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314 | l’esercito italiano |
tonavano. Altri, incontrandoli, giravan largo e si fermavan poi a guardarli quand’eran passati, con una curiosità mista di orrore e di paura. Nei quartieri della povera gente, al loro apparire alcuni chiudevan gli usci e s’affacciavano alle finestre; altri socchiudevan le imposte e guardavano per lo spiraglio; le donne chiamavano ad alta voce i bambini che giocavano in mezzo alla strada, o li andavano a prendere in braccio e li portavano in casa di corsa; i fanciulli scappavano di qua e di là volgendosi indietro a far i visacci; e a misura che i soldati andavano oltre, le porte e le finestre si riaprivano, e la gente faceva capolino con gran sospetto, interrogandosi e rassicurandosi a vicenda co’ cenni. Non di rado i soldati udivano sonar nell’interno delle case urli e parole che non potevan capire, ma che dall’accento iroso o beffardo apparivano indubbiamente dirette a loro; e alzando gli occhi alle finestre vedevano spuntare adagio adagio una faccia, che, appena vedutili, si ritraeva; o non vedeano che una mano sporta fuori del davanzale e agitata in atto di minaccia, o ferma colle dita estreme distese e l’altre chiuse in atto di far le corna. Altre volte, passando, si sentivan mormorare alle spalle un aperto insulto, o una maledizione, o una parola incompresa che sonava l’una o l’altra cosa, si volgevano e vedeano una faccia volta in su a guardar le nuvole in aria distratta; domandar conto dell’insulto gli era un radunar gente e provocare un tumulto; tacevano e tiravano innanzi. Talora, invece che una parola, fischiava alle loro orecchie una pietra; tornavano addietro, cercavano chi fosse, interrogavano i presenti; nessuno sapeva nulla, nessuno aveva visto, nessuno aveva sentito.
Andando a pigliare i viveri, i carri del reggimento bisognava farli passare per certe vie, per cert’altre no; si diceva che dentro v’eran le materie velenose che