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300 | l’esercito italiano |
cheduno, all’udire il suo nome fra i destinati al servizio d’infermiere negli ospedali, non poteva dissimulare un senso di ripugnanza e di rincrescimento e alzava gli occhi scrollando la testa. — Che cosa c’è? — interrogava subito bruscamente quello fra i sergenti che l’avesse veduto. — Oh.... nulla — Dunque fermo. — E il poveretto non si moveva più, ed era quella la più grave protesta che facessero tratto tratto i più indocili e i più arditi.
Le sere dei giorni in cui il colèra aveva mietuto nel paese e fra la truppa una più larga mèsse di vite, si vedevano tutti quei soldati intenti all’appello con una immobilità che parevano statue, e le loro faccie erano atteggiate a un’espressione che aveva più dell’attonito che del triste, essendo quell’anime, più che addolorate, sbalordite dall’eccesso delle sventure. — Il tale? — domandava il furiere. — È stato colto dal colèra un minuto fa; l’han già portato al lazzeretto, — rispondeva il caporale. — Il tal altro? — Il chiamato rispondeva di mezzo alle file: — Presente — ma con una voce forzata e manchevole, in cui si sentiva l’effetto della notizia dolorosa. E seguiva un silenzio più profondo del consueto.
Quelle sere l’ufficiale soleva dire qualche parola d’incoraggiamento e di conforto. Si metteva dinanzi al centro della compagnia, scorreva con una lunga occhiata le faccie della prima riga, e diceva poi quello che aveva a dire, terminando quasi sempre con un — fatevi coraggio — seguìto da un leggero movimento delle file che voleva dir — grazie. Un cenno al furiere, una parola al sergente di settimana, e poi — buona notte — aggiungeva quasi senza accorgersene, come cedendo a un moto imperioso del cuore, e se n’andava. E i soldati l’accompagnavano con uno sguardo che valeva assai più