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318 l’esercito italiano

il cappotto e apertagli la camicia, lo andavano frugando per tutto. — Levategli il cinturino, — disse uno. — Gli afferrarono subito il cinturino e glielo tirarono di qua e di là per levarglielo d’addosso; non ci riuscivano, strillavano, bestemmiavano. — Oh!... lasciatemelo stare..., implorava il povero soldato, lasciatemelo stare il cinturino!... — Glielo sciolsero e glielo buttaron via, lo costrinsero a svestire il cappotto, malmenandolo, percuotendolo, facendogli correre a fior di pelle le punte dei coltelli, urlandogli nell’orecchio ogni maniera di vituperi e di maledizioni. L’infelice, a cui restava appena tanta forza da reggersi in piedi, si lasciava fare ogni cosa senza resistenza, quasi fuori dei sensi, colla testa e le braccia penzoloni come una persona morta, mormorando di tratto in tratto con un filo di voce: — La mia baionetta.... io non avveleno nessuno.... lasciatemi stare.... datemi la mia roba.... la mia baionetta!... — L’avrebbero certamente ucciso; ma volle la fortuna che passasse per di là una pattuglia, la quale, accorrendo velocissimamente, disperse la turba proprio nel punto che stava per ispargere il sangue di quello sventurato.

E questo ch’io narrai è quanto accadde di meno doloroso in quell’ordine di fatti, però che a Catania almeno sangue di soldati non se ne sparse, e non si può dire lo stesso di tutti gli altri paesi. Che cosa doveva provare in quei giorni il cuore dei soldati! Quali saranno stati i loro pensieri, i loro discorsi, a vedersi così ferocemente esecrati da coloro stessi a cui sacrificavano il riposo, la salute, la vita!

Ma per essi il correr rischio continuo della vita e averla a difendere così di frequente dalle violenze d’un volgo insensato era forse un pensiero meno doloroso e una cura men grave che il dovere a ogni tratto proteggere la vita degli altri cittadini dalle stesse violenze e