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durante il colèra del 1867. |
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vano i cadaveri l’uno accanto all’altro, o l’un sull’altro
sconciamente mescolati; le faccie tumide, chiazzate di
nero, lorde attorno alla bocca di una bava sanguinolenta;
i ventri rigonfi, sparsi di larghe macchie vinose
e reticolati di verdi strisce dagli intestini e dalle vene;
le membra, dalla parte appoggiata al suolo, schiacciate;
ogni sembianza umana stravolta o perduta, e qua e là
per le membra più corrotte il primo manifestarsi d’una
vita schifosa. E bisognava avvicinarsi a quegli orridi
giacigli e afferrare e sciogliere le une d’in fra l’altre
quelle membra; sollevare ad uno ad uno quei corpi e
portarli sui carri, vedendoli ad ogni scossa e ad ogni
passo più bruttamente scomporsi e trasfigurarsi, e
lasciar cadere qua e là ora un fetido cencio, ora qualche
altra più sozza traccia di sè. Oh la era ben
altra cosa che vedere i morti sul campo stesi in un lago
di sangue, lacerati dalla mitraglia, o rotti e mutilati
dalle palle di cannone! Allora ci suona intorno il grido
di mille compagni, si vedono ondeggiare qua e là pei
colli e pei campi i battaglioni luccicanti di baionette, si
vede sventolar lì accanto la bandiera del reggimento, si
sente il lontano rumore delle batterie accorrenti, e il
sangue ribolle, l’anima s’esalta, e i cadaveri che s’incontran
sul cammino non si contano, ma che! non si
guardano, non si vedono, non si pensa nemmeno che
ce ne debbano essere, o se l’occhio vi si fissa, il cuore
esclama: — Addio, fratello! — e null’altro, e si va
oltre, e si scorda. Ma là, in quegli abituri, di notte,
in mezzo a quel silenzio, e in quella quiete e al chiarore
di quelle lanterne, come doveva essere orrenda
l’immagine della morte! Quanti di quei soldati, anche
de’ più forti, avranno poi avuto presente, e per più
giorni, l’immagine di quei cadaveri deformi, e avran
risentito il contatto di quelle membra gelide e floscie,