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338 l’esercito italiano

da per tutto si adoperarono in pro del paese con uno zelo infaticabile e una pietà religiosa.

Bastino questi fatti, che non mi son prefisso di scrivere una storia.


Non importa ch’io dica come siansi condotti i comandanti dei corpi e delle divisioni per tutto il tempo che il colèra durò, però che le popolazioni, i municipi e la stampa ne han fatto in molte occasioni la più larga testimonianza e la più splendida lode. Ma fra que’ tanti nomi cari all’esercito e al paese ve n’ha uno che non può essere taciuto, per quanto agevolmente ogni lettore lo sottintenda, e forse già fin d’ora con un moto spontaneo del cuore abbia indovinato tutto quello che voglio dire di lui: è il general Medici.

Quello che egli fece da principio per impedire la diffusione del colèra e per preservarne almeno le truppe, si è detto. È facile l’immaginare che cosa egli abbia fatto dappoi. Giorno e notte in faccende o in pensiero; ogni momento un annunzio di nuove sventure, una notizia di nuovi tumulti, e lì subito consulte, ordini, provvedimenti, e partenze improvvise, e un mandare e un ricevere continuo di dispacci e di lettere da tutte le parti. Si recava ora in un paese ed ora in un altro ad assicurarsi che le autorità militari adempissero i loro uffici e visitava le caserme, le prigioni, gli ospedali, le case di convalescenza. Notevole, fra l’altre, la visita a Messina, dove perdette un chiarissimo ufficiale del suo seguito, il bravo e buon capitano Tito Tabacchi; e quell’altra, nei giorni che più imperversava il colèra, a Terrasini, dove entrò nelle case dei poveri a porger soccorsi e conforti, e fece improvvisare ospedali, e radunò infermieri, e tanta fiducia ispirò negli animi coll’opera e colla parola e colla ferma serenità dell’aspetto, che la-