gio di Calabria. In Sicilia era già cessato. Nei primi
giorni del settembre, le piogge lunghe e frequenti
avendo prodotto un notevole abbassamento di temperatura,
il colèra avea cominciato a decrescere sensibilmente
nelle provincie di Palermo e di Messina, e rapidamente
in quelle di Trapani, di Girgenti, di Siracusa,
di Catania e di Caltanissetta. Rincrudì un’altra volta in
queste due città verso la metà di settembre; ma per
pochissimi giorni. Dopo i quali la salute pubblica andò
continuamente migliorando in tutte le parti dell’isola;
così nel mese d’ottobre l’esercito non ebbe più a deplorare
che una ventina di morti, e nel novembre sette,
e nel dicembre nessuno, o uno o due tutto al più. Fin
dal primo decrescere dell’epidemia, le città, villaggi
e le campagne mutarono aspetto. Quetato quel primo
terrore che nell’animo di molta parte dei cittadini aveva
spento ogni senso di amor di patria e di carità, i fuggitivi,
di cui il maggior numero eran gente ricca od agiata,
cominciarono a ritornare nei loro paesi e a spargere tra
le popolazioni indigenti quei soccorsi di danaro, d’opera
e di consiglio, che avean negati dapprima. E le popolazioni
ripresero animo subitamente, e, come destandosi
da un letargo profondo e travagliato, ritornarono a
poco a poco agli uffici consueti della vita, già smessi
affatto o esercitati a intervalli, con una grave fiacchezza
e una specie di stordimento pauroso sotto quella continua
imminenza e davanti a quel continuo spettacolo
della morte. Tornò la frequenza nelle vie e nelle piazze,
le botteghe e le officine si riapersero, e ricominciò a
fervere il commercio e si ridestò il lieto rumor del lavoro
dove prima era la solitudine e il silenzio o sonava
il lamento dei morenti o degli accattoni. Le amministrazioni
pubbliche si rifecero a poco a poco degli officiali
morti, o fuggiti, od espulsi; si ricomposero, si riordi-