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che erano morte avevano portato come lui in presenza della vita fremente e attiva le loro vaghe sembianze di sogno, di creature irreali; così la leggenda espressa tratto tratto dalle donne del popolo che Crevalcore fosse abitato da fantasmi non era falsa che per metà.

Bimbo solo e malaticcio in mezzo a una famiglia tutta femminile, l’infanzia di Meme non si era segnalata con nessuna di quelle imprese turbolenti che accompagnano in linea generale lo sviluppo dei maschi. Egli aveva preso fin da piccino l’abitudine di parlare adagio, di camminare lievemente, di giocare tranquillo sotto le arcate dei portici o negli angoli delle camere immense dove il suo passo di uccellino spaurito non riusciva nemmeno a ridestare l’eco.

Vestito per molti anni di abiti ritagliati nelle gonnelline smesse dalle sorelle, col suo faccino pallido, coi grandi occhi estatici, non chiedeva mai nulla per sè e sgusciava inavvertito tra le persone grandi che facilmente lo dimenticavano.

Ma egli aveva una qualità rara nei bambini: non si annoiava mai. Pareva anzi