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durante il colèra del 1867. 323

vano i cadaveri l’uno accanto all’altro, o l’un sull’altro sconciamente mescolati; le faccie tumide, chiazzate di nero, lorde attorno alla bocca di una bava sanguinolenta; i ventri rigonfi, sparsi di larghe macchie vinose e reticolati di verdi strisce dagli intestini e dalle vene; le membra, dalla parte appoggiata al suolo, schiacciate; ogni sembianza umana stravolta o perduta, e qua e là per le membra più corrotte il primo manifestarsi d’una vita schifosa. E bisognava avvicinarsi a quegli orridi giacigli e afferrare e sciogliere le une d’in fra l’altre quelle membra; sollevare ad uno ad uno quei corpi e portarli sui carri, vedendoli ad ogni scossa e ad ogni passo più bruttamente scomporsi e trasfigurarsi, e lasciar cadere qua e là ora un fetido cencio, ora qualche altra più sozza traccia di sè. Oh la era ben altra cosa che vedere i morti sul campo stesi in un lago di sangue, lacerati dalla mitraglia, o rotti e mutilati dalle palle di cannone! Allora ci suona intorno il grido di mille compagni, si vedono ondeggiare qua e là pei colli e pei campi i battaglioni luccicanti di baionette, si vede sventolar lì accanto la bandiera del reggimento, si sente il lontano rumore delle batterie accorrenti, e il sangue ribolle, l’anima s’esalta, e i cadaveri che s’incontran sul cammino non si contano, ma che! non si guardano, non si vedono, non si pensa nemmeno che ce ne debbano essere, o se l’occhio vi si fissa, il cuore esclama: — Addio, fratello! — e null’altro, e si va oltre, e si scorda. Ma là, in quegli abituri, di notte, in mezzo a quel silenzio, e in quella quiete e al chiarore di quelle lanterne, come doveva essere orrenda l’immagine della morte! Quanti di quei soldati, anche de’ più forti, avranno poi avuto presente, e per più giorni, l’immagine di quei cadaveri deformi, e avran risentito il contatto di quelle membra gelide e floscie,