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grave, discreta, sorreggendolo appena colla sua presenza. Una sola volta gli disse con accento materno:

— Bada a quello che fai. Pensaci bene.

Ma questo consiglio ipocrita non doveva essere che uno sprone al nobile corridore. Meme non pensava affatto a se stesso; poco anche alla veste in cui involgere la sua dedizione appassionata. Nel mezzo del foglio, con una scritturina spezzata da nevrastenico vergò queste semplici parole:

Sono suo.

Renata a cui egli le fece leggere tutto timido e tremante dovette rammaricarsi della loro inutilità perchè veramente non si sarebbe potuto dir meglio. Nessuna frase, nessuna retorica: il suo cuore nudo e la limpida dichiarazione che ne era uscita pochi istanti prima. Sono suo. Ancora quella, semplicemente quella!

— Credi che basterà?

— Sì, basta. Firma: marchese Crevalcore.

— Oh! — fece Meme schermendosi.

— Non sei il marchese Crevalcore? Troppo a lungo lo abbiamo dimenticato. Riprendi il tuo diritto.