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durante il colèra del 1867. 345

faccia un piacere, stampi anche i nomi di quelli a cui dobbiamo tutte queste cure. Sono il luogotenente colonnello Croce e il capitano Mirto, i due direttori dell’ospedale. E anche il dottor Longhi, che per i soldati ha fatto tutto quello che un uomo poteva fare, e noi gli vogliamo un bene dell’anima.» Poi descriveva i crocchi dei convalescenti seduti all’ombra degli alberi nel cortile, pallidi, smunti, cogli occhi infossati, che discorrevano dei casi avvenuti, dei pericoli corsi, dei mali patiti, e si confortavano nel pensiero delle famiglie lontane, a cui presto o tardi sarebbero pur ritornati «e con che cuore — soggiungeva — se lo immagini lei, dopo tanto tempo, dopo tante vicende, dopo una malattia di questa sorta!» In quella lettera, scritta così semplicemente e con tanta ingenuità, io sentii in certo modo trasfusa quella pace, quella calma stanca e soave che doveva regnare in quel silenzioso recinto; la prima volta ch’io la lessi mi parve di vedere quei poveri volti scarni e di sentire quelle voci fievoli e lente. — A una cert’ora venivano al convento gli ufficiali a visitare i soldati delle loro compagnie. Era una festa. Si vedevano quei buoni giovani levarsi in piedi stentatamente, portare la cerea mano al berretto, e rispondendo all’interrogare premuroso dei loro ufficiali, significare l’interna gratitudine con un sorriso in cui l’affetto e il rispetto si temperavano e si avvaloravano a vicenda nel più caro e più gentile dei modi... — La lettera del mio soldato terminava a questo punto, ed io termino con lui, termino con l’immagine viva dinanzi agli occhi di quel sorriso di gratitudine, che m’intenerisce e m’esalta.

Il colèra del sessantasette fu per l’esercito, non meno che pel paese, una grande sventura; ma non senza frutto.