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298 l’esercito italiano

essi siano, e quanto e come gli ufficiali e i soldati d’ogni corpo gli abbiano compiuti. Ma se tutte queste ragioni non bastassero a convincere gl’increduli, o paressero poi troppo vivi e fantastici i colori del quadro che porrò sotto gli occhi ai lettori, ci sarebbe pur sempre, a conferma di ciò che ho asserito, la testimonianza unanime delle popolazioni, e quella, non per tutti valevole, ma per me sicurissima e sacra, dei tanti miei compagni d’arme ed amici che videro e narrarono quel che han fatto i loro soldati e come l’han fatto, coll’anima compresa di tenerezza, di gratitudine e d’orgoglio. Dal lume dei loro occhi e dal suono della loro voce io attinsi il profondo convincimento che mi move il cuore e la penna.

Entriamo dunque nelle caserme; andiamo in mezzo ai soldati.


Per solito le compagnie non si trovavano riunite che la sera, nel dormitorio, all’ora della ritirata. Aspettando il segnale del tamburo per la visita, i soldati si raccontavano l’un l’altro quello che avevan visto e fatto nella giornata, parte seduti sui letti, parte appoggiati alle finestre, parte in crocchio nel mezzo dei cameroni. Non più quel moto, quei canti, quelle risa, quel frastuono assordante di grida festose, per cui, nei tempi ordinari, è così bella a vedersi la sera delle caserme. La più parte dei soldati stavano immobili, e non si sentiva che un bisbiglio sommesso, interrotto qua e là da qualche esclamazione di meraviglia o d’ira o di pietà, e tratto tratto lunghi intervalli di silenzio, in cui si sarebbe detto che tutti dormivano. I soldati che arrivavano a mano a mano, andavano cheti al loro letto e, posato il cinturino e il cheppì, entravano nei crocchi, ciascuno a riferire