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durante il colèra del 1867. 325


Ma ciò che s’è detto finora non è che lieve cosa in confronto di quel che rimane a dirsi. Quanti casi ben più funesti e più lagrimevoli sono seguiti, e come sarei lontano ancora dalla fine della mia narrazione se volessi dire solo una metà di quelli ch’io conosco, e ne conosco una sì piccola parte!

A Sutèra, piccolo paese della provincia di Caltanissetta, v’era un pelottone del 54º reggimento di fanteria comandato dal sottotenente Edoardo Cangiano. La mattina del 22 giugno capita alla caserma un contadino tutto affannato e si presenta all’ufficiale. — Oh signor ufficiale! — esclama con voce supplichevole, — venga lei per carità, ci soccorra lei... Qui presso, a Campofranco, è scoppiato il colèra; metà della gente è fuggita; le vie son piene di morti; non ci son medici, non ci son becchini, non c’è nemmeno da mangiare....; è una desolazione....; quei che non morranno di colèra morranno di fame.... Oh, venga lei, venga subito lei! — Immantinente il pelottone in armi, un avviso al sindaco, un dispaccio al comando militare di Caltanissetta, un avvertimento al sergente che resta in paese con qualche soldato, e poi via a gran passi alla volta di Campofranco. C’era da fare un miglio di strada o poco più per un viottolo serpeggiante a traverso i campi. Splendeva un sole ardentissimo. I soldati, grondanti sudore sin dal primo uscir dal paese, procedevano un dietro l’altro, in lunga fila, con un andare fra il passo e la corsa e l’orecchio intento al contadino, il quale con interrotte parole dipingeva al Cangiano il triste spettacolo che gli avrebbe offerto il paese. — Animo, animo, — questi gli rispondeva tratto tratto, — co’ lamenti non si fa nulla, ora è tempo di fatti. — E sempre più affrettava il passo, e con esso i soldati, tanto che finirono col correre addirittura. A un certo punto si cominciarono a veder da