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288 l’esercito italiano

lusso, da ultimo moltissime delle più necessarie; le officine abbandonate; centinaia di famiglie ridotte a non vivere d’altro che d’erbe e di fichi d’India; in ogni parte la fame, lo scoraggiamento e lo squallore.

Per colmo di sventura si propagava ogni di più e metteva radici profonde nel popolo l’antica superstizione che il colèra fosse effetto di veleni sparsi per ordine del governo, che il volgo di gran parte dei paesi del mezzogiorno, per uso contratto sotto l’oppressione del governo cessato, tiene in conto d’un nemico continuamente e nascostamente inteso a fargli danno per necessità di sua conservazione. In Sicilia, codesta superstizione era avvalorata dal convincimento che il governo si volesse vendicare della ribellione del settembre, e però una gran parte delle misure sanitarie prese dalle Autorità governative incontravano nella plebe un’opposizione accanita, ogni provvedimento aveva il colore d’un attentato, in ogni ordine si sospettava una mira scellerata, da ogni menomo indizio si traeva argomento a conferma del veneficio, in ogni nonnulla se ne vedeva una prova. Gli ospedali, le disinfezioni, le visite dei pubblici officiali, tutto era oggetto di diffidenza, di paura, di abborrimento. I poveri non si risolvevano a lasciarsi trasportare negli spedali che nei momenti estremi, quando ogni cura riusciva inefficace. Morivano la più parte, e per ciò appunto si credeva più fermamente dal volgo che le medicine fossero veleni, e i medici assassini. Preferivano morire abbandonati, senza soccorsi, senza conforti. Non credevano al contagio, e però abitavano insieme alla rinfusa sani ed infermi, famiglie numerose in angusti e immondi abituri, terribili focolari di pestilenza. Occultavano i cadaveri per non esser posti in isolamento, o perchè ripugnavano dal vederli seppelliti nei campisanti, non nelle chiese com’è la costumanza di molti paesi; o per la stolta