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durante il colèra del 1867. 327

dava ad alta voce il Cangiano; — siamo venuti ad aiutarvi, siamo vostri amici; uscite, buona gente, uscite pure di casa! —

Qualche porta e qualche finestra cominciava ad aprirsi; qualche persona, alle spalle dei soldati, cominciava ad uscire; nell’interno delle case s’udivan voci fioche di lamento; nella strada, dinanzi alle porte, giacevano prostesi molti infelici estenuati dalla fame e languenti, o presi dal morbo, immobili e intorpiditi che parevano morti; qua e là masserizie abbandonate sugli usci o in mezzo alla via e ad ogni passo paglia sparsa e ciarpame. In ogni viuzza laterale che mettea nei campi uno o due o più cadaveri, quali coperti di paglia, quali di terra, quali di pochi cenci fra cui apparivano le membra gonfie e nerastre; altri buttati a traverso le porte, metà dentro e metà fuor delle case. — Guardi, signor ufficiale, guardi! — esclamava lamentevolmente il contadino, — Provvederemo a tutto, — rispondeva il Cangiano — coraggio! —

In quel punto, la folla dei fuggitivi ch’era stata respinta addietro da quei dieci soldati, veniva tumultuosamente verso l’ufficiale. — Schieratevi, — gridò questi volgendosi ai soldati, ed essi si fermarono e si schierarono a traverso la strada. Il Cangiano aspettò la turba di piè fermo. Questa gli si arrestò dinanzi a una diecina di passi, cessò di gridare, e stette guardando con fiero cipiglio i soldati. Era tutta povera gente stracciata, faccie pallide e ossute, occhi stralunati, fisonomie a cui i lunghi patimenti aveano dato un’espressione come di stanchezza mortale e insieme di selvaggia fierezza. — Vogliamo uscire! — gridò una voce di mezzo alla folla. E tutti ripeterono il grido, e la folla ondeggiò. — Perchè volete uscire? — domandò il Cangiano con voce risoluta, ma temperata d’una tal quale dolcezza. — Bisogna