasse a quei tanti e sfuggevoli fatti parziali di cui, benchè altamente generoso lo scopo, eran pur sempre lievi e quasi insensibili gli effetti rispetto alla grandezza dei mali onde egli stesso era in gran parte trava[p. 284 modifica]gliato. Ora non è chi non comprenda come il sentimento di ammirazione e di gratitudine che deriva dalla notizia vaga dell’opera che prestò l’esercito a vantaggio del paese in quell’occasione, debba essere assai meno profondo e durevole, e l’esempio assai meno efficace, che non sarebbe ove si conoscesse il modo con cui quell’opera fu individualmente prestata, e i sacrifizi che costò, e i pericoli che l’accompagnarono, così da averne scolpita l’immagine nella mente, e poter rivolgere l’ammirazione a fatti determinati e legare la gratitudine a dei nomi. Alcuni di questi fatti e di questi nomi ho appunto in animo di ravvivare nella memoria di chi gli abbia scordati o non intesi mai; e m’induce a quest’opera non tanto il pensiero della dolce ed altera compiacenza ch’io proverò, come cittadino e come soldato, scrivendo una pagina tanto gloriosa per l’esercito italiano, quanto il sentimento, che è in me vivissimo, di compiere un dovere di giustizia col mettere in luce molte virtù, molti sacrifizi dimenticati od oscuri, e, oltre a ciò, il convincimento che non sia cosa inutile il porgere uno splendido esempio del come s’abbia a condurre l’uomo e il cittadino di fronte alle sventure nazionali.


Sullo scorcio del mille ottocento sessantasei, si sperava in Italia che il colèra, da cui molte provincie erano state invase in quell’anno, non sarebbe ritornato nell’anno successivo. Ritornò invece, come tutti sanno, e più fiero e più ostinato di prima, e fra tutte le provincie italiane quella che ne patì più gravi danni fu la Sicilia, della quale scriverò quasi esclusivamente, per riuscire più ordinato e più breve.

Nei mesi di gennaio e febbraio del sessantasette il colèra mietè qualche vittima nelle vicinanze di Girgenti, e specialmente in Porto Empedocle; d’onde, nel mese [p. 285 modifica]di marzo, si sparse per tutta la provincia, e da questa, nell’aprile, in quella di Caltanissetta, e crebbe poi fierissimamente in entrambe durante il mese di maggio, favorito dai calori estivi che si fecero sentire un mese prima a cagione della lunga siccità. Nè scemò punto nel giugno, se se ne tolga la sola città di Caltanissetta, in cui decrebbe rapidamente; chè anzi, nei primi giorni di quell’istesso mese, invase la provincia di Trapani, quella di Catania, quella di Siracusa, e sul cominciar di luglio Palermo, e sul cominciar d’agosto Messina. Intanto si era propagato per quasi tutte l’altre provincie d’Italia, e particolarmente in quelle del mezzogiorno, e più che in ogni altra in quella di Reggio, dove menò la sua ultima e più spaventevole strage sul cadere dell’anno.

Fin dai primi indizi che si manifestarono nelle provincie di Girgenti e di Caltanissetta, il generale Medici, comandante la divisione di Palermo, quasi antivedendo il terribile corso dell’epidemia, rimise in vigore tutte le cautele igieniche prescritte dal Ministero della guerra nel sessantacinque; divise i corpi in un numero maggiore di distaccamenti perchè nessuna città e nessun villaggio ne rimanessero privi; ordinò che dappertutto si aprissero ospedali militari pei colerosi, infermerie pei sospetti e case di convalescenza nei punti più appartati e salubri; istituì in ogni presidio una commissione di sorveglianza sanitaria; prescrisse nettezza rigorosa e accurate e frequenti disinfezioni in tutte le caserme; sospese ogni movimento di truppa dai luoghi infetti agli immuni; impose ad ogni corpo, ad ogni distaccamento di prestarsi prontamente e largamente a qualunque richiesta delle autorità civili per il servizio dei cordoni sanitari e per sussidiare le guardie nazionali nella tutela della pubblica sicurezza; ingiunse che si cercassero e si preparassero nelle vicinanze delle città principali i luoghi più adatti [p. 286 modifica]ad accamparvi le truppe nel caso che se ne fosse presentata la necessità; migliorò il vitto dei soldati con distribuzioni quotidiane di vino e di caffè; infine esortò gli ufficiali a preparare gli animi dei soldati a quella vita di sacrifizi, di pericoli e di stenti che ciascuno in cuor suo già presentiva ed aspettava coll’animo rassegnato e fortificato dall’esperienza dell’anno antecedente. Altrettali provvedimenti prendevano nello stesso tempo la più parte dei comandanti divisionali dell’altre provincie italiane, e dappertutto si allestivano ospedali, si disinfettavano caserme, ed era un affaccendarsi continuo di medici e d’ufficiali, un continuo dare e ricever ordini, un insolito rimescolìo d’uomini e di cose come all’aprirsi d’una guerra; in una parola, quella viva agitazione degli animi che suol precedere i grandi avvenimenti, e che ognuno esprime così bene a se stesso colle parole: — Ci siamo!

Ma per quanto fossero disposti a fare pel bene del paese l’esercito e i cittadini animosi ed onesti, tre grandi forze nemiche dovevano rendere per molta parte e per lungo tempo inefficace l’opera loro: la superstizione, la paura, la miseria, assidue compagne della morìa presso tutti i popoli e in tutti i tempi.

Nel maggior numero dei paesi, e particolarmente nei più piccoli, i sindaci e molti altri pubblici officiali abbandonavano il proprio posto al primo apparir del colèra, e da qualche paese disertavano tutti ad un tempo colle famiglie e gli averi. I ricchi, gli agiati, tutti coloro che avrebbero potuto soccorrere più efficacemente le plebi, fuggivano dalla città e si rifugiavano nelle ville. In pochi giorni tutte le case della campagna erano ingombre di cittadini fuggiaschi, e non solo di ricchi, ma di chiunque possedesse tanto da poter vivere qualche giorno senza lavorare, e prendere a pigione, anche a [p. 287 modifica]costo di gravissimi sacrifici, un abituro, una capanna, un qualunque bugigattolo, pur che fosse lontano dalla città e appartato, quanto era possibile, da ogni abitazione.

Abbandonata a se stessa e impaurita dall’altrui paura e dalla solitudine in cui veniva lasciata, la povera gente fuggiva anch’essa ed errava a frotte per la campagna, traendo miseramente la vita fra i languori della fame. Il generale terrore veniva accresciuto dal ricordo delle grandi sventure patite negli anni andati; se ne predicevano, come sempre accade, delle peggiori; si reputavano già tali fin dal loro cominciamento; in ciascuna provincia si esageravano favolosamente le stragi delle altre; in campagna si narravano orrori della morìa delle città; in città, altrettanto della campagna.

Come si trovasse ridotta la popolazione che rimaneva ne’ paesi è facile immaginarlo. Tranne poche città, essendo dappertutto abbandonate o disordinate le amministrazioni comunali, si trascuravano i provvedimenti igienici di più imperiosa necessità. Talora le popolazioni, reputando fermamente che quei provvedimenti fossero inutili, ricusavano di prestarvi l’opera propria, senza la quale essi riuscivano inefficaci, per quanto fosse il buon volere delle Autorità e lo zelo dei pochi cittadini che pensavano ed operavano dirittamente. S’aggiunga che molti paesi erano rimasti senza medici, senza farmacisti, e tutti poi, anche i più grandi, erano desolati dalla miseria che la carestia dell’anno precedente aveva prodotto, e lo scarso ricolto di quell’anno, e l’enorme mortalità avvenuta negli armenti, accresciuto. Falliti gran parte dei negozianti; sospesa la costruzione delle strade ferrate; interrotte molte opere pubbliche provinciali e comunali; molte fabbriche chiuse; gli operai senza lavoro; serrate dapprima le botteghe di oggetti di [p. 288 modifica]lusso, da ultimo moltissime delle più necessarie; le officine abbandonate; centinaia di famiglie ridotte a non vivere d’altro che d’erbe e di fichi d’India; in ogni parte la fame, lo scoraggiamento e lo squallore.

Per colmo di sventura si propagava ogni di più e metteva radici profonde nel popolo l’antica superstizione che il colèra fosse effetto di veleni sparsi per ordine del governo, che il volgo di gran parte dei paesi del mezzogiorno, per uso contratto sotto l’oppressione del governo cessato, tiene in conto d’un nemico continuamente e nascostamente inteso a fargli danno per necessità di sua conservazione. In Sicilia, codesta superstizione era avvalorata dal convincimento che il governo si volesse vendicare della ribellione del settembre, e però una gran parte delle misure sanitarie prese dalle Autorità governative incontravano nella plebe un’opposizione accanita, ogni provvedimento aveva il colore d’un attentato, in ogni ordine si sospettava una mira scellerata, da ogni menomo indizio si traeva argomento a conferma del veneficio, in ogni nonnulla se ne vedeva una prova. Gli ospedali, le disinfezioni, le visite dei pubblici officiali, tutto era oggetto di diffidenza, di paura, di abborrimento. I poveri non si risolvevano a lasciarsi trasportare negli spedali che nei momenti estremi, quando ogni cura riusciva inefficace. Morivano la più parte, e per ciò appunto si credeva più fermamente dal volgo che le medicine fossero veleni, e i medici assassini. Preferivano morire abbandonati, senza soccorsi, senza conforti. Non credevano al contagio, e però abitavano insieme alla rinfusa sani ed infermi, famiglie numerose in angusti e immondi abituri, terribili focolari di pestilenza. Occultavano i cadaveri per non esser posti in isolamento, o perchè ripugnavano dal vederli seppelliti nei campisanti, non nelle chiese com’è la costumanza di molti paesi; o per la stolta [p. 289 modifica]opinione che sovente gli attaccati dal colèra paiano, ma non siano morti davvero, e rinvengano dopo qualche tempo. Si poneva ogni cura a deludere le ricerche delle Autorità. Spesso si resisteva colla forza agli agenti pubblici che venivano per trarre dalle case i cadaveri corrotti; si gettavano questi cadaveri nei pozzi, si sotterravano segretamente nell’interno delle case. In alcuni paesi, per trascuranza delle Autorità o per difetto di gente che si volesse prestare al pietoso ufficio, i cadaveri, comunque non contesi dai parenti, si lasciavano più giorni abbandonati nelle case, o venivano gettati e lasciati scoperti nei cimiteri, o si ricoprivano di poche palate di terra, così che intorno intorno ne riusciva ammorbata l’atmosfera, e non si trovava più chi volesse avvicinarsi a que’ luoghi, e bisognava scegliere altri terreni alle sepolture. I pregiudizi volgari venivano segretamente fomentati dai borbonici e dai clericali. Eran sospetti di veneficio tutti gli agenti della forza pubblica, i carabinieri, i soldati, i percettori delle dogane, gli officiali governativi. In alcuni paesi della Sicilia era sospetto di avvelenamento qualunque italiano del continente; in qualche luogo tutti indistintamente gli stranieri erano sospetti. Si spargevano e si affiggevano per le vie proclami sediziosi, eccitanti alla vendetta ed al sangue. Tratto tratto le popolazioni armate di falci, di picche, di fucili, si assembravano, percorrevano tumultuosamente le vie del paese cercando a morte gli avvelenatori; minacciavano o assalivano le caserme dei carabinieri e dei soldati; irrompevano nelle case dei medici, e le mettevano a sacco; si gettavano nelle farmacie e vi distruggevano e disperdevano ogni cosa; invadevano l’ufficio del comune, laceravano la bandiera nazionale, abbruciavano i registri e le carte; costringevano le guardie nazionali a batter con loro la campagna in traccia degli avvelenatori; andavano a cercarli nelle case; credevano [p. 290 modifica]d’averli rinvenuti, li costringevano coi pugnali alla gola a immaginare e confessare dei complici, li trucidavano, ne straziavano i cadaveri e li abbruciavano nelle vie e nelle piazze del paese. Intere famiglie, accusate di veneficio, venivano improvvisamente aggredite di notte da turbe di popolani, e vecchi, donne, bambini cadevano sgozzati gli uni ai piedi degli altri senza aver tempo di scolparsi o di supplicare; si ardevano le case e se ne disperdevano le rovine. A Via Grande, a Bel passo, a Gangi, a Menfi, a Monreale, a Rossano, a Morano, a Frassineto, a Porcile, nel Potentino, nell’Avellinese, in cento altri luoghi, continui assembramenti e ribellioni e delitti orrendi di sangue.

Ogni giorno il popolo trovava una pietra, un cencio, un oggetto qualsiasi, che credeva intriso di veleno. Si recava in folla dal sindaco portando l’oggetto avvelenato, faceva venir medici e farmacisti a sperimentarlo, e voleva che i resultati dell’esperimento fossero com’ei riteneva che dovessero essere, o dava in minaccio e in violenze. In alcuni paesi la forsennatezza del volgo era giunta a tal segno, che gran parte dei cittadini, dal continuo pericolo di venir accusati come avvelenatori ed uccisi, s’eran trovati costretti a barricarsi in casa con qualche provvisione di cibo, vivendo così nascosti e rinchiusi come prigionieri. Ciò destava più forti i sospetti, si assalivan le case, ne seguiva una lotta. Nei luoghi e ne’ giorni in cui per la mitezza del morbo il volgo era meno brutalmente feroce, gli accusati di veneficio eran soltanto vituperati e percossi, e poi trascinati, lordi di sangue, al cospetto del sindaco. Alle volte i funzionari municipali, impauriti dall’esasperazione della folla, non ardivano tentar di distorla dai suoi propositi di sangue ed esortarla a risparmiare quegli infelici, e rispondevano, come fecero nel villaggio di San Nicola, [p. 291 modifica]che «se ciò che ne facesse pareva più opportuno.» E la risposta non era ancor detta intera, che quegli sventurati giacevano a terra immersi nel sangue, e non serbavano più traccia di sembianza umana. I municipi, dove se ne eccettuino quei delle città principali, minacciati com’erano e violentati ogni giorno, avevan perduto ogni autorità, e riuscivano impotenti a mettere in atto le misure più rigorosamente necessarie alla pubblica sanità; chè anzi erano costretti a prevenire e compiere ogni desiderio o volere della plebe, a fine di evitare più deplorabili danni. Dapprima il popolo imponeva che non si lasciasse entrare in paese anima viva, e il municipio stabiliva un rigoroso cordone attorno al paese, e ogni commercio cessava; ma appena si cominciavano a risentire i danni di questa cessazione di commercio, il popolo voleva che il cordone fosse tolto; rincrudiva il morbo, e un’altra volta si doveva porre il cordone. E lo stesso accadeva per tutti gli altri provvedimenti, ora voluti, ora disvoluti, secondo che la morìa cresceva o descresceva, secondo che la stravolta fantasia del volgo, per il vario manifestarsi di qualche indizio supposto, li reputava salutari o venefici.

Insomma ogni cosa era sossopra; in ogni luogo un desolante spettacolo di miseria e di spavento; le campagne corse da turbe d’accattoni e sparse d’infermi abbandonati e di cadaveri; i villaggi mezzo spopolati; nelle città cessata ogni frequenza di popolo, deserto ogni luogo di pubblico ritrovo, spento in ogni parte lo strepito allegro della vita operaia, le strade quasi deserte, le porte e le finestre in lunghissimi tratti sbarrate, l’aria impregnata del puzzo nauseabondo delle materie disinfettanti di cui le strade erano sparse; da per tutto un silenzio cupo, o un interrotto rammarichìo di poveri e d’infermi, o guai di moribondi o grida di popolo sedi[p. 292 modifica]zioso. A tale si trovaron ridotte le popolazioni di molte provincie della Sicilia e del basso Napoletano, e fors’anco il quadro ch’io n’ho fatto non ritrae che assai pallidamente i terribili colori della verità.

Ma il sentimento doloroso che ci si desta in cuore alla memoria di quei giorni funesti, più che dalla notizia degl’immensi danni che il colèra produsse, vien forse dal pensare come la parte maggiore di cedesti danni sia derivata dall’ignoranza quasi selvaggia dei volghi, e in generale dalla pochezza d’animo dei cittadini di tutte le classi. L’effetto più sconsolante, quantunque non inutile, di codesta sventura del colèra, è forse stato quello di averci mostrato che nella via della civiltà siamo assai più addietro che non si soglia pensare, e che il cammino che resta a farsi è assai più lungo che non paresse dapprima, e che bisogna procedere più solleciti e più risoluti. Sarebbe, in vero, assai difficile il dimostrare che in occasioni consimili di tempi assai meno civili dei nostri la forsennatezza volgare sia andata più oltre e abbia dato di sè più deplorabili prove, e che, nella generalità del popolo, oggi più che allora, dinanzi alle sventure e ai pericoli comuni la ragione l’abbia avuta vinta sull’istinto, la carità sull’egoismo, il dovere sulla paura.

Ma che faceva l’esercito?

Il disordine delle amministrazioni e lo sconvolgimento e la paura generale avevano spirato audacia ai malandrini e ai briganti, e dato occasione che ne sorgessero dei nuovi, e gli uni e gli altri percorrevano le città e le campagne commettendo ogni maniera di furti e di violenze. La truppa, che non poteva cessare di dar la caccia a costoro, per quanto l’opera sua fosse indispensabile altrove, si trovava stretta così da mille obblighi diversi, gli uni più degli altri pericolosi e faticosi. La forza numerica dei corpi, che già era scarsa di fronte [p. 293 modifica]ai bisogni dei tempi ordinari, riusciva affatto insufficiente per provvedere nello stesso tempo al servizio degli ospedali, ai cordoni sanitari e alla pubblica sicurezza. Tutti questi servigi eran però fatti dovunque, scompartendo la forza quanto più fosse possibile minutamente; onde quasi dappertutto seguiva che i soldati non dormissero mai due notti di seguito in caserma, e mangiassero, non più ad ore prestabilite, ma così alla sfuggita quando e dove ne avessero il tempo ed il modo. Continuo moto, continua fatica, appunto in quei giorni che sarebbe stato necessario il riposo, la tranquillità e ogni specie di riguardi. Non è a dirsi quanto la salute dei soldati ne scapitasse, e come da quella maniera di vita fosse resa presso che inutile la maggior cura che si poneva nella pulizia delle caserme, nella scelta dei viveri, e in molte altre cautele imposte dai superiori, e diligentemente, sotto la loro sorveglianza, osservate. —

Ma questi servigi erano tuttavia i meno gravosi perchè, se non sempre, ordinariamente però erano prestati da ciascun soldato ad intervalli di tempo costanti, benchè brevissimi, e regolarmente stabiliti; per cui alle fatiche e ai pericoli s’andava incontro coll’animo preparato. I servigi più duri erano quelli imposti tratto tratto da inattesi tumulti popolari, nel cuore della notte, qualche volta simultaneamente in vari punti dello stesso paese; e un pugno di soldati doveva uscire contro una moltitudine armata che li superava di numero cento volte, e batteva furiosamente alle porte della caserma e lanciava sassi alle finestre e minacciava di appiccare il fuoco alla casa, gridando «morte agli avvelenatori, morte agli assassini del popolo!» e ogni altra maniera di vituperi. Le grida furenti risuonavano improvvisamente nei silenziosi dormitori, i soldati balzavano dal letto [p. 294 modifica]esterrefatti, si vestivano in furia, accorrevan gli ufficiali, si poneva mano alle armi, si scendevano precipitosamente le scale, si faceva impeto sopra la folla. La folla si apriva, si sparpagliava, tornava ad accalcarsi, urlando, fischiando, gittando sassi, e i soldati un’altra volta facevano impeto, e un’altra volta la folla si sperdeva, e avanti così per delle ore, per tutta la notte, molte volte per tutta la mattina seguente. Quando gli assembramenti eran di poca gente uscivan disarmati, tentavano di quetarli colle buone parole, colla persuasione, coll’amorevolezza; ci riuscivano tal volta; tal altra erano aggrediti, percossi, e allora ritornavano di corsa alla caserma, s’armavano, uscivano di bel nuovo; i sediziosi si rinchiudevano nelle case, traevano le fucilate dalle finestre; bisognava gettar giù le porte, penetrar nelle case, venire alle mani. Il giorno continue fatiche; la notte sonni brevi ed interrotti; ansietà e pericolo sempre.

Oltre tutto ciò, nella maggior parte dei paesi, bisognava che i soldati andassero a levar via i cadaveri dalle case, a trasportarli ai cimiteri sui carri del reggimento, a scavar le fosse e seppellirli. Talora il popolo vi si opponeva fieramente; bisognava penetrare nei suoi luridi abituri colle baionette alla mano, impadronirsi dei cadaveri a viva forza. Questi cadaveri bisognava qualche volta andarli a cercare per la campagna, e quando le braccia dei soldati non bastavano all’uopo, era mestieri obbligare i contadini a prestar l’opera loro, minacciandoli, trascinandoli. Bisognava impedire alla gente di fuggir dai paesi, inseguirla, ricondurla alle proprie case, tradurvela proprio a forza, pigliando pel braccio uno ad uno intere famiglie di pezzenti, torme di fanciulli e di donne che rompevano in pianti e grida disperate.

In tutti i corpi, in tutti i distaccamenti si face[p. 295 modifica]vano collette di danaro per le famiglie più indigenti; in alcuni paesi si distribuiva ogni giorno una quantità di pane; altrove di carne e minestra; dove non si poteva dar altro, si davan gli avanzi del rancio, si dava della paglia, dei panni vecchi, qualche cosa. In molti corpi si costituirono comitati di soccorso permanenti; gli ufficiali andavano ogni giorno in volta per le case dei poveri, a recar soccorsi, a dar consigli, a invigilare; i soldati somministravano agli ospedali i pagliericci dei loro letti, si offrivano spontanei di andare ad assistere gl’infermi nei lazzeretti e nelle case private, e v’andavano e vi facevano coraggiosamente e lietamente il loro dovere sino all’estremo. Nei paesi rimasti privi di farmacisti andavan essi a distribuire le medicine nelle botteghe, sorvegliati dai medici militari, e le portavano alle case dove occorrevano. In altri luoghi, dov’eran chiuse persino le botteghe degli alimenti più necessari alla vita, fattele aprire a forza, provvedevano essi stessi o soprintendevano alla vendita. Spesso eran costretti a tener aperti i mercati, parte sorvegliando lo spaccio dei generi, parte tutelando l’ordine e la pace continuamente minacciata. Frequentissimamente, sia nei villaggi che nelle città, dovevano impastare e infornare il pane, lavoro che non si volea far da alcuno per la idea che sudando si contraesse il colèra; e non di rado si riducevano a spazzare le strade e le case dei poveri insieme ai carabinieri e alle guardie di sicurezza pubblica perchè non c’era chi si volesse sobbarcare a una fatica, dicevano, così gravemente pericolosa. Incarichi meno umili, ma assai più inusati e difficili, toccavano spesse volte agli ufficiali, che dovean farla da sindaci nei villaggi disertati dalle autorità, e talora da medici, e sempre da limosinieri e da missionari di civiltà in mezzo a popolazioni stupidite ed esasperate dalla paura e dai patimenti, e accese [p. 296 modifica]di passioni feroci. Lo stesso era dei medici militari, a cui oltre la cura de’ soldati incombeva quasi da per tutto quella del popolo, del quale bisognava che prima essi distruggessero i pregiudizi e vincessero le repugnanze e gli odi ragionando e pregando. Lo stesso dei comandanti dei corpi, incalzati da mille bisogni, stretti da mille difficoltà, affollati da mille cure, sempre in apprensione per la loro truppa divisa e sparsa di qua e di là, continuamente in giro e in pericolo. Per tutti poi un immenso dolore: quello di dovere ogni giorno dire addio per sempre a tanti bravi soldati, a tanti buoni compagni, a tanti amici da lungo tempo diletti.


Ma tutti questi servigi, questi sacrifizi, queste opere di carità, che pure accennate di volo, come io le accennai, bastano a destare in petto d’ogni buon cittadino un palpito di entusiasmo riconoscente, non possono tuttavia, come già dissi, estimarsi e lodarsi quanto si conviene ove intimamente non si conosca con che cuore venissero fatte e in che modo. Questo è ciò che ho in animo di dire e che importa si conosca particolarmente da coloro i quali negli atti generosi dei soldati non sogliono vedere ed apprezzare che gli effetti immediati e necessari della disciplina che comanda e castiga; non mai gli effetti naturali e spontanei del cuore, che quella stessa disciplina educa, ingentilisce e feconda. È vero, in fatti, che nelle congiunture dei tempi ordinari, quando il soldato non capisce o non vede o vede troppo alla lontana il frutto dell’obolo che gli si richiede a sollievo di qualche pubblica sventura, o quando non comprende di qualche altro sacrifizio la necessità imperiosa e può credere che vi sia chi lo possa o lo debba fare in sua vece, è vero che, in tali congiunture, i desiderii o gl’inviti dei superiori assumono in più delle volte, se non la for[p. 297 modifica]ma, l’intenzione però e l’efficacia di comandi diretti e assoluti, onde agli atti che ne seguono non si può attribuire il merito della spontaneità; ma questo, per cause diverse, non poteva accadere nell’occasione del colèra. Perchè allora, nella massima parte dei casi, i soldati capivano, vedevano chiaramente che la salute dei paesi in cui si trovavano era riposta nelle loro mani; che in certi momenti estremi non c’era altri che loro da cui potessero scongiurarsi certe estreme sventure; d’ogni loro atto, d’ogni loro sacrifizio erano immediati ed evidenti gli effetti; per ogni moneta, per ogni tozzo di pane ch’essi porgessero era là pronta la mano scarna d’un affamato ad afferrarlo; la pietà era tenuta viva dallo spettacolo continuo della sventura, e non c’era luogo ad alcun dubbio o ad alcuna diffidenza che il sentimento di quella pietà intepidisse o facesse esitare. Nè si può ragionevolmente supporre che l’influenza dei superiori avesse parte nelle opere caritatevoli che non erano fatte per obbligo di servizio o per altra necessità assoluta, poichè quelle necessarie e obbligatorie erano sì frequenti e sì gravose per sè, che nessun superiore avrebbe potuto pretenderne dell’altre senza che proprio gliene rimordesse la coscienza. Di più, essendo i corpi scompartiti in un gran numero di piccolissimi distaccamenti, e quegli stessi distaccamenti operando il più delle volte suddivisi, l’azione che potevano esercitare i superiori sui loro subordinati per ottenerne qualcosa più in là del dovere, era tenuissima; sarebbe anco stata insufficiente a far sì che ciò ch’era di dovere si facesse, se di quell’azione ci fosse stata la necessità. Per altra parte le stesse prescrizioni dei superiori non giungevano mai sin là dove l’opera dei soldati giungeva, poichè certi sacrifizi son di tale natura, da non potersi imporre per nessun fine e in nessuna maniera; e i lettori vedranno quali [p. 298 modifica]essi siano, e quanto e come gli ufficiali e i soldati d’ogni corpo gli abbiano compiuti. Ma se tutte queste ragioni non bastassero a convincere gl’increduli, o paressero poi troppo vivi e fantastici i colori del quadro che porrò sotto gli occhi ai lettori, ci sarebbe pur sempre, a conferma di ciò che ho asserito, la testimonianza unanime delle popolazioni, e quella, non per tutti valevole, ma per me sicurissima e sacra, dei tanti miei compagni d’arme ed amici che videro e narrarono quel che han fatto i loro soldati e come l’han fatto, coll’anima compresa di tenerezza, di gratitudine e d’orgoglio. Dal lume dei loro occhi e dal suono della loro voce io attinsi il profondo convincimento che mi move il cuore e la penna.

Entriamo dunque nelle caserme; andiamo in mezzo ai soldati.


Per solito le compagnie non si trovavano riunite che la sera, nel dormitorio, all’ora della ritirata. Aspettando il segnale del tamburo per la visita, i soldati si raccontavano l’un l’altro quello che avevan visto e fatto nella giornata, parte seduti sui letti, parte appoggiati alle finestre, parte in crocchio nel mezzo dei cameroni. Non più quel moto, quei canti, quelle risa, quel frastuono assordante di grida festose, per cui, nei tempi ordinari, è così bella a vedersi la sera delle caserme. La più parte dei soldati stavano immobili, e non si sentiva che un bisbiglio sommesso, interrotto qua e là da qualche esclamazione di meraviglia o d’ira o di pietà, e tratto tratto lunghi intervalli di silenzio, in cui si sarebbe detto che tutti dormivano. I soldati che arrivavano a mano a mano, andavano cheti al loro letto e, posato il cinturino e il cheppì, entravano nei crocchi, ciascuno a riferire [p. 299 modifica]l’ultima voce raccolta nel paese, ch’era quasi sempre voce di sventura. Chi noi sapesse altrimenti, avrebbe potuto capire che cosa in que’ crocchi si diceva e si pensava, guardando in ogni camera le poche faccie rischiarate dal lumicino posto sopra la porta.

— Lo sapete? A Grammichele hanno ucciso un carabiniere; i soldati l’hanno trovato morto in un fosso; dicono che aveva la faccia tutta pesta e sformata che non si riconosceva più, e le braccia e le gambe mezzo rosicchiate dai cani. — Qualcuno domandava perchè l’avessero ucciso. — Perchè avvelenava la gente. — Un sorriso amaro sfiorava la bocca degli ascoltatori. — Avete intesa la notizia? A Belpasso hanno assassinato il delegato di pubblica sicurezza. — A Monreale hanno preso a fucilate i bersaglieri. — In Ardore hanno ammazzato e sbranato il capitano della guardia nazionale e il sottotenente Gazzone. — Nel tal altro paese hanno affisso ai muri un proclama in cui è detto che i soldati bisogna scannarli e bruciarli quanti sono e distruggere dalle fondamenta tutte le caserme.... — Ma tutto questo perchè? — Perchè avveleniamo la gente, avete capito? —

S’udiva un rullo di tamburo; la compagnia si schierava, si faceva l’appello; metà dei soldati mancavano. Il furiere leggeva i nomi, e ad ognuno che mancasse, il caporale di settimana, ritto accanto a lui col taccuino in mano, gli veniva suggerendo a bassa voce: — È infermiere al lazzeretto —, è di pattuglia in campagna —, è di ronda in paese —, è di servizio al camposanto, — è morto, — e a quest’ultime parole seguiva nelle file un movimento di sorpresa e un mormorio di compassione. — Silenzio! — gridava il furiere; — attenti al servizio di domani. — E leggeva i nomi di quelli ch’eran destinati ai vari servizi per il giorno dopo, e il più delle volte eran quasi tutti i presenti. Nessuno fiatava. Qual[p. 300 modifica]cheduno, all’udire il suo nome fra i destinati al servizio d’infermiere negli ospedali, non poteva dissimulare un senso di ripugnanza e di rincrescimento e alzava gli occhi scrollando la testa. — Che cosa c’è? — interrogava subito bruscamente quello fra i sergenti che l’avesse veduto. — Oh.... nulla — Dunque fermo. — E il poveretto non si moveva più, ed era quella la più grave protesta che facessero tratto tratto i più indocili e i più arditi.

Le sere dei giorni in cui il colèra aveva mietuto nel paese e fra la truppa una più larga mèsse di vite, si vedevano tutti quei soldati intenti all’appello con una immobilità che parevano statue, e le loro faccie erano atteggiate a un’espressione che aveva più dell’attonito che del triste, essendo quell’anime, più che addolorate, sbalordite dall’eccesso delle sventure. — Il tale? — domandava il furiere. — È stato colto dal colèra un minuto fa; l’han già portato al lazzeretto, — rispondeva il caporale. — Il tal altro? — Il chiamato rispondeva di mezzo alle file: — Presente — ma con una voce forzata e manchevole, in cui si sentiva l’effetto della notizia dolorosa. E seguiva un silenzio più profondo del consueto.

Quelle sere l’ufficiale soleva dire qualche parola d’incoraggiamento e di conforto. Si metteva dinanzi al centro della compagnia, scorreva con una lunga occhiata le faccie della prima riga, e diceva poi quello che aveva a dire, terminando quasi sempre con un — fatevi coraggio — seguìto da un leggero movimento delle file che voleva dir — grazie. Un cenno al furiere, una parola al sergente di settimana, e poi — buona notte — aggiungeva quasi senza accorgersene, come cedendo a un moto imperioso del cuore, e se n’andava. E i soldati l’accompagnavano con uno sguardo che valeva assai più [p. 301 modifica]d’un addio. Quante volte, uscendo da quel camerone, l’ufficiale si sarà detto mestamente: — Forse domattina non ci saranno più tutti i miei poveri soldati! — E quante volle i soldati, vedendo uscir l’ufficiale pallido e stravolto, e dietro a lui l’ordinanza coll’espressione sul volto d’un doloroso sospetto, avranno detto fra loro: — Forse il nostro ufficiale non lo rivedremo mai più! —

Andato via l’ufficiale, il furiere distribuiva le lettere. Oh una lettera di casa, in quei giorni, in quei luoghi! I fortunati che sentivan dire il proprio nome, non potevan frenare l’impeto della gioia; s’impazientivano, stropicciavano i piedi, tendevan le mani. — A me. — Mi dia la mia. — A me non me l’ha ancora data. — E a me non me la dà più? — Silenzio, e fermi al vostro posto! — gridava il furiere. E subito tutti zitti e fermi come di marmo, con che sforzo, pensatelo voi, a dover domare quella febbre. Il furiere stava lì un momento a guardarli con un brutto cipiglio, poi dava le lettere, la compagnia si scioglieva in silenzio, e ognuno andava a letto.

A notte avanzata, coloro che non potevano dormire udivano pei cameroni silenziosi un rumore di passi lenti e di voci sommesse, e levando la testa vedevano l’ufficiale di picchetto e il sergente di settimana trascorrere lungo le file dei letti, fermarsi dinanzi a quei ch’eran vuoti, l’uno domandarne e l’altro renderne conto, rimanendo poi tutti e due, al momento di uscire, un po’ di tempo immobili sul limitare della porta, e come assorti in un pensiero comune. Era ben facile l’indovinare quel pensiero! — Se accade qualcosa — diceva sottovoce l’ufficiale, — mi venga subito a avvisare. Speriamo che non ci sarà nulla. — Speriamo. — E questa parola era sempre accompagnata da un sospiro, che rivelava un sentimento assai diverso, e il più delle volte, pur troppo, assai più fondato. Forse, un’ora dopo quel[p. 302 modifica]l’espressione di speranza, i soldati eran desti improvvisamente da uno scoppio di grida acute o di languidi lamenti, e vedevano i loro compagni balzare in piedi, affollarsi attorno a un letto, sopraggiungere a passi concitati l’ufficial di picchetto, il dottore, i soldati di guardia, e indi a poco tutti far largo, e quattro di quei soldati allontanarsi portando un pagliericcio con suvvi disteso un morente, e poi un po’ di bisbiglio, e finalmente tutti un’altra volta a letto, e silenzio come prima. La mattina, appena desti — Caporal di settimana — domandavano ansiosamente i soldati.... — ebbene? — Morto. — Morto! — E si guardavano l’un l’altro nel viso.

In molti corpi, e in qualcuno più d’una volta, si dette il caso che fossero nello stesso tempo presi dal colèra un ufficiale e la sua ordinanza. E in tutti quei corpi, io l’udii raccontare cento volte, seguì questa scena. La sera, dopo fatta la visita, il furiere annunziava alla compagnia la disgrazia ch’era accaduta. — Chi vuoi assistere l’ufficiale?

— Io. — Io. — Anch’io. — Ma se l’ho già detto io, è inutile che lo dica anche tu. — Oh guarda! son padrone di dirlo anch’io. — Ma se son stato io il primo. — Ma se ti dico....

— La volete o non la volete finire? — gridava il furiere? — Tutti tacevano. — Lo assisterete voi — e indicava il soldato che s’era offerto pel primo. E questi faceva un sorriso di trionfo, e quegli altri si rassegnavano a stento. L’indomani mattina, prima dell’alba, il generoso infermiere era accanto al letto dell’ufficiale malato, e là passava i lunghissimi giorni, solo, muto, intento, e vegliava le notti al lume d’una lanterna, seduto sur una seggiola in un canto della stanza. Oh chi fosse stato là presente quando l’infermo, cominciando a [p. 303 modifica]riaversi e guardandosi intorno e non riconoscendolo sua ordinanza, domandava: — Chi sei? — e poi, inteso il nome: — Chi t’ha mandato? — E il buon soldato rispondeva: — Son io che ho voluto venire... — E perchè? — Oh non si può esprimere quel che rispondevano allora gli occhi di quel soldato, e quel che passava nel suo cuore stringendo la scarna mano che si protendeva a cercare la sua! Qualche altra volta, invece, egli ritornava dopo pochi giorni alla caserma, e appena entrato andava a sedere sul letto e si metteva a frugare colla spilla del fucile dentro il luminello, che è una faccenda per cui occorre tener bassa la testa e si possono così nascondere gli occhi.

Gli ufficiali andavano assiduamente a visitar gl’infermi negli ospedali, e ci andavano per lo più molti assieme per aver agio di fermarsi al letto di tutti, e così nessuno avesse motivo di rattristarsi e disanimarsi, vedendo visitati i suoi compagni e non sè. Quelle visite eran diventate un bisogno pei poveri malati. A quell’ora solita essi sentivano giù per le scale il rumore di quelle sciabole, il suono di quelle voci, correvano subito coll’occhio ad aspettarli alla porta, e quand’essi apparivano e si sparpagliavano per le camere dell’ospedale, tutte le faccie si rasserenavano, ed anco negli occhi immobili dei più aggravati errava un qualche lieve lume di speranza e di consolazione. Poveri giovani! C’era dei giorni che il rumor delle sciabole si faceva sentire un’ora più tardi, ed essi in quell’ora stavan tutt’occhi e tutt’orecchi al più lieve strepito, al più piccolo moto; ogni momento credevano di sentir quei passi e quelle voci, e andavan fantasticando quali impedimenti potevano esser sorti, quali disgrazie accadute, e in quello stato d’ansietà il senso del male si faceva più vivo. — E non vengono, e non verranno più, e io sto [p. 304 modifica]così male, e non potrò più durarla fino a domani, e morirò solo.... oh! eccoli! — Questo momento era d’una dolcezza da non potersi significar con parole.

Gl’infermieri degli ospedali militari eran tutti soldati, si sa; ma in molti paesi lo eran pure gl’infermieri degli altri ospedali, e lo furono per tutto il tempo che non si trovò nel popolo chi volesse prestarsi a quel servizio, neanco colla promessa di larghissime paghe, chè la paura della morte vinceva ogni cupidità di danaro come ogni sentimento di pietà. A quell’ufficio i soldati si offrivano spontaneamente. L’ufficiale di settimana domandava: — Chi vuol andare? — Mezza compagnia faceva un passo innanzi o alzava una mano. Quando la domanda era fatta a un intero battaglione, in piazza d’armi, in presenza di molto popolo, la risposta era uno spettacolo solenne. — Un giorno alle falde del monte Pellegrino, presso Palermo, sei o sette compagnie del 53º reggimento di fanteria stavano ferme e schierate in battaglia dopo aver terminato gli esercizi, quando il colonnello e un maggiore, tutti e due a cavallo, si vennero a porre dinanzi alla compagnia del mezzo, e il primo fe’ atto di voler parlare. Gli ufficiali ordinarono il silenzio. Il colonnello disse ad alta voce dello stato infelicissimo in cui versava la città, — erano i giorni in cui il colèra infieriva più terribilmente, — degli ospedali che difettavano d’infermieri, del debito che incombe ad ogni buon cittadino di prestar l’opera sua a sollievo delle pubbliche sventure, e terminò dicendo più forte: — Non v’impongo un dovere; vi esorto ad un sacrifizio; liberi tutti di rispondere sì o no, secondo che detta il cuore. Ma prima di acconsentire misuri ciascuno le forze dell’animo suo e pensi che l’ufficio d’infermiere è nobilissimo, ma grave, e non senza pericoli, e che bisogna prestarlo con gran corag[p. 305 modifica]gio e con grande affetto, o rifiutarlo. Coloro che si profferiscono si mettano a «ginocc-terr».

Quasi in un sol punto tutta la linea di battaglia si chinò come a un grido di comando, e al di sopra delle teste apparirono ritti e distinti i quattrocento fucili.

Il colonnello si voltò indietro e disse vivamente: — Maggiore!

Questi gli rispose con uno sguardo.

Ma dove più mirabilmente si esercitava la carità dei soldati era nel soccorrere i poveri.

«Quando io andava in caserma, — mi raccontò un ufficiale del 54º, ch’era stato un pezzo comandante di distaccamento a S. Cataldo, — ero ogni giorno accompagnato da uno sciame di poveri; le donne indietro coi bambini in collo, dinanzi ed ai lati i ragazzi colle mani tese, lamentando e piangendo. Un altro branco d’accattoni m’aspettava alla porta, e tutti insieme poi mi circondavano, mi si stringevano addosso, mi afferravano per le falde, m’intronavano di gemiti e di grida supplichevoli. Avevo un gran da fare a liberarmene, e il più delle volte non ci riuscivo se i soldati di guardia non venivano ad aiutarmi, rompendo la folla a furia di spintoni e di minacce. E molte volte le minacce a voce non bastavano; bisognava por mano alle baionette e far l’atto di ferire, e solamente allora cominciavano a levarmisi d’attorno; ma per poco, chè s’io non ero lesto a infilar la porta del quartiere, tornavano daccapo. Molti di quegli infelici stavan tutto il giorno seduti in terra dinanzi alla porta; alcuni vi dormivan la notte; nessuno poi vi mancava all’ora del rancio, quando i soldati portavan fuori le marmitte cogli avanzi della minestra. E allora era un rimescolamento, un urlìo da non potersi quetare nemmeno colla forza. Affamati com’erano da non reggersi in piedi, ognuno [p. 306 modifica]voleva essere il primo ad avere la sua cucchiaiata di brodo, si gettavan tutti assieme sulle marmitte, vi cacciavan dentro le scodelle a dieci a dieci, respingendosi e percotendosi l’un l’altro e urlando come forsennati, donne, vecchi, fanciulli, alla rinfusa; tutte faccie scarne, con una certa espressione tra bieca e insensata, che destava in un punto paura e pietà; sordidi, cenciosi, seminudi, in uno stato che mettevan ribrezzo. In que’ momenti i soldati li lasciavano fare, nè io poteva pretendere che li tenessero a dovere, a meno che si fosse risoluti a far del male a qualcuno; ma, appena cessata la confusione, essi chiamavano in disparte, ad uno ad uno, i fanciulli e le donne che pel solito eran rimasti a bocca asciutta, e davan loro da mangiare, tenendo indietro tutti gli altri che in un momento si riaffollavano e ricominciavano a chiedere. E questo era un affar di tutti i giorni. Non parlo dei soldati ogni momento fermati per le vie da famiglie intere di mendicanti, attorniati, perseguitati, tanto che s’eran ridotti a non uscir più di caserma e a contentarsi di passeggiar nel cortile. Eppure amavano meglio di stare in quel paese dove i poveri non li lasciavano in pace, anzichè in quegli altri dove li fuggivano per paura del veleno; chè anzi in quello stesso esser tanto implorati e importunati, in quel vedersi, in certo modo, fatti schiavi della povera gente, essi trovavano una specie di compiacimento, ed era quell’intima dolcezza che nasce dalla pietà quando la si può esprimere ed esercitare colla beneficenza. E la pietà la sentivano quei buoni soldati, e la beneficenza la esercitavano col miglior cuore del mondo. Non solamente facevan delle limosine ciascuno per conto proprio quando lo potevano e se ne offeriva l’occasione; ma ogni volta che io, essendoci costretto da qualche supremo bisogno del paese, ricorsi alle loro povere borse dopo aver dato fondo alla mia, li trovai [p. 307 modifica]sempre tutti, non un solo eccettuato, tutti generosamente disposti a dar tutto, fin l’ultimo sigaro, fin quel po’ di vino che bevevano la domenica coi pochi soldi risparmiati nella settimana. Non dimenticherò mai come fu fatta l’ultima colletta per una famiglia del paese a cui erano morti di colèra il padre e la madre; una famiglia tutta di femmine, delle quali la maggiore aveva dodici anni. — Veda se può raccogliere qualcosa, — dissi al sergente. — Egli mi rispose: — Vedrò; ma c’è da aspettarsi poco o nulla; oramai n’han quasi più bisogno loro che la gente del paese. — Capisco — gli soggiunsi; — provi ad ogni modo; per quanto riesca a far poco, qualcosa sarà sempre meglio che niente. — Andò su nel dormitorio; i soldati stavan tutti seduti sul pavimento, in circolo, come attorno a una gran tavola, e mangiavano e chiacchieravano, con quella poca allegria che era possibile in quei giorni e in quei luoghi. Il sergente s’avvicinò. — Attenti un momento! — Tutti tacquero. — Ieri mattina, qui in paese, sei bambine sono rimaste senza padre e senza madre. Chi vuol dar qualcosa tanto per non lasciarle morire di fame?

I soldati si guardarono in viso come per dirsi: — Che cosa possiamo dare oramai? La coperta del libretto di deconto per farla bollire?

— Animo — riprese il sergente — una risposta qualunque.

Un soldato si alzò e mostrandogli un soldo nella palma della mano: — Lo vuole? — dimandò, e fece una cera come se quasi si vergognasse d’aver offerto così poco.

— Anche questo è qualcosa, — rispose il sergente pigliando il soldo. — C’è altro?

— Se non si tratta che d’un soldo, ce l’ho anch’io — gli rispose un altro, e gli gettò il soldo. [p. 308 modifica]

— Basta un soldo? — domandò un terzo. — Basta, sì. — Ne ho uno anch’io. — Io pure. — E così tutti i soldati porsero l’uno dopo l’altro il loro soldo, e il sergente, a misura che li pigliava, — bravo! — diceva a questi, e a quegli — bene, — e a quell’altro — benone. — O che bravi ragazzi! — esclamò poi quand’ebbe tutti i soldi nelle mani; — ma.... ancora una cosa.

— Che cosa? — dimandarono i soldati.

— Pane.

— Pane? Oh se non è che questo, — risposero alcuni, — ce n’è d’avanzo. E prima gli uni e poi gli altri tagliarono ciascuno una fetta del loro pan nero.

— Dove lo mettiamo? — domandò uno.

Un caporale prese una bacchetta di fucile e infilò tutte le fette di pane che gli vennero date. I soldati ridevano.

— E adesso chi porta i denari e il pane alle bambine? — domandò il sergente.

— Il più bello — rispose una voce. Tutti risero e approvarono.

— Eh sì, il più bello, vattel a pesca! Chi sarà questa bellezza?

— Io! — esclamò un soldato napoletano che aveva nome di essere il più brutto della compagnia, e fra le risa dei compagni si fece innanzi, si mise in tasca i denari, pigliò la bacchetta col pane e s’avviò col sergente per uscire. Tutti gli altri batteron le mani. — Oh insomma! — gridò il napoletano volgendosi in tronco verso i suoi compagni; — la volete finire? Vergogna, ridere alle spalle di chi fa le opere di carità! — Ed uscì mentre nel camerone scoppiava un’altissima risata. Il sergente m’incontrò su per le scale e, credendo che io andassi su pur allora, — ah! signor tenente, — mi disse piano colla voce commossa, — se lei avesse visto! [p. 309 modifica]

Questo racconto, con poche parole di più o di meno, udii da un ufficiale del 54º. E quel che fecero i soldati in quel paese l’han fatto gli altri del 54º nella città di Caltanissetta, per cui questo reggimento è stato una vera provvidenza; l’ha fatto il 18º di fanteria a Terrasini in favore delle due famiglie che assistettero il povero sottotenente Viale e il sergente Imberti; l’han fatto a Messina il 6º battaglione di bersaglieri e il 10º reggimento di fanteria; l’ha fatto il 58º a Petralia Sottana; il 38º battaglione bersaglieri a Monreale; il 67º di fanteria e il 15º battaglione di bersaglieri a Longobucco; il 68º di fanteria a Reggio di Calabria; i lancieri di Foggia a Misilmeri; il 25º battaglione di bersaglieri a Rocca d’Anfo; il 7º di fanteria a Mantova e il presidio del forte di Bard, e i cacciatori franchi d’Aosta, e chi sa quanti altri corpi avran fatto altrettanto, senza che ce ne sia pervenuta notizia, solo perchè nessuno dei benefattori n’avrà voluto scrivere o parlare con chicchessia, da cui il fatto potesse venir riferito ai giornali. Eppure anche allora c’era chi domandava severamente al governo a che si mantenesse in arme un così «colossale» esercito, e se si credeva di «incivilire il paese colle baionette», e se di tante «oziose» caserme non sarebbe stato meglio fare altrettanti ospedali, e se il danaro che si spendeva nell’alte paghe non si sarebbe potuto impiegare a sollievo della miseria, e via così. E queste cose si dicevano mentre il soldato divideva il suo pane col povero, combatteva, soffriva e moriva per la salute del paese.

Qualche volta i municipi a cui i soldati avean reso più grandi servigi, offrivano loro in compenso quei pochi danari di che potean disporre, e questi municipi non furon pochi. Ma quei denari eran sempre rifiutati, e si possono citare dei fatti e dei nomi. Il municipio di [p. 310 modifica]Licata, verso la metà di agosto, offriva cento lire alla 9ª compagnia del 57º reggimento. La sera del 14, il capitano Pompeo Praga si recava in caserma all’ora della ritirata per annunziare ai suoi soldati l’offerta del municipio. Erano tutti schierati nel dormitorio, e il furiere faceva l’appello. Il capitano l’interruppe e diede la notizia che avea da dare, e soggiunse:

— Furiere, domani mattina prima del rancio sia ripartita la somma fra tutti.

— Sissignore.

Segui un momento di silenzio.

— Signor.... mormorò una timida voce in mezzo alle file.

— Chi ha parlato? — domandò il capitano. Nessuno rispondeva — Chi ha parlato? — ripetè.

— Io — rispose un soldato.

— Che cosa volevate dire?

— Volevo dire che.... quanto a me.... (e volgeva peritosamente lo sguardo a cercare sul volto dei compagni un’espressione di assentimento) mi pare che soldo più soldo meno.... sia la stessa cosa per.... (e guardava un’altra volta i compagni) per noi..., e sarebbe meglio.... mi pare....

— Avanti.

— Qui in paese c’è dei poveri....

I compagni compresero il suo pensiero e bisbigliarono: — Sicuro. — Ben pensato. — Sarebbe meglio far così. — Ai poveri. — Sicuro. —

Il capitano lasciò quetare il bisbiglio e poi: — Sentite. Io voglio che mi diciate tutti il vostro pensiero sinceramente. Io non vorrei che qualcuno di voi rifiutasse l’offerta del municipio per compiacermi, chè mi farebbe invece un vero dispiacere. E non voglio nemmeno che i più impongano il loro desiderio ai meno. Questi [p. 311 modifica]denari ve li siete meritati, avete faticato, avete sofferto, avete fatto del bene, è troppo giusto che vi si dia questo po’ di compenso. Consigliarvi a privarvene sarebbe un’indiscretezza, ed io me ne guardo. Anzi vi dico schiettamente che se l’accettate fate bene. Animo, siate franchi; se c’è qualcuno fra voi che abbia bisogno della sua parte di denaro me lo dica senza timore e senza vergogna come lo direbbe a un amico; io non istimerò meno chi accetta di chi rifiuta; voglio che chi ha bisogno di denaro lo dica. Animo, c’è nessuno? —

La compagnia commossa dallo schietto e affettuoso linguaggio del capitano rispose ad una sola voce:

— Nessuno!

— Nemmen’uno? — e tenne d’occhio tutti i volti.

— Nessuno! — ripeterono tutti, e l’accento del grido e l’espressione degli occhi affermavano la spontaneità di quell’atto.

— Bravi! — esclamò vivamente il capitano. — Domattina andrò al municipio e dirò a quei signori che la 9a compagnia del 57º reggimento offre cento lire di elemosina ai poveri di Licata.

Uscì, e quando fu nella via sentì i canti e le grida allegre dei soldati che, terminato l’appello, avevan rotte le righe, e si disponevano ad andare a dormire. Alzò gli occhi in su alle finestre illuminate della Caserma e gli venne detto forte, proprio come se parlasse a qualcuno: — Che buoni figliuoli! —

E quel che han fatto a Licata han fatto in Aosta, a Scansano, a Genova, e in molti altri luoghi, che non giova citare per non riempir le pagine di nomi. Ma non posso tacere di te, o bravo Zamela, zappatore del genio, che avendo saputo le sventure ond’era afflitta la tua povera Messina, mandasti trenta lire al sindaco scrivendogli: «Me le han date perchè ho assistito colerosi del [p. 312 modifica]mio reggimento; non ho altro; ma questo poco lo do ben di cuore pei poveri del mio paese.»


Le opere di beneficenza sono sempre stimabili e lodabili, anche se il primo degli impulsi che ci movono a farle, sia il desiderio della gratitudine e dell’affetto dei beneficati. Ma quando da quest’opere non si raccoglie neanco il frutto della gratitudine, chè anzi, chi ci dovrebbe amare e benedire, ricambia coll’odio la nostra carità, e nell’offerta sospetta l’insidia, e nel benefizio il delitto; e ciò malgrado si persiste coraggiosamente a far del bene, amando, perdonando, senz’altro movente che la pietà, senz’altro conforto che la coscienza, allora s’ha diritto ben più che alla stima e alla lode che alle virtù comuni si suol dare. Voglio dire delle opere generose dei soldati in que’ paesi dove si credeva ch’essi spargessero il veleno per mandato del governo, e il popolo li odiava e li malediva. E questi paesi furono i più.

Da ultimo, poi che s’era visto che anche i soldati morivano, che non tutti coloro ch’essi portavano agli ospedali ne rimanevano avvelenati, che anzi i superstiti non finivan mai di lodare la sollecitudine e l’affetto con cui erano stati assistiti e curati, l’insensata superstizione era sparita. Ma che i soldati avvelenassero il popolo, in sulle prime, era una credenza universale, un convincimento profondo, un fatto su cui non sarebbe stato lecito ad alcuno di muovere un dubbio. Non v’era chi, occorrendo, non n’avrebbe fatto giuramento con sincerissima fede. Ognuno teneva tenacemente per fermo, pur non avendo visto mai nulla, che ci fossero mille indizi, mille prove irrefragabili di quella orrenda congiura. E una di queste prove, una delle più efficaci, il volgo la vedeva in quella stessa sollecitudine dei soldati, in quel loro volersi ficcar dappertutto, e di [p. 313 modifica]tutto immischiarsi, non chiamati, non costretti, sotto colore di esercitare una carità, che non si poteva credere sentita da gente, com’eran essi, pagata dal governo, sostenitrice del governo, e però necessariamente nemica del popolo. Quella carità non poteva essere che una maschera; quelle opere di beneficenza non potevano essere che un pretesto, un mezzo di un secondo fine; non si poteva spiegare perchè il soldato, istrumento d’un governo nemico, stendesse una mano pietosa al povero e all’infermo, se non con questo ch’ei gli preparasse la morte coll’altra. In conseguenza di questa convinzione e di questa paura è facile immaginare come il volgo si portasse coi soldati.

Una delle città in cui più generalmente si dette fede al veneficio, fu Catania, ov’era di presidio il 9º reggimento di fanteria. Varrà il suo esempio per tutti gli altri paesi.

I soldati, nell’ore libere, non andavano mai soli per la città; sempre a tre a tre, a quattro a quattro, o a brigatelle anche maggiori, per esser sicuri dalle violenze, e imporre ritegno a chi avesse in animo di insultarli o di far loro del male a tradimento. Andavano quasi sempre per le vie principali, e non molto lontano dalla caserma; qualche volta, e solamente in caso di necessità, per le vie rimote; fuori di città mai, chè certo vi sarebbero stati provocati o aggrediti. Ma dovunque essi andassero, o in pochi o in molti che fossero, eran guardati bieco da tutti. Se nella via c’era un crocchio, quelli che davan loro le spalle si voltavano prontamente indietro, tutti si ritraevano d’un passo, e si susurravano qualcosa nell’orecchio. — Eccoli qui — diceva forte qualcuno. E qualcun altro: — Badatevi. — I soldati passavano, e il crocchio si ricomponeva. Molti, vedendoli da lontano venir verso di loro giù per la via, scan[p. 314 modifica]tonavano. Altri, incontrandoli, giravan largo e si fermavan poi a guardarli quand’eran passati, con una curiosità mista di orrore e di paura. Nei quartieri della povera gente, al loro apparire alcuni chiudevan gli usci e s’affacciavano alle finestre; altri socchiudevan le imposte e guardavano per lo spiraglio; le donne chiamavano ad alta voce i bambini che giocavano in mezzo alla strada, o li andavano a prendere in braccio e li portavano in casa di corsa; i fanciulli scappavano di qua e di là volgendosi indietro a far i visacci; e a misura che i soldati andavano oltre, le porte e le finestre si riaprivano, e la gente faceva capolino con gran sospetto, interrogandosi e rassicurandosi a vicenda co’ cenni. Non di rado i soldati udivano sonar nell’interno delle case urli e parole che non potevan capire, ma che dall’accento iroso o beffardo apparivano indubbiamente dirette a loro; e alzando gli occhi alle finestre vedevano spuntare adagio adagio una faccia, che, appena vedutili, si ritraeva; o non vedeano che una mano sporta fuori del davanzale e agitata in atto di minaccia, o ferma colle dita estreme distese e l’altre chiuse in atto di far le corna. Altre volte, passando, si sentivan mormorare alle spalle un aperto insulto, o una maledizione, o una parola incompresa che sonava l’una o l’altra cosa, si volgevano e vedeano una faccia volta in su a guardar le nuvole in aria distratta; domandar conto dell’insulto gli era un radunar gente e provocare un tumulto; tacevano e tiravano innanzi. Talora, invece che una parola, fischiava alle loro orecchie una pietra; tornavano addietro, cercavano chi fosse, interrogavano i presenti; nessuno sapeva nulla, nessuno aveva visto, nessuno aveva sentito.

Andando a pigliare i viveri, i carri del reggimento bisognava farli passare per certe vie, per cert’altre no; si diceva che dentro v’eran le materie velenose che [p. 315 modifica]ammorbavano l’aria; non si voleva lasciarli passare; si sbarrava loro la strada. Per portare il rancio ai loro compagni di guardia bisognava che i soldati facessero un lungo giro attorno a certi quartieri; guai a passarvi in mezzo; la vista delle marmitte metteva in sospetto la gente; in men d’un istante, si radunava la folla, si arrestavano i soldati, si voleva vedere che cosa portavano, si obbligavano i portatori ad assaggiare in presenza di tutti quel brodo, a lasciarne una parte per provarlo e analizzarlo poi. Un indizio, per quanto lieve, un’asserzione, per quanto assurda, una parola, un gesto qualunque d’uno della folla bastava a mutare il sospetto in certezza, la certezza in furore. Non c’era tempo e modo di consumar un delitto poichè i furori della plebe, sempre preveduti, erano sventati sempre da un soccorso preparato e sollecito; ma la violenza non s’era sempre in tempo a impedirla, nè tanto potevano andar cauti i soldati da riuscire ad evitarla ogni volta, o a non provocarla mai. — Un giorno, in una via disusata, alcune donne del volgo videro un soldato con un involto sotto il braccio entrare a passi frettolosi in una casa, dove, poco prima, una fanciulla era stata colpita dal colèra. Cominciarono a fantasticare fra loro sul perchè quel soldato fosse entrato in quella porta. — Avete notato che cosa aveva sotto il braccio? — Avete osservato come aveva la faccia torva, e come si guardava attorno con sospetto? — Tutte gli avevano veduto qualcosa di strano e di malaugurato. Andarono verso quella casa e si fermarono davanti alla porta. Era chiusa; i sospetti s’accrebbero. Picchiarono; nessuno venne ad aprire. Chiamarono ad alta voce quei di dentro; nessuno rispose. Non c’era più dubbio; in quella casa si stava consumando un delitto. Levarono alte grida, percossero furiosamente la porta, lanciaron sassi nelle finestre; in [p. 316 modifica]meno d’un minuto la strada fu piena di gente armata di bastoni, di scuri e di coltelli; la porta fu rovesciata, la folla si precipitò nella casa. Quand’ecco si schiude rapidamente una delle finestre del primo piano; un uomo in maniche di camicia balza in piedi sul davanzale, manda un altissimo grido, salta giù nella strada, cade, si rialza, — c’è un soldato che avvelena! — urla atterrito alla gente che gli si affolla intorno, fende la calca, divora la strada, scompare. Era il soldato istesso entrato poco prima nella casa per dare a una lavandaia un involto di biancheria del suo furiere.

Pochi giorni dopo accadde qualcosa di simile a un’ordinanza, mentre dalla trattoria portava il pranzo al suo ufficiale ch’era malato in casa. Da una mano teneva una boccetta dello speziale, e dall’altra i quattro capi d’un tovagliolo con dei piatti. Attraversava una viuzza abitata da poveri. Tutti l’osservavano attentamente; qualcuno, a una certa distanza, lo seguiva; quattro o cinque donne lo fermarono e gli chiesero fieramente che cosa ci fosse in quei piatti. Ebbe la mala ispirazione di rispondere un’impertinenza. In men che non è detto, i piatti, la boccetta, il tovagliolo furono sotto i piedi d’una folla di gente sbucata come per incanto da tutti i bugigattoli delle case d’intorno. Il povero soldato appena ebbe il tempo di aprirsi la via colla baionetta alla mano, e dovette ringraziare il cielo d’esserne uscito con una graffiatura nel viso e un colpo di pietra nella schiena.

Un’altra volta, passando tre soldati dinanzi a un gruppo di case fuori della città, uno di essi si fermò a guardare un fanciullo che scavava colle mani una fossetta, gli disse: — Bel bimbo, — si chinò e gli fece una carezza. Una donna poco lontana di là vide quell’atto, si slanciò alla porta d’una di quelle case e gridò con quanta [p. 317 modifica]voce avea in gola: — Presto, presto! I soldati t’ammazzano il bambino! — Un grido acuto s’intese dal di dentro, apparve nello stesso punto sull’uscio un’altra donna, vide i soldati, si avventò, gettando un grido spaventevole, sopra il bambino, lo strinse fra le braccia, tornò come un fulmine in casa, chiuse la porta, si slanciò alla finestra, ansante, convulsa, cogli occhi fuor dell’orbita e la faccia smorta e stravolta; fissò lo sguardo sui soldati, e poi, accompagnando le parole con un gesto vigoroso come se scagliasse una pietra, gridò con voce soffocata: — Maledetti! — e si ritrasse. I soldati stavan là fermi, a bocca aperta, come trasognati. Ma la donna che avea dato il primo grido era corsa a chiamar gente; onde i tre poveri giovani pensarono tosto a mettersi in salvo, che non c’era tempo da perdere. Non avevano fatto ancora cinquanta passi quando apparvero davanti alla casa della madre i forieri armati della turba.

Una sera, lunge dall’abitato, un branco di contadini che andava in traccia d’avvelenatori, s’imbattè in un soldato. Appena lo vide, gli mosse incontro di corsa. Il soldato, malaccorto, volse le spalle e si diè a fuggire. Fu raggiunto, afferrato da dieci mani, tradotto dietro una casa romita, messo colle spalle al muro, minacciato di morte. — Dove tieni il veleno? — gli domandarono dieci voci in una. — Io non ho veleno... — rispose balbettando il soldato, bianco come un cadavere. — Dove tieni il veleno? — insistettero gli altri minacciosamente. E uno gli tolse il cheppì, lo esaminò e la buttò in terra; un altro gli strappò dal collo la cravatta. — Fuori questo veleno! — e uno che lo avea afferrato pel collo gli fece batter la testa nel muro. — Non ho nulla.... — rispondeva con voce spenta e supplichevole il soldato. — Ah, non hai nulla, eh? Ora lo vedremo se non hai nulla! digrignavano quei feroci, e sbottonatogli [p. 318 modifica]il cappotto e apertagli la camicia, lo andavano frugando per tutto. — Levategli il cinturino, — disse uno. — Gli afferrarono subito il cinturino e glielo tirarono di qua e di là per levarglielo d’addosso; non ci riuscivano, strillavano, bestemmiavano. — Oh!... lasciatemelo stare..., implorava il povero soldato, lasciatemelo stare il cinturino!... — Glielo sciolsero e glielo buttaron via, lo costrinsero a svestire il cappotto, malmenandolo, percuotendolo, facendogli correre a fior di pelle le punte dei coltelli, urlandogli nell’orecchio ogni maniera di vituperi e di maledizioni. L’infelice, a cui restava appena tanta forza da reggersi in piedi, si lasciava fare ogni cosa senza resistenza, quasi fuori dei sensi, colla testa e le braccia penzoloni come una persona morta, mormorando di tratto in tratto con un filo di voce: — La mia baionetta.... io non avveleno nessuno.... lasciatemi stare.... datemi la mia roba.... la mia baionetta!... — L’avrebbero certamente ucciso; ma volle la fortuna che passasse per di là una pattuglia, la quale, accorrendo velocissimamente, disperse la turba proprio nel punto che stava per ispargere il sangue di quello sventurato.

E questo ch’io narrai è quanto accadde di meno doloroso in quell’ordine di fatti, però che a Catania almeno sangue di soldati non se ne sparse, e non si può dire lo stesso di tutti gli altri paesi. Che cosa doveva provare in quei giorni il cuore dei soldati! Quali saranno stati i loro pensieri, i loro discorsi, a vedersi così ferocemente esecrati da coloro stessi a cui sacrificavano il riposo, la salute, la vita!

Ma per essi il correr rischio continuo della vita e averla a difendere così di frequente dalle violenze d’un volgo insensato era forse un pensiero meno doloroso e una cura men grave che il dovere a ogni tratto proteggere la vita degli altri cittadini dalle stesse violenze e [p. 319 modifica]per le stesse cause minacciata. Ogni giorno dovevano accorrere a disarmare e ad ammansire una folla cieca di furore e assetata di sangue, e a strappare dalle sue mani le vittime, quasi sempre già malconcie dalle percosse e sanguinose, spesso semivive, qualche volta già trucidate. Bisognava, quando non si poteva più far altro, lottare per impadronirsi dei cadaveri, perchè non fossero mutilati e trascinati per le vie, o dati in preda alle bestie o alle fiamme. Bisognava che si cacciassero uno ad uno in mezzo a una folla di gente armata, che stringendosi e ondeggiando li portava di qua e di là, separandoli, pigliandoli in modo che al bisogno non avrebbero neanco potuto far uso delle armi, e l’uno potea essere passato da una coltellata senza che gli altri nemmeno se n’accorgessero. Eppure di quella turba forsennata bisognava fidarsene, e persuaderla, pregarla, supplicarla, chè ogni minaccia sarebbe riuscita vana, quando pure, inasprendo le ire, non avesse provocato una mischia e fatto versar nuovo sangue; il che, pur troppo, non di rado accadeva. Ciò nulla meno, molte vite furono salve, molto sangue fu risparmiato, e s’impedirono molti atti di ferocia brutale, specialmente nei paesi in cui non eran sospetti di veneficio i soldati, o nei giorni in cui non l’erano più.

Varrà un esempio per tutti.

A Bocca di Falco, piccolo villaggio vicino a Palermo, c’era il colèra. Correvano per le bocche di tutti i nomi di coloro sui quali il terribile sospetto era caduto, e s’aspettava una qualunque occasione per immolarli. Fra questi era un povero merciaiuolo che ogni due o tre giorni attraversava il paese per recarsi a Palermo. Aveva i capelli lunghi, un vestire strano, un cipiglio fiero, modi aspri e poche parole; ce n’era d’avanzo per crederlo uno spargitore di veleno. Un [p. 320 modifica]giorno che il colèra aveva incrudelito oltre il consueta in quel paese, alcune frotte di pezzenti armati di zappe e di bastoni andavano in volta pel paese, levando alte grida di minaccia, fieramente risolute a farla finita cogli avvelenatori. Una di queste frotte incontrò il merciaiuolo, lo pigliò in mezzo senza ch’egli se n’avvedesse, gli si strinse ai panni e lo interrogò. — Quanti ne hai spacciati quest’oggi? — Lo sventurato comprese e credette di salvarsi con uno scherzo — Dieci! — rispose, e non rise. — Bastò. Uno della folla gli diede un gran calcio nella cassettina delle spille e delle cravatte che portava appesa al collo, e gli mandò in aria ogni cosa, dicendogli: — Questo, per ora. Adesso mostraci con che cosa assassini la gente. — Io? — quegli rispose per sua sventura, non riuscendo a frenare un impeto d’indignazione. — Siete voi che mi assassinate! — Ah siamo noi! — proruppe la folla furente. E nello stesso punto un pugno vigoroso nel mento gli empiva di sangue la bocca, una mano lo serrava alla strozza, un’altra gli si avvolgeva nei capelli, su tutta la persona gli cadeva una tempesta di pugni e di calci, ed era sbattuto così violentemente contro il muro che la nuca vi lasciava sopra una impronta di sangue. — Confessa i complici, assassino! — gli gridavano i primi conficcandogli profondamente le unghie nelle guancie e nel collo e premendogli le ginocchia e i bastoni contro il ventre — confessa! — E quei ch’eran dietro tendevan le braccia per afferrarlo, si buttavano di qua e di là per aprirsi un varco nella folla e giungere fino a lui e aprirgli anch’essi una ferita. L’infelice grondava sangue dalla bocca e dalle orecchie, gli occhi pareva gli volessero schizzar dalla fronte, un rantolo mortale gli erompeva dal petto; metteva orrore. — Confessa! Confessa! — Tutto ad un tratto dall’altro lato della strada scoppiò un altissimo [p. 321 modifica]grido; era un altro avvelenatore che un’altra frotta di forsennati aveva assalito e percosso; tutti si voltarono da quella parte; il merciaiuolo, rimasto libero un istante, ributtò con uno spintone due che gli stavano al fianco, si gettò in una porta, la chiuse. La folla, intravvisto quell’atto, s’avventò contro la porta e cominciò a percuoterla rabbiosamente co’ sassi e colle zappe. Il merciaiuolo s’era ricoverato in una stanzuccia a terreno; v’era dentro una donna che aveva visto dalla finestra tutta la scena di poco prima; all’apparir dell’avvelenatore si tenne per morta; il coraggio e la rabbia della disperazione l’invasero; gli si slanciò contro come una furia, gli si avviticchiò al collo, e cominciò una lotta feroce di morsi e di graffi. Stramazzati tutti e due, si avvoltolavano per terra come due belve, tenacemente abbracciati, l’un sopra l’altro a vicenda, mescendo l’alito e il sangue; la folla sporgeva le braccia dentro la stanza a traverso l’inferriata della finestra, e tendeva le mani convulse per afferrare la sua vittima, ululando orrende parole, e la porta cominciava a scricchiolare ed a cedere.... I soldati! I soldati! — gridarono in quel punto molte voci. Dopo un istante il povero merciaiuolo udì avvicinarsi nella via un rumor concitato di passi, vide luccicare di là dalle finestre le baionette, senti sonare una voce poderosa al di sopra del tumulto che diceva: — Pane per tutti! — e subito dopo i colpi alla porta rallentarsi e cessare, le braccia dei suoi assalitori ritrarsi dalla inferriata, e alle grida irate della folla succedere un sordo mormorio. La donna era rimasta in terra stremata di forze; egli era salvo. — Il comandante del distaccamento era stato avvisato per tempo di ciò che stava accadendo in paese, aveva radunato in un attimo tutti i suoi soldati, aveva fatto prender da ciascuno il suo pane, ed era così accorso a se[p. 322 modifica]dare il tumulto colla doppia arme della minaccia e della carità. Dei soldati, in quel paese, non si sospettava, non solo, ma v’eran ben veduti, e fors’anco amati per le elemosine e i soccorsi d’ogni maniera di che erano stati sempre larghi con tutti; e però, al loro apparire, la folla ristette dalle violenze, e a poco a poco si tranquillò. Una parte dei soldati entrò nella casa e vi si pose a guardia; gli altri stettero guardando quei poveri affamati che divoravano il loro tozzo di pane in silenzio. — Oh quanti ne seguirono di cotesti fatti, e quante volte si ripeterono negli stessi paesi!


Ma la fatica più dura e l’ufficio che naturalmente più repugnava ai soldati era quello di seppellire i morti; per cui bisognava che s’armassero più che mai di coraggio e di fortezza. Spesse volte, nel cuor della notte, capitava alla caserma un messo del municipio a dire che in un tal punto, in una tal casa del paese s’erano scoperti dei cadaveri che nessuno voleva seppellire e che bisognava provvedervi prontamente, prima che la putrefazione rendesse impossibile la sepoltura. Un rullo fragoroso di tamburo destava in un istante tutto il corpo, si radunava un drappello di soldati, si accendevano le lanterne, si tiravano fuori i carri, si pigliavan le zappe e i badili, l’ufficiale di picchetto si metteva alla testa del convoglio, e via. Si giungeva silenziosamente al luogo indicato; le vie erano solitarie, le case abbandonate e chiuse. Dopo lunga fatica le porte scassinate rovinavano, e un alito d’insopportabile fetore ributtava indietro i soldati. Coraggio; uno innanzi colla lanterna; gli altri dietro a passo lento colla mano sulla bocca girando peritosamente lo sguardo per la squallida stanza. Distesi in terra su giacigli di paglia o di cenci, seminudi o mal ravvolti in un immondo stracciume, giace[p. 323 modifica]vano i cadaveri l’uno accanto all’altro, o l’un sull’altro sconciamente mescolati; le faccie tumide, chiazzate di nero, lorde attorno alla bocca di una bava sanguinolenta; i ventri rigonfi, sparsi di larghe macchie vinose e reticolati di verdi strisce dagli intestini e dalle vene; le membra, dalla parte appoggiata al suolo, schiacciate; ogni sembianza umana stravolta o perduta, e qua e là per le membra più corrotte il primo manifestarsi d’una vita schifosa. E bisognava avvicinarsi a quegli orridi giacigli e afferrare e sciogliere le une d’in fra l’altre quelle membra; sollevare ad uno ad uno quei corpi e portarli sui carri, vedendoli ad ogni scossa e ad ogni passo più bruttamente scomporsi e trasfigurarsi, e lasciar cadere qua e là ora un fetido cencio, ora qualche altra più sozza traccia di sè. Oh la era ben altra cosa che vedere i morti sul campo stesi in un lago di sangue, lacerati dalla mitraglia, o rotti e mutilati dalle palle di cannone! Allora ci suona intorno il grido di mille compagni, si vedono ondeggiare qua e là pei colli e pei campi i battaglioni luccicanti di baionette, si vede sventolar lì accanto la bandiera del reggimento, si sente il lontano rumore delle batterie accorrenti, e il sangue ribolle, l’anima s’esalta, e i cadaveri che s’incontran sul cammino non si contano, ma che! non si guardano, non si vedono, non si pensa nemmeno che ce ne debbano essere, o se l’occhio vi si fissa, il cuore esclama: — Addio, fratello! — e null’altro, e si va oltre, e si scorda. Ma là, in quegli abituri, di notte, in mezzo a quel silenzio, e in quella quiete e al chiarore di quelle lanterne, come doveva essere orrenda l’immagine della morte! Quanti di quei soldati, anche de’ più forti, avranno poi avuto presente, e per più giorni, l’immagine di quei cadaveri deformi, e avran risentito il contatto di quelle membra gelide e floscie, [p. 324 modifica]il rumore di quelle teste cadenti pesantemente sul carro! — E spesso qualcuno retrocedeva inorridito alla vista dei morti, o nell’atto di afferrarli gli tremavan le braccia e gli si velavano gli occhi. — Oh amico!... — avrà detto al vicino, — io non posso! — Ma suonava sempre pronta la voce dell’ufficiale: — Coraggio, figliuoli, tutto sta nel pigliare il primo; bisogna farci l’abitudine. — E allora il soldato stendeva timidamente la mano sopra il cadavere, torcendo il capo e trattenendo il respiro. — Il convoglio s’incamminava alla volta del cimitero. Quivi giunti, i soldati posavano le lanterne in terra, e parte cominciavano a scavar le fosse, parte, fermi accanto ai carri, aspettavano un cenno per porre giù i morti. L’ufficiale stava immobile sull’orlo d’un fosso a sorvegliare l’opera de’ soldati. Tutti tacevano. Non si sentiva che il picchio delle zappe confitte nel terreno e il ricader della terra gettata in aria da’ badili. E tratto tratto una voce: — Animo, ragazzi! — E poi si traevan giù dai carri i cadaveri; un soldato facea lume perchè ognuno potesse vedere dove metteva le mani, un altro ritto sul carro aiutava quei di sotto a prender corpo per corpo dal mucchio, e diceva: — Pigliate questo. — Quest’altro. — Attenti a questo qui che è mezzo disfatto.... — Dieci passi più in là non si sarebbe sentito che un lieve bisbiglio, e a quando a quando una voce più forte: — Coraggio. — Oppure: — Badate alle mani. — E tutt’intorno tenebre e silenzio.

— Ma perchè, — domandò una volta un soldato mentre rientrava in quartiere — perchè li dobbiamo sotterrar noi? — Oh bella — gli rispose un caporale con accento di profonda convinzione, — perchè non li sotterrano gli altri. — A una ragione siffatta non c’era più che obiettare, e tutti stettero zitti. [p. 325 modifica]

Ma ciò che s’è detto finora non è che lieve cosa in confronto di quel che rimane a dirsi. Quanti casi ben più funesti e più lagrimevoli sono seguiti, e come sarei lontano ancora dalla fine della mia narrazione se volessi dire solo una metà di quelli ch’io conosco, e ne conosco una sì piccola parte!

A Sutèra, piccolo paese della provincia di Caltanissetta, v’era un pelottone del 54º reggimento di fanteria comandato dal sottotenente Edoardo Cangiano. La mattina del 22 giugno capita alla caserma un contadino tutto affannato e si presenta all’ufficiale. — Oh signor ufficiale! — esclama con voce supplichevole, — venga lei per carità, ci soccorra lei... Qui presso, a Campofranco, è scoppiato il colèra; metà della gente è fuggita; le vie son piene di morti; non ci son medici, non ci son becchini, non c’è nemmeno da mangiare....; è una desolazione....; quei che non morranno di colèra morranno di fame.... Oh, venga lei, venga subito lei! — Immantinente il pelottone in armi, un avviso al sindaco, un dispaccio al comando militare di Caltanissetta, un avvertimento al sergente che resta in paese con qualche soldato, e poi via a gran passi alla volta di Campofranco. C’era da fare un miglio di strada o poco più per un viottolo serpeggiante a traverso i campi. Splendeva un sole ardentissimo. I soldati, grondanti sudore sin dal primo uscir dal paese, procedevano un dietro l’altro, in lunga fila, con un andare fra il passo e la corsa e l’orecchio intento al contadino, il quale con interrotte parole dipingeva al Cangiano il triste spettacolo che gli avrebbe offerto il paese. — Animo, animo, — questi gli rispondeva tratto tratto, — co’ lamenti non si fa nulla, ora è tempo di fatti. — E sempre più affrettava il passo, e con esso i soldati, tanto che finirono col correre addirittura. A un certo punto si cominciarono a veder da [p. 326 modifica]lontano uomini, donne e fanciulli errare incertamente pei campi, accennarsi l’un l’altro i soldati, soffermarsi, fuggire, correre avanti e indietro, chiamarsi ad alta voce, radunarsi e disperdersi, come gente inseguita e fuor di senno dalla paura. A misura che il drappello s’avvicinava al villaggio, i fuggiaschi spesseggiavano, l’agitazione, il gridìo crescevano; intere famiglie s’aggiravano per la campagna portando o traendosi dietro le masserizie; alcuni che avean posto la roba in terra per riposarsi, alla vista de’ soldati la ripigliavano in fretta e s’allontanavano volgendosi indietro paurosamente; altri cadevano spossati, altri si rialzavano; molti de’ più lontani, rivolti verso i soldati, mandavano alte grida e agitavano le braccia in atto di maledire. — Ah! signor ufficiale! — esclama il contadino, — questo non è anche nulla! — Non importa — rispondeva il Cangiano; — siamo preparati a tutto. — Apparvero le prime case del paese e l’imboccatura della prima strada. La gente che veniva fuggendo alla volta dei soldati, scortili appena, parte volgea le spalle e tornava in paese correndo e gridando come se annunciasse un assalto di nemici; parte si gettava a destra e a sinistra pei campi. Sul primo entrare nella strada, due cadaveri stesi in terra davanti alla porta d’una casa disabitata. Appena entrati, un rapido sparir di gente nelle case, un chiudersi impetuoso di porte e di finestre, strida acute di donne, pianti di bambini, e in fondo alla strada un rapido affollarsi e un rimescolarsi rumoroso di popolo, poi una fuga generale. — Presto, — gridò il Cangiano, — dieci soldati girino attorno al paese e vadano a fermar quella gente. — Dieci soldati si spiccarono dal pelottone e infilarono di corsa una via laterale. Gli altri tirarono innanzi. La gente impaurita continuava a rinchiudersi in furia nelle case.

— Non vogliamo far del male a nessuno! — gri[p. 327 modifica]dava ad alta voce il Cangiano; — siamo venuti ad aiutarvi, siamo vostri amici; uscite, buona gente, uscite pure di casa! —

Qualche porta e qualche finestra cominciava ad aprirsi; qualche persona, alle spalle dei soldati, cominciava ad uscire; nell’interno delle case s’udivan voci fioche di lamento; nella strada, dinanzi alle porte, giacevano prostesi molti infelici estenuati dalla fame e languenti, o presi dal morbo, immobili e intorpiditi che parevano morti; qua e là masserizie abbandonate sugli usci o in mezzo alla via e ad ogni passo paglia sparsa e ciarpame. In ogni viuzza laterale che mettea nei campi uno o due o più cadaveri, quali coperti di paglia, quali di terra, quali di pochi cenci fra cui apparivano le membra gonfie e nerastre; altri buttati a traverso le porte, metà dentro e metà fuor delle case. — Guardi, signor ufficiale, guardi! — esclamava lamentevolmente il contadino, — Provvederemo a tutto, — rispondeva il Cangiano — coraggio! —

In quel punto, la folla dei fuggitivi ch’era stata respinta addietro da quei dieci soldati, veniva tumultuosamente verso l’ufficiale. — Schieratevi, — gridò questi volgendosi ai soldati, ed essi si fermarono e si schierarono a traverso la strada. Il Cangiano aspettò la turba di piè fermo. Questa gli si arrestò dinanzi a una diecina di passi, cessò di gridare, e stette guardando con fiero cipiglio i soldati. Era tutta povera gente stracciata, faccie pallide e ossute, occhi stralunati, fisonomie a cui i lunghi patimenti aveano dato un’espressione come di stanchezza mortale e insieme di selvaggia fierezza. — Vogliamo uscire! — gridò una voce di mezzo alla folla. E tutti ripeterono il grido, e la folla ondeggiò. — Perchè volete uscire? — domandò il Cangiano con voce risoluta, ma temperata d’una tal quale dolcezza. — Bisogna [p. 328 modifica]restare; bisogna aiutarsi l’un l’altro; alle disgrazie comuni bisogna rimediare in comune; è un farle peggiori il pensare ciascuno solamente per sè e nulla per tutti.... Noi siamo venuti a soccorrervi. — Vogliamo uscire! — gridò minacciosamente la folla, e que’ di dietro incalzando, i primi furon balzati innanzi due o tre passi. — Fatevi indietro, — disse con gran calma il Cangiano, e poi ad alta voce: — Ascoltate il mio consiglio; le donne e i fanciulli rientrino in casa; gli uomini restino per aiutare i soldati a seppellire i morti. — Noi non vogliamo morire! — rispose imperiosamente la moltitudine, e levando un rumor confuso di grida, si rimescolò e ondeggiò un’altra volta come per pigliare lo slancio e gettarsi contro i soldati. — Lo volete? — tuonò allora l’ufficiale, — e sia! — E voltosi indietro gridò: — Pronti! — Il pelottone levò e spianò i fucili in atto di sparare, e la folla, gittando un grido di spavento, disparve in un attimo per le vie laterali. Gli altri dieci soldati si ricongiunsero ai primi.

— Qui ci vuol fermezza e coraggio, — esclamò il Cangiano; — bisogna sotterrar subito i morti; metà di voi vada in campagna e mi conduca qui, a forza, quanti più uomini potrà, e gli altri vengano con me. — Metà del pelottone si diresse a rapidi passi fuor del paese. Gli altri cominciarono a correre di qua e di là, a entrar nelle case, a frugar dappertutto in cerca di zappe, di pale, di carrette, di panche, di assi su cui potere in qualche modo adagiare i morti per trasportarli fuor del paese. In pochi minuti trovaron tutti qualcosa di servibile a quell’uopo, e parte cominciarono a raccogliere i cadaveri, parte, recatisi al cimitero vicino, si misero a scavare le fosse in gran fretta, gli altri presero a sgombrar le strade degli inciampi più incomodi e delle più fetide sozzure. [p. 329 modifica]

Intanto il Cangiano, seguìto da un soldato, andava in cerca d’una casa adatta all’uso di ospedale, fermando quanta gente del paese incontrava per via, consigliandoli, esortandoli, pregandoli, e nel passare sollecitava i soldati, dava ordini e suggerimenti, porgeva conforti di affettuose parole. Trovò la casa, la fece sgombrare, vi fece portar dentro i letti dalle case abbandonate, andò egli stesso con quattro soldati a battere alla porta di tutti gli abituri, a domandare che gli lasciassero portar via gli infermi, ch’egli li avrebbe fatti assistere, curare, e le loro famiglie sarebbero state soccorse. Rispondevano di no; egli offriva del denaro, pregava, minacciava; tutto era inutile. Allora i soldati entravano a forza nelle case; due di essi s’impossessavano dell’infermo, gli altri due tenevano indietro colle armi i parenti e i vicini. Spesso bisognava levar di peso di sulle soglie delle case le donne che ne chiudevan l’accesso co’ propri corpi; bisognava lottare con esse, ributtarle malamente, trascinarle.

Dopo lunga fatica, un buon numero d’infermi eran già allogati nel nuovo ospedale e due o tre soldati provvedevano ai loro bisogni aspettando l’arrivo dei soccorsi da Caltanissetta, quando tornò in paese l’altra metà del pelottone traendo seco di viva forza una frotta di contadini che aveva arrestati per la campagna. Corse loro incontro il Cangiano, li scompartì in vari gruppi, e li fece accompagnare ai vari lavori. I soldati novamente giunti presero a lavorare anch’essi; in poco tempo i cadaveri ch’eran per le strade furono sepolti; le strade sgombre e ripulite; si continuò ad andare in volta a prendere gl’infermi, e a poco a poco, ora colla persuasione, ora colla forza, si riuscì a radunarne nell’ospedale la massima parte; da ogni lato era un continuo andirivieni, un chiamarsi, un affaccendarsi continuo di soldati. Il popolo, [p. 330 modifica]che cominciava a riadunarsi, li stava a guardar da lontano tra sospettoso e meravigliato; la gente sparsa per la campagna si veniva a poco a poco avvicinando al paese per vedere che cosa vi accadesse. I primi arrivati, non vedendo più i cadaveri per le strade, pigliavano animo e s’addentravano nel paese; molti cominciarono spontaneamente a pulir le strade di quanto vi rimaneva d’immondo; altri a rientrar nelle case; alcuni ad affollarsi intorno al Cangiano, guardandolo attoniti, senza far parola, trattenuti ancora da un po’ di diffidenza; ma coll’animo preparato a render grazie e a pregare. E il Cangiano, pur non ristando dal correre di qua e di là per incoraggiare i soldati, si volgeva tratto tratto alla gente che lo seguiva. — Su via, andate ad aiutare que’ poveri giovani che è tanto tempo che faticano per voi; andate a chiamare la gente ch’è fuggita in campagna; facciamo tutti qualche cosa; rimettiamo un po’ d’ordine nel paese; il sindaco tornerà; torneranno anche i signori e vi soccorreranno; torneranno i fornai, verranno dei medici; presto arriveranno soccorsi da Caltanissetta; coraggio, via, lavoriamo tutti; a tutte le sventure c’è rimedio, rimedieremo anche a questa. Siamo venuti qui pel vostro bene, persuadetevene, buona gente; che cosa avete a temere dai soldati? Non siamo forse tutti dello stesso paese, non siamo noi i vostri fratelli, i vostri difensori? — A queste parole segui un mormorìo di approvazione nella folla; qualcuno se ne staccò e corse in aiuto dei soldati; altri andarono verso la campagna; molti si sparsero per le strade; i restanti si fecero attorno all’ufficiale con lamenti e supplicazioni: — Siamo senza pane.... abbiamo fame.... — Lo so, buona gente, lo so; ancora un po’ di pazienza, e il pane arriverà; farò tutto quel che posso per voi; manderò i miei soldati a pigliarvi da mangiare a Sutèra; vi daremo tutto [p. 331 modifica]quello che abbiamo. Ma intanto bisogna lavorare, bisogna portar via i morti, curare i malati, aiutarsi fra tutti. — Allora la gente ringraziava, poi ricominciava a pregare, a lamentarsi, a chieder pane.

Ad un tratto, arrivò correndo un soldato e parlò nell’orecchio al Cangiano. Un’assai dura prova di carità e di fortezza restava a farsi! Il Cangiano avvisò saggiamente che si dovesse far ogni cosa di nascosto alla popolazione, ordinò ai presenti d’andar ad aspettare i soccorsi sulla strada che mena a Caltanissetta, chiamò quindici soldati co’ fucili, fece venire innanzi venti contadini colle zappe, e s’avviò con essi verso un’estremità del villaggio. Ivi era una piccola chiesa abbandonata. Si fermarono dinanzi alla porta, la tentarono; era chiusa. L’atterrarono e fecero tutti insieme un passo addietro levando un grido di ribrezzo. In mezzo a quella chiesa, poco più ampia d’una sala ordinaria, c’era un mucchio di venti cadaveri imputriditi. — Avanti! — gridò l’ufficiale. I soldati si gettaron dentro alla chiesa; i contadini dettero indietro. — Avanti! — gridò un’altra volta il Cangiano. Non si mossero. Ei fece un passo avanti, essi si diedero alla fuga, i soldati si slanciarono loro alle spalle, e li ebbero in un momento raggiunti e afferrati. — Trascinatemi qui codesti poltroni! — gridava di sulla porta della chiesa il Cangiano. I soldati li ricondussero a gran stento traendoli per le braccia, cacciandoli innanzi a spintoni, minacciandoli colle armi. Ma al momento di entrare, quelli presero a resistere con maggior forza, puntando i piedi come cavalli restii, dibattendosi e urlando disperatamente, quasi li volessero trarre al supplizio. — Fuori le baionette! — gridò sdegnosamente l’ufficiale afferrandone uno per la vita e buttandolo in mezzo alla chiesa; i soldati snudaron le baionette e le alzarono in atto di ferire. — Avanti, pol[p. 332 modifica]troni, o ve le cacceremo nelle reni! — Voi volete farci morire! i contadini gridavano. — Moriremo tutti! — rispondevano fieramente i soldati; ma bisogna entrare! — E con un estremo sforzo li spinsero dentro tutti e venti. Qui cominciò un orribile lavoro. I cadaveri si trovavano in uno stato di completo sfacimento, eran tutti un flosciume senza forma da non potersi nemmeno sollevare da terra. Bisognò rompere le panche della chiesa, ficcare due assicelle sotto ogni morto, e afferrandole per le estremità, alzare così il fetido peso, colle braccia tese e la faccia rivolta da un lato, chè l’aspetto di que’ corpi era tale da non potervi fermare lo sguardo. Ad ogni crollo ch’e’ ricevessero, colava dalle orecchie e dalle bocche e si spandeva per quei visi un verde marciume, e le nere carni delle braccia e delle gambe spenzolanti pareva si volessero staccare dall’ossa e dissolversi. Il Cangiano mandò quattro soldati a raccoglier legname nelle poche case abbandonate ch’eran là presso. Questi, non trovandovi altro, presero tavole, seggiole, imposte, tutto quanto si potesse bruciare, e ammonticchiarono ogni cosa nel mezzo d’un campo poco lungi dalla chiesa. I cadaveri furono uno ad uno portati fuori e rovesciati su quel mucchio. Vi si appiccò il fuoco ed ogni cosa bruciò. In Campofranco non restava più un cadavere. Tra sepolti e bruciati se n’eran levati di mezzo più di sessanta. —

Viste guizzare le prime fiamme, il Cangiano tornò nel centro del paese, ove riprese e proseguì infaticabilmente la santa opera di prima, finchè giunse da Caltanissetta un capitano della piazza con buona provvigione di alimenti, di medicine e di danaro, e con questi ripercorse, casa per casa, tutto Campofranco, beneficando i poveri, soccorrendo gl’infermi, rassicurando i paurosi, rimettendo in tutti gli animi un po’ di speranza e di pace. In breve tempo rientrarono tutti i fuggiaschi, [p. 333 modifica]il municipio si riordinò, ognuno riprese gli uffici e gli usi consueti, il paese mutò aspetto, e il Cangiano e i suoi soldati ritornarono a Sutèra accompagnati dalla benedizione di tutti. Anche a Sutèra infuriava il morbo, e anche là il Cangiano fece veri miracoli di carità e di coraggio. L’undici d’agosto la Giunta municipale della città lo acclamò unanimemente benemerito del paese, e gli espresse la gratitudine della cittadinanza con una lettera piena di entusiasmo e di affetto. Possano queste povere pagine far sì che nel cuor di molti, come nel mio, suoni caro e riverito il suo nome.

Ricordiamo qualche altro fatto e qualche altro nome.

Il sottotenente Livio Vivaldi comandava un distaccamento del 54º reggimento a Palazzo Adriano. Vi si sparse il colèra. Fuggì il sindaco, fuggirono i medici, i farmacisti, i preti; non restarono che i poveri. Il Vivaldi tenne luogo di tutti e provvide a tutto. Di giorno visitava gl’infermi, sollecitava le sepolture, faceva ripulire e disinfettare il paese; di notte dava la caccia ai malandrini che scorazzavano per le campagne. Fra l’altre volte, la sera del dieci luglio, mentre stava distribuendo del pane in una casa di poveri, gli si annunziò che a poca distanza dal paese s’era radunata una banda di malfattori. Corse alla caserma, prese con sè dieci soldati, uscì alla campagna, sorprese la banda, l’attaccò, fu ferito, continuò a combattere, la volse in fuga, n’uccise il capo, arrestò gli altri, tornò in paese e la mattina dopo ricominciò il suo ufficio di medico e di limosiniere.

A Gangi, nella provincia di Termini, scoppiò il colèra verso la metà di giugno. Mezza la popolazione fuggì. Quei che rimasero occultarono i morti e si chiusero nelle case per paura d’esser avvelenati. Nella notte dal ventisei al ventisette i più arditi si armarono e si die[p. 334 modifica]dero a percorrere il paese tirando fucilate alla cieca nelle finestre, nelle porte, e contro quanti incontravano. Accorsero i bersaglieri da Petralia Sottana, diedero la caccia per tutta la notte ai tumultuanti che si disperdevano e si riannodavano incessantemente, finchè, quetato il tumulto, entrarono a forza nelle case, vi trovarono tredici cadaveri insepolti, e li seppellirono di propria mano, minacciati e insidiati nella vita dalla moltitudine irata.

Era scoppiato il colèra a Menfi. Il popolo difettava di medici, di medicine, di danaro, di pane. Ventiquattro cadaveri giacevano insepolti da quarantott’ore. Era imminente una ribellione. Ne fu avvertito per dispaccio telegrafico il generale Medici. Il distaccamento di Sciacca ricevette immantinente l’ordine di recarsi a Menfi. Ventiquattr’ore dopo il generale riceveva questo dispaccio: — Giunto il distaccamento. Sepolti i morti. Ordine ristabilito. Medicine e viveri distribuiti. Provvisto all’amministrazione comunale. —

A Grammichele, essendo seguìte due morti di colèra, il popolo sospettò di avvelenamenti, s’armò, assalì i carabinieri, uno ne uccise, uno ne ferì mortalmente, gli altri costrinse a rinchiudersi nella caserma, e ve li tenne assediati tutta una notte tentando ad ogni momento di rovesciare le porte e di precipitarsi ad ucciderli. Accorsero da Caltagirone quaranta soldati del 9º reggimento di fanteria, comandati dal sottotenente Goi. Al loro primo apparire le bande armate si dispersero; ma, accortesi del picciol numero dei soldati, si riadunarono, mossero loro contro, gl’insultarono, gli minacciarono, gridando che volevano frugare negli zaini e impossessarsi dei veleni che v’eran dentro. La turba era in numero dieci volte maggiore dei soldati; stava per seguire una strage; fu chiesto nuovo soccorso a Caltagi[p. 335 modifica]rone; giunsero in gran fretta nuovi soldati e tutti insieme, dopo lunga fatica, riuscirono a raccogliere quindici guardie nazionali con cui s’aggirarono tutta la notte pel paese e per la campagna, ogni momento minacciati o assaliti. Finalmente riuscirono a ristabilire la quiete. — I sediziosi avevano attaccato a una casa del paese un proclama che cominciava così: «Coraggio! Su via, coraggio, compagni! Non desistete dai vostri proponimenti, non siate vigliacchi; ma vindici dell’onor patriotta; temete forse un pugno di soldati? Sbaragliateli e fugateli; a terra le vili e obbrobriose trame governative; spezzate i micidiali vasi del veleno che i vostri superiori, esecutori infami di necronomici decreti reali, gentilmente apprestano al vostro labbro.» Testuali parole.

A Longobucco, provincia di Rossano, morì di colèra verso la fine di luglio un tal Giuseppe Citini. La plebe lo credette morto di veleno; irruppe armata mano nella casa del sindaco; invase la casa del Citini eia saccheggiò; mise a ruba la casa del farmacista Felicetti e distrusse la farmacia; suonò le campane a stormo; corse furentemente le strade per l’intera notte gridando che volea mettere a morte tutti i proprietari e tutti gli officiali pubblici. La mattina tentò di penetrare nella caserma dei bersaglieri, e cercò di nuovo del sindaco per ucciderlo. E l’avrebbe ucciso se non accorrevano in tempo il maresciallo dei carabinieri, il furiere Allisio e il sergente Cenderini dei bersaglieri, i quali si cacciarono coraggiosamente in mezzo alla folla e riuscirono a distorta dall’iniquo proposito, e ad impedire l’incendio di varie case e l’uccisione di molti cittadini. E mantennero un po’ di calma nel paese sino alla mattina del giorno dopo, quando arrivò una compagnia del 45º battaglione di bersaglieri, comandata dal capitano Ippo[p. 336 modifica]lito Viola, e disperse la folla che ricominciava a tumultuare. Ma i più furibondi si rinchiusero precipitosamente nelle case e fucilarono dalle finestre i bersaglieri, due de’ quali caddero feriti e per poco non fu morto il maresciallo. Allora i bersaglieri, inaspriti da quella resistenza ostinata, abbatterono le porte delle case, vi si gettaron dentro, sorpresero i ribelli colle armi alla mano.... e risparmiaron loro la vita. E così finì la sedizione di Longobucco, nella quale è da notarsi che le maggiori scelleratezze furon commesse dalle donne.

In Ardore, comune di Geraci, v’erano sei carabinieri e ventiquattro soldati del 68º reggimento di fanteria, comandati dal sottotenente Gazzone. La mattina del 4 settembre il popolo si armò e si affollò fuor del paese al grido di «morte agli avvelenatori!». Quando si parve in numero bastante, irruppe nel paese. Il Gazzone, fidando nella simpatia che il popolo gli avea dimostrato in più d’un’occasione, mosse benignamente incontro alla moltitudine e tentò di quetarla con buone parole; gli fu risposto con due palle nel petto che lo stesero a terra cadavere. Non dirò quel che del suo cadavere si fece per non aggiungere orrori ad orrori. I soldati assaliti alla spicciolata, impotenti a resistere, ebbero appena il tempo di riparare nella caserma dei carabinieri, nella quale fin dalla mattina s’eran rifugiate tre famiglie di nome Lo Schiavo, a cui la popolazione, tenendole ree di veneficio, aveva incendiate le case. Una immensa folla si accalcò dinanzi alla caserma e chiese con grida spaventevoli che le fossero dati nelle mani gli avvelenatori. Il capo di quelle famiglie, il vecchio Lo Schiavo, ebbe il coraggio di affacciarsi a una finestra e di là, colle mani giunte, lacrimando e singhiozzando da straziare il cuore, supplicò la turba di risparmiare almeno il sangue delle donne e dei fanciulli. Gli fu risposto che [p. 337 modifica]sarebbero stati tutti sbranati. Il povero padre, preso da un impeto di disperazione, trasse un colpo di pistola nella strada. Fu il segnale dell’assalto. La moltitudine, mettendo un lungo urlo di selvaggio furore, si precipitò colle scuri sulle porte e cominciò a lanciare una grandine di palle e di sassi contro le finestre. I soldati, dal di dentro, si difesero a fucilate. La lotta durò più d’un’ora. Finalmente, visti riuscir vani i suoi sforzi, il popolo appiccò il fuoco alla caserma. Orribile scena! Già le fiamme avviluppavano tutta la casa e, screpolati i muri, guizzavano qua e là nell’interno delle stanze, e l’aria s’infocava e le travi del tetto crepitavano; di fuori sibili e grida feroci di gioia; di dentro strida disperate di donne e di fanciulli; sette soldati e Lo Schiavo stesi a terra nel sangue.... In quegli estremi, il caporale Albani decise di tentar quell’unica via di salvezza che rimaneva; riunì in uno stretto gruppo le tre famiglie; ordinò ai suoi pochi soldati di pigliare in spalla i feriti, e primo lui e gli altri subito dietro, aperta in furia una porta e abbassate le baionette, si precipitarono a capo basso nella folla. Questa, sopraffatta da quell’incredibile audacia, cedette il passo; ma appena furon passati, esplose i fucili e colpì a morte parecchi della famiglia sventurata; gli altri si salvarono, parte nelle case, parte nella campagna; i soldati non furono raggiunti. Due giorni dopo arrivavano in Ardore tre compagnie di fanteria da Gerace, da Monteleone e da Reggio, e vi ristabilivano la quiete. Il capitano Onesti, del corpo di stato maggiore, che resse per qualche tempo l’amministrazione comunale, il maggiore Gastaldini che comandava le forze militari di Ardore e delle vicinanze, e il Broglia, medico di battaglione, si condussero in tal modo che per verità io non so con che parole e’ si potrebbero degnamente lodare. Non parlo dei soldati, che là come [p. 338 modifica]da per tutto si adoperarono in pro del paese con uno zelo infaticabile e una pietà religiosa.

Bastino questi fatti, che non mi son prefisso di scrivere una storia.


Non importa ch’io dica come siansi condotti i comandanti dei corpi e delle divisioni per tutto il tempo che il colèra durò, però che le popolazioni, i municipi e la stampa ne han fatto in molte occasioni la più larga testimonianza e la più splendida lode. Ma fra que’ tanti nomi cari all’esercito e al paese ve n’ha uno che non può essere taciuto, per quanto agevolmente ogni lettore lo sottintenda, e forse già fin d’ora con un moto spontaneo del cuore abbia indovinato tutto quello che voglio dire di lui: è il general Medici.

Quello che egli fece da principio per impedire la diffusione del colèra e per preservarne almeno le truppe, si è detto. È facile l’immaginare che cosa egli abbia fatto dappoi. Giorno e notte in faccende o in pensiero; ogni momento un annunzio di nuove sventure, una notizia di nuovi tumulti, e lì subito consulte, ordini, provvedimenti, e partenze improvvise, e un mandare e un ricevere continuo di dispacci e di lettere da tutte le parti. Si recava ora in un paese ed ora in un altro ad assicurarsi che le autorità militari adempissero i loro uffici e visitava le caserme, le prigioni, gli ospedali, le case di convalescenza. Notevole, fra l’altre, la visita a Messina, dove perdette un chiarissimo ufficiale del suo seguito, il bravo e buon capitano Tito Tabacchi; e quell’altra, nei giorni che più imperversava il colèra, a Terrasini, dove entrò nelle case dei poveri a porger soccorsi e conforti, e fece improvvisare ospedali, e radunò infermieri, e tanta fiducia ispirò negli animi coll’opera e colla parola e colla ferma serenità dell’aspetto, che la[p. 339 modifica]sciò il paese mutato. Operoso, provvido e caritatevole sempre; ma negli ospedali, al capezzale degl’infermi, d’un cuore divino. Nei due ospedali militari di Palermo, Sesta Casa e Sant’Agata, ei vi si recava ogni settimana e li visitava diligentemente in ogni parte, interrogando tutti, esaminando tutto, consigliando e incoraggiando medici, infermieri e malati colla sollecitudine d’un padre. Memorabile la visita del quindici agosto nel più forte infuriar del colèra. Andò all’ospedale con parecchi ufficiali del suo stato maggiore. Vi era aspettato dai medici radunati sulla soglia del primo camerone. Al suo apparire, gl’infermieri si disposero in ordine lungo le due file dei letti; alcuni de’ malati, la maggior parte gravissimi, volsero la testa verso la porta. Il generale s’avvicinò al primo letto; tutti gli altri in semicircolo dietro a lui; al suo fianco il medico direttore. Il malato era grave; aveva il viso cadaverico, gli occhi infossati e iniettati di sangue, le labbra nere, e il respiro affannoso e interrotto da profondi singulti. Non era bene in sè. All’avvicinarsi di tutta quella gente alzò gli occhi in volto al generale e ve li tenne fissi e immobili senza espressione. Il dottore gli si avvicinò e gli domandò, indicandogli il Medici: — Conosci questo signore?

Il soldato guardò il dottore senza fare alcun segno.

— Lo conosci? — questi ripetè.

Allora parve capir la domanda. Il dottore disse forte:

— È il generale Medici.

— Medici.... Medici..., — mormorò confusamente il malato; lo guardò, mosse le labbra come per sorridere o per dire una parola, chinò un po’ la testa come per accennare di sì, poi l’assalse un violento singhiozzo, i suoi occhi ritornarono immobili e insen[p. 340 modifica]sati, e non diede più altro segno d’intendimento. Il generale guardò ansiosamente il dottore. — Non ancora — questi rispose. E andarono oltre.

In uno dei letti vicini c’era un caporale che morì il giorno dopo.

Era in sè; ma profondamente scoraggiato. Avea la pelle del viso tutta raggrinzita, sparsa di macchie livide e luccicante d’un sudore viscoso. Visto il generale, si mise a guardarlo ora socchiudendo ora dilatando gli occhi e mettendo un lamento affannoso.

— Come ti senti? — il generale gli disse. Quegli scosse lievemente la testa e voltò gli occhi in su in atto sconsolato.

— Coraggio, figliuolo; non bisogna perdersi d’animo; bisogna pensare a guarire. —

Il malato, facendo molto sforzo, mormorò: — A me non mi rincresce... di morire.

— Morire! che dici mai! Tu non devi disperare, caro mio; tu guarirai; il medico mi ha detto che guarirai; non è vero, dottore, che guarirà? —

Il soldato diede uno sguardo sfuggevole al dottore, e fece un atto del capo come per dire di no, poi guardò fiso il Medici e disse con voce spenta: — Grazie, generale. —

Questi chinò la testa, stette pensando un istante e poi passò a un altro letto.

V’era un soldato in via di guarigione, che non voleva pigliare una certa medicina.

— Perchè non la vuoi pigliare? — gli domandò il generale.

— .... Fa male, — questi rispose timidamente.

— No che non fa male, mio caro; vuoi vedere che la piglio io? — E presa un’ampolla che gli diede il dottore, ne bevve un sorso, e la porse al soldato che stava guardandolo in aria di maraviglia. — Animo, bevi. — [p. 341 modifica]

Il soldato bevve, fece un brutto viso, e poi rise.

A un altro che dovea passare all’ospedale dei convalescenti, il generale domandò: — Cosa ti senti adesso? —

— Cosa mi sento? — il soldato rispose; — ah! signor generale, una gran fame. —

Man mano che andava innanzi pei cameroni, i malati che lo potevano si alzavano a sedere, o si sollevavano un poco sul gomito, tendendo l’orecchio e allungando il collo per sentire quel ch’ei diceva e per vederlo in viso.

L’ultimo visitato era agli estremi. Aveva la faccia stravolta da non si riconoscere più, con quell’impronta di vecchiaia, con quell’espressione d’un grande spavento, che è tutta propria de’ colerosi, e che vista una volta si ricorda per sempre. Delirava borbottando parole confuse; moveva incessantemente le braccia e stropicciava le dita come se cercasse alcun che sulle coltri, o alzava le mani come per afferrare qualcosa che gli svolazzasse dinanzi agli occhi. Era un giovane sergente che in que’ tristi giorni del colèra avea fatto ogni più bella prova di coraggio, di costanza, di carità. — Non gli restano che poche ore di vita — disse sottovoce il dottore. Il generale lo guardò lungamente col viso addolorato e pensoso. Certo egli pensava che quel bravo giovane moriva lontano dai suoi, senza conforti e senza pianto; pensava alla sua famiglia, ai tanti altri morti come lui, alle tante altre famiglie, come la sua, rimaste prive di uno de’ capi più cari.... Tutt’ad un tratto, si riscosse, diede un sospiro e si allontanò dicendo: — Egli ha spesa nobilmente la vita. — Tutti gli altri lo seguirono silenziosi.

L’ultima provincia in cui si sviluppò largamente il colèra sullo scorcio del sessantasette fu quella di Reg[p. 342 modifica]gio di Calabria. In Sicilia era già cessato. Nei primi giorni del settembre, le piogge lunghe e frequenti avendo prodotto un notevole abbassamento di temperatura, il colèra avea cominciato a decrescere sensibilmente nelle provincie di Palermo e di Messina, e rapidamente in quelle di Trapani, di Girgenti, di Siracusa, di Catania e di Caltanissetta. Rincrudì un’altra volta in queste due città verso la metà di settembre; ma per pochissimi giorni. Dopo i quali la salute pubblica andò continuamente migliorando in tutte le parti dell’isola; così nel mese d’ottobre l’esercito non ebbe più a deplorare che una ventina di morti, e nel novembre sette, e nel dicembre nessuno, o uno o due tutto al più. Fin dal primo decrescere dell’epidemia, le città, villaggi e le campagne mutarono aspetto. Quetato quel primo terrore che nell’animo di molta parte dei cittadini aveva spento ogni senso di amor di patria e di carità, i fuggitivi, di cui il maggior numero eran gente ricca od agiata, cominciarono a ritornare nei loro paesi e a spargere tra le popolazioni indigenti quei soccorsi di danaro, d’opera e di consiglio, che avean negati dapprima. E le popolazioni ripresero animo subitamente, e, come destandosi da un letargo profondo e travagliato, ritornarono a poco a poco agli uffici consueti della vita, già smessi affatto o esercitati a intervalli, con una grave fiacchezza e una specie di stordimento pauroso sotto quella continua imminenza e davanti a quel continuo spettacolo della morte. Tornò la frequenza nelle vie e nelle piazze, le botteghe e le officine si riapersero, e ricominciò a fervere il commercio e si ridestò il lieto rumor del lavoro dove prima era la solitudine e il silenzio o sonava il lamento dei morenti o degli accattoni. Le amministrazioni pubbliche si rifecero a poco a poco degli officiali morti, o fuggiti, od espulsi; si ricomposero, si riordi[p. 343 modifica]narono, e sovvenute da que’ cittadini che le aveano abbandonate dapprima, cominciarono a dedicare ai bisogni del paese un’operosità regolare, illuminata e tranquilla. I malandrini, che resi audaci dalla confusione e dallo spavento generale e dalla scarsità della truppa intesa in gran parte a più gravi doveri, avean fatto d’ogni erba fascio nelle città e nelle campagne, prevedendo ora che col cessare del colèra le forze militari si sarebbero volte tutte e con più risoluto vigore contro di loro, si frenarono di spontaneo proposito, e le condizioni della sicurezza pubblica risentirono un miglioramento improvviso. E i soldati riebbero finalmente un po’ di respiro, e la notte poterono dormire un po’ di sonno continuo e tranquillo, e il giorno mangiare con un po’ di pace il loro pan nero, bagnato di sì lunghi e santi sudori.

Come il convalescente, quando ritorna agli usi della vita consueta, si diletta d’ogni cosa, si rallegra d’ogni persona, e intende con una sollecitudine e una gaiezza infantile a quelle stesse faccende che per l’addietro aveva in uggia o trasandava, così i soldati, all’uscire da quella vita di travaglio e di lutto, ripresero le occupazioni del servizio ordinario, anche quelle che parean prima più tediose, come una novità gradita, come un divertimento; risentiron tutti quasi una freschezza nuova di affetti e di speranze, un’allegrezza viva, un prepotente bisogno di aprirsi il cuore l’un altro, di espandersi, d’amarsi. Nelle caserme echeggiarono di nuovo i canti, le grida, quello strepito pieno di vita che da tanto tempo vi era cessato; tutto mutò, tutto rivisse.


Ma per formarsi una giusta idea del come doveva esser l’animo dei soldati in quei giorni, bisognava entrare negli ospedali dei convalescenti, dove il riposo e il silenzio lasciavan libero corso ai pensieri e alle memorie. [p. 344 modifica]

Entriamoci un istante, e là daremo l’ultimo saluto ai nostri buoni e bravi soldati.

Verso la fine del settembre di quell’anno, un soldato del 9º reggimento di fanteria mi scrisse una lettera da Catania, pregandomi di dire in un giornale militare quel che avean fatto per lui e pe’ suoi compagni gli ufficiali del suo reggimento. Era stato malato di colèra, n’era quasi affatto guarito, e mi scriveva da un convento dove il suo colonnello aveva impiantato un ospedale pei convalescenti, ed egli vi si trovava da più d’un mese, «...E ci troviamo qui — dice la lettera — dopo tanti rischi e tante disgrazie, ancora vivi per miracolo.» — Poi una lunga descrizione del convento, posto sopra una piccola collina e tutto cinto di bei giardini dove i convalescenti potevano andare a diporto; con un cortile spazioso e sparso di grandi alberi fronzuti, all’ombra dei quali essi solevano passare una gran parte della giornata discorrendo, o leggendo, o giocando a dama coi sassi. Mi diceva poi che ognuno di loro aveva per sè una celletta a terreno colla finestra sul giardino, e che nella sua l’ellera s’era arrampicata attorno all’inferriata e tra sbarra e sbarra v’entravan dentro i rami d’un albero. «Abbiamo il nostro bel letto — scriveva — il nostro tavolino, le nostre due seggiole, e abbiamo posto affetto a queste stanzuccie come se fossero casa nostra, e nella mia tengo tutto in ordine, tutto pulito, con gran scrupolo, proprio come una donna che non abbia il capo ad altro che alla famiglia e alla casa.» Poi mi parlava del mangiare che era squisito, e si spandeva in elogi e in ringraziamenti ai direttori dell’ospedale. «Bisogna dirlo, si mangia bene. Si figuri: carne mattina e sera, e un buon brodo e un buon vinetto. Siamo contentoni. In caso che lei voglia stampare qualche cosa di quel che le ho scritto mi [p. 345 modifica]faccia un piacere, stampi anche i nomi di quelli a cui dobbiamo tutte queste cure. Sono il luogotenente colonnello Croce e il capitano Mirto, i due direttori dell’ospedale. E anche il dottor Longhi, che per i soldati ha fatto tutto quello che un uomo poteva fare, e noi gli vogliamo un bene dell’anima.» Poi descriveva i crocchi dei convalescenti seduti all’ombra degli alberi nel cortile, pallidi, smunti, cogli occhi infossati, che discorrevano dei casi avvenuti, dei pericoli corsi, dei mali patiti, e si confortavano nel pensiero delle famiglie lontane, a cui presto o tardi sarebbero pur ritornati «e con che cuore — soggiungeva — se lo immagini lei, dopo tanto tempo, dopo tante vicende, dopo una malattia di questa sorta!» In quella lettera, scritta così semplicemente e con tanta ingenuità, io sentii in certo modo trasfusa quella pace, quella calma stanca e soave che doveva regnare in quel silenzioso recinto; la prima volta ch’io la lessi mi parve di vedere quei poveri volti scarni e di sentire quelle voci fievoli e lente. — A una cert’ora venivano al convento gli ufficiali a visitare i soldati delle loro compagnie. Era una festa. Si vedevano quei buoni giovani levarsi in piedi stentatamente, portare la cerea mano al berretto, e rispondendo all’interrogare premuroso dei loro ufficiali, significare l’interna gratitudine con un sorriso in cui l’affetto e il rispetto si temperavano e si avvaloravano a vicenda nel più caro e più gentile dei modi... — La lettera del mio soldato terminava a questo punto, ed io termino con lui, termino con l’immagine viva dinanzi agli occhi di quel sorriso di gratitudine, che m’intenerisce e m’esalta.

Il colèra del sessantasette fu per l’esercito, non meno che pel paese, una grande sventura; ma non senza frutto. [p. 346 modifica]

L’esercito si avvantaggiò nella disciplina, ed è facile comprenderne il come. Anche per quei soldati cui la disciplina riusciva più dura, o perchè di natura indocile e caparbia, o perchè digiuni affatto d’ogni idea di patria e di nazionalità e inetti a rendersi ragione, nonchè della necessità del rigor militare, neanco di quella dell’esercito, anche per questi soldati, in mezzo alle sventure del colèra, la disciplina si spogliò di quel che avea prima di odioso e d’insopportabile, e assunse un nuovo aspetto. Naturalmente, poichè anche le menti più rozze, comprendendo quanto vi fosse di nobile e di generoso in quel tanto fare e patire per la pubblica salute, intendevano pure che, se invece d’esser soldati uniti e soggetti a una disciplina, fossero stati contadini o operai liberi e divisi, avrebbero probabilmente, o tutti o quasi tutti, sfuggito ogni fatica e ogni pericolo, e provveduto ciascuno da per sè alla propria salvezza. Sentivano però che una parte del merito delle loro nobilissime opere non spettava a loro, e la riferivano tacitamente a quella disciplina, della cui mancanza erano al caso di vedere ed esperimentare tutto giorno le deplorabili conseguenze nelle altre classi della popolazione. A misura che si rendevan ragione dello scopo di tutte quelle leggi e di tutte quelle consuetudini che soleano prima tenere in conto di rigori irragionevoli o d’inutili aggravi, a misura che ne vedevano, in certo modo, uscir dalle proprie mani gli effetti, e non potevano a meno d’ammirarli e di andarne orgogliosi, si venivano formando un giusto concetto della disciplina, e vi si rassegnavano come a una necessità salutare. Di più, quella dimestichezza, quell’affratellamento che suol nascere e crescere così rapidamente tra ufficiali e soldati nelle occasioni di grandi pericoli e di grandi sventure comuni, aveva fatto capire ai più ottusi e ai più [p. 347 modifica]malevoli che se nelle congiunture della vita ordinaria v’è fra gli uni e gli altri una divisione rigorosa e inalterata, ciò non proviene dal proposito spontaneo di ogni ufficiale, ma da una convenzione, da una norma generale dettata dalla necessità della disciplina e da tutti riconosciuta necessaria per intuizione o per esperienza. Ciò compreso, dovevano naturalmente sparire tutti quegli astii e quei rancori che soglion sorgere nell’animo dei soldati riottosi contro gli ufficiali austeri e inesorabili; rancori che, per lo più, un falso amor proprio produce, e la diffidenza e il timore alimentano; e sparirono in fatti. Dinanzi a quel continuo spettacolo della sventura, in mezzo a quella unanimità solenne di affetti e di voleri, ognuno capì chiaramente quanto gli odi e i risentimenti personali fossero ingenerosi e meschini, e se li sentì svanire dal cuore senza bisogno di combatterli o di far forza a se stesso. Di più, per lungo tratto di tempo gli uffici e le operazioni della truppa erano stati di tale natura, che gli ordini dei superiori venivano a coincidere, non solamente nella sostanza, ma anco nella forma, coi più semplici precetti della religione, insegnati dalle madri ai fanciulli nella più tenera età. Certi discorsi tenuti dagli ufficiali ai soldati si sarebbero potuti ripetere parola per parola da un oratore sacro sul pergamo, e certi ordini del giorno dei colonnelli erano squarci netti e pretti di vangelo. Non era però possibile che neanco i soldati più tristi e più in colti si ribellassero agli ordini dei superiori, o ne ponessero in dubbio la rettitudine, o ne discutessero l’opportunità, o disconoscessero il dovere dell’obbedienza. Quindi a poco a poco al sentimento della disciplina s’era, per così dire, sostituito quello della religione, e ciò che si sarebbe fatto a malincuore per obbligo, si facea di buon animo per impulso di carità. Per altra [p. 348 modifica]parte, quella sollecitudine affettuosa che in ogni occasione gli ufficiali avevano mostrata pei loro soldati, visitandoli negli ospedali, soccorrendoli dei propri denari, confortandoli, consigliandoli, proteggendoli, aveva fatto sì che nel cuore di questi i due sentimenti della gratitudine e della disciplina si compenetrassero e s’immedesimassero in modo, da togliere persino l’idea ch’e’ si potessero in alcun caso disgiungere e contrariare. Intesa la disciplina per quello che è, e per quel che dev’essere, intesi cioè i principii da cui move e su cui si basa, e i fini a cui tende e gli effetti che ottiene, anche l’intelletto del più umile soldato abbraccia tutto intero questo magnifico edifizio dell’esercito, comprende il congegno mirabile e l’armonia delle forze ond’egli è retto, sente che ne sono le fondamenta i primi affetti della famiglia e le prime leggi della religione, e a misura che ne contempla la sommità, la vede illuminarsi e levarsi in alto fin dove non giungono le declamazioni dei filosofi e le querele dei volghi. Questo effetto si ebbe nei soldati; in questo modo si rafforzò la disciplina.

E il paese?

La più splendida prova dell’effetto prodotto sul paese dalla stupenda condotta dell’esercito l’ha data il popolo siciliano sulla fine del sessantasette e l’ha ripetuta testè, la prova più cara ch’ei potesse dare all’esercito e all’Italia, — il mirabile resultato della leva. — Oh quel popolo pieno di fierezza, di ardimento e di fuoco non può dare che dei bravi soldati!


E che premio ebbe il soldato?

Grande. La sera dopo la visita della ritirata, il furiere gli lesse l’ordine del giorno del colonnello in cui gli si diceva: — Hai fatto il tuo dovere. —