Ragionamenti intorno alla legge naturale e civile/Difetti delle leggi romane

Difetti delle leggi romane

../Della legge naturale ../Della maniera di trattare le leggi romane IncludiIntestazione 28 giugno 2018 25% Da definire

Della legge naturale Della maniera di trattare le leggi romane

[p. 44 modifica]

DIFETTI

DELLE LEGGI ROMANE.


A
Vendo io più volte meco medesimo considerato, perchè lo Studio delle Leggi Naturali tanto venga comunemente negletto e perchè all’incontro le Leggi Romane siano così universalmente ricevute, lodate, ed in sommo pregio tenute, questa ho creduto esserne la principal cagione, che quelle cose, le quali possono agevolmente essere comprese da tutti, vengono per lo più neglette, e tenute a vile, dove all’incontro grande stima, ed ammirazione presso la maggior parte riscuotono quelle altre, delle quali o poca, o niuna cognizione si ha. Le Leggi di natura, per essere meri dettami della ragione, possono con tutta facilità esser capite da chiunque uso faccia del suo naturale raziocinio: e però pochi sono coloro, che dello studio, e dell’opera loro degne le reputino. Ma all’opposto le Leggi Romane sin dal loro risorgimento in Italia in grande venerazione sonosi sempre presso i più conservate, perchè nè da quei, che allora le introdussero, intese furono, nè buona parte di quelli, che oggi le seguitano, e professano ne comprendono lo spirito, il midollo, la sostanza, i principj, i fondamenti, l’analogia, e ben sovente neppure il sentimento istesso.

Chiunque sia un poco nella storia de’ passati secoli introdotto, non può ignorare, che quando sulla fine dell’undecimo, oppure nel [p. 45 modifica]principio del duodecimo secolo Irnerio cominciò a spiegare1 le Pandette, pochissimi erano allora nella nostra Europa coloro che capaci fossero d’intendere quel di oscure materie ripieno libro; e che neppure molti ve n’ebbe, i quali sì abili fossero di poter solamente combinare, e legger con franchezza le Leggi, essendo in quel tempo questo mestier del leggere speditamente, e senza errore, una impresa da poterne solamente i più valenti preti, e frati venire a capo.2 Laonde gran maraviglia era in que’ tempi d’ignoranza, se alcuni pochi si trovavano, che tanto sapessero di latino, quanto bisognava per intendere le parole delle Leggi, nella qual cosa stessa però, quanto male non di rado riuscissero, ce ne fanno scorti le opere, che, ci rimangono, de’ più solenni Giureconsulti d’allora. Ma il conoscere poi lo spirito della Legge, l’intendere su che principj fosse fondata, il saperne la storia, il comprenderne l’analogia, il riconoscerne il fine, e l’avere altre notizie tali, che proprie sono d’un vero giurista, sono cose, onde costoro, che pur si facevano chiamare Lumi chiarissimi, Aurei specchi, e Lucerne lucidissime della Giurisprudenza, erano non tanto per loro negligenza, quanto per la rozzezza, e barbarie di que’ tempi interamente sforniti.

Essendosi adunque il mentovato Irnerio recato addosso questo grave impegno di spiegare [p. 46 modifica]le Leggi Romane, la novità della cosa attirò di mano in mano sì dalle vicine, come dalle lontane contrade una straordinaria quantità di studenti a Bologna, dove e vivente Irnerio, e dopo veniva con indicibil grido insegnata la scienza legale. Or cotesti studiosi ritornando poi alle patrie loro, stupefatti dalle ciarle de’ loro maestri, stretti da un cieco rispetto pel nome Romano, pieni di ammirazione verso quelle Leggi, che senza intenderle professavano di seguitare, ed imbaldanziti dalla stima, che la gente idiota lor professava, ogni diligenza, ed ogni studio posero per introdurre nelle loro patrie l’uso, e lo studio delle Leggi Romane nè da essi, nè da quelli, che le accettarono, nè da quei, che vennero dopo, giammai troppo bene intese. E tanto più agevole venne a questi nuovi Giuristi la loro mal pensata impresa, quanto che con ogni premura erano ricercati da’ Principi, e dal Popolo, che si persuadevano dover costoro avere riportato da Bologna le vere chiavi della Giustizia, ed i più segreti arcani della Politica, per fargli sedere ne’ Tribunali più cospicui, ed occupare le dignità più sublimi.3

Ma la stranezza, l’oscurità, le sottigliezze, i bizzarri principj, e tante altre particolarità delle Leggi Romane mescolate in questa ma [p. 47 modifica]niera colle Consuetudini, e colle Leggi d’ogni paese in particolare, cagionarono uno sconcerto, una confusione, ed una incertezza si fatta, che non si può sì facilmente comprendere, nè in un breve ragionamento spiegare. Dirò solo, che l’impossibilità di servirsi di quelle Leggi nella maggior parte de’ casi occorrenti, la gran difficoltà d’intenderle, la ripugnanza de’ costumi, e l’amore dell’equità da una parte, e l’ostinatezza di volerne pure fare uso in qualunque caso per diritto, e per traverso dall’altra parte, furon le principali cagioni d’uno sterminato, e, direi quasi, infinito numero di comenti, di decisioni, di consulti, e trattati in infinite cose tra di se contrarj, in molte altre ridicoli, capricciosi, assurdi, inetti, e ad innumerabili altre mancanze sottoposti, che da gran tempo in quà cotanto deturpano, infestano, ed imbrogliano la Disciplina Legale.

La sterminata copia di tanti libri Legali ha poi partorito un altro disordine ancora, cioè, che anche i Giuristi d’oggigiorno ordinariamente niente meglio intendono, e niente più fanno delle Leggi Romane, di quello che le intendessero, o ne sapessero i nostri rozzi antecessori. Anzi noi siamo in questo punto ancora di molto inferiori a quelli; poichè la maggior parte di noi altri trascura del tutto il testo delle Leggi, ed unicamente alla lettura di quegli zibaldoni si dà, che da’ nostri maggiori ci furono tramandati, di modo che pochissimi ci sono, i quali, non dirò alcuna particolare contezza abbiano delle Leggi, che professano, ma che solamente giunti siano a poterle inten[p. 48 modifica]dere. Io potrei su questo punto estendermi da vantaggio, e far vedere, quanto poca cognizione abbiano delle Leggi Romane costoro, che pur cotanto le esaltano, ma io temo, che

     Il mondo n' andrebbe a foco, e fiamma,
     E gridar gli udirei da furiosi,
     Che di pudor non v'è più in terra dramma.

Gran ragione pertanto ebbe il Gundlingio di ridersi degli elogj, che costoro danno alle Leggi da loro nè punto, nè poco intese: e degne sono d’essere quì riferite le sue parole. „Se questi Barbari, dic’egli, sostenessero, che quel corpo, come noi il chiamiamo, delle Leggi civili fosse da buttarsi via, e da seppellirsi nelle tenebre, sarebbero un poco più tollerabili ma poichè lo esaltano, e lo celebrano con tanti, e sì magnifici elogj, eglino si rendono veramente ridicoli; volendo lodar quel libro, che non leggono, e leggendolo non l’intendono. E però da quello, che non capiscono, ed a cui con diligente attenzione non hanno fatto riflesso, fannosi poi a tirare conseguenze fallaci.“4

Ma per venire al nostro punto, che abbiamo principalmente in mira, se si porrà mente a quello che i più dotti, e giudiziosi Giuristi hanno detto delle Leggi lasciateci da Giustiniano, noi scopriremo, ch’essi le hanno bensì per certi conti encomiate; ma che all’incontro le [p. 49 modifica]hanno altresì per molti altri capi grandemente biasimate. Egli v’ha ancora de’ gran legali, i quali senza degnarle di lode veruna, le hanno per tutti i versi sommamente vituperate. Ma sia però comunque esser si voglia, voglionsi condonare le lodi con moderazione, e con giudizio date alle Leggi di Giustiniano, e voglionsi queste condonare massimamente a que’ valentuomini, che sanno farne il debito uso, che sanno distinguervi il buono via dal cattivo, il diritto via dal torto, ed il ragionevole via dal bizzarro. Voglionsi ancora condonare a certi professori di erudizione, i quali se ne servono per la critica, e per la storia, o che alcun altro somigliante profitto ne possono trarre. Voglionsi finalmente condonare a qualche maestruzzo di rettorica, il quale avendo tutto il tempo suo meschinamente speso in farsi una buona provvisione di scelte parole latine, e trovandosi digiuno d’altre materie, si ponga ad accozzare insieme una stentatamente pomposa orazione de Laudibus Legum Romanarum. Ma che certi dei nostri Signori Dottori, i quali non hanno mai aperto, se non che al più per accidente, i cartoni del Corpus Juris, ci vengan a farci delle Lezioni in difesa, e lode dì quelle Leggi, che neppur comprendono, questo non si potrà da uomo di senno tollerare giammai.

Che costoro lodino adunque, e magnifichino, quanto vogliono le Leggi Romane, io sarò all’opposto sempre di parere, che la massima parte de’ disordini, che nel foro introdotti si sono, e che tuttavia con incomodo, e pregiudizio grande delle società civili vi regnano, [p. 50 modifica]da queste Leggi principalmente sieno scaturiti. E perchè niuno sia d’avviso, che una falsa prevenzione, o qualche irragionevole motivo, mi abbia a così sentire, e scrivere spinto, mi farò a dimostrare d’uno in uno i principali Difetti, dai quali io stimo, che siano derivati tanti malanni, e tante confusioni nel foro. E quì vuolsi preventivamente avvertire, che non intendo già di ampiamente trattare di tutti i Difetti delle Leggi Romane, poichè a ciò fare non un breve Discorso, qual ha da essere il presente, ma un’Opera apposta, e non punto mediocre richiederebbesi: ma il mio scopo si è di accennarne soltanto, e mettere in vista i più importanti, acciocchè s’incominci una volta a conoscere, che le Leggi Romane non sono poi quella maraviglia, che comunemente si crede.

I. Primieramente non si può già negare, che un grande, e rilevante difetto sia, quando scorretto, e guasto è il testo delle Leggi. Poichè allora non più come Leggi, ma unicamente come passi acconcj a dar dell’esercizio agl’interpreti riguardare si debbono. Ora ella è certissima cosa, che nel corpo del Gius lasciatoci da Giustiniano un indicibile numero di Leggi si trovano, le quali scorrettissime sono, ed hanno di emendazione bisogno. Egli è il vero, che questo non è un difetto, che si possa attribuire allo stesso Giustiniano: ma io non intendo quì di accennare solamente gli errori commessi dal Legislatore medesimo, poichè lo scopo mio si è di dimostrare, che l’uso delle Leggi Romane è pernizioso per i Difetti, che si trovano in esse, senza badare poi da qual parte quelli [p. 51 modifica]provengano: e così la cura del Leggitore ha da essere a vedere, se i Difetti da me indicati veramente ci siano, e possano aver partorito quei disordini, che dico, e non già ad esaminare, donde quelli siano nati, ed a chi s’abbia d’attribuirne la colpa. Egli è però certissimo, che il testo del Corpus Juris trovasi in infiniti luoghi assai guasto, di modo che rende un senso tutto diverso da quello, che voleva l’autor della Legge. E di ciò non è da prendersi maraviglia, poichè da questo male non andarono esenti neppure gli altri libri dell’antichità. Anzi egli è spessissime fiate accaduto, che perfino in vita ancora dell’Autore, e per così dire sotto gli occhi suoi proprj le opere sue gli venissero depravate, come ce ne fa chiara testimonianza lo stesso Cicerone, che di ciò forte si lamenta con Quinto suo fratello. ”Rispetto a’ libri latini, scriv’egli, io non so cosa m’abbia a fare, tanto vengono eglino scorrettamente scritti.“5 Ed allora, che non godeasi il beneficio della stampa, molto più facilmente d’oggigiorno succeder poteva, che le opere degli autori fossero empite d’errori, perchè dovendosi in que’ tempi, affine di poterle spacciare tra molti, adoperare parecchj copisti, che per lo più persone ignoranti, e talvolta ancora della lingua, in cui scrivevano, poco pratici erano, dovea natural[p. 52 modifica]mente avvenire, che costoro o per ignoranza, o per disattenzione, o per la fretta, che avevano, molti errori commettessero; i quali poi per lo più non si curavano neppure di correggerli, o levarli via per non arrecare qualche deformità all’opera, o per non perdere qualcosa della sperata mercede, o per non impiegarvi il tempo loro, e per pura infingardaggine, o per altra somigliante cagione.6 Nè dai Copisti solamente derivano gli errori di scrittura; perchè coloro ancora, che badavano a dettare, ne hanno non piccola colpa. Costoro bene spesso o per imperizia non sapevano, o per cagione della cattiva scrittura non potevano legger bene quel Codice, di cui per dettare ad altri si servivano. Sovente per trascuraggine ommettevano, o trasportavano, o cambiavano, o pronunziavano male, od in altra maniera, che pur assai ve n’aveva, guastavano le parole, i membri, e le costruzioni intiere dell’autore.7 E comechè a questa disgrazia tutti i Libri, e perfino i Sacri Codici d’allora soggiacessero, pure i Volumi del nostro Giure sono rimasi di questo male più d’ogni altro Libro infettati, come ognun che studia le Leggi Civili, lo vede per esperienza, e come gl’istessi più famosi Giureconsulti de’ nostri tempi lo debbono confessare. „Che le opere, dice Binclrershoeckio nella citata [p. 53 modifica]Prefazione, venissero guastate con maggior quantità di errori, che quelle degli altri, si può agevolmente conghietturare dall’uso, che tutti ne facevano comunemente. Imperciocchè quanto maggiormente ricercati erano i libri di Giure, tanto maggior numero di copie ne venivano fatte, e quanto più frequentemente venivano copiate, altrettanto più frequenti divenivano gli errori di scrittura.“ A ciò si aggiugne, che lo stesso Triboniano, e gli altri Compilatori del Corpo delle Leggi, spesse fiate ingannati si sono nel leggere, e trascrivere le parole degli antichi Giuristi, dalle opere de’ quali tratti sono que’ frammenti, onde formate si veggono le nostre Leggi Civili. Questo malanno è avvenuto ai mentovati Compilatori spezialmente, quando s’abbattevano in qualche testo, che con note, o sigle in qualche parte fosse per avventura stato scritto. Molti de’ più valenti Legali de’ nostri tempi hanno scoperto, e dimostrato, essersi da essi Compilatori in tale occasione presi molti abbagli, poichè o non intendevano, nè spiegavano secondo il suo vero significato le note suddette, od hanno anche tal fiata prese per note quelle, che non erano punto tali.8 Il che fu cagione di molte manifeste assurdità, ed incoerenze, che nel Corpo delle Leggi s’incontra[p. 54 modifica]no, e che danno gran pena agli espositori, come coll’esempio della L. 8. D. qui, et a quibus manum. Lib. non fiant, della L. 8. D, de V. O. e di diverse altre han fatto vedere tanto l’incomparabile Cujacio,9 quanto diversi altri sommi Giuristi.10 Un altro non picciolo male si è, che gli stessi antichi Giureconsulti Romani, dalle opere de’ quali furon cavate le Leggi, hanno sovente errato nel metter giù i loro pensieri, ponendo per inavvertenza una parola per l’altra, con che sono venuti a rovinare non solamente il senso, ma sinpure i diversi principj da essi medesimi in altri luoghi stabiliti; e però quì l’imbroglio è grande, perchè cagionato dall’istesso autore della Legge; e l’interprete, che scuopre l’errore, rimane nel dubbio, s’egli abbia da intraprendere la correzzione del testo, o rimanersene per un tal quale rispetto, oppure risolvendosi ancora a voler levarne il male, non sa bene, che medicina applicarvi. All’incontro un interprete meno avveduto, e circospetto si lascia anch’egli tirare nell’errore, e vien però a piantare contrarie, ed incoerenti dottrine, o si troverà necessitato di fingere inette, o false distinzioni, e limitazioni, per la qual cagione mille, e mille altre persone poi imbevono le stesse false sentenze. Veggansi gli esempj de’ testi per questa maniera corrotti, e delle pessime conseguenze, che sì nell’interpretazione, come nell’applicazione di quelli sono [p. 55 modifica]nate, presso il celebre Noodt, il quale ciò con evidenza va in diversi luoghi dimostrando.11

Il malanno, e la confusione s’aumenta vie maggiormente, quando si trovano di certe leggi, che nè da, alcuno antico Giureconsulto provengono, nè da Triboniano, nè dai suoi colleghi sono state nel volume delle Leggi di Giustiniano inserite, ma che sono un mero parto di qualche ardito in un ed ignorante Legulejo de’ tempi posteriori, il quale si è preso la libertà di aggiugnere al vero testo i suoi proprj arzigogoli, e le sconciature sue, che poi da altri furono copiate tali, e quali, e riputate per testi sinceri, cosicchè passarono poi in tutti quegli esemplari, che stampati furono ne’ secoli seguenti, o che ancora manoscritti giacciono nelle biblioteche. Gran temerità in vero fu questa di sì fatti Legulei, che di grandissimi errori ha cagionato, e molte false dottrine partorite. Ma pur tale furfanteria si è non poche volte, e da non pochi commessa, e conviene ormai, che noi studiamo su libri per si enorme maniera guastati.

Diasi un’occhiata alla Leg. 57. D. de contrah. emt. e chiunque avrà un pò di Giurisprudenza in testa, potrà agevolmente scoprire, come tutto quel testo dal paragrafo primo fino alla fine sia stato senza verun dubbio fabbricato di pianta da qualche ignorantaccio, che non deve appena aver saputo i primi principj delle Leggi. [p. 56 modifica]Lo stesso deve dirsi della Legge 58. dell’istesso titolo, come sì dell’una, che dell’altra lo dimostra ampiamente il Noodt.12 Ma troppe altre Leggi vi sono, che o furono interamente fabbricate da qualche sciocchissimo glossatore, o a cui de’ passi ideali, e chimerici furono temerariamente aggiunti.13 La qual disgrazia non solamente al Corpo delle Leggi di Giustiniano, ma sippure agli altri libri dell’antichità generalmente è accaduta.14 Degli accennati errori, e sconciature si trova carico lo stesso Codice Fiorentino, benchè ordinariamente venga riputato per il più corretto, e più antico di tutti quelli, che finora siano a notizia degli uomini pervenuti. Sicchè questi errori sono passati in tutte le copie, che se ne sono tratte, con questo di più, che siccome quel Codice scritto è all’antica usanza senza distinzione alcuna di parole, di membri, e di periodi, così i copisti, e gl’interpreti nel distinguere le parole, e nel metter l’interpunzioni a suo debito luogo si sono infinite volte ingannati. Ora da questi errori, da queste sconciature, e da questi aborti egli n’è nato, che molte Leggi, a prenderle, come giacciono, o non hanno senso veruno, o non hanno quello, che lor conviene, o se pure hanno senso, [p. 57 modifica]esso si trova contrario alle altre Leggi, ed all’analogia di tutto il Giure Romano.15 E questo malanno, per trattarsi di Leggi, è troppo più grande di quel, che comunemente si va figurando la gente, poichè, come saviamente riflette il Bynkershoeckio16 in aliis auctoribus corruptis perditur sententia, et fere solus nitor; hic sæpe perditur res, et fortuna hominum: aliud quippe juris esse poterit, si hoc, quam si illo modo fuerit scritptum.

Non mi si dica, che i più giudiziosi Critici Legali abbiano già levata via la massima parte dei testi viziosi e guasti, che per entro a’ Codici delle Leggi si ritrovavano: e che però questi sì fatti difetti non debbono più potere a veruno gran noja recare, nè apportare alla Giurisprudenza gran danno. Io sono tutto all’opposto di ferma persuasione, che riguardo a questo punto più abbiano alla Disciplina Legale nociuto, che giovato le fatiche de’ Giurisconsulti: poichè costoro in vece di ritrovare la vera lezione del testo, vi hanno aggiunto i loro propri capricci, e le loro chimere, desiderando ognuno di far spiccare il suo ingegno o mettendo in campo qualche suo nuovo ghiribizzo, o combattendo i rimedj messi in opera dagli altri per acconciare i testi corrotti. Sicchè non si può umanamente sapere chi s’abbia il torto, o la ragione, e chi abbia veramente emendato il testo, o chi si sia più degli altri approssimato [p. 58 modifica]alla vera lezione. Tuttavia il male non consiste solamente nell’incertezza, in cui ci lasciano le varie emendazioni, e spiegazioni degli interpreti. Il peggio si è, che costoro, sotto il pretesto di voler emendare un testo vizioso, hanno preso l’occasione di castrare, e di corrompere con troncamenti, con giunte, con trasposizioni, con raddopiamenti, e repliche di sillabe, e di parole, con interpunzioni, e con altri tali modi inventati di lor capriccio tutti que’ testi, che da loro non furono intesi, o che hanno ritrovati contrarj alle sentenze da loro già stabilite, benchè in realtà non avessero di alcuna correzione bisogno.17

E però con tutta ragione lamentasi il Bynkershoeckio nella Prefazione alle sue Osservazioni, ipsos Criticos sua arte turpiter abusos plura forte vulnera, et cicatrices bonis auctoribus intulisse, quam sustulisse. Quanta audaciæ, quantæ temeritatis sint Criticorum cruentatæ manus, nemo est, qui nesciat. Quo plus audent, eo plus audere pergunt, scindentes, urentes, secantes quidquid cerebello suo non placet. Egli è poi da considerai, che ognuno di questi Critici si tira dietro un gran numero di Discepoli, e copiatori; e che gli errori commessi da costoro in Teoria influiscono poi anche nella pratica, e mille disordini, mille incoerenze, e mille tra [p. 59 modifica]di se contrarie opinioni ne derivano. E noi altri buoni pratici, che siamo per lo più di pelo tondo, e senza dubbio la gente più goffa di quanti professano arti liberali, non ce ne accorgiamo nè punto, nè poco di questi malanni, e molto meno sapremmo noi indovinare la fonte, onde essi scaturiscano, non essendo usati a portare tanto innanzi i nostri riflessi, spesa avendo la maggior parte della vita nostra a raccozzare solamente quello, che troviamo scritto da altri, a misura de’ nostri bisogni, e secondo l’esigenza delle cause, che abbiamo da patrocinare, o da consultare, senza prenderci altramenti verun pensiero, se quello che troviamo stampato, sia cosa ragionevole, o no, di che nulla ci cale, purchè faccia al proposito nostro. Ecco pertanto il primo frutto, che si ricava da questa bella raccolta delle Leggi Romane.

II. L’oscurità si è un altro vizio delle Leggi di Giustiniano, da cui due grandissimi disordini provengono, cioè l’uno, che Leggi tali, delle quali non è certo il vero sentimento, non sono punto acconcie a far la minima decisione, o mettere stabilimento nissuno: L’altro disordine si è, che volendo i Giuristi pur cavare anche da Leggi tali qualche costrutto, ognuno si mette a spiegarle a posta sua, per la qual cagione una infinità d’incerte, e contrarie opinioni, che con tanto pregiudizio del pubblico bene regnano nei foro, sono nate, e nasceranno ancora in avvenire, finchè queste benedette Leggi avranno durata. E quì non devesi mica credere, che solamente agli idioti, [p. 60 modifica]ed ai Dottori più dozzinali riescano oscuri infiniti testi dei Digesti, del Codice, e delle novelle, poichè non solo queste teste stordite, ma ben anche i più valenti Giuristi non hanno saputo, e tuttora non saprebbero dare una certa, ed incontrastabile interpretazione ad un gran numero di Leggi oscure. Non furon già ocche, nè cavoli il Cujacio, il Buddeo, il Duraneo, il Connano, il Bertrando, il Gothofredo, i Fabri, il Noodt, ed altri uomini di questa fatta: eppure quante volte non accade in leggendo le opere loro di abbattersi in certi passi, dove forte si lagnano dell’oscurità delle Leggi, e confessano anche talvolta ingenuamente di non saperle intendere, nè rinvenirne il vero lor sentimento? Il che principalmente lor avviene, quando ad essi tocca per avventura di spiegare una qualche Legge di Paulo, di Scevola, di Affricano, e di Papiniano, i quali rispetto all’oscurità fra gli altri antichi Giureconsulti singolarmente distinti si sono.18 Scevola spezialmente noto è per cagione delle sue risposte ambigue, equivoche, e nulla concludenti, dalle quali ben sovente non è possibile di cavare costrutto veruno. Licet permulta alia (dice in un luogo Connano19 Scævola [p. 61 modifica]responsa notare æque absurda, et ut dicam, quod sentio, fatua, et inepta.... Sed hoc fuit Scævolæ proprium; responsis ambiguis reprehensorum tela eludere, ut si qua parte peteretur, declinaret in aliam, et commodo suo responsa sua interpretaretur: in quo illum ego non reprehensione modo, sed etiam pœna dignum fuisse judico. Ma non solamente Leggi oscure ci sono, che anche titoli interi, i quali parecchie Leggi in se comprendono, si trovano, i quali sono così di oscurità ripieni, che non si sa indovinare, di che materia ivi si tratti. Sentiamo le parole d’uno dei più illuminati, e più eruditi Giuristi, cioè del Noodt, in proposito del titolo de Conditione Triticiaria. „A questo titolo, dic’egli,20 non darò io interpretazione veruna, non essendo solito d’insegnare ad altri quello, che io medesimo non m’intendo. Tengo a memoria tuttociò, che di questa azione vien detto dagli Interpreti di questo titolo: ma dopo aver bene bilanciato il tutto, tanto è lungi, che io possa approvare alcuna cosa di quel che finora ne fu scritto, che mi sono sovente maravigliato, come con tanta franchezza si tratti di una azione, di cui non sanno spiegare con verisimiglianza nè l’uso, nè il nome, non che l’una, e l’altra cosa insieme, o pure anche l’una di esse con certezza“. Che s’ha dunque da fare di Leggi tali, che non s’intendono, e che ad altro non servono, che a dare occasione ai [p. 62 modifica]Legisti di mettere in campo i loro capriccj, e di seminare, e sostenere mille discordie!

Che se le Leggi Romane riefcono non di rado oscure al Cujacio, all’Ottomanno, Duarado, ai Fabbri, al Noodt, Binkrersoechio, Schultingio, ed agli altri più illuminati i Legisti de’ nostri tempi i quali hanno avuto una immensa provvisione di tutti i mezzi più necessarj per giugnere all’intelligenza di quelle Leggi come a dire una vasta cognizione delle lingue greca, e latina, della Storia, delle antichità, della vecchia filosofia, della critica, che pena, e che martirio non daranno poi questi volumi di Giustiniano al rimanente de’ Giuristi, che tanto sanno di Greco, di Latino, di Storia, di Filosofia, e di critica, quanto ne sapeva il buon uomo di Sancio Panza. Per intendere la lingua degli antichi Giuristi, non basta mica sapere il gergo del Bortolo, o del Fulgosio, ma bisogna aver studiato assai bene su’ libri degli Autori classici de’ vecchj tempi, come ognuno, che abbia veduto le prime pagine dei Digesti, può aver da se medesimo bastevolmente compreso. Così per intendere lo spirito delle Leggi Romane non basta l’avere in mente le filastrocche di Curzio, che si legge nelle scuole, nè gli esempj cavati dal Flos Sanctorum, che ordinariamente insegnano i Maestri, ma egli è assolutamente necessario di essere ben versati nella Storia, ed antichità Romane, colle quali sole si può arrivare a conoscere l’indole delle Leggi, a ravvisare il fine del Legislatore, ed a scoprire l’occasione, in cui fu portata la Legge. E senza di queste cognizio[p. 63 modifica]ni non solamente non verrassi a capo giammai d’intendere neppur la menoma parte delle Leggi, ma non si saprà nemmeno in che maniera, ed in quali circostanze applicarle. Potrei far ridere il Leggitore, s’egli fosse qui il luogo di mostrare quante scempiate cose abbiano detto, e dican tuttavia coloro, che della Storia antica, la necessaria cognizione non hanno. Ed egli è incredibile di quanti spropositi,21 e di quante false opinioni vada carica la presente Disciplina Legale, per avere i nostri primi Interpreti delle Leggi di Giustiniano, i consulenti, i trattatisti, e gli Autori di decisioni cotanto ignorato l’antica Giurisprudenza Romana. Così parimente l’ignoranza della vecchia Filosofia, e spezialmente della Stoica, alla quale la massima parte degli Autori delle Leggi nostre22 si sono principalmente dati, ha fatto prendere dei gran granchi a cotesti bacalari di Giurisprudenza, che messi si sono ad interpretare a lor modo le Leggi di Giustiniano. Facciasi attenzione a quello, che i nostri buoni interpreti vanno ciarlando intorno alle definizioni della Giurisprudenza in generale, del Diritto della Natura, e della Giustizia, intorno alle validità o nullità de’ contratti fatti o per timore, o per inganno, intorno al feto ancora chiuso nel ventre della madre, [p. 64 modifica]intorno alla forza de’ giuramenti, ed intorno ad altre cose tali, sopra le quali gli autori delle nostre Leggi hanno ragionato coi loro Stoici principj,23 facciasi, dico, attenzione alle spiegazioni, e ragionamenti fatti da’ nostri Chiosatori sopra i testi suddetti, ed appena è, che uno il quale sia di giudizio, e di erudizione un pocolino fornito, possa contenere le risa per le tante inezie, e fole da costoro in tali occasioni spacciate. Ora tutte queste dottrine false, ridicole, inette, puerili, e stomachevoli, che dai primi Chiosatori furono a lor capriccio inventate, sono poi state accettate da coloro, che li seguitarono, con tanto rispetto, e venerazione, come se fossero tanti vangeli, e tante decisioni d’uomini infallibili. Noi non vogliamo qui farci a mostrare più distesamente le pessime conseguenze di questa cosa, nè far conoscere di quante altre opinioni false una sola opinione falsa, o primitiva possa essere l’origine, poichè questo ad altro luogo è riserbato. Ma quello, che quì devesi far considerare, si è, che siccome in ogni ben regolata Repubblica le Leggi debbono essere concepite per modo, che da tutti i membri di quelle possano venire agevolmente intese, mentre dovendo esse servire di norma, e regola alle azioni de’ Cittadini necessaria cosa è, che tutti le comprendano; così le Leggi Romane per non [p. 65 modifica]avere ormai questo necessario, e sostanziale requisito, non debbono a’giorni nostri poter più servire di Leggi. Poichè, come sarà egli possibile, che la gente, che non sa più in là dell’abbiccì, o anche le altre persone colte, e letterate, le quali però alla Giurisprudenza non si sono con particolare studio applicate, abbiano una sufficiente cognizione delle Leggi di Giustiniano, quando coloro medesimi, che si mettono a studiarle, come si suol dire con l’arco dell’osso, e che ne fanno professione, pure con tutte le loro fatiche, ed applicazioni in un tanto bujo si trovano, che non sanno dove porre nè piedi, nè mani, e ben sovente cose tali proferiscono, che farebbero per istomacaggine saltar le pietre fuori delle mura. Non s’hanno adunque da tollerar Leggi cotali, che in vece di servire ad impedire, che nascano liti, ed a decidere con ragionevolezza le controversie, sono piuttosto acconcie a partorire, e conservare le discordie, ed i processi in quella Repubblica, dove siano ricevute.

III. Una delle più essenziali, ed importanti qualità di quelle Leggi, che all’amministrazione della giustizia destinate sono, si è quella dell’essere il più, che sia possibile, conformi alla retta ragione, e all’equità, ed al diritto naturale. La qual cosa tanto è necessaria, che dove essa manchi, molti grandissimi disordini ne debbono senza alcun fallo seguitare: E particolarmente Leggi tali, che troppo si scostano dall’equità, e dal raziocinio naturale, non sono atte a riscuotere da’ cittadini la dovuta ubbidienza, non che quel gran rispetto, che per le Leggi comunemente si ha. [p. 66 modifica]

In caso tale tanto gli Avvocati, quanto i Giudici si trovano, per così dire, impegnati a mettere in opera ogni cosa per poter ritrovare qualche pretesto di scansare la Legge, e di ritornare sul retto cammino. Ora ella è questa una disgrazia tutta propria delle Leggi Romane di essere così piene zeppe di sottigliezze, d’innaturalezze, e di massime troppo lontane dalla semplicità della ragion naturale, che sembra non potersi concepire, come tanta quantità e di sì strana natura ne sia stata inventata. Io preveggo, che questa mia asserzione ha da dare del fastidio a molti solenni Oratori, i quali siccome son pregni di parole, e scarsi di materie, così hanno i lor luoghi comuni, dove s’attacano, quando con una qualche verbosa orazione vogliono fare sfoggio dell’eloquenza loro, o per meglio dire della loro arte di cicalare. E siccome il lodare le Leggi di que’ sapientissimi Legislatori Romani per la loro maraviglievole equità, ed inarrivabile semplicità, egli si è uno de’ principali luoghi comuni, che costoro si abbiano, io ho da passare presso di essi per un prosuntuoso insieme, e scimunito uomo, perchè ardisco di oppormi così apertamente ad una cotanto, com’essi credono, sicura sentenza. Ma so ben io, che costoro non hanno mai studiato la Giurisprudenza, siccome neppure verun’altra scienza a fondo: e però non ho da rimanermi dal proseguire le mie lagnanze per cagione delle tante sottigliezze, onde sono infettate principalmente quelle Leggi, che sono state ne’ Digesti raccolte. Questo sconcio, e vituperevole malanno ha principalmente avuto la sua origine dalle interpretazioni, dalle furberie, e dalle dispu[p. 67 modifica]te degli antichi Giureconsulti Romani intorno alle Leggi delle dodici tavole. L’ambizione, l’interesse, e l’ostinatezza di voler stare attaccati alle parole della Legge li condussero ad inventare, e porre in uso un infinito numero di sottili interpretazioni, di formalità di parole, e di principj stravaganti, e storti. Primieramente Essi ritrovarono, i Fasti, le formole legali, e le cifre a intendimento di tenere celata alla plebe la loro Giurisprudenza, e di obbligare per questa maniera tutto il popolo Romano a servirsi di essi in tutti i più importanti affari.24

Le Leggi civili furono adunque allora con tante sottigliezze, e con tante formalità imbrogliate, e ad un’ora tutte queste ciance, e furberie venivano con tanta segretezza occultate, che chi non era nell’ordine di coloro, a’ quali la scienza legale poteva esser palese, non sapeva nè in quai giorni fosse lecito di comparire nel foro; nè in che maniera, o con quali parole convenisse proporre la sua azione in giudizio, nè che altre cose vi fossero da osservare: perciocchè per avere la notizia di tutto questo, e per potersi ne’ casi occorrenti regolare secondo il bisogno, era necessario che ogni volta si ricorresse ad un giurisconsulto, val a dire a qualcuno de’ patrizj, i quali questi arcani con gelosia custoditi tenevano.25 E quello, che rende questo malizioso, ed ingiusto procedere ancora più insoffribile, si [p. 68 modifica]è, che chi avesse un tantino errato nel recitare la formola insegnatagli per poter giudizialmente domandare il suo, o coll’ommettere una sola parola, o col proferirla in altra maniera, che si dovea, col sostituirne un’altra equivalente, e del medefimo significato della prima, perdeva subitamente tutta la causa, se anche avesse altrimenti avuto cento ragioni per una.26 Ma sentiamo fu di ciò Cicerone istesso, che mette troppo bene in veduta i garbuglj, le sottigliezze, e le cabale irragionevoli adoperate da cotesti primi lumi, ed autori della Giurisprudenza Romana.27 „Potendosi questo comodissimamente fare: la possession Sabina è mia, anzi ella è mia. Poscia ne venga dietro il giudizio. Costoro non vollero. La Possessione, il Giureconsulto dice, che è nel Contado, che Sabino si chiama, ben prolissamente: dimmi, che n’aggiungono appresso? Io affermo, che l’è mia per dritto. Che poi ne succede? Quindi io dal Tribunale ti cito ad appiccar mischia forense. Non avea il difensore che rispondere a costui con tanta loquacità litigioso. II medesimo Giureconsulto sen passa alla maniera del flautista latino, di colà, onde tu citato m’hai dal Tribunale ad appicare forense mischia, di quindi a quel luogo là ti richiamo. Il prettore frattanto, perchè non si reputasse eccellente uomo, ed avventuroso, ad esso ancora la formola fu composta, siccome per gli altri rispetti importuna, così specialmente per [p. 69 modifica]non avere alcun uso. Amendue i litiganti sani, e salvi essendo presenti, cotesta strada prescrivo: in istrada mettetevi: V’era quel tacente in pronto, che gl’insegnava a mettersi per la strada: fate per la strada ritorno: tornavansi sulla medesima guida di lui. Queste cose fin d’allora appresso que’ barbuti secondo me pareano ridicolose, che a’ litiganti soggetti dopo d’essersi acconciamente, e nel posto luogo fermati, ordinato fosse il partire, acciocchè tosto colà medesimo ritornassero donde si fossero dipartiti. Colle medesime inezie sono tutte quelle cose inorpellate: poichè io nel Tribunale ti vedo: e queste: ma tu cercherai forse il possesso del tuo per apparenza? le quali ciance mentre occulte furono, erano di necessità ricercate da coloro, che n’avean l’intelligenza: ma divolgate poi, maneggiate, e ben esaminate, rinvenute si sono assai vote di dottrina; e di frode; e di stoltezza pienissime. Imperciocchè essendo state assai cose per Leggi eccellentemente fermate, furono la più parte dagli ingegni de’ Giureconsulti guaste, e sconciate.“

Lo stesso Oratore disse poco prima, che in così tenue scienza niun decoro vi può esser mai; imperciocchè sono piccole cose, che s’aggirano quasi in ciascuna lettera, ed interpunzione di parole. Egli mostra finalmente che in quella scienza non vi si rinvenne giammai la dignità consolare, perchè ella è tutta di finte, e commentizie cose composta.

Ma le cabale, e sottigliezze degli antichi Giurisconsulti Romani non si fermarono punto quì. Poichè eglino non si contentarono già di aver [p. 70 modifica]colle loro furberie, ed invenzioni reso malagevole l’uso delle Leggi, ma diedero ancora di mano a ritrovare, e mettere in opera delle frodi affine di snervare, e scansare le disposizioni delle Leggi. Così essendosi per cagione d’esempio, o per qualche Legge, o per una costumanza antica nella Romana Repubblica sempre praticato, che tutte le donne per debolezza del loro intendimento vivessero sotto la potestà de’ tutori, ritrovaron costoro una specie di tutori, che fossero alle potestà delle donne sottoposti.28

Finalmente in tutta la ragion civile, secondo che Cicerone ha loro giustamente rimproverato, l’equità lasciarono, e s’attaccarono solamente alle parole delle Leggi: come per via di esempio, dice l’istesso Oratore29 perchè ne’ libri di alcuno trovato avean quel nome, di Caja, stimarono, che tutte le donne, le quali facessero scambievole compera, si chiamassero Caje. A me poi suol pur parere strana cosa, che tanti uomini sì ingnegnosi, per lo spazio di tanti anni non abbiano per anco potuto determinare, se si convenga dire il giorno terzo, o il perendino; il giudice, o l’arbitro; la cosa, o la lite? Lo stesso Cicerone va nel suo Libro dell’Oratore, ed in parecchj altri trattati ancora ampiamente, e con addurre di molti esempj, dimostrando, come il costume più ordinario degli antichi Legisti di Roma si era di stare solamente stretti alle parole delle Leggi, e di non curarsi niente affatto della giustizia, dell’equità, e della ragio[p. 71 modifica]ne. E per questo si mette ben sovente a lodare Servio Sulpizio suo contemporaneo, il quale fu il primo, che ardisse di rompere il ghiaccio, e di lasciare le parole per seguitare la ragione, l’equità, e lo spirito della Legge.

Ma Servio Sulpizio non potè trovare rimedio a tutto, nè levare quelle sottigliezze, che già aveano fatta radice; nè quei Giurisconsulti, che o al tempo suo vissero, o vennero poi, erano tutti dell’istesso sentimento per rispetto allo stare attaccati alla ragione piuttosto, che alle parole. E però essendosi i Romani da così gran tempo assueffatti alle finte, ed inette sottigliezze de’ loro Giurisconsulti, agevolmente avvenne, che si tenessero per cose buone, e lodevoli, e che i giuristi posteriori le accettassero, ed inserissero nelle opere loro come regole, e massime incontrastabili, e ragionevoli, e che il Senato, i Magistrati, e gl’Imperadori ancora le riguardassero come principj, e fondamenti, su di cui avessero da piantare, e stabilire le nuove Leggi loro. E pertanto giacchè il corpo delle Leggi Romane composto è di rispofte e decisioni di Giurisperiti sì fatti, e di Leggi fermate da’ Legislatori di queste sottili, ed innaturali frascherie imbevuti, dovea per necessaria conseguenza avvenire, che quella Raccolta di Giustiniano riuscisse piena di sofistiche regole, e di chimeriche decisioni. Scorransi pure tutti i titoli delle Pandette, che sottigliezze troveransi in abbondanza per tutto: massimanente quando altri si voglia fermare sulle Leggi appartenenti alle ultime disposizioni degli uomini, che pur è la più importante, e più ampia materia di tutta la facoltà Legale. Lunga, e te[p. 72 modifica]diosa cosa sarebbe il voler quì dare solamente un saggio di tutte le maniere di sottigliezza, onde guastate son le Leggi Romane. E la cosa è altresì troppo ben nota a chiunque ha studiato il Giure in autori di dottrina, e discernimento dotati, ed a chi ha letto il testo medesimo e non già i puri Zibaldoni di tanti goffi Comentatori. Tuttavolta noi faremo ciò per comodo di chi non sa di giure con l’uno, o l’altro esempio più chiaro. Le Leggi delle dodici tavole avevano dato ad ogni padre di famiglia un’ampia autorità di poter testare a modo suo. Ma i Giuristi di que’ tempi trovando ciò troppo comodo pe’ cittadini, e volendo pur rendersi necessarj, s’avvisarono d’introdurre ne’ testamenti l’uso della mancipazione,30 la qual era presso i Romani una ceremonia da loro adoperata nella vendita di certe cose più preziose, come de’ fondi italici, de’ servi, de’ quadrupedi, e delle gemme.31 E benchè questo rito del fare i testamenti per mancipazione fosse nel progresso del tempo andato in disuso, contuttociò rimasero in appresso, e rimangono tuttavia certi vestigi, e certe conseguenze derivanti da quella cerimonia, le quali in vece di essere state dalle Leggi posteriori abolite, ne furono espressamente approvate. Tali sono la necessità di adoperar sette testimonj, che rappresentano sette persone, che nel rito della mancipazione doveva[p. 73 modifica]no necessariamente intervenire.32 Così pure l’obbligo di dover fare il testamento da se medesimo senza potersi servire di verun procuratore, il quale a nome del testatore palesi a’ testimonj la di lui volontà in iscritto, come ancora l’indispensabile necessità di dover cominciare, e finire il testamento senza interruzione veruna, e di dover apertamente pregare i testimonj, perchè vi vogliano essere presenti, e non meno la proibizione di non potere adoperar per testimonj le donne; queste, ed altre si fatte cose, dico, non altronde, che da quell’antico rito della mancipazione traggono la origine loro.33 Altro parimente, che prette sottigliezze inutili degli antichi Romani non sono quelle loro massime, e regole fondamentali, che niuno possa morire pro parte testatus, et pro parte intestatus: che l’erede, ed il defonto sia una persona istessa: che quello sia però tenuto a pagare del proprio i debiti di questo, quando i beni ereditarj, a tale uopo non bastino: che niuno possa dichiararsi erede per mezzo d’un procuratore, che il testatore non possa comandare all’erede, che abbracci l’eredità solamente dopo qualche tempo; o che abbraciatala ritenere la possa fino ad un certo tempo soltanto: che non sussistano, nè possano aver veruno effetto i patti di futura successione: che il padre non possa dar licenza al figlio di fare testamento intorno ai beni, che sono proprj dell’istesso figlio, e che come un peculio avventizio ordina[p. 74 modifica]rio, o straordinario gli appartengono: che il padre non possa sostituire al figlio minore di anni quattordici, se nello stesso tempo non fa anche il testamento per se stesso: che se il testatore per isbaglio ha chiamato il suo erede col nome di fratello, e che fratello non fosse, allora l’eredità nè all’erede scritto, nè a quello di cui certamente si sappia, che il testatore intendesse, aggiudicare si debba.34 E per non restare sempre nella materia testamentaria, che ciò troppo oltre ci menerebbe, su mere sottigliezze son fondate queste decisioni delle Leggi Romane; che servitù non si possa dare, se vi manchi la causa perpetua: che il padrone del fondo serviente non possa essere per veruna maniera obbligato a dover egli medesimo fare qualcosa in vantaggio del fondo dominante: e che non sussista quella servitù, la quale non a favore del fondo vicino, ma pel solo piacere, o vantaggio del padrone di quello sia stata all’altro fondo contiguo imposta.35 Una sottigliezza iniqua contiene pure la Legge 17. D. Quib. mod. usuf. amit. e basta il leggerla per iscoprirne evidentemente il torto. Su sottigliezze, e raziocinj storti sono ancora fondate quasi tutte quelle risoluzioni degli antichi giurisconsulti, che nel titolo de acquirendo Rerum Dominio sono [p. 75 modifica]comprese, come assai bene dimostrano il Tommasio, il Gundlingio, il Barbeiracio, ed altri.36 Sottigliezza, ed arzigogoli irragionevoli, e provenienti dagli storti principj d’una pazza filosofia sono quelle dottrine Romane, che riguardano i contratti fatti o per forza o per inganno, come pure i contratti bonæ fidei, e quelli stricti juris.37 Ma io non la finirei mai più, se mi volessi inoltrare in questa materia, ne potrei agevolmente venire a bordo, se in questo vastissimo mare delle sottigliezze Romane m’ingolfassi. E queste sono quelle, che levano alle Leggi di Giustiniano quella semplicità maturale, che nelle Leggi civili cotanto è necessaria: queste sono che la Giurisprudenza Romana rendono cavillosa, confusa, difficile, ed imbrogliata, e che fanno, ch’ella sia piena di spini, d’intoppi, di labirinti, e d’intralciamenti. Voglio solo per conchiusione addurre quì un passo di Samuele Struglio de Cautel. Testam. cap. 1. §. 16. dove dopo aver ne’ precedenti paragrafi ampiamente riprese le sottigliezze delle Leggi Romane nella materia testamentaria introdotte, così seguita a dire. „Ma per ispiegare brevemente il mio sentimento dirò, che volendo i Principi ritenere il diritto di potere ognuno testare, e volendo ancora conformarsi nel resto alle Leggi Romane, do[p. 76 modifica]vrebbero almeno per prevenire innumerabili controversie, ciascuno nel loro stato comandare, che ogni suddito potesse a quel modo testare, che le Leggi permettono ad un soldato, che si trova nel campo; cioè, che potesse la sua volontà avanti due testimonj, o coi proprj caratteri, e col proprio sigillo dichiarare, ed in questa maniera dovesse aver forza di Legge. La stessa libertà dovrebbesi concedere ai sudditi rispetto alla istituzione, e sostituzione dell’erede..... se ciò venisse fatto, l’esperienza ci mostra, che assai meglio si gioverebbe alla Repubblica col torre per questa guisa di mezzo una gran materia di dispute, che col pubblicare tante riforme di processi, e col promulgare tante nuove decisioni, le quali hanno sempre bisogno di nuove interpretazioni, perchè si fondano però sempre su gli stessi principj delle Leggi Romane, le quali a mere sottigliezze s’appoggiano.“

IV. Il Sig. Montesquieu insegna,38 che quando un Legislatore vuol pure allegar la ragione della Legge da lui fatta, egli è d’uopo, che quella sia una ragione degna della Legge. Ma in questo punto meritano di essere grandemente ripresi gli Autori delle Leggi Romane, fra le quali troppe ve n’ha, ove addotte si trovano ragioncelle indegne di qualsisia decisione, non che d’una legge. Parte di esse sono apertamente ingiuste, e false, parte non fanno al proposito, parte sono soverchie, ed inconcludenti. Sæpe numero apud Juris [p. 77 modifica]auctores, dice Antonio Mattei39 odiosas, ac inertes rationes invenias, quæ vel dumtaxat ad ornatum spectent, vel bis idem inculcent, vel a sententia proposita penitus alienæ videantur, denique tales sint, ut non immerito rationem in ratione desideres. Chi lo crederebbe, che una legge ci fosse, nella quale stabilito sia, che niun cieco possa servire in giudizio da procuratore, per questa bella ragione, che un tale non è in istato di vedere gli ornamenti del Tribunale? Eppur essa ci è,40 e di queste ce ne sono assai. Dal che nasce poi, che i Cittadini in vece di rispettare Leggi si fatte, le tengono a vile, le dispregiano, e niuno scrupolo si fanno di schernirne le decisioni con apportare dal canto loro ragioni più apparenti, e più forti, od almeno più adattate al caso. Poichè quando il Legislatore si contenti di comandare solamente, facile cosa è ch’egli venga ubbidito: ma quando egli procede più oltre, e cerchi eziandio di dogmatizare, e persuadere con ragioni; e che in questo punto troppo debile, e poco assennato si mostri, allora in luogo di riscuoter rispetto, le sue leggi vengono derise, e vilipese. Eccone l’esempio. Nella Legge 1. §. 41. D. Depositi viene proposto il seguente caso. Si cista signata deposita sit, utrum cista tantum petatur, an et species comprehendendæ sint? Labeone, ed Ulpiano decidono la quistione nella seguente maniera. Labeo autem ait, qui cistam deponit, singulas quoque res videri [p. 78 modifica]deponere: ergo et de rebus agere eum oportet. Quid ergo, si ignoraverit is, qui depositum suscipiebat, res ibi esse? Non multum facere, quum suscepit depositum. Ego et rerum depositi agere posse existimo, quamvis signata cista deposita sit. La ragione su cui Labeone, e dopo di lui Ulpiano, che insieme è l’autore della soprariferita decisione, fondarono la loro risoluzione, fu trovata sì poco vera, e sì poco atta a persuadere, che i principali giuristi de’ nostri tempi non hanno avuto il minimo scrupolo di tenere apertamente tutto il contrario, nonostante la chiara decisione della Legge, come si può vedere presso il Gundlingio, che in ciò seguitò l’esempio del Menochio, del Carpzovio, del Mevio, e di altri più famosi Legali.41 Siccome poi le ragioni addotte nelle Leggi sono bene spesso inette, irragionevoli, ed inconcludenti, così ancora le decisioni fatte da que’ vecchj Giurisconsulti, e riportate dai Compilatori nel Corpo delle Leggi, riescono non di rado capricciose, illegali, e contrarie alla buona giustizia, ed alla ragione. Il che allora spezialmente è accaduto, quando il Giurisconsulto è stato interrogato da qualche suo buon amico sopra una quistione, o controversia insortagli; poichè in tale caso per conservarsi la buona grazia, dava il Consulente una risposta favorevole all’interrogante senza badare altramenti alla ragione dell’avversario, come anche a’ giorni nostri dalla gente, che professa Giurisprudenza, generalmente si costuma di fare. [p. 79 modifica]

Eppur coteste si belle decisioni furono poi ciò non ostante dai Compilatori copiate, ed inserite nel corpo delle Leggi, come, per non dilungarci troppo, proveremo per ora col solo esempio delle Legge 14. D. de Transactionibus, la quale il dottissimo Noodt42 ad evidenza dimostra essere opposta alla ragione, ed ai primi principj del giure: e poi viene conchiudendo così: Hæc quo magis considero, eo magis censeo, Scævolam non ex animi sui sententia respondisse; sed ut amico rem gratam, acceptamque faceret, a jure certo longius, quam oportebat, recessisse.

Chi con una sola scorsa d’occhio vuol vedere una folla di leggi; dove per ragioni frivole, ed irragionevoli cose apertamente ingiuste si stabiliscono, apra il titolo delle Pandette de Acquir. Rer. Domin. ed il suo consimile nelle Istituzioni de Rer. Divis. Ivi troverassi per cagione di esempio, che la scrittura deve cedere alla carta, cioè, che se altri avrà scritto una cosa anche d’importanza su di una carta, che appartenga ad altrui, il padrone della carta avrà ragione di prendersi la sua carta insieme con quello, che sopra vista scritto l. 9. §. 1. De Acq. Rer. Dom. §.30. Inst. eod. Laddove ogni ragion vuole, che la carta debba cedere alla scrittura, perchè poco importa al suo padrone, se esso abbia quella od un’altra simile carta, ed all’incontro troppo può importare allo scrittore, che la sua scrittura gli resti, o che non sia all’altro uomo fatta palese. Così troverassi, che la gemma d’un altro [p. 80 modifica]appartiene a colui, che l’ha nel suo oro legata, facendosi quì servire l’oro come cosa principale, e la gemma come un semplice accessorio, l. 19. §. 13. de aur. arg. Leg. 1. il che alla ragion naturale manifestamente ripugna, perchè facilmente si può ritrovare dell’oro dell’istessa qualità, ma non già una gemma, la quale per la sua rarità, grossezza, ed altre qualità può essere spezialmente cara al suo padrone di modo, che per cosa del mondo non ne voglia restare privo. Così troverassi ancora, che quando altri abbia eretta una fabbrica su d’un terreno proprio d’un altro, il quale egli abbia stimato appartenere a se, il fabbricante di buona fede non possa dal padrone del terreno ripetere le spese fatte nell’alzare la fabbrica, quando non si trovi più nel possesso di quel terreno, su cui ha fabbricato, la qual ragione all’incontro gli competirebbe per modo di eccezzione, quando egli fosse al possesso della casa, e del terreno, allorchè il padrone gliene domanda la restituzione. Ma siccome questa cosa è stata trovata troppo ingiusta, così i nostri pratici hanno ad un tal fabbricatore di buona fede conceduta l’azione ex æquitate. Di somiglianti esempj di leggi ingiuste se ne trovano a migliaja: ma possono bastare gli addotti per far già abbastanza comprendere, che su ragioni troppo irragionevoli, ed ingiuste sono sondate parecchie leggi, come per rispetto a quelle, che sono comprefe nel titolo de acquirendo Rerum Dominio viene chiaramente dimostrato dal Tommasio nella Dissertazione de pretio affectionis in res fungibiles non cadente, e dell’Eineccio nel suo Jus Nat. et Gent. cap. 9. [p. 81 modifica]

A ciò si aggiugne un altro male ancora, ed è, che le ragioni nelle leggi espresse, sono talvolta così oscure, e così sottili, che non c’è uomo che le possa capire.43 Or da tutti questi disordini molti malanni nascono, e primieramente che a Leggi tali niuna venerazione, e niuna ubbidienza si presta; in secondo luogo, che altri prende da quelle motivo di cavillare, e vi trova delle armi per impugnare la giustizia, e l’equità; Finalmente molte limitazioni, ed ampiazioni delle altre leggi restano per quella cagione all’oscuro, come da dotti autori diffusamente fu dimostrato.44

V. Il metodo prescritto dall’Imperadore Giustiniano nel far compilare le Leggi è parimente stato cagione di diversi altri, e ben gravi disordini. Trovandosi in quel tempo una immensa quantità di libri dagli antichi Giurisconsulti sopra varie materie scritti, e così una infinità di Editti dei Magistrati, e di ogni sorta di Costituzioni degl’Imperadori sopra diverse materie, e quistioni emanate, i Compilatori ebbero da Giustiniano l’ordine di cavare da’ libri de’ Giureconsulti, dagli Editti, e dalle Costituzioni suddette tutti que’ passi, che stimavano poter cadere in acconcio ad esser collocati nella nuova Compilazione, ed a poter servire di decisione, e Legge. E però in vece che Giustiniano avesse formato egli medesimo quelle Leggi, che avesse giudicato a proposito, egli diede l’autorità di Leggi a quelle risoluzioni, che i vecchj Giurisconsulti, [p. 82 modifica]i Pretori, gli Edili, ed i suoi Antecessori aveano fatte sopra diversi particolari casi, e sopra quistioni speziali o proposte loro da altri, o scelte da loro medesimi a questo effetto. Ma questa maniera di compor Leggi così sciocca, così ridicola, e così inetta fu appunto ciò, che diede il guasto a tutta la Disciplina Legale, come andremo per più capi dimostrando. E primieramente ciò cagionò, che non bastassero poche, ma si dovessero assolutamente fare moltissime Leggi, affinchè da una convenevol moltitudine di decisioni, le quali riguardavano per lo più casi particolari solamente, si potesse venir a comprendere la mente del Legislatore, ed in quali circostanze egli volesse, che tale, o tal altra decisione procedesse. Quando il Legislatore propone la Legge colle proprie parole, e ch’egli specifica inoltre in quali circostanze principalmente ch’egli vuole aver quella ordinariamente luogo, un uomo savio arriva con facilità ad intendere lo spirito, e la sostanza: ma quando si deve arguire la mente del Legislatore da diverse decisioni fatte sopra casi particolari, allora le Decisioni vogliono essere molte per necessità, acciocchè si possa conoscere i precisi casi, per li quali furon fatte, e le ampiazioni, o limitazioni, che vi hanno da entrare: e ciò non ostante egli è ancora facile lo andare errato, di modo che non si giunga a comprendere almeno in tutta la sua estensione l’intendimento ed il fine del Legislatore. Sicchè questo metodo osservato per ordine di Giustiniano nel compilare il corpo del giure, dovea per inevitabile conseguenza produrre un infinità di Leggi: Ma la moltitudine delle Leggi è [p. 83 modifica]una cosa troppo perniciosa alle Repubbliche: poichè da questa nasce, che i cittadini le debbano necessariamente ignorare, se pur non vogliono spenderci dietro tutto il tempo della vita loro, e trascurare ogni altra premurosa bisogna, senza essere ancora ben sicuri che quando saranno con fatica giunti ad avere a memoria le Leggi poste verso la fine, non vengano intanto a dimenticarsi di quelle, che al principio, e nel mezzo furon collocate. La troppo gran copia dee naturalmente partorire una indicibil confusione nelle teste di chi le va studiando: essa dee cagionare una incertezza generale rispetto alle cose della giustizia, poichè in un gran numero di Leggi impossibile è il fare sì, che i sudditi possano ben conoscere quale a questo e quale all’altro caso applicare si debba: Finalmente essa deve produrre infiniti timori, e scrupoli ne’ cittadini, i quali per non potersi proccurare una sufficiente notizia di tante leggi, non possono essere sicuri giammai di operare a norma di esse. A che uopo adunque far tante Leggi, se queste non servono ad altro, che ad imbrogliare i sudditi, e ad arrichire i giudici, e gli avvocati? Quando una Repubblica ha molte Leggi, egli è infallibile, che vi sono ancora molte liti; e che il denaro de’ sudditi in vece di essere impiegato nell’agricultura, nel commerzio, ed in altre cose vantaggiose alla società, va a collare nelle borse di cento fanfaroni, o stupidissimi poltroni. Apud quos plurimæ leges, dice Platone, ibi et lites, itemque mores improbi. E la sperienza ce l’ha fatto finora troppo ben vedere, perchè niuno possa con ragione disputarci contro giammai. [p. 84 modifica]

VI. Da questa maniera di convertire in Leggi le decisioni de’ Giurisconsulti sopra casi, e quistioni particolari fatte, è nato, che chiunque abbia o talento, o bisogno di dar di mano a sofismi, a sottigliezze, ed a cabale, può agevolmente trovare uno scampo per iscansare la decisione della Legge ogni volta, che gli torni il conto di farlo. Gli basta in tale caso il maneggiarsi a dar da intendere al giudice, che diverse sono le circostanze del suo caso da quelle del caso, che ebbe per le mani l’autor di quella decisione; ed ecco per terra la Legge. E di fatto questa è una delle principali cagioni di quella sterminata copia di limitazioni, eccezioni, distinzioni, che dagli interpreti, de’ consulenti, da’ trattatisti, e da’ decidenti inventate, e nelle loro stampate opere per perpetua sciagura, ed imbroglio de’ posteri pubblicate si sono. Quando il Legislatore parla da per se medesimo, e spiega la volontà sua con chiarezza, e con dare a conoscer, quale sia la sua intenzione, ogni uomo savio fa presto a comprender, dove abbia luogo la Legge, e dove nò. Ma quando la mente del Legislatore ha da essere ricavata da decisioni fatte sopra casi speziali, allora mille difficoltà ci entrano, perchè non si possa se non che con grandissimo stento, e dopo superati mille ostacoli giugner a scoprire lo spirito di quelle decisioni disperse di quà, e di là, ed a raccoglierne la mente di chi le ha fatte. Noi vediamo questo in pratica troppo sovente avverato; e chi non esercita la profession legale, non può di questo disordine formarsi una sufficiente idea. Si disputa tra noi continuamente, ed in ispezie fra i teorici, ed i pratici, in [p. 85 modifica]quali casi luogo abbia la querela del testamento inofficioso; quando, e come il figlio preterito dal padre, o dalla madre rompa il testamento de’ suoi genitori; se si possa dal padre proibire ai figli la detrazione della Trebellianica, ed in quali casi, e con quale maniera; se si possano dai figli detraere le due quarte; e mille altre somiglianti questioni, massimamente nella materia testamentaria si fanno; e tutte queste nascono dal non avere noi sopra niuna di queste materie una legge generale, da cui in un tratto possa ognuno scoprire la mente del Legislatore, e fin dove quella s’estenda. E però ben con ragione disse l’Alciato nella L. vet. de V. S. Scribat Justinianus quantum velit, glorieturque suos hosce libros caussarum negotiorumque decisionibus satis esse. Res ipsa plane reclamat, nemoque civilis professionis candidatus est, qui aperte non videat, innumerabiles dubitationes ex facto oriri, quas nisi omnino Ædipus sit, ex harum legum sylva decidere nemo unus possit.

VII. Ma quì non finiscono i disordini, che sono nati per avere i Compilatori delle Leggi Giustiniane trascritte, e rammassate le Decisioni de’ vecchi Giurisconsulti. Il peggior male si è, che essi Compilatori hanno ben sovente tralasciato di esporre, o trascrivere il caso, sopra di cui era stata fatta la decisione. Per questa cagione è rimasto in libertà di ognuno il fingersi il caso a suo talento, e di pretendere però, come quella tale, e tal Legge non vada a quella controversia, su di cui allora si disputa, per essere diverso il fatto, applicata. In oltre gl’interpreti del tempo d’Irnerio, e di Bartolo essendosi abbattuti in [p. 86 modifica]queste Leggi, dove la narrazione del fatto manca, e non sapendone essi abbastanza per ritrovare la vera spezie del caso supposto dall’autor della Legge, ne inventarono a posta loro di tali, che alle Leggi per essi spiegate non si quadravano nè punto, nè poco. Per lo che di molti imbrogli ed inezie fu arricchito lo studio legale: poichè molti di coloro, che vennero dopo di essi, e che queste belle narrazioni videro, le accolsero come tanti vangeli: e continuarono a fabbricarvi sopra anch’essi, ed a tirarne ogni sorta di sciocchissime conseguenze. All’incontro molti altri avendo voglia, o bisogno di opporsi alle invenzioni de’ primi, si misero con l’arco dell’osso ad impugnarle, e vennero fuori con le loro narrazioni, e supposizioni di casi molto differenti da quelli, che furono inventati dai primi Chiosatori. I secondi si tirarono dietro anch’eglino i suoi seguaci; e così dai loro capriccj, ed arzigogoli è provenuto un’altro buon numero di false dottrine. Molto bene al proposito di quello, che quì andiamo dicendo fanno le parole di Cristiano Enrico Eckard,45 il quale così si esprime: „Quanto per ricavare il vero senso della Legge importi, che la spezie del fatto sia conforme alle parole, ed al sentimento di quella, non l’hanno ignorato neppure gli stessi interpreti Accursiani. Poichè hanno posto tutto il loro studio a ritrovare, e mettere in veduta la spezie del caso, senza del quale persuasi erano, che non potevasi spiegare il sentimento della deci[p. 87 modifica]sione. Ma essendo eglino di questo mestiere affatto ignoranti, hanno inventato i casi a loro capriccio. Ma queste invenzioni capricciose, benchè sottili fossero, sono però, come ognun vede, sprezzabili, assurde, ed inutili a ritrarre il vero senso dalla Legge. E però la Glossa è bensì piena zeppa di casi da’ Chiosatori a posta loro inventati: ma la maggior parte di quelli non fanno a proposito, e sono del tutto ridicoli. Per la qual cagione egli ha dovuto necessariamente avvenire, che questi Chiosatori trattassero di tutt’altra cosa, che di quella, di cui tratta la Legge: e che vi affingessero un senso tutto differente da quello, che avea in mente il suo autore.“

La confusione riesce ancora maggiore là, dove i Compilatori senza esprimere il caso hanno ricopiato la decisione di qualche Giurisconsulto, o di qualche Imperadore concepita in termini generali, benchè di ragione, e secondo la mente del suo autore non andasse intesa, che di quel caso solo, a cui allora mirava il decidente. Noi procuraremo di render questo coll’esempio più chiaro. Ella è regola certa, ed indubitata secondo il Gius Romano, che il mandato non sussiste, quando il mandante obbliga il mandatario a dover fare qualche cosa dopo la morte di esso mandante. Ciò viene chiaramente deciso nella L. 26. pr. D. Mandati, e nel §. 10. Instit. de Mandat. e ciò è parimente conforme all’analogia, ed agli altri principj del Giure Romano . Ciò però non ostante una Legge ritrovasi nelle Pandette, dove viene apertamente stabilito il contrario di quello, che or ora si è detto. Questa è la L. 13, D. Mand. vel [p. 88 modifica]contra. La quale così parla: Idem est: (cioè che competisca l’azione ex mandato:) Si mandavi tibi, ut post mortem meam hæredibus meis emeres fundum. A prender le parole di questa Legge, com’ esse giacciono, la tegola piantata da noi viene a cadere indubitatamente per terra: poichè la Legge fa vedere assai chiaro, che il mandato sussiste anche dopo la morte del mandante, laddove il contrario abbiamo detto essere certo. Ma il dottissimo Noodt46 ha fatto vedere ad evidenza, che le parole della mentovata Legge, tuttochè generali, vanno però intese di un caso solo, cioè quando il mandante avesse dato ordine a qualcuno di dovergli dopo la morte sua comprare un fondo, dove il suo sepolcro avesse da essere collocato. Il Noodt prova per incontrastabile maniera, che Cajo Giurisconsulto, ed autore di quella Legge, benchè si sia così generalmente espresso, pure allora quando questo scrisse, solamente il riferito caso avesse all’animo. E di fatto in tale caso solamente poteva sussistere un simile mandato, poichè quì ci entrava di mezzo la Religione, o sia la superstizione de’ Pagani, in favor della quale più volte ricedevano i Romani dai loro principj legali. Or questa Legge di Cajo distesa con espressioni così generali ha dato da sudare, ed ha fatto prender de’ granchi non solamente ai Chiosatori, i quali non hanno saputo quì figurarsi il vero caso della Legge, ma sippure agli stessi Cujacio, ed Ottomano, celebratissimi, ed eruditissimi Giurisconsulti. Di queste Leggi, che con ter[p. 89 modifica]mini generali sono concepite, e che debbonsi tuttavia intendere dell’uno, o l’altro caso solamente, ve ne ha pure assai. „Spesse fiate (dice il celebre Binckerschoeckio:) hanno i Giurisconsulti Autori delle Leggi adoperato delle espressioni generali, le quali poi conviene ristrignere tra i suoi limiti, perchè non vengano ad essere attaccati gli altri principj legali. E potrei anche in prova di ciò accennare ben mille esempj.“47 ec.

Ma i nostri inesperti Chiosatori, e quei goffi Giuristi, che son venuti dappoi, non hanno a questo posto mente nè punto, nè poco: e però o coll’interpretare le Leggi in termini così generali, come le hanno trovate, o coll’inventare qualche inetta, e dall’aurore non mai sognata spezie del fatto, hanno imbrogliato se medesimi, i posteri, e tutta la facoltà legale, nella quale per questa strada ancora innumerabili errori son penetrati, e penetreranno ancora, finchè Decisioni tali così malamente copiate, e raccolte avranno forza di Leggi.

VIII. I Giurisconsulti degli antichi tempi, dai libri dei quali tratte furono le Leggi di Giuftiniano, hanno scritto moltissimo intorno a quistioni meramente conghietturali, nelle quali unicamente si tratta di ben interpretare la volontà de’ contraenti, e de’ testatori. Queste risposte sopra questioni di pura conghiettura furono da’ nostri Compilatori stimate cotanto, che un grandissimo numero ne ricopiarono, ed empirono con [p. 90 modifica]esse quasi la metà delle Pandette. Ma io non credo, che cosa più sciocca, e più assurda potesse a coloro venire in capo, che quella di volerci proporre per Leggi le risposte dagli antichi Giuristi date sopra casi, e controversie tali, che da pure, e prette conghietture dipendono. „Queste quistioni, dice il Duareno48 non appartengono ai Giuristi, ma sibbene ai Gramatici, ai Dialettici, ed ai Rettorici. Un Giurisconsulto deve insegnare, quando, e come sia da osservare la volontà del disponente, posto che quella bastevolmente appaja. E questa è materia di Giure. Ma il ricavare la volontà dalle conghietture, non è un mistiere, che s’aspetti ad un Giurista, come io ho più largamente mostrato nello Scevola.“ Cajo ha per modo di esempio legato a Sempronio il suo argento. Quì nasce tra il Legatario, e gli eredi la quistione, se il testatore abbia anche voluto lasciargli la moneta d’argento, che si trova negli scrigni suoi? Un altro ha lasciato a Sempronio tutto il vino, che ha in cantina; resta da vedere, se gli abbia ancora voluto lasciare i vasi, dove riposto è il vino? Un altro ha venduto a Mevio le sue statue. Quì riman da vedere, se s’intendano anche venduti i piedestalli? Queste e somiglianti quistioni non si possono decidere con una legge generale, che faccia per tutti; poichè convien quì badare al costume dei testatori, e dei contraenti, alle loro maniere di parlare, all’usanza del paese, e ad altre sì fatte circostanze, che possono essere in[p. 91 modifica]finite secondo la varietà de’ tempi, de’ luoghi, delle favelle, e delle persone. Bisogna essere non poco, ma oltre modo scimunito, e goffo per non sapere, che intorno a cose puramente conghietturali non si può fissare con sicurezza decisione veruna: poichè veggiamo rarissime volte accadere, che in casi particolari, e nelle cose più minute della vita umana un uomo pensi come l’altro; e che i contratti, e le altre disposizioni si facciano dagli uni colle medesime idee, coi medesimi fini, e colle medesime espressioni, che vengono fatte dagli altri. Chi non vede adunque, che in cose tali non si può stabilire niente di certo, di costante, e che abbia da servire di norma per tutti gli uomini, in tutti i tempi, ed in tutti i luoghi? Le volontà degli uomini conviene interpretarle non a capriccio del Legislatore, ma secondo la mente di chi dispone. E se anche il Legislatore volesse, che tutti i sudditi suoi agissero, pensassero, e s’esprimessero a modo suo, non sarebbe tuttavia possibile, ch’egli potesse colle sue Leggi dar norma neppure ad una menoma parte di quelle infinite cose, che dipendono dalla mera volontà umana. Contuttociò i nostri Compilatori hanno voluto inserire nel Corpo del Giure una prodigiosa quantità di Leggi sì fatte, che solamente quistioni conghietturali riguardano. Il che par da loro essere stato fatto propriamente ad intendimento di moltiplicare nel foro le liti, e di conservarle perpetuamente: nè ad altro potranno servire giammai Leggi cotali; poichè certo è quel che cantò Persio:

Mille hominum species, et rerum discolor usus;

Velle suum cuique est, nec voto vivitur uno. [p. 92 modifica]

IX. Le Leggi di Giustiniano sono tratte dalle consuetudini, dalle Leggi del Popolo Romano, dagli ordini del Senato di Roma, da’ Plebisciti, dagli Editti de’ Magistrati, dalle Costituzioni degli Imperadori, e dalle Interpretazioni de’ prudenti. Ora egli è sovente adivenuto, che di quella medesima cosa, di cui avea già disposto per cagion d’esempio la Legge del popolo, o il Plebiscito, o il Senato, facesse anche una nuova menzione, ed un nuovo stabilimento l’Editto del Magistrato: e siccome la nuova Legge, ed il nuovo Editto veniva fatto, e fondato su altri principj, e differenti da quelli della Legge più vecchia, così diverse dovevano ancora necessariamente riuscire, che da sì fatti diversi principj in avvenire si fosse per ricavare. Obbligo adunque dei Compilatori da Giustiniano adoperati si era di avvertire i sudditi fin dove si estendesse si l’una, che l’altra Legge, e quali fossero le loro differenti mire, quali conseguenze ne venissero, in che s’accordassero, e disconvenissero, e quanto di più nell’una, che nell’altra ci fosse. Ma essi hanno mancato di fare tutto questo, e però hanno cagionato agli interpreti delle Leggi un ben grande imbroglio, da cui non si potrà liberarsi giammai, finchè sussistano coteste Leggi. Secondo le Interpretazioni de’ vecchi Giureconsulti, e giusta le antiche consuetudini il venditore, che avesse occultato un vizio della cosa venduta, era tenuto a misura della qualità del vizio di ricevere addietro la cosa dall’altro comprata col restituire il prezzo da lei avuto, oppure di rendere dal denaro ricevuto quel tanto, che per cagione del vizio potesse la roba venduta valere di manco. E [p. 93 modifica]questa azione che si appella ex emto era perpetua di modo, che il compratore ed i suoi eredi potevano fra lo spazio di anni trenta intentarla. Non ostante questo gli Edili Romani hanno voluto in un loro editto due altre azioni agli ingannati compratori concedere, l’una, che si chiama redhibitoria, e l’altra quanto minoris: tutte e due tendono all’istesso fine, per il quale veniva data l’azione ex emto: ma questa è però più vantaggiosa, perchè essa dura anni trenta, laddove la redhibitoria al più in sei mesi, e la quanto minoris in un anno finisce. Sicchè sembra, che fosse stata una sciocchezza degli Edili l’introdurre delle azioni, che a nulla servono, mentre se n’ha una migliore. Ciò non ostante devesi credere, che que’ Magistrati non le avranno volute co’ loro editti concedere a’ Cittadini senza qualche loro maggiore vantaggio. Ma questo vantaggio non si può ben sapere, dove propriamente consista, perchè i Compilatori hanno mancato di farci osservare cosa di più profittevole nell’una, che nell’altra azione. Vero è, che gl’Interpreti, ed i Dottori si studiano di assegnare la differenza, che passa tra l’azione ex emto, e le azioni inventate dappoi dagli Edili: ma vero è altresì, che i suddetti Dottori non sanno su di ciò accordare, il che una manifesta prova è, che niente abbiamo in questo proposito di sicuro, e che però non si può per alcun verso scusare la trascuranza, e la balordaggine dei Compilatori, i quali tutte queste cose hanno raccozzate senza farci nello stesso tempo comprendere la differenza, che tra l’una, e l’altra azione passava. Un somigliante dubbio nasce ancora intorno all’estensione della Legge A[p. 94 modifica]quilia. Ognuno sa, che secondo le Interpretazioni de’ prudenti ne’ contratti non ogni danno deve dal danneggiatore essere risarcito; ma che si distingue fra la colpa grande, lieve, e lievissima, e che giusta la varia natura de’ contratti ora si refa il danno dato per colpa lievissima, ora soltanto il cagionato per colpa lieve, ed ora anche quello unicamente, che da qualche colpa grande fu prodotto. Ma all’incontro la Legge Aquilia comanda, che ogni danno debba venir dal danneggiante rifatto, toltone quello, che dal mero caso senza la menoma colpa altrui sia venuto. Laonde quì nasce la quistione, se quesa disposizione debba avere luogo anche ne’ contratti: e come avvenir suole nelle quistioni legali, chi tiene l’affirmativa, e chi la negativa:49 il che effetto è della sciocchezza de’ Compilatori, i quali non ci hanno avvisati, quale sia, e debba essere la mente della Legge Aquilia, ed a quali azioni, od ommissioni dell’uomo quella si estenda. E però per cagione di costoro le Leggi Romane di oggidì vanno cariche di un altro non poco nocevole, ed incommodo difetto.

X. Chi bada alla naturale condizione degli uomini di essere su le medesime cose ben sovente di differenti pareri: chi sa, come buona parte degli antichi Giurisconsulti, da’ libri de’ quali tratte sono le Leggi de’ Digesti, divisi erano in due fra di se contrarie fette, l’una de’ Sabiniani, e l’altra de’ Proculejani; e chi finalmente considera, [p. 95 modifica]come non un solo, ma dieci Soggetti furono quelli, che alla formazione del Corpo delle Leggi travagliarono, i quali inoltre non in questa faccenda solamente, ma dietro moltissime altre di continuo occupati erano, dee ben tosto figurarsi da se medesimo, ch’egli sarebbe stato, per così dire, impossibile, che cotesti Compilatori non avessero dalle diverse opere degli antichi Giurisconsulti sovente copiati per inavvertenza de’ passi, che venissero poi ad essere contrarj a diversi altri passi o da loro medesimi, o dai loro socj nelle Pandette registrati. E certamente, checchè ne dica l’Imperadore Giustiniano, e diversi altri babbuassi, che glielo credon sulla sua parola, egli è avvenuto così . Non già poche, ma molte Leggi vi ha, le quali lungi dall’accordarsi insieme, sono tra di esse espressamente contrarie; come dopo i più illustri, e più giudiziosi Giuristi fu ultimamente osservato anche dal Rapolla nel suo Libro de Jurisconsulto.50 Di questo sentimento è pure lo stesso chiarissimo Noodt, il quale diverse irreconciliabili antinomie ha messe in vista, e dimostrate. Sentiamo quello, ch’ei dice in proposito della L. 7. §. 2. et 4. D. de Public. in Rem act. et L. 2. §. 15. et 16. D. pro Emt. Is est [p. 96 modifica]sensus Paulli Ulpiano contrarius, et sine spe pacis; quidquid excogitetur a felicibus, et claris ingeniis: cum uterque Jurisconsultus eodem vixerit tempore; et alter æquitati plus, alter minus indulserit adversus severitatem juris; eoque in dissidio quid maluerit Populus Romanus est facti, in quo sine evidenti vetustatis testimonio nostra ratiocinatio nihil ad liquidum adducere potest, præsertim pari utriusque auctoritate. Così dic’egli pure nel Titolo de Heb. Cred. De eo lis est inter Julianum L. 36. D. de Acquir. Rer. Dom. et Ulpianum L. 18. D. h. t. de cujus compositione viderint eruditiores: ego enim despero, etsi, quæ ab aliis adferuntur, non ignoro. Nè Triboniano, nè i suoi Compagni, essendo pure uomini anch’eglino, potevano in un’opera di sì grande, sì lunga, e sì nojosa fatica scansare le contraddizioni, e fare sì, che dai libri de’ Giurisconsulti non trascrivessero dottrine, e decisioni tra di loro contrarie. E però ci fa ben ridere la semplicità di coloro, che si danno a credere, o vogliono almeno far credere agli altri, che Leggi contrarie non si trovino in quella vasta Raccolta. Con che chiaramente mostravano o di non aver mai assai bene studiate, o certo non intese tutte le Leggi. Ora lascio considerare a chi vorrà, quanti errori debban aver cagionato queste tra di se contrarie Leggi, quante false opinioni debbano aver prodotto nel foro, e quante distinzioni, limitazioni, eccezioni e tutte erronee ne debbano esser derivate. In oltre siccome cotesti antichi Giurisconsulti spesso tra di loro nella sostanza discordavano, così l’istesso spirito di contraddizione gli ha spinti ancora frequentemente a muoversi vicendevole guerra per la so[p. 97 modifica]la differenza delle parole, quantunque rispetto alla sostanza istessa passassero altramenti d’accordo. E però quando i Compilatori delle Pandette si abbattevano in somiglianti passi, ragion avrebbe voluto, ch’eglino passassero avanti senza copiarli, e trasportarli nel corpo delle Leggi, per non dare motivo a quei, che queste Leggi venissero poi ad incontrare, di tenere per dispute vere, e sostanziali le sole controverse di parole: poichè facile è bensì ad ognuno lo scoprire in tale caso il combattimento delle due Leggi: ma troppo egli è malagevole il conoscere, che quella disparità solamente intorno alle parole s’aggiri. Ciò però non ostante quegli storditi di Triboniano, e de’ suoi Colleghi tanti passi, i quali puramente dispute di parole in se contengono, inserirono nel Corpo delle Leggi, che se ne potrebbe comporre un trattato di giusta mole. Laonde il Leysero51 ed il Vverenfelsio52 sonosi presa la briga di rintracciarne un buon numero; ed una gran copia d’altre ancora rinvenire se ne potrebbero, come assicura il Gundlingio53 purchè altri si volesse torre questo impegno. E quelle Leggi altro servizio per verità non fanno, se non che rendere più imbrogliato lo studio legale, ed aumentare il numero già prodigioso degli errori, e delle false sentenze.

XI. Molte dottrine, e decisioni degli antichi Giurisconsulti, ed Imperadori, benchè alle Leggi, al tempo, al governo, ed ai costumi dell’età [p. 98 modifica]di Giustiniano punto non si confacessero, furono ciò non ostante dai poco avveduti Compilatori trasportate nel Corpo delle Leggi. E quinci avviene, che quando si crede di aver nelle Pandette ben compresi, e fitti nella mente i più sostanziali principj del Giure, passando poi al Codice, ed alle Novelle, bisogna lasciare da un canto molte cose apprese innanzi, ed impararne delle altre del tutto opposte alle prime, per essere state le decisioni sparse per entro alle Pandette, dalle più recenti Leggi di Giustiniano, od anche de’ suoi antecessori cassate, ed annichilate. Peggior male ancora si è, che nelle stette Pandette s’incontrano assai sovente delle Leggi, le quali contengono un altro Gius contrario a quello, che in tante altre Leggi viene insegnato, senza che neppure il minimo segno dato ci venga, che quella tale, e tal Legge una recente, ed a quella delle altre Leggi opposte dottrine contenga. Il Noodtio54 adduce un bellissimo saggio di quello, che diciamo: arrecando delle Leggi cavate dai titoli delle Servitù Reali, che sono registrate nei Digesti, le quali Leggi contengono delle dottrine, che l’istesso Autore per mezzo d’altre Leggi tirate dai medesimi titoli, prova essere state dalla consuetudine abrogate, benché in quelle Leggi non ne venga neppure dato il minimo cenno. E dopo d’aver tutto ciò bastevolmente provato, conchiudendo dice l’Autore: Miror non esse observatum a viris doctis, qui alioquin [p. 99 modifica]optime habuere compertum id quod res est, omne pene jus nostrum constare centonibus, in quibus pleraque compluribus locis, sed non eadem peræque dexteritate tradita chimæras continent inextricabiles. Ora questa reca agli studiosi della Legge un molto maggiore incomodo, ed alla Disciplina legale un maggior malanno di quello, che altri, che di queste cose non è pratico, figurare si possa. Imperciocchè egli è talvolta troppo difficile lo scoprire, quando da qualche Legge posteriore abolite sieno le anteriori. E poi impossibile riesce più volte lo stabilire precisamente fin dove estender si debba l’abrogazione fatta dalla Legge posteriore, e se quella convenga restringere alla sola cosa principale, che dall’Autor della Legge posteriore si è espressamente avuta allora in mira, o se faccia di mestieri anche l’allargarla alle altre materie somiglianti, connesse, e correlative. Dal che nasce poi, che per non sapere gl’interpreti, ed i Dottori primieramente, se abrogato venga il Gius già stabilito, o nò, e poi fin dove si estenda in ogni caso quella abrogazione, si danno ad inventare ogni sorta di spiegazioni, eccezioni, limitazioni, distinzioni, e supposizioni inette, insussistenti, e false. E siccome in ciò gli uni con gli altri non passano, se non che rade volte, d’accordo, così dispute ne nascono, e liti infinite.

La stoltizia e balordaggine de’ Compilatori commise in questo punto de’ maggiori errori ancora; poichè accorgendosi eglino talvolta, che molti passi, i quali essi stavano ricopiando, contenevano in un o l’altro membro il Giure antico, e già abolito, lasciavano di copiare quel membro, [p. 100 modifica]o periodo, o paragrafo, che più non avrebbe fatto a proposito, oppure per non troncare il filo dell’autore quelle parole in altre cangiavano; e continuavano poi a desumere, e trasportare il resto. Ma se essi Compilatori si ricordavano qualche volta di fare questo, molte altre fiate all’incontro se lo scordavano del tutto; e però diversi altri passi, ove le stesse cose altrove a bello studio omesse, o cangiate contenevansi, hanno nelle Pandette inseriti non altramenti, che se ivi non già un diritto abrogato, ma una disposizione ancora ferma, e fresca fosse compresa. E siccome avanti ogni Legge è posto il nome di quel Giurisconsulto, da cui essa fu cavata, così egli è pur un bell’imbroglio, quando si vede, che i Giuristi del medesimo tempo parlano della istessa cosa tutto differentemente, cioè l’uno per essere le sue parole state riformate, secondo il Gius recente, e l’altro per essere il testo lasciato, com’era, secondo il Gius antico. Laonde con molta ragione si lamenta Cujacio,55 che: Tribonianus, ut erat in eo opere non tam diligens, et accuratus, quam se impudenter profitetur esse, sæpissime quod uno in loco mutabat, non mutabat in alio.

Per il qual poco giudizio di Triboniano tanta bile venne a Francesco Ottomanno, ch’egli con[p. 101 modifica]tro di lui in queste aspre parole prorompe. Quæ igitur fuit Triboniani socordia, stultitia, temulentia, qui damnatam, et repudiatam illam eamdem Juliani sententiam tamen alio loco pluribus verbis expositam nobis pro bona, et recepta, et probata proposuit?56 Ora chi non è nello studio Legale sufficientemente versato, non si può immaginare la quantità di false opinioni, che per questo miscuglio del Giure antico, e recente è nata nella nostra Disciplina. La maggior parte degli interpreti, siccome barbari, ed ignari delle antichità, non hanno neppure ravvisata questa mescolanza, e però hanno dato a cotesti passi quelle spiegazioni, che Dio sa: e per conciliarli fra di essi, hanno fabbricate distinzioni, che fanno pietà bensì, ma che hanno poi partorito degli altri errori. Altri hanno nella spiegazione, ed applicazione di tali testi per altre diverse maniere errato, e pochi sono coloro, che abbiano toccato il vero.

XII. L’istessa negligenza, e goffaggine, per cui Triboniano, ed i suoi Colleghi hanno commesso tanti, e sì madornali spropositi, fu ancora la cagione del perpetuo disordine, che in tutto il Corpo delle Leggi costantemente regnare si vede: mentre nè i titoli nel debito ordine, nè le Leggi sotto al loro titolo, nè tampoco le Leggi dello stesso titolo nella necessaria connessione, nè i

paragrafi delle diverse Leggi a suo luogo dispo[p. 102 modifica]
102 DIFETTI DELLE

sti, e schierati si trovano, come bene hanno avvertito i più giudiziosi Giurisconsulti dei nostri tempi. (a) Questo disordine non reca solamente un infinito incomodo agli studiosi delle Leggi per la confusione, e per l’imbroglio, che cagiona nel capo; ma partorisce ancora diversi errori, e false sentenze, come per non esser soverchiamente prolissi, faremo brevemente con un solo esempio vedere. Ella è una comune opinione sì de’ pratici, che de' teorici, che una transazione fatta sopra controversie, che dipendono dal testamento d'una già morta persona, non abbia alcun vigore, nè possa obbligare i transigenti, quando o tutti e due, od anche un folo di essi non abbia prima veduto il testamento, benchè per altro la transazione con tutta la buona fede da amendue le parti fatta si fosse.

Questa opinione non ha altramenti per se il minimo fondamento, poichè nè la civile, nè la natural ragione c'insegnano, che una tal transazione non debba valere, poichè ognuno è padrone di disporre delle cose sue in qualunque maniera gli piaccia, purchè l'inganno non vi abbia parte veruna. I sostenitori della comune sentenza adducono in loro favore la Legge 6. D. de Transact. Ma quì sta appunto l'inganno; poichè quella Legge si trova collocata sotto quel titolo uni-


ca-

(a) Duar. in Diges. ad Tit. de Just. et Jur Charond. in Comment. de Jurisd. c. 1. Ronchegal. in L. 17. D. de duob. Reis. Henric. Breneman de Legum Inscxript. §. 6. Nicol. Cisner. in Orat. præmissa ad Secund. Part.

Duar. Cujacius in Not. ad Titul. de Gradib. Cognat. et alibi. [p. 103 modifica]

LEGGI ROMANE 103

camente per errore de’ Compilatori; e quando essa venga riposta nel suo debito luogo, allora ella non ritiene più quel senso, che comunemente attribuito le viene. Cajo, che autore è di quella Legge, altro non intendeva di dire, se non che quasi impossibile essere sul fatto il transigere senza qualche danno dell’una, o dell'altra parte, quando non si siano prima vedute le parole del testamento. Ma non era già la sua intenzione d’insegnare, che una tal transazione non possa di ragione sussistere, quando essa altramenti fatta sia con tutta la buona fede. E però questo testo di Cajo ha solamente da servir per prologo al titolo Quemadmodum tabulæe test. aper. e non appartiene punto al titolo de Transactionibus, come i più illuminati Dottori de' nostri tempi hanno ad evidenza provato. (a)

Ma vi è di peggio ancora. L'essere le Leggi così mal connesse, e poste fuori del debito ordine è spesse volte cagione, che quella Legge, la quale secondo la mente del suo autore, e secondo l'intenzione degli stessi Compilatori dovrebbe contenere una proposizione negativa, viene tutto all’opposto a fare una affirmativa, e così viceversa. Ci serva d’esempio la Lege 25. D. de Pactis. Questa a prenderla, com'essa giace, ci dà ad intendere, che il patto d’un correo possa gio-


vare

(a) Cujac ad L. 1. D. de Transact. Balduin. in Justin. lib. 3. pag. 1149. Tom.1. Jurispr. Rom. et Att. Ant. Faber. National. ad L. 6. D. de Transact. Noodt Julius Paulus c. 7. Idem de Pact. et Trans. c. 18. Strauchius ad 50. Dec. Exer. 4. c. 1. n. 6. Schuthing. de Transact. Super Controv. ex Test. ort. Georg. Beyer. in Posit. ad Dig. Pas. 110. Sam. Coccej. in Jur. Controv. lib. 29. tit. 3. qu. 3.


G 4
[p. 104 modifica]
104 DIFETTI DELLE

vare al suo compagno quando certissima cosa è, che la mente del Legislatore fu di asserire tutto il contrario, come da tutte le altre Leggi, che di quella materia trattano , ad evidenza si prova. Ma la cagione di tale sproposito deriva dall’ essere essa stata dai Compilatori malamente collocata dopo la Legge 24. eod. laddove essa dovea venire a giacere immediatamente dopo la Lege 23. eod., come tanto dalle iscrizioni d’amendue le Leggi, quanto dall’analogia del Giure chiaramente si ricava. E così giacendo, ognun può dal contesto vedere, che quella Legge viene a contenere una proposizione del tutto contraria a quella, che adesso falsamente comprende. (a) Ma i poveri barbari, che hanno preso ad interpretrar queste Leggi, non hanno potuto vedere tanto avanti: e pertanto diversi granchi hanno preso essi medesimi, e fatto ancora pigliare ad altri .

XIII. Siccome tanto Triboniano, quanto i suoi Colleghi non avevano il Gius scritto nello scrigno del petto loro, e che di più in molte altre faccende erano tutto il giorno occupati, così accadde frequentemente, che o per ignoranza, o per poca avvertenza di proprio lor cervello inserissero particolarmente nelle Istituzioni certe Dottrine, e Decisioni, ch’essi tenevano, e spacciarono per conformi al Gius fino allora praticato, benchè non lo fossero assolutamente, e che tutti gli anteriori Giurisconsulti avessero apertamente insegnato tutto il contrario. Ed attesa tale ignoranza, o trascuratezza furono dai medesimi


Com-

(a) Coccej. in Jur. Controv. tit. de Pact. qu. 7. n. 6. [p. 105 modifica]

LEGGI ROMANE. 105

Compilatori trasportati nelle Pandette dei passi degli antichi Giuristi, da’ quali ricavasi, che la cosa sta tutto altramenti di quello, che essi Compilatori o per non avere ben compresi quei passi, o per non averli più avuti presenti all’animo, in altro luogo colle lor proprie parole s'erano messi ad insegnare. Così per modo d’esempio noi veggiamo bene, che sotto il nome di Legati Penali anticamente s'intendeva quella sorta di Legati, che venivano all’ erede lasciati, perchè facesse qualche cosa d’illecito, o disonesto, e ciò lo impariamo dalla L. 1. D. de Leg. Quæ pœnæ etc.Questi Legati furono sempre vietati, nè mai neppure in pratica permessi. Ciò non ostante Giustiniano, o sia Triboniano non ben intendendo la natura di questi Legati dice nel §. 39. Inst. de Leg. ch’egli ha stimato bene di levare via cotesti scrupoli, e di permettere, che vengano liberamente fatti cotali Legati, trattine però quelli, che dalle Leggi proibiti, o altramenti disonesti fossero. Nel che egli mostra di non aver saputo, che generalmente tutti i Legati penali contenevano comandi dalle Leggi, e dall’onestà vietati: come chiaramente ha dimostrato il Binkershoekio (a) il quale in altri luoghi ancora ha fatto vedere, che sì Triboniano, come i suoi Colleghi hanno sovente ignorato il diritto de’ lor proprj tempi. Il che anche da altri fu provato. (b) Laonde questa ignoranza, ed inavvedutezza de’ Compilatori deve necessariamente aver dato dell’


im-

(a) De Legat. Pœenæ Nom. Relict. cap. 3

(b) Schilter Prax. Jur. Hom. Exer. 39. §. 15. Vinn

ad Inst. de Excus. Tut. §. 13. [p. 106 modifica]
106 DIFETTI DELLE

imbroglio a’ Chiosatori, ed a tutti quelli, che senza i bisognevoli lumi si sono messi a studiare, ed interpretare le Leggi, i quali non sapendo però al confronto di testi così poco l'uno coll’ altro concordi ajutarsi, ricorrevano anche in questo caso al loro solito rimedio, cioè alle chimeriche invenzioni, ed a modi ideali di combinare le discordi dottrine, dalle quali poi, siccome madri feconde, nacque un’altra bella schiera d’errori, che insieme cogli altri son venuti a formare la nostra Giurisprudenza Forense.

XIV. Finalmente ella è sentenza commune di tutti i Politici, e di tutti i Giureconsulti di senno, ed una cosa, che ognuno può con un pocolino di raziocinio da se stesso comprendere, che le Leggi, quando abbiano ad aver forza di obligare, debbono essere confacevoli, per esprimermi colle parole del Montesquieu (a) al fisico del paese, al clima freddo, caldo, o temperato di quello, alla qualità del terreno, alla maniera di vivere del popolo o lavoratore, o cacciatore , o pastore, o trafficante. Esse hanno da essere accomodate alla religione de’ sudditi, alle loro inclinazioni, alle loro ricchezze, al loro commerzio, al loro numero, ai loro costumi, ed alle loro maniere di vivere, e di pensare. Ma le Leggi Romane non hanno certamente questa qualità cotanto necessaria rispetto ai Popoli Europei d’oggigiorno, poichè esse non si confanno nè punto, nè poco coi nostri costumi, colle nostre


in-

(a) Esprit. des Loix Lib. 1. cap. 3. [p. 107 modifica]

LEGGI ROMANE 107

inclinazioni, colle nostre religioni, e colle nostre altre pratiche civili, e forensi. Noi non abbiamo più que’ Magistrati, ed Uffiziali, de’ quali viene in tante Leggi Romane fatta menzione. Non c'è più quella distinzione tra il Pretore, ed il Giudice, e tra le cose, che si fanno in Jure, ed avanti il Giudice Pedaneo. La Giurisdizione de' Magistrati ha presso di noi un'altra natura, e produce tutt'altri effetti, che presso i Romani. Sicchè inutili sono per noi quelle tante Leggi, che di tali materie trattano. E ne sentiamo anzi del pregiudizio, poichè gli stolti, che non le capiscono, e che sono nella nostra facoltà in numero infinito, vogliono pur far pompa con esse, ed applicarle ai Tribunali, agli Ufiziali, ed ai giudizj de’ nostri tempi, dal che altro non nasce, che imbroglio, e confusione. Più non sono in uso fra noi i servi, le manomissioni, i liberti, i libertini, i censiti, i coloni, ed altre spezie di agricoltori, nè i veterani, nè le altre cose della milizia di que’ tempi, che formano tuttavia una immensa quantità di Leggi nella Raccolta di Giustiniano. Non s'ode più parlar delle satisfazioni pretorie, giudiziali, comuni, e di tali altre cauzioni; delle diminuzioni del capo, delle pretorie possessioni de’ beni; e raramente usate sono le arrogazioni, le adozioni, e gli altri atti legittimi de’ Romani. I nostri linguaggi, e le nostre maniere d’esprimersi sono tutto differenti da quelle de’ vecchi tempi. E però quasi tutti que’ titoli, che riguardano le maniere del lasciare i Legati, e d’interpretarli, sono a giorni nostri superflui, e recano soltanto disturbo, e confusione per la ignoranza, o malizia di coloro,


che
[p. 108 modifica]
108 DIFETTI DELLE

che pur ne vogliono far uso. Di infinite altre cose abbiamo bensì conservato le denominazioni, e certe regole più generali; ma tutto il resto poi di quelle medesime cose cammina presso di noi in tutt'altra maniera, che presso i Romani. Così per esempio noi abbiamo bensì i nomi di Legato, di Fidecommesso, della contestazione della lite, delle cauzioni, delle tutele, della patria potestà, ec. ma noi abbiamo di tutte queste cose altre idee, altre usanze, ed altri stabilimenti differenti del tutto da quei de’ Romani. Finalmente insieme coi costumi, e colle maniere di vivere, e di pensare cambiate si sono ancora le idee, le professioni, i mestieri, i bisogni, i giri, le mire, le cabale, le furberie, e le altre cose del commerzio, e della vita sociale. E però varie sorti di contratti, di negozj, e di ultime disposizioni sonosi presso di noi introdotte, delle quali i Romani non avevano veruna idea. Rare sono oggidì quelle cause di livelli, di maggioraschi, di primogeniture, e di fidecommessi ancora, che col solo ajuto delle Leggi Romane possano venir definite. Ma io non vo’ oggimai andare più innanzi nè in questo punto, nè in altro: e però passo sotto silenzio le altre magagne, meno importanti, onde imbrattate, e guaste sono le Leggi Romane, le quali sono già state da altri valorosi, ed onesti uomini accennate. Or tutti questi difetti delle nostre Leggi sono così fatti, che per quanto i più dotti Giurisconsulti s'ingegnino a levarli, pure quando non venga tolta di mezzo la sustanza istessa, sempre rimarrà addietro della feccia in abbondanza, come ben fu avvertito dal dotto Grego-


rio
[p. 109 modifica]

LEGGI ROMANE 109

rio Masansio: (a) Nonne, dic'egli, post Bosianos, Azones, Accursios, Bartolos, Bulchas, et Castrenses plurima Alciatus docuit, quæ illi omnes ignorarunt? Nonne quamplurima postea Goreanus, Augustinus, Duarenus eruerunt, quæ latuere Alciatum? Num Donellus, Hotomannus, et Cujacius Jurisprudentiæ excolendæ deseruere viam, quia prius illi adripuissent? An auctoritate horum substiterunt Petrus, et Antonius Fabri? Numquid superiores omnes scientia juris clarissimi a scribendo potuerunt deterrere Jacobum Gothofredum, qui omnium ante se interpretum gloriam judicio, et industria superavit? Omitto plures alios egregios viros. Etiam hoc, hoc inquam sæculo, quo vivimus Jurisprudentiam Romanorum mirum in modum illustrant duo acutissimi viri Henricus Brenkmannus, et Josephus Averanius. Sicchè ben arguire si può, che da così folto bosco non si potranno sradicare gli spini giammai : e gli sradicati ancora tornerebbero a ripullulare con forza maggiore, poichè abbiam veduto esser così sempre succeduto finora nello studio delle Leggi Romane.

Ecco pertanto di quanti difetti siano cariche le Leggi Romane: ed ecco le vere sorgenti della nostra Giurisprudenza pratica; poichè i Chiosatori, i Repetenti, i Consulenti, i Trattatisti, e gli altri Dottori del Secolo d’ Irnerio, di Accursio, e di Giasone non avendo i lumi bisognevoli per iscoprire e scansare i Difetti dalle Leggi, furono tirati in errore anch’essi, e dottrine inventarono però tutte false, e chimeriche, che


poi

(a) Epist. 2. Lib. 3. [p. 110 modifica]
110 DIFETTI DELLE

poi, sono state ricevute nel foro, e che altri errori, ed altre false opinioni in infinito numero han partorito. Quindi son nati tanti Comenti, Decisioni, Trattati, Consulti, per la sterminata copia de’ quali non potrà mancare mai ad un diligente Avvocato l'autorità di un qualche Dottore, che abbia trattato il caso in terminis terminabilibus, per sostenere con quella qualunque sua irragionevole pretesa. Quindi deriva quella barbarie, e quella stolidezza comune a quasi tutti noi altri Giuristi, la quale fa, che niun goffo, niun scimunito, niun pappagallo, niun’ oca ci è, purchè abbia l’ardire di comparire in iscena con qualche suo stampato scrittabolo, a cui non venga fatto l'onore di essere poi ne’ consulti, e nelle sentenze citato da mille altri Giudici, ed Avvocati, ogniqualvolta si trovi nell’opera sua qualche passo che cada in acconcio di ciò che vuol sostenere il suo stordito Copista. Quindi è nato ancora che niun studia il testo istesso: e che dopo aver sentito un anno, o due strillare un qualche Ripetente sopra i quattro Libri delle Istitutioni, la maggior parte degli studiofi si fanno graduare, e vanno a casa a fare i Dottori, ed i Consulenti, altra pena non togliendosi allora che di andar cercando per gl’Indici , e Repertorj il caso, che hanno per avventura per le mani, facendo nota, e pompa di quanti autori sanno in lor favore allegare, senza sapere per altro addurre la minima ragione in favore del loro Cliente. Il Cardinal de Luca , cui pienamente nota era l’ignoranza, la barbarie, e l'indicibile stupidità di costoro, non cessa di sgridarli nelle opere sue, e di dare loro delle buo-


ne
[p. 111 modifica]

LEGGI ROMANE. 111

ne lezioni: ma egli ha predicato a gente sorda, o cieca: e così accaderà ad ogni altro ancora, poichè la maggior parte di questi nostri Signori Legali

O del proprio saper son prevenuti,
O a' giovani abbassarsi a lor par duro,
E ciò che biondi amar, biasmar canuti.

Il mio pensiere sarebbe adungue, che interamente abolite fossero le Leggi Romane, e che di nuove ne venissero fatte, che fossero più femplici, più naturali, più addattate ai differenti paesi, al governo, al clima, ai costumi, alle inclinazioni, ed alle maniere di vivere de’ popoli, e che affatto esenti fossero da que’ Difetti, che nelle Leggi Romane abbiamo scoperto. Allora si riformarebbe certamente anche la scuola Legale, e gli sciocchi e brutali uomini non potrebbero sperare omai di fare nella Giurisprudenza colle loro inezie, e stomachevolissime dottrine, una troppo onorata comparsa, e la Giustizia con più equità, e senza tanti intrichi sarebbe più celeramente con sommo vantaggio della Repubblica somministrata, nè luogo ci sarebbe a tante liti ingiuste, e cavillose, che tanto nocumento arrecano al pubblico bene.



DEL-
  1. Murator. Antiqq. Med. Æv. Dissert. 44.
  2. Idem ibi. Et Dissert. 22.
  3. Heinec. de Orig. Jur. lib. 2. Conrad. Sinceri de Germ. LL. et hom. Jur. Orig. Riccius in Spicil. Hist. Diplom. §. 13. Boehmer. Præfat. in Compen. Digest. Senckenberg. Hist. Stat. Franc. §. 13. Tom. I. Select. Jur. et Hist. Mascou Commen. de heb. Imp. sub Henrico ad an. 1118. §. 61.
  4. Hyeron. Gundling. in Epist. ad Lect. præmissa Dissert. de Trebatio.
  5. Lib. 3. ad Quintum Fratr. Epist. 5. Veg. Gellio Noct. Attic. lib. 7. cap. 20. Seneca Controv. lib. I. cap. 7. Martialis lib. 2. Epigr. 8. Jo. Clericus de Art. Crit. vol. 2. sec. I. cap. I.
  6. Bynkersh. in Præfat. libr. 4. observ. Jus Rom. Heinec. in Opuscul. Min. pag. 27 Bartholin. de Legen. Libr. disp. 7 p. 180.
  7. Veg. oltre il Cleric. loc. cit. l’Ant. Genovesi nell’arte Logic. Critic. lib. 4. c. 6.
  8. Balduin. in not. ad Proleg. Pandect. p. 78. Tom. I. Jurisp. hom. et attic. Henric. Salmuth ad Guidonem Pancirolum memorab. Tom. 2. Tom. 14. p. 264. Just. Hennig. Boehmer de Script. non Legib. Trotzius in Not. ad Hugonem de Prima Scribendi Orig. pag. 208. seq.
  9. Lib. I. cap. 22. lib. 4. cap. 31. Observ. et in Not. ad Instit. lib. I. tit. 6.
  10. Audulp. Forner. lib. 3. rer. quotidin. c. 2. et 3. Noodt lib. 2. Probab. c. 5. et lib. 3. c. 3.
  11. Noodt lib. I. Probab. c. 9. et 10. et Dissert. lib. 18. tit. 6. et alibi.
  12. Noodt de Forma emend. dalli mali c. 11.
  13. V. il cit. Noodl de Usufruc. lib I. cap. 6. et lib. 2. cap. ult. in fin. Heinec. in Præf. et ad Bynckershoech. Part. 2.
  14. V. Jo. Cleric. in Art. Crit. Part. 3. sec. 2. cap. 2. seq. Christ. Heuman. de Art. Crit. §. 25. et 30. Trotzius in Not. ad Hugon. de Prima Scrib. Orig. pag. 276. seq. Funcius de Script. Veter. pag. 333.
  15. Gugl. Fornerius Select. lib. 2. cap. 4. Everh. Otto in Præfat. Tom. 2. cap. 2. Thes. Jur. Civ. pag. 11.
  16. In Præfat. ad Observ. Jur. Civ.
  17. Heinec. Opus. Min. pag. 33. Jo. Stekius in Præfat. ad Observ. Anticrist. et alibi passim in Thesaur. Jur. Ottoniano. Riccius in Præfat. ad Vindic. Jur. apud eumdem Ottonem in Thes. Jur. Bynkershoeck. Præf. ad Observ Jur. et lib. 5. Observ. cap. 4.
  18. Duar. ad L. 132. D. de V. O. ad L. 16. D. de Lib. et Posth. et cap. 8. ad Leg. Falc. Cujac. Lib. 4. Observ. 17. Bertrand. in Vit. Julii Puulli p. 143. Connan. Comment. Lib. 6. cap. 9. Buddeus adnot. ad Digest. pag. 76. Noodt. ad L. 41. D. Pignor. et Hypoth. Byntreshoek ad L. Lecta cap. I. et Obser. L. 8. cap. 22. Mascor. in not. ad Gravin. Lib. I. cap. 102.
  19. Lib. 6. Comment. cap. 3. n. 9.
  20. in Comment. ad Pand. h. f.
  21. Hamberger. de Utilit. ex Hum. Lit. in Jurisp. Stud. capienda.
  22. Merillius Lib. I. Obser. 8. 10. 17. et alibi Everh. Otto de Stoica Ictorum Philos. Scheumburg Jurispr. Ictorum Stoica. Gundling. Trebetius Testa ab Jniur. Liberat.
  23. Perrenon animad. Jur. cap. 24. Jun. a Costa in not. ad §. 3. Inst. de Just. et Jur. Widvogel de Jur. Embryon. Hering de Stoic. Ictorum Philos. Huber. in Digression. part. I. Lib. I. cap. 2.
  24. V. La Legge 2. D. de O. 9. §. 6. et 7. Il Cujacio, il Ruperto, il Bynkershokio, il Muelen, ed altri ne’ loro comenti a quelle. L’Eineccio de Orig. Jur.
  25. Liv. Lib. 9. Dec. I. ed i sopraccitati.
  26. Cic. de Invent. Liv. 2. cap. 19. Auct. ad Herenn. Lib. I ca. 2. Quintil. Instit. Orat. Lib. 3. c. 8. et Lib. 7. cap. 3.
  27. pro Muræna cap. 12.
  28. Cicero pro Muræna cap. 12.
  29. Idem ibi.
  30. Heinec. antiq. Rom. Lib. 2. tit. 10. §. 7. 8. Bergman Dissert. de num. Septen. test. in Testam. §. 6:
  31. Heinec. Antiq. Rom. Lib. 2. tit. I. §. 18. Bynkrershock. de Rebus Mancip. et non Manc. Treckl de Orig. et Progr. Testam. Fact. cap. 3. §. 8. et 9.
  32. Treckel loc. cit. §. 45.
  33. Idem ibi. §. 18. 32. 56.
  34. Veggasi sopra tutto questo lo Schilter. Exer. 38. §. 79. seqq. et §. 105. et Exerc. 8. §. 38. seqq. Bynrers. Obser. Lib. 2. cap. 3. Thomas. in Scol. ad Posit. Huber. tit. de Cond. Instit. Posit. 2. Duaren. in Tit. qui Testam. fac. poss. et tit. de Hered. Instit. Pufendorf. Jus Nat. et Gent. Lib. 4. cap. 10. §. 8. et cap. 11. §. vet.
  35. Schilter. Exerc. 18. §. 2. 12. 13. Thomas. Dissert. de Servit. Stillic. §. 34.
  36. Thomas. Dissert. de Pretio affect. in Res fungib. non cadente. Gundling. in Trebatio Vindicato §. 30. Barbeirac. in not. ad Pufendorf. Lib. 4. cap. 7. et alibi. Connan. Comment. cap. 5. n. 3. et cap. 6. n. 2 3 4.
  37. Boehmer. Dissert. de Contrait. bon-fidei et Stricti juris. et in Tract. de Action. in princ.
  38. Esprit des Lois Lib. 29. cap. 16.
  39. Collegia Jur. Disp. 10. adde Radulph. Forner. lib. 3. Rer. Quotid. cap. 23. Connan. Lib. 3. Comm. cap. 6. n. 4. Donell. Lib. 14. cap. 17. Schilter Prax. Jur. Rom. Exerc. 38. §. 162.
  40. L. 1. de Postulando
  41. in Trebatio Vindicato §. 15.
  42. Lib. 2. Probab. cap. 2. et in Tract. de Pact. et Transact. cap. 22.
  43. Bynkerschoeck Libr. 8. Obser. cap. 22.
  44. Idem ibi.
  45. in Hermaneut. Juris Lib. I. cap. 5. §. 195.
  46. Observ. lib. 2. c. 1. et 2.
  47. Lib. 8. Observ. c. 8. et lib. 7. c. 18.
  48. Ad L. Legata inutiliter 19. D. de Legat.
  49. V. il Covarruv. de Matrim. c. 6. §. 8 n. 18. Caballin. Track. de eo, quod interesf num. 180. Zoes. ad Digest. lib. 9. tit. 2. num. 9.
  50. Lib. 2. aggiungasi il Buddeo lib. ult. D. de Ædil. Edic. Cujac. in not. ad tit. 9. de Legat. in not. ad tit. de Servit. lib. 8. Observ. cap. 8. 35. et alibi. Hottoman. in §. Sed et si quis. Inst. de Milit. Testam. in §. Sed et si rem J. de Legat. in §. Præterea J. de Inut. Stip. alibi. Ant. Augustinus Emendat. lib. 1. cap. 3. Donell. Comment. lib. 8. cap. 11. Thomasius in Schol. ad Huberum passim, et in Schol. ad tit. pro Hæarede, et in Instit. lib. 2. tit. 1. in Schol. ad n. 29. Charond. lib. 2. Veris. cap. 1 Matthai Colleg. Jur. disp. 4. 5. 8. et 9.
  51. De Logomachiis Ictorum.
  52. De Logomachiis add. Jo: Mercer. in Conciliat. cap. 6.
  53. In Trebat. Vindicat. §. 14. Lit. A.
  54. Lib. 1. cap. 2. Probab. add. Cujac. in Tractat. ad Africanum cap. 8. in L. 34. D. Mand.
  55. Lib. 5. Observ. cap. 38. Idem in Paratit. Dig. p. 1. Bynkershoeck in Præfat. poster. Viglius Zuichemus ad §. 10. Inst. de Testam. Ordin. Baevard. Var. lib. 1. cap. 17. Maister de Princip. Cognos. Emblem. Tribon. Contius lib. 1. Lect. Subsec. c. 9. Wissenbucb. Emblem. Tribon. Hottoman. in Antitribon.
  56. Lib. 4. Obser. 12. Noodt Dioclet. et Maxim. cap. 15. seq. Schilter Exerc. 39. §. 48. Heinec. Opusc. Exerc. 7. §. 6. Thomas in Schol. ad Huber. Inst. lib. 2. tit. 3. in princ. vers. Scilicet hoc volui.