Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
286 | l’esercito italiano |
ad accamparvi le truppe nel caso che se ne fosse presentata la necessità; migliorò il vitto dei soldati con distribuzioni quotidiane di vino e di caffè; infine esortò gli ufficiali a preparare gli animi dei soldati a quella vita di sacrifizi, di pericoli e di stenti che ciascuno in cuor suo già presentiva ed aspettava coll’animo rassegnato e fortificato dall’esperienza dell’anno antecedente. Altrettali provvedimenti prendevano nello stesso tempo la più parte dei comandanti divisionali dell’altre provincie italiane, e dappertutto si allestivano ospedali, si disinfettavano caserme, ed era un affaccendarsi continuo di medici e d’ufficiali, un continuo dare e ricever ordini, un insolito rimescolìo d’uomini e di cose come all’aprirsi d’una guerra; in una parola, quella viva agitazione degli animi che suol precedere i grandi avvenimenti, e che ognuno esprime così bene a se stesso colle parole: — Ci siamo!
Ma per quanto fossero disposti a fare pel bene del paese l’esercito e i cittadini animosi ed onesti, tre grandi forze nemiche dovevano rendere per molta parte e per lungo tempo inefficace l’opera loro: la superstizione, la paura, la miseria, assidue compagne della morìa presso tutti i popoli e in tutti i tempi.
Nel maggior numero dei paesi, e particolarmente nei più piccoli, i sindaci e molti altri pubblici officiali abbandonavano il proprio posto al primo apparir del colèra, e da qualche paese disertavano tutti ad un tempo colle famiglie e gli averi. I ricchi, gli agiati, tutti coloro che avrebbero potuto soccorrere più efficacemente le plebi, fuggivano dalla città e si rifugiavano nelle ville. In pochi giorni tutte le case della campagna erano ingombre di cittadini fuggiaschi, e non solo di ricchi, ma di chiunque possedesse tanto da poter vivere qualche giorno senza lavorare, e prendere a pigione, anche a