Il convito overo del peso della moglie
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IV
IL CONVITO
di messer GIOVANNI BATTISTA MODIO
overo
DEL PESO DELLA MOGLIE
dove ragionando si conchiude che non può la donna disonesta
far vergogna a l’uomo.
Εἰσελθέτε, καὶ γὰρ ἐνταῦθα θεοί εἰσί
Uscivo di casa dopo desinare, quando sentii da lontano chiamarmi: — O Modio, o Modio. — Rivoltomi, viddi messer Lorenzo Gambara, che, quasi dubitando di non ismarrirmi, con frettoloso passo verso me ne veniva. Per che, io, andandolo ad incontrare e salutandolo, il domandai se voleva nulla. — Sí, voglio — diss’egli; — perciochè il nostro messer Giulio da Trievi sta si male d’un piede e d’un ginocchio che gli s’è enfiato, che spasima di dolore, e mi manda a chiamarvi a posta per questo. — Andiam dunque — diss’io — chè non si può mancar al Trievi. Ma che occasione ha egli dato a questo suo male? Fate conto che in questi dí di carnevale ará fatto qualche disordine. Perciochè la podagra è figliuola di Bacco e di Venere: il sa ben egli, chè altre volte gliel’ho detto. — Anzi no — rispose il Gambara soghignando, — perchè egli è continentissimo. Sará piú tosto la sua mala fortuna, la quale, sí come in tutti gli altri beni, cosí in questi del corpo gli s’è fatta acerba matrigna. — Questo è un gran segno — risposi io — della sua bontá, poichè la sorte è come la piú parte delle donne, che s’apprendono sempre al peggio. — Con queste parole eravamo gionti alla stanza del Trievi; per che, entrati e saliti su, come egli ci vidde, cosí corse tosto ad abbracciarmi. Ed io, rivolto al Gambara: — A questo modo — dissi — correno i podagrosi? — Risposero amendue, ridendo quanto piú potevano: — A questo modo sí. Vi ci abbiamo pur còlto! — Io, non sapendo a che fine queste cose si facessero e si dicessero, e, parendomi insino allora d’esser rimasto presso che beffato: — Di grazia — dissi, — non mi tenete piú a bada, chè, per quanto posso comprendere, voi non mi avete giá còlto in cosa veruna. — Allora il Gambara, rivolto al Trievi: — Orsú — disse, — scopritegli ormai dove vi duole, chè per questo siam qui. — Soggiunse il Trievi: — Modio carissimo, bisogna che oggi siate tutto nostro e che mi sodisfacciate d’un gran desiderio, ch’io ho, d’esser ragguagliato da voi del ragionamento d’ieri. Perciochè io ho saputo (e ve n’ho molta invidia) che voi, con molti altri galantuomini, aveste un bel diporto ed una felicissima giornata. — In fè di Dio — risposi io — voi sète uomini faceti, e lo dimostrate in viso! E voi, Gambara, che pensier poetico è stato il vostro a condurmi qui con tanta fretta? Voi credete forse ch’io non abbi altra faccenda che attendere a cicalare? — No, no — disse il Gambara: — pensate pur di non uscir di qui insin a tanto che non aremo udito da voi ogni cosa. — Voi v’ingannate — risposi io, — chè, oltre ch’io voglio andar a spedir certe mie bisogne, io non mi ricordo di cosa che ieri si dicesse. Sapete pur il proverbio: «Odi memorem compotorem!». — Proverbi a vostra posta — disse il Trevi, — chè, s’io vi conosco bene (che vi conosco benissimo), quivi non fu detta cosa che non vi sia rimasta intiera nella memoria. Entriamo, di grazia, in camera, e narratemi distesamente ogni cosa, e principalmente con che occasione si ragunò insieme cosí onorata compagnia. — Questa è una spezie di violenza — diss’io: — pure, poich’io sono nelle vostre forze, eccomi presto a sodisfarvi. Ma non aspettate però di sentir da me la terza parte delle cose che vi fûr dette; e quella ancora cosí male e scompostamente recitata udirete, che forse vi pentirete del desiderio avutone. — Orsú — risposero amendue, — non si perda piú tempo. — Per che, entrati dentro un camerino e dato ordine al servitore che per nessun conto ci interrompesse, ci ponemmo a sedere. Ed io, senza altra replica, in questo modo a ragionare incominciai.
Come voi sapete, martedi passato si diede felice principio al quarto anno della creazione di nostro signore papa Giulio III. Quella sera dunque ci trovammo per sorte in Banchi: messer Iacomo Marmitta, messer Trifon Bencio, messer Gabriel Seivago ed io, dove era molta brigata concorsa per vedere la festa consueta de’ fuochi. Ora, passando innanzi e indietro moltissimi cocchi, pieni di vaghe e belle donne, noi, per vedere e vagheggiare, tuttavia ci spignevamo innanzi. Ma il Selvago, che voleva la burla piú degli altri, non passava oltre cocchio, che, motteggiando, non gli desse la sua. Ora avenne che certi galantuomini, accorgendosi di questo umore, pensarono di rendergli il contracambio. Fatta adunque congiura tra parecchi cocchi, incominciarono a frequentare piú del solito il passarci davanti; e, facendosi oltre il Selvago, come prima, le dame dei cocchi presero anch’elleno a motteggiare e proverbiarlo. Nè vi mancarono di quelle che, per aver vista di gentildonne, lo trafissero insino al vivo. Parve allora a noi ch’el Selvago restasse tutto freddo e confuso e che quella sua pronta e viva eloquenza in gran parte mancasse. Preso dunque partito di ritornar a casa, fu un di noi, che incominciò a dir male dei cocchi, ed un altro in contrario a dir bene. Allora il Selvago, come orso a cui fusse stato tócco il naso, s’incominciò adirare con tanta rabbia, e tanta robba prese a dir contra i «carpenti» (ché cosí chiama egli i cocchi), che fu una meraviglia ad udire. E voleva conchiudere insomma che i cocchi sono la peggior cosa ch’abbi Roma. E, lasciando stare le disonestá che dentro vi si fanno, e la comoditá che dánno agli esercizi di Venere, infeminiscono i giovani, fanno rimbambire i vecchi, allargano il freno a’ religiosi, guastano le strade, impediscono i viandanti, sconciano le donne pregne e impregnano le sconce. E molte altre cose disse, insin che intorbidiscono i vini nelle cantine; e che, s’egli mai per disgrazia fusse una volta principe, vorrebbe o del tutto interdir l’uso dei cocchi, overo porvi sú un grosso balzello, e far ch’ogni cocchio avesse a portar per insegna un par di corna. E sarebbe seguito piú oltre a dire, se non che, giunti alla casa del signor Catalano Trivulci, vescovo di Piacenza, fummo da lui invitati a salir su. Il quale, stando in un balcone insieme con messer Anton Francesco Raineri, faceva accender lumi per onorar la festa. Allora il Selvago, non volendo venir su, fatte poche parole, da noi si dipartí. Della qual cosa meravigliatosi il vescovo, ché non era sua costume, gli fu detto che s’era alquanto inglesato contra i cocchi: e gli riferimmo ogni cosa. Di che egli prese gran piacere. Ma, facendosi poscia notte, ci disse il vescovo che, per onor della festa, la mattina seguente, che fu ieri, voleva ch’andassimo a desinar seco nel giardin del Ghigi, ma ch’ognun di noi potesse menar seco un compagno, tra i quali voleva che fusse il Selvago. E, questo tra noi conchiuso, ci dipartimmo. Venuta dunque la mattina seguente, dopo finite certe facenduzze, fatta elezione di messer Giovan Cesario cosentino, ce ne andammo egli ed io al predetto luogo, dove trovammo messer Iacomo Marmitta col Selvago, e, quasi in un medesimo tempo, v’entrò messer Trifone ed il Raineri. Accoppiatici dunque tutti insieme, incominciammo a salutarci e far festa tra noi, aspettando monsignor di Piacenza, che tornasse da cappella. Ma, finite le cerimonie e l’accoglienze. le quali, per dire il vero, fúr assai poche, non usandosi molto ira galantuomini, mentre s’attendeva il detto monsignore e l’ora del desinare, ci demmo, sparsi per lo giardino, a dispensare il tempo chi in recitar un sonetto, chi in raccontar una istoria, altri in mostrar qualche bel semplice e dirne la sua virtú, e chi in una cosa e chi in un’altra, ciascuno secondo l’umore e profession sua. Ma, appressandosi omai l’ora, e giá tutti insieme sotto la bella loggia di Psiche ridottici, fu il primo messer Iacomo Marmitta a proporre che sarebbe ottima cosa il crear un re per quel giorno, acciochè, ad imitazione degli antichi, cosí nel convito come nell’altre azzioni di quel giorno, aves simo un capo che ci reggesse. A la qual cosa concorrendo il parer di tutti, fu conchiuso che il vescovo di Piacenza fusse quello. Nè molto dopo il vedemmo venire. Andandolo dunque tutti insieme ad incontrare, il salutammo, e, come a re nostro fattagli riverenza, gli baciammo la mano. Egli, che giá s’era accorto del nostro pensiero: — Ed io — rispose — volentieri accetto tal peso, poichè ciascun di voi concorre a darlomi. Fate però conto d’esser tutti obedienti, perchè il bello e buono essere d’un regno consiste, come voi sapete, nella obedienza. — Anzi — rispose tosto il Selvago — nella giustizia, dalla quale dipende l’obedienza. E per questo disponetevi voi dal canto vostro d’esser giusto re, chè noi dal nostro saremo obedienti vassalli. — Sará adunque buono — disse il re — ch’io vi dia alcune leggi; alle quali rimirando, nè voi abbiate ad essere insolenti, nè io ingiusto. — Facciasi — rispondemmo tutti. Per che, fattomi il re cenno, ed entrati amendue in un camerino, egli dettando ed io scrivendo, in poco d’ora fûr finite l’infrascritte leggi, cioè:
Che nessuno abbi ardimento di contradire al re nelle cose giuste.
Che nessuno possa nè in parole, nè in fatti, nè in palese, nè in segreto cercar d’offender il re.
Che nessuno, per tutto lo spazio del suo regno, abbia a far romore o quistione in alcun modo.
Che non si possa ragionare in pregiudicio di persona alcuna particolare.
Che nei discorsi nessun ardisca di contradir a tre della compagnia in un tempo.
Che, nel motteggiar, non si debba offendere al vivo il compagno.
Che, nel mangiare, non si possa bere piú che tre volte.
Che non si possa bere piú d’una sorte vini, cioè o bianco o rosso, ad elezzione di chi beve.
Chiamati adunque dentro tutti e fattoci dal re un amorevole essordio, furono da me publicate le soprascritte leggi. E, questo fatto ed alquanto per le due ultime riso, fu per ciascun di noi giurato d’osservarle, non senza molta loda del re. Il quale, ciò vedendo, ne pubblicò subitamente un’altra:
Che nessuno avesse ardimento di contradir a le leggi, giá di commun consentimento approbate e col giuramento stabilite, sotto pena, da pagarsi subito da chi in essa incorresse, ad arbitrio e beneplacito del re.
E questa ancora fu approbata da tutti. Essendo dunque il desinare in ordine, lavateci le mani, il re si pose in capo di tavola, e noi tutti, con quell’ordine che egli vòlse, appresso lo seguimmo. Per che, mangiandosi con silenzio, il re, a caso, propose un problema da considerare: Qual fusse la miglior parte del convito: o il principio o il fine o il mezzo. Allora il Cesario rispose subito che ciò era il principio, perciochè allora tutti i cibi sono piú grati, essendovi piú fame, sí come anco il convito è più modesto, tacendo ognuno, e non essendosi anche venuto a quella allegrezza che causa il vino, la quale molte fiate fa la lingua sdrucciolare dove men debbe. E confermò il detto suo con l’auttoritá d’Anacarsi scita, il qual diceva che la vite tre uve produce: delle quali la prima ci apporta diletto, la seconda ebbrezza, la terza dispiacere. Ed era per seguir piú oltre, se non che il Selvago l’interroppe, dicendo che il mezzo era migliore. Conciosiachè allora è passata la rabbia della fame, e gli spiriti incominciano a svegliarsi, e cosí l’animo fa le sue operazioni migliori: che quel silenzio sarebbe assai buono, se fusse indirizzato a piú laudabil fine; ma, sendo non per altro che per mangiare, non si dee antiporre al ragionare, dal quale, piú tosto che dal tacere, l’uomo si fa a conoscere ch’è uomo. E giá aveva allentate le redine a quella sua eloquenza, quando, facendo segno il Raineri di voler dire anch’egli la ragion sua, fu dal re imposto silenzio al Selvago; ed il Raineri cosí incominciò: — Certamente, se noi parliamo d’una tavola d’uomini dissoluti o di persone plebee, non è da dubitare che il principio del convito non sia migliore del fine e del mezzo; perciochè cosí fatte genti non ad altro fine si riducono insieme che per sodisfare agli appetiti di Bacco e di Cerere. Di qui nasce che dal diletto si viene all’ebrezza, e da quella al dispiacere. Perciò si canta tra poeti di lapiti, di centauri, di Penteo, lacerato dalla madre istessa, e d’altri mostri e straboccamenti d’intelletto. Ma, poichè tal quistione è dal nostro re proposta a noi, che facciamo professione non di lapiti nè di centauri, ma d’uomini sobri e temperati, mi par di dover dire che la miglior parte del convito sia il fine. Perciochè i nostri pari s’accompagnavano e raunavano insieme non per mangiare nè per bere, ma per vivere amichevolmente; e da questo vien detto «convito». Conciosiacosachè, nell’infinite calamitá di questo mondo, la nostra vita non si può veramente dir vita, se non mentre che noi l’usiamo conversando con gli amici. Di noi dunque intendendo, tutte tre le parli del convito parteciparanno l’uva del diletto, e nessuna sentirá quella dell’ebbrezza o del dispiacere. Perchè, sí come di tutte l’altre cose, cosí anco si può dir di questa: che la miglior parte e la piú degna sia il fine. — Giá si sarebbe seguito piú oltre a dir del problema, perciochè il Selvago ed il Cesario s’eran posti su le difese l’un contra l’altro, ed amendue contra il Raineri; e sarebbe stato un combattimento interzo, se non che vi s’interpose la sete, e, chiedendo ciascuno da bere, fu finito. In questo comparse un servitore, dicendoci che messer Alessandro Piccolomini era dentro il giardino, e veniva per desinare con esso noi; nè molto dopo il vedemmo entrare nella sala. Fattagli dunque dal re e da noi altri tutti gratissima accoglienza, disse il Piccolomini: — Se bene ai conviti non suole altri andare se non chiamato, pur appresso Omero si vede Menelao spontaneamente andar al convito d’Agamennone. — Rispose cortesemente il Marmitta, come è suo solito: — Non dubitate, chè ci è anco luogo per due muse. — E giá gli si dava l’acqua alle mani, quando il re lo domandò se sapea delle leggi fatte e se voleva osservarle. Rispose che sì, e ch’era venuto per essere obediente come gli altri, avendolo all’entrare del giardino un cameriere ragguagliato del tutto. Per che, fatta riverenza al re e giuratoli obedienza, si puose con gli altri a sedere. Era giá in campo il ragionamento del costume tenuto dagli antichi nel numero de’ convitati, quando il Cesario, sagace investigatore dell’antichitá, disse a questo proposito una bella cosa e nuova, la quale era: che qualche volta fu in uso (solamente però nelle nozze) di chiamar a tavola infin al numero di trenta, tra donne e uomini. E recitò come, celebrandosi una volta un convito per conto di nozze ed essendovi spontaneamente venuto un parasito, il quale ultimo di tutti sedeva a tavola, il mastro di casa, contando e trovandolo soverchio, comandò che si partisse. Allora il parasito: — Incominciate — disse — a contar da me, e non sarò soverchio. — E con questa risposta si rimase. Con questi ed altri bei discorsi, il desinare era presso al fine, quando occorse nuova cosa, la quale, dè’ da ridere alla brigata. Perciochè, chiedendo il Selvago da bere, il quale aveva giá due volte bevuto del vin bianco, per errore di chi serviva gli fu dato del rosso; ed egli, o che si dimenticasse della legge, o che pur, badando ad altro, non se ne avvedesse, bebbe allegramente. Ed invero la legge era sì dura, che ci sarebbe stato còlto Solone, non che il Selvago. Ma il re ed il Raineri, diligenti osservatori d’ogni cosa, a pena il lasciarono finir di bere, che d’aver rotta la legge lo sgridarono, e noi tutti facemmo il medesimo. Ma egli, accortissimo, per non cader nel secondo errore, come nel primo, contradicendo non ch’a tre, ma a tutti, si rendè in colpa e ne domandò perdono. Tuttavia, non volendo il re che il fatto restasse senza pena, il condannò che bevesse un altro bicchiere d’acqua pura. A che il Selvago prontamente rispose: — Giustissimo re, io m’appello di questa sentenzia a voi stesso. Perciochè, col farmi pagar la pena d’aver rotta una legge, mi date nuova materia di romperne un’altra. — E qual è ella? — disse il re. — Che nessuno — rispose egli — possa bere piú che tre volte. Dove, bevendo questa, mi fareste ber la quarta. — Allora il re, alzatosi, disse: — Insomma non si può contrastare col Selvago. Voi sète invitto ed io vi perdono. — E cosí il desinare fu finito. Levate le tavole e postici presso al fuoco a sedere, dopo vari ragionamenti, propose il Raineri che sarebbe bene, per non stare in ozio, di ragionare di qualche cosa allegra, che fusse degna di quel dì. La qual cosa fu approbata dal nostro re e da tutti noi. Ricercandosi adunque nuovo argomento di dire, ed essendosi da chi una cosa, da chi un’altra proposta, disse Trifone: — S’io mi ricordo bene, iersera il Selvago l’ebbe molto contra i cocchi, nè penso giá che la collera sia scemata affatto. E, perchè voleva che ogni cocchio portasse un par di corna per insegna (quasi il cocchio non fusse altro che rendita di corna), se farete a mio modo, ragionaremo oggi delle corna, e donde è venuta questa generale opinione: che, quando un marito ha la moglie lasciva, par al mondo ch’egli abbi le corna in testa. — E, cosí detto, si tacque. Parve a tutti che Trifone avesse proposto bello e nuovo soggetto di dire, e giá ognuno attendeva la risposta del re. Ed egli, che vidde dipinto negli occhi nostri il desiderio di tutti, come che egli piú degno ragionamento desiderasse, nondimeno, perchè pur la materia era dilettevole ed universale assai, a la fine vi si accordò. Vòlse però che, mentre altri era nel corso del dire, nessun l’interrompesse, acciochè il discorso fusse perpetuo e continuato, e, quello finito, potesse ciascuno contradirgli a suo modo. E cosí, fatto segno a Trifone, gli impose che con qualche piacevole invenzione desse al futuro ragionamento principio. Ed egli, dopo alquanto spazio tenuti gli occhi in terra fissi, incominciò in questo modo: — S’io potessi, serenissimo re e dottissimi auditori, con buona grazia vostra, por giuso il peso, che voi, sí come v’è piaciuto, m’avete adosso posto, cioè d’esser io quello che corra il primo arringo in questo campo di ragionare, volentieri il farei. Perciochè, volendomi io, per piacervi, dispormi a questo, mi sento ad un’ora da due potentissimi nemici assalire: l’uno è il voler dire all’improviso, la qual cosa fu sempre da’ piú prudenti dicitori schifata; l’altro è il voler trattare, in presenza di sì eccellenti uomini, d’una materia sì povera d’argomento. E, s’io potessi, senza offendere il giudicio del nostro re, vorrei ora risentirmi, ch’avendo qui tanti chiari e pellegrini ingegni ch’a una maggior cosa di questa sarebbon atti, abbi voluto fare elezzione di me, che sono di tutti il piú oscuro e piú vile. Benchè, quando io vo ben considerando, parmi che prudentemente da lui sia stato fatto; perciochè, dovendo tutte le cose avere in sè debole principio, ottima cosa sia stato il far elezzion di me, che lo farò debolissimo. Massimamente che, non avendo io per prova conosciuto che cosa siano le corna, non posso sperare di poter darvi d’esse e dell’origine loro se non confuso ragguaglio. Pur, veggendomi intorno una compagnia di uomini inesperti ancor essi di questa faccenda, non avendo nessun di noi provato come il peso della moglie sia grave, m’arrischierò di dirvene, quanto, studiando altre cose, mi sovviene avere in piú luoghi trovato. Presupponendo dunque per cosa manifesta che il portar delle corna tocchi a chiunque ha moglie impudica, è ora da investigare per qual conto si dica «il marito d’una tal moglie aver le corna», e donde abbi avuto origine questo vocabolo e cosí fatta opinione. E per certo, essendo le corna fuor della natura dell’uomo e non essendosi vedute mai in fronte ad alcuno, bisogna senza altro credere che questa sia una similitudine e un parlar metaforico. La qual similitudine non è per aventura cosí agevole a ritrovare, come altri forse averebbe creduto. Insin ad ora è stata opinione che questi uomini cosí fatti sien chiamati «cornuti» a simiglianza del bécco, il qual solo, tra tanta moltitudine d’animali, è senza gelosia, quasi sopporti che la moglie in sua presenza usi con l’altro bécco senza farne risentimento, e che da questo sia detto poi «bécco cornuto». Ma quanto questa opinione sia folle e vana, se ne può aver certa notizia da quelli che attendono al governo di cotal gregge, i quali affermano che i bécchi non solamente non sopportano questa ingiuria, ma vengono tra loro a tanta rabbia, che è loro di grandissimi combattimenti e qualche volta di morte cagione. Leggesí che un capraro, nel paese de’ sibariti, chiamato Crati, amando una bellissima capra ed usando seco, contra il costume dell’uomo, l’atto venereo, mosse tanta gelosia nell’animo del bécco, che, dormendo quel capraro in una ripa d’un fiume, l’urtò e percosse cosí impetuosamente con le corna, che gli fracassò il cervello e gli tolse la vita. E giá insin al nostro tempo dal nome di colui quel fiume è detto Crati. Bisogna dunque credere ch’el nome delle corna abbi avuto altro nascimento. Ma, perchè non si può perfettamente conoscere da noi la proprietá e la sostanza d’una cosa se non dagli effetti e dagli accidenti che seco porta quella cosa, ed il conoscere la proprietá delie corna è malagevolissimo, non mi parrá in tutto fuor di proposito venir dall’investigazione degli effetti ed accidenti loro a la cognizione d’esse. Da questo effetto dunque incominciando, e’ si vede che i cornuti, quasi pertutto, vivono abbondantemente, e vi son di quelli che, non avendo entrata nè robba alcuna al mondo, vivono sì splendidamente, come d’amplissime ricchezze fussero possessori. E, lasciando gli altri essempi da canto e venendo a quello che ci sta sempre innanzi gli occhi, non vedete voi, per isperienza, in questa nobilissima cittá che chiunque ha bella moglie e si dispone a voler esser buon compagno, vive abbondantemente nella maggior carestia del mondo? E chi piú l’ha bella, piú può delle rendite e borse altrui disporre a suo modo. Quante famiglie s’arrichiscono! Quanti palazzi s’innalzano! Quanti offizi si comprano! Quanti benefizi s’acquistano per la bellezza delle mogli! Se dunque un marito, che ha bella moglie e vuole altrui farne parte, viene a tanta ricchezza e vive in tanta abbondanza, ragionevolmente si può dire ch’egli abbia il cornucopia in casa, la proprietá del quale e di fondere e spargere quanto ha il mondo di ricco e d’abbondante. Da questo dunque bello effetto si può egli dire d’esser «cornuto», quasi abbi seco il cornucopia. Che il corno poi significhi abbondanza, si sa per questo, che gli antichi, ottimi speculatori delle proprietá delle cose, dipignevano i fiumi (dai quali viene l’abbondanza alla terra) e scolpivano col corno. Cosi in Belvedere ed in Campidoglio si vede il Tevere, il Nilo ed altri fiumi con un corno in mano pieno di fiori e di frutti. Cefiso, fiume appresso gli ateniesi, Erasino ed Eurota appresso i lacedemoni, Esopo appo i sicioni e Cefiso appo gli argivi, non si depingevano essi in forma d’uomo, ma con le corna di toro? Se dunque le corna sono significative d’abbondanza, ragionevolmente questi tali uomini, che vivono piú che gli altri abbondantemente, si possono chiamar «cornuti». L’altro effetto, che si vede, è che cosí fatte genti sogliono essere e amorevoli e buone. Perciochè qual si può dire maggior amorevolezza e bontá che comunicar insino alle mogli con gli altri uomini? coi quali vivono cosí mansueti e piacevoli, che mai non vengono tra loro a contesa o quistione alcuna. Dunque da questa mansuetudine e bontá s’è detto costoro aver le corna, per una certa somiglianza che essi hanno con gli animali cornuti, i quali sono piú mansueti ed agevoli a governare di quelli che, non avendo corna, hanno due ordini di denti. Conciosiachè qualunque animale ha corna in fronte, dalla parte di sopra non ha denti in bocca, e cosí manca dell’offension del morso, la quale molto piú offende di quella delle corna. Avengadio che i denti sogliono per lo piú esser velenosi, dove nelle corna di molti si trova il rimedio del veleno. Oltre a ciò, gli animali cornuti non si pascono di carne, come gli altri dentati; ma, senza offendersi o macchiarsi nel sangue di veruno animale, a guisa di pittagorici, si nutriscono de’ frutti della terra. A similitudine dunque di questa bontá e puritá di vita, cotali uomini, perchè anch’essi son buoni e s’astengono dal sangue, son detti «cornuti». Ècci ancora un altro effetto da considerare, il quale m’induce a credere che tali uomini sien detti «cornuti». Conciosiacosachè per tale loro bontá sono assai facili a lasciarsi persuadere, avengachè, senza molti ramarichi e senza tanti riguardi, si lascian dar facilmente ad intendere che le proprie mogli (delle quali gli altri son cotanti gelosi) siano da far communi con gli amici; e per questa facilitá son detti «cornuti», a sembianza delle parti solide degli animali. Conciosiachè, o vogliate Tossa, o Tunghie, o i denti, non farete mai tanto, che piglino altra via di quella che una volta ebber dalla natura. Ma delle corna non avvien cosí: perciochè, appressate al fuoco, le ridurrete facilmente a quella figura che voi vorrete. Restami ora un altro effetto bellissimo da considerare, il quale è questo: che, volendo spesse volte cotali brigate piú che gli altri risentirsi e resistere alla libera e larga vita delle mogli, nè sopportando per conto veruno di communicar l’uso di quelle con altri e d’esser buoni, spessissime volte patiscono ingiurie e ricevono scorno, nonchè corna. La qual cosa, se si vede spesso in altri paesi, in Roma si vede spessissimo. Avengachè non mancan tuttavia di quegli, i quali, non potendo per lo cammin ordinario venire al compimento de’ suoi desidèri con le mogli altrui, tentan dell’altre strade. E ora con esili e prigionie, ora con minacce ed altre ingiurie piú palesi, avendo in ciò favorevole l’animo delle donne, s’acquistano per violenzia quel che non possono avere amichevolmente, e fanno lor capitar male. Il che mi sono informato poi che suole ancora avvenire al montone, il quale, se per troppa gelosia e ferocitá di testa non lassa usar gli altri montoni con le femine del gregge, i pastori gli segano le corna; delle quali trovandosi privo, diventa timido e mansueto, nè è piú ardito e pronto al combattere come era prima. Afferma anche Epicarmo, medico siracusano, che un montone, quantunque fiero ed animoso, se gli si forano le corna, si fa piacevole, ritorcendoglisi in guisa le corna, che non solo il rendono inabile ad urtare, ma gli impediscono il vedere. Dalla qual similitudine queste meschine genti, che ingiustamente e per forza patiscono cotale ingiuria delle mogli, e, non potendosene prevalere, fanno vista di non s’accorgere, si sono poi assomigliati ai montoni; e, a comparazione di quegli, ad altri si dice «cornuto», «scornato», overo «ti segherò le corna», ad altri poi che «le corna gli tolgono il vedere». Dunque da tutte queste cause (per quant’io all’improviso ho potuto ricordarmi) gli uomini, che hanno le mogli impudiche, son detti «cornuti». — E, cosí detto, si tacque.
Finito che ebbe Trifone, parvemi ch’egli avesse cosí bene e compiutamente detto, e con tanta felicitá a fine il suo discorso recato, che io non pensavo che sopra tal materia restasse piú che dire. E giá, l’altrui ingegno misurando dal mio, volevo proporre al nostro re nuovo argomento di ragionare, quando, volgendomi, vidi il Cesario ed il Selvago, i quali, essendo di parer diverso a quel di Trifone, nè tra loro convenendo, giá cominciavano, con alte voci contrastando, a farsi sentire. Per la qual cosa io mi ritenni; ed il re, lodato Trifone, impose al Cesario, ch’a lui seguiva, che dicesse. Ed egli, con la solita prontezza d’animo e di lingua, prese baldanzosamente a dire in questo modo:
Se le corna, saggia ed amica compagnia, fussero solo a uomini d’animo vili ed impotenti, io direi che Trifone non solamente avesse trovata la prima origine ed espresso la vera sostanza d’esse, ma che avesse anco lasciato a noi altri pochissima materia di estenderci piú avanti coi nostri discorsi. Conciosiachè, con tanta efficacia ha espresse queste sue ragioni, che non è alcun di noi, per quel che io ne pensi, che non sia rimasto sodisfatto del suo dire. Ma, considerando, all’incontro, le corna essere piú tosto di valentuomini e marziali che di persone maninconiche e modeste, come sarebbe a dire letterati, mercatanti ed altri uomini di faccende, i quali, per il continuo studiare e lambiccar del cervello, si veggono men che gli altri potenti all’altrui forze resistere, dirò che Trifone non abbi tócco il vivo nè il midollo di questa cosa. Perciochè tutto il suo discorso è stato per isprimere le corna de’ cornuti volontari o di quelli che, sapendo d’averle, contra lor voglia, per buon rispetto, se ne infingono e se le tacciono. Ma, perchè il numero di questi tali è pochissimo verso quelli che, avendole, nol sanno (i quali verisimil cosa è che sieno infiniti), si può anco dire, con buona grazia sua, ch’egli tanto meno si sia al vero appressato, quanto quelli, che l’hanno e non sanno d’averle, son in molta maggior copia che i volontari e quelli che, avendole, fanno sembiante di non saperlo. Conciosiachè qual è quell’uomo d’animo sì debole ed impotente, che almeno tanto rispetto non si faccia portar dalla moglie, che, volendo ella mettergli le corna, non s’ingegni di far in modo ch’egli nol sappia? Ma, perchè alcun di voi si sará forse meravigliato ch’io abbi detto che le corna sono piú tosto di genti marziali che di persone modeste, v’addurrò le ragioni che m’hanno a ciò mosso, le quali istimo che sieno assai a proposito di quel che appresso ho in animo di dirvi. Presupponendo dunque che la natura abbi creato l’uomo per essere superiore alla donna, e che la donna all’incontro abbi ad esser soggetta all’uomo e temere la forza e l’ira sua, dico che, quando il marito, per vile e da poco che sia, mostra alla moglie d’esser geloso del suo onore e dispiacergli le sconce cose, se ben ella di sua natura è lasciva, pur si sforza di mostrarglisi onesta. Anzi molte fiate avviene che, nel finger, benchè contra sua voglia, l’onestá della vita, viene a farsene un’altra natura, contraria a la prima. Perchè, smorzandosi in parte quel caldo della gioventú e scemandosi a poco a poco il fior della bellezza ed entrando in carico di figliuoli e governo di casa, si ritruova alfine la moglie casta ed il marito senza corna. Quando, a rincontro, l’uomo, o per troppa fiducia ed amor di se stesso, o per ispenseraggine o altra causa, lascia la briglia sul collo a la donna nè vuol prendere egli cura delle sue cose, ella verrá di mano in mano ad acquistarsi e prescriversi una certa licenzia e libertá, che si fa a credere non esser cosa nel mondo che lecita non le sia. Per la qual cosa, avendo ella in mano il governo di se stessa, in tanto si lascia al disordinato appetito trasportare, che, senza piú d’onore o di vergogna curare, ad altro non attende che a trarsi e saziare tutte le sue voglie, essendo vera quella sentenza che «a chi è lecito piú del dovere, trascorre spesso a quel che non lece». Quindi si può conoscere quanto i maninconici e gli impotenti avanzano gli uomini marziali nel governo delle mogli. E giá, se ricercaremo l’istorie nostre, non troveremo uomo in questa cittá per simil conto essere stato piú felice che i due Bruti, modestissimi e maninconici anch’essi, poichè dalla castitá di Lucrezia e di Porzia impararono due volte ad esser liberatori della lor patria. Ma, per venir al paragone e di questi e di quegli, ecco, pogniam caso, un letterato, ch’abbi moglie. Egli, sì per l’imbecillitá del corpo, la quale ordinariamente apportano seco gli studi, e sì per l’umor maninconico, dal quale gli studiosi per lo piú si truovano accompagnati, come sará molto ingegnoso, cosí anco sará molto sospettoso. Onde avverrá che, conoscendo meglio che gli altri uomini la natura delle donne e la leggerezza del lor cervello, sará piú accorto, e, avendo buon riguardo a le cose sue, mai non concederá alla moglie, nè patirá una certa libertá soverchia di vita; anzi le troncherá ogni occasione, per la quale potesse men che onesta divenire. Da un cotal uomo si può imaginare esser stato trovato quel costume d’aver per cattivo augurio il canto della gallina, volendo con bello e gentil modo dimostrar a la moglie che a lui solo apparteneva d’essere il gallo della casa sua. Dall’altra parte pogniamo un signore, un soldato overo un di costoro, che, tenendosi da piú che gli altri, disprezzano il mondo. E’ sará principalmente di complession allegro e, per questo, confidente di se stesso e animoso, e perciò, parendogli che nessun debba esser tanto ardito che presumi d’oltraggiarlo, poca cura si prenderá di guardar la moglie. Sará, oltre a ciò, sottoposto a le donne; e per questo credette l’antichitá che Marte fusse innamorato di Venere. Dalla qual cosa ne segue poi che non solamente s’avvilisce appo quelle e, di virile ch’era prima, effeminato diventa, ma fa la moglie trascorrere a tanta licenzia, che spesse volte gli è di grandissimo vituperio e talor di danno cagione. E per questo conto anticamente, se riguarderem bene, gli uomini, sacrificando a Venere, si vestivano da donne e le donne da uomini, come volessero ammonirci che chiunque attende troppo ai servigi di Venere s’infemminisce e si fa servo della sua donna, la quale a rincontro viene ad acquistar quella superioritá che conviene all’uomo e non a la femina; in maniera che, di soggetta che era e debbe essere, diventa donna e signora. Volendo dunque costoro attender tanto ai servigi di Venere, hanno bisogno di Bacco, dio del vino, il quale, sí come dice Aristofane, è il latte di Venere. Dalla qual cosa ne segue che, quando la moglie d’un di costoro vuol per avventura trarsi un capriccio e star la notte presso ad altro uomo che al marito, l’empie tanto di vino per addormentarlo, che il fa parer Bacco istesso. Al qual costui, si per esser valente come anco dedito al vino, assomigliando, è poscia chiamato «cornuto». Conciosiacosachè esso Bacco, per aver combattuto valorosamente in favor de’ greci, fu detto «cornuto». Anzi Orfeo, poeta antichissimo, lo chiama Δικέροτα e Ταυροκέροτα e Ταυρομέτοπον. Per la qual cosa le femine elee, che volean forse por le corna in fronte a’ lor mariti, sacrificando a Bacco, pregavano che venisse in forma di toro. Da questo dunque costui, e non da altra cagione, avendo questa burla ricevuta, è chiamato dal mondo «bécco cornuto», come volesser dir «Bacco cornuto», over bisquizando per una affinitá che è tra «bécco» e Bacco, o perchè si legge di questo dio che fu una volta trasformato in bécco, o pur perchè la notte è stato sacrificato a Bacco, come gli si solea sacrificar, un bécco. Il quale non si sacrifica, come scrivono costoro, a Bacco, e non a Minerva, per un certo odio che amendue gli portano: l’un che gli abbia guasto la vite e l’altra l’ulivo, ma piú tosto ad un dio cornuto, perchè le corna fanno gli uomini a sua similitudine cornuti; non si sacrifica a Minerva, perchè la castitá è mortal nemica delle corna. Anzi le donne, che attendon ad esser caste, odiano e fuggono il vino, come occulto nemico ed insidiatore della castitá. Quel ch’io dico: che le corna pongono altrui in fronte le corna e sono insidiatori della castitá, vi fie noto, quando averete considerato l’usanza de’ piú antichi. Perciochè, dove noi ora beviamo in vetro o in altra materia, essi solean giá bere nelle corna degli animali; dalle quali, giá che in greco idioma κέρας; vuol dir «corno», s’usò egli di dir κεράσαι per «temprar il vino». Poscia dunque che l’ebbrezza ha ridotto costui ad aver la moglie impudica, s’è detto aver le corna in fronte, o per mostrar al mondo la cagione della sua vergogna, o perchè il vino, ch’egli bebbe nel corno, gli ha la fronte percossa, poichè la proprietá del vino è di tentar la testa. Da qui poi a costoro, che, con essere superbi ed insolenti, sentivano mal delle mogli, si solea dir motteggiando: «Egli ha il fieno nel corno», perciochè era un costume che, quando un bue feriva, gli si legava il fieno a le corna, per avvertire altrui che da quello si guardasse. Si può dunque conchiudere, senza altro dire, che da Bacco, perchè è un dio cornuto, sia venuta l’origine delle corna, posciaché con l’uso del suo liquore concilia le mogli a Venere e fa divenir i mariti cornuti. Il qual effetto, come a prima causa, si deve anco attribuir ad Amore, del quale mi meraviglio come i poeti non fingano ch’egli abbia strali di corno, posciaché i suoi strali miglior effetto non fanno che le corna. Ma, se pogniam mente ad un arciere, quando scocca gli strali, vedrem piegar l’arco in modo che avrá sembianza di due corna. E giá si racconta egli una favola che una capra, veggendo uscir una saetta da un arco contra di lei, sospirando disse: — Tutto il danno esce da me, — parendole che da cosa simile a le sue corna quel male venisse. Ecco dunque come Amore si può dir anch’egli ferir di corna. E questa, al mio giudizio, è la vera origine de’ cornuti. —
E, cosí detto, il Cesario si tacque, e fu giudicato, non men che Trifone, aver detto ingegnosamente. Ma il Selvago, stimando che nessuno ancora avesse tócco il punto della cosa, e parendogli di star molto a disagio e che pur troppo si perdesse di tempo, disse al re che voleva seguire. Ma il re, per non turbar l’ordine, non volle. Anzi, fatto segno al Raineri che al Cesario seguiva, ordinò che dicesse. Ed egli, senza altro aspettare, in questo modo prese a dire:
— Quel che suole avvenire nell’investigazione di tutte le cose dubbiose, valoroso re e onoratissima compagnia, che sempre l’opinioni di chi vi discorre sopra sieno varie e diverse, parmi che ora avvenga nel ricercar la prima origine e la vera etimologia delle corna. Conciosiachè, se ben sopra questa materia è stato da due valentuomini assai bene e convenevolmente discorso, non veggo però che si sia ancora venuto ad un certo termine, che mi si acqueti la mente. Il che stimo non potere da altra cagion procedere, se non che la veritá, la qual si cerca insin ad ora, non sia stata trovata e scoperta. Perchè, se ben io non ardisco promettervi di me tanto, che per mia opera si truovi e si scopra, pure io mi sforzerò, quanto le deboli forze del mio ingegno comportaranno, che, se non in tutto, almen in parte nota vi sia. A la qual cosa fare addurrò anch’io il testimonio de’ poeti e teologi antichi; poichè mi sono tra me stesso risoluto l’opinione delle corna essere antichissima, e loro, sí come dell’altre cose mistiche, sotto vari figmenti favoleggiato averne. Convenendo dunque con Trifone e col Cesario che le corna sieno trama di donna, la qual si tesse contra l’onore del marito, vi dico che non dalla similitudine che hanno cotali genti agli animali cornuti, nè da Bacco dio del vino, ma piú tosto dalla Luna ingiuriata abbino avuto principio. Per la qual cosa dire, bisogna prima due cose presupporre: la prima che Venere e la Luna fanno la medesima cosa; l’altra che, per opera della Luna, si mantenga la generazione e la spezie dell’uomo. Che Venere e la Luna siano dagli antichi teologi stimate una cosa istessa, lasciando molte altre cose che vi si potrebbeno addurre, addurrò solamente il testimonio d’Orfeo, il quale chiama Venere nel suo inno Νικτερία e poco dopo Φαινομένη, cioè «notturna», «la quale or apparisci, or ti nascondi». Le quai proprietá non è dubbio che sono della Luna. Ora, che dalla Luna si mantenga la generazion successiva dell’uomo, spero farlovi agevolmente conoscere, col ridurvi a memoria la bella favola, recitata da Aristofane, nei libri di Platone. Perciochè, essendo nel principio del mondo tre generi d’uomini (non, come ora, due), cioè maschio e femina ed un altro composto d’ambedue, chiamato «androgino», mostravan tutti tre figura rotonda. Conciosiacosachè avean quattro mani ed altrettante gambe, una testa con due facce, quattro orecchie e due membra genitali. Camminavan diritti, come ora noi, nell’una parte e nell’altra; e, quando piú agilmente moversi voleano, sopra otto membra fermatisi, a guisa di quelli che fanno le forze d'Ercole, si moveano in cerchio.
Di questi adunque il maschio era stato creato dal Sole, la femina dalla Terra, l’androgino, cioè quel che insieme era maschio e femina, dalla Luna. Ora avvenne che, essendo costoro per li demeriti loro in disgrazia degli idii, furono ciascun di loro, per opera di Giove e d’Apolline, in due mezzi divisi: dei quali ciascun correva per riunirsi ed abbracciarsi con l’altro suo mezzo. Di qui nacque l’abracciamento ed il bacio, i quali sono i piú dolci e desiati pegni d’amore. Il maschio dunque del Sole s’abbracciava con l’altro maschio e la femina della Terra con l’altra femina, ma gli androgini della Luna s’abbracciavan maschio e femina, e cosí la spezie dell’uomo veniva per successione ad essere perpetua. A la qual cosa non quei del Sole o della Terra, ma solamente quei della Luna si vedevano esser utili. Dalla Luna dunque si può, per questa favola, dire che abbi avuto sostentamento la spezie dell’uomo. Ed invero, se vogliamo il vero senso e l’allegoria d’essa ricercare, trovaremo nella Luna esser l’imagine del matrimonio. Conciosiacosachè il Sole è tutto maschio, cioè tutto forma e causa agente; nella Terra non si può considerar altro che materia e passione, e per questo è detta «femina»: laonde da questi due, divisi, non può venire generazione nè successione di cosa alcuna. Ma della Luna non si può dir cosí, conciosiacosachè in lei si vede (in quel modo però ch’esser vi può) e l’una e l’altra natura, cioè la virtú attiva del Sole e la materia della Terra. Perciochè, essendo in lei lume, calore e moto, i quali accidenti son tutti principalmente del Sole, prende poscia le tenebre e l’opacitá della Terra. Così, partecipando, in un certo modo, di materia e di forma, par che sia come un simbolo del matrimonio. E giá, per dire il vero, avendo la Luna forza d’inumidire e mediocremente di riscaldare, e molto giovevole a la generazione delle cose. Quindi Alman, poeta lirico, finge la rugiada, cosí utile al germogliar delle piante, esser figliuola dell’Aere e della Luna. Or, per ritornar al nostro incominciato discorso, essendo la Luna non infima causa della generazione e, per quel che s’è detto, preposta al matrimonio, ragionevol cosa sarebbe ch’ella appo noi s’acquistasse il nome dalla parte piú degna, dico dalla forma e non dalla materia, dalla virtú agente e non dalla passiva: degno dunque sarebbe che la Luna fusse stimata maschio e non femina. Onde fu opinione al mondo, massimamente tra carreni, che chiunque pensava la Luna esser femina, fusse, per ira di questa dea, sottoposto sempre alla moglie, dalla quale patisse mille insidie per conto del suo onore. Ma chi a rincontro pensava d’esser maschio, ed in nome di «Luno» l’adorava, avesse grazia da lei d’esser marito felice e superiore sempre a la sua donna, dalla quale non potesse esser beffato in conto veruno. Ma per qual conto pensate voi che Orfeo, antichissimo teologo, fusse lacerato dalle donne di Tracia, se non per la giusta ira di questa dea? Era costui del genere della Luna ed il suo mezzo era Euridice, dalla quale ebbe i desiati abbracciamenti e gli ultimi baci; i quali, poichè da morte e da una velenosa serpe rotti ed impediti furono, disperato di mai piú dover riavere il suo mezzo, si dispose a voler lasciar l’ordine della Luna e seguir quello del Sole: per la qual cosa, con le creature del Sole inestandosi, suo sacerdote divenne. Nè questo bastandogli, ingiuriò la Luna in un inno, dicendogli:
Ἀυζομένη καί λιπομένη, θύλυστε καί ἄρσην.
Femina e maschio sei, che cresci e scemi.
Chiamata dunque la Luna «femina e maschio», istigò le donne di Tracia a far vendetta di lui; dove, se solamente «maschio» gli avesse detto, averebbe facilmente trovato appo lei perdono delle sue colpe. E, se Platone, anch’egli chiamandola Ἀρσενοθύλος, cioè «maschio e femina», non pagò la pena di questa ingiuria, ciò avvenne perchè egli era leggitima creatura del Sole e non conosceva perfettamente la natura della Luna, appo la quale, per questo conto, trovò quella scusa che Orfeo aver non potè. Oltre a ciò, con dirgli Ἀρσενοθύλος, viene a preporre la parte migliore, cioè il maschio; ma quell’altro dicendoli θύλυστε καί ἄρσην viene a preporre la femina, cioè la parte paziente. Quando dunque la Luna era da alcuno, che avesse moglie, chiamata «femina», aspramente se ne risentiva e correva tosto a la vendetta. La quale per lo piú era questa: che, portando ella, come s’è detto, la persona della Luna e quella di Venere insieme, accresceva bellezza a la donna di lui, e per mezzo d’Amore, suo figliuolo, faceva che cosí egli come altri se ne innamorasse. Dalla qual cosa seguiva poi che la moglie non solamente ne diveniva donna e signora del marito, ma s’acquistava eziandio libertá di poter communicare con gli altri uomini l’uso della sua bellezza. Essendo dunque un cotal uomo in disgrazia della Luna, e perciò avendo la moglie impudica, si può credere che da lui cominciasse questa opinione delle corna, per esser quelle consacrate a questa dea: e, sí come gli epileptici (per l’opinione che communemente s’aveva ch’essi patissero il lor male per l’ira della Luna), erano ed ancor sono chiamati «lunatici», cosí anco costui per vendetta di questa dea fusse chiamato «cornuto». Il qual misterio si può credere che i poeti nascondessero sotto la favola d’Atteone, il quale, non credendo che Diana, cioè la Luna, fusse maschio e volendosene informar a pieno, quasi per acqua incantata, si trovò in fronte le corna. Le quali che siano state dedicate a la Luna si può anco giudicare per coniettura, veggendosi manifestamente nel suo primo aspetto apparir cornuta: dalla quale apparenza i poeti finsero che il suo carro fusse tirato da due tori; ed Orfeo la chiama Ταυρόκερον, cioè «cornuta», a similitudine di toro. Oltre a ciò, nei tempi di Diana e nel tempio della Luna, ch’era nell’Aventino, per publica usanza s’attaccavano le corna. Essendo dunque le corna dedicate a la Luna e cadendo simil genti in disgrazia di lei, è da credere che, quando un marito aveva la moglie disonesta, fusse poi in segno del suo errore chiamato «cornuto». E di qui, secondo il mio giudicio, è passata insino a l’etá nostra l’opinione delle corna. —
Tacquesi, cosí detto, il Raineri, perchè da tutti fu giudicato per uomo ingegnoso ed ottimo interprete dell’antica teologia. Ma io, che mi vedevo seguir a lui, e per questo conoscevo esser giunto il termine nel quale toccava a me di ragionare, sentivo un gran travaglio nell’animo, non avendo insin alora trovato cosa che di quella compagnia mi paresse degna. Pur, facendomi il nostro re cenno ch’io dicessi, dopo alcun rossore venutomi nel volto, in questo modo a ragionar incominciai:
— Io ben conosco, cortesissimo re e gratissima compagnia, quanto mi converrebbe ora, in preferenza vostra, piú tosto il tacere che il ragionare. Perciochè, come potrò io dir giamai cosí bene e compiutamente, che, comparato a quei che innanzi a me hanno detto ed a quei che appresso diranno, non paia una rondine in mezzo a tanti bianchi e canori cigni? Ma, perchè da tale m’è imposto a cui non posso nè debbo contradire, seguirò anch’io il mio discorso, se non per altro, almen perchè a qualche tempo vi si ricordi che in questo diporto d’oggi mi sia trovato ancor io. Nella qual cosa non posso se non sommamente lodare il giudizio del nostro re. Perciochè, sí come un buon capitano nell’ordinar le sue squadre loca i piú deboli ed i meno esperti soldati nel mezzo de’ veterani e piú forti, cosí egli ha posto me in mezzo di tutti voi, acciochè la debolezza della mia lingua possa tra la vostra potente eloquenza tanto o quanto comparire. Or, per ragionar anch’io della natura delle corna, prima che venga a dire dell’origine d’esse, non mi par fuor di proposito discorrere alquanto per trovare qual donna faccia le corna e qual uomo le riceva; avengachè io veggo essere al mondo diverse opinioni d’esse. Conciosiachè altri estima solamente la moglie esser bastante ed atta a far le corna al marito; altri che non solo si faccino al marito, ma anco al padre, al figliolo ed ai fratelli; nè ci mancan di quelli, che pensano non pur a costoro, ma ancora a tutta la famiglia del padre e del marito farsi l’ingiuria delle corna, e, sí come da un corpo solo risultano tante figure tra se stesse simili quanti specchi vi sono presenti, cosí anco dall’impudicizia d’una sola donna nascono tante corna quanti ella ha parenti. Cosi, secondo l’opinione di costoro, le corna son fatte non solamente dalla moglie al marito, dalla figliuola al padre, dalla sorella al fratello, dalla madre al figliuolo, ma a tutto il parentado insieme, il quale è parimenti tenuto di vendicarsi di quella onta. Ora, essendo sopra tal materia sì diverse opinioni, come udito avete, non sia fuor di proposito attendere la migliore. Perchè, presupponendo che l’onta delle corna sia per due cagioni, e non per altro, spiacevole e noiosa: la prima per una natural gelosia che l’amante ha della cosa amata, la qual vorrebbe aver tutta per sè ed a niun partito communicarla altrui (in tanto che, quando avviene che altri v’abbia parte, egli stima d’aver ragione di dolersi non solo della cosa amata, ma eziandio di colui che, senza risguardo avergli, abbia voluto introdursi nella possessione del suo amore); l’altra per la incertitudine de’ figliuoli, la cui donna a molti uomini si sottopose: essendo dunque per queste due cagioni, non per altro, grieve al mondo questa ingiuria, si può senza altro affermare che al marito solo appartengano le corna, perciochè a lui solo s’appartiene la certezza della prole, ed egli solo ha da essere l’amante e l’amato della moglie. E, se ben il padre s’ha da dolere dell’impudicizia della figliuola, quasi gli si possa dal mondo rimproverare o la mala disciplina datale, o la cattiva natura sua (come che il frutto suole essere proporzionato con l’albero e con la sua radice), e altrettanto ha da dispiacere al fratello la sfrenata libidine della sorella, al figliuolo della madre, ai parenti della parente, quasi da quell’una si possa far argomento della lor natura e della lor creanza; se ben, dico, hanno da dolersi, non però segue ch’abbin da vendicarsi delle corna, le quali non a loro s’appartengono, ma al marito. E, se vorremo l’antiche istorie cercare, trovaremo moltissimi essempi, che in questa opinione, senza dubbio alcuno, ci confermaranno. Ecco: i lacedemoni, le cui leggi Platone cotanto lodò ed imitò, avean per costume che le donne maritate portassero il viso coperto e le donzelle no; perciochè quelle non avean da piacere ad altri uomini ch’al marito, dove a queste era lecito procacciarsi l’amor di tutti. Solevano le donne chie (se ben sopra tutte l’altre avean nome di castissime), essendo donzelle, aver molti innamorati, ai quali era lecito d’andar insin a le case de’ frategli e del padre d’esse, e quindi servirle. Ma che bisogna far menzione di queste, il cui amore non trapassava il termine dell’onestá? Le donne di Tracia, di Lidia, e dell’Illirico non avean per usanza, mentre eran donzelle, di sottomettersi a chi veniva loro innanzi per acquistar la dote? Con la quale maritatesi, se elle eran poi ritrovate con altro uomo che col marito, subito davan la pena dell’adulterio commesso. Se dunque sole le donne maritate, per questi e per altri infiniti essempi che adurvi potrei, eran tenute d’esser caste ed osservar fede ai mariti, ne segue che dei mariti soli era l’ingiuria. Conciosiacosachè, se fusse stata del padre o del fratello, e’ sarebbe anco stata, quando la figliuola o la sorella, non ancor maritata, era femina di mondo; anzi molto piú allora, chè, essendo sotto la podestá del padre e del fratello, pare che ragionevolmente a lor soli questa ingiuria toccasse. Conchiudendo dunque le corna essere non del padre, non de’ frategli e molto meno de’ figliuoli e degli altri parenti, ma solo del marito, sia tempo omai di discendere a ricercar l’origine d’esse. Ed invero, se vorremo avere il debito risguardo, trovaremo la principal causa, per la quale le donne si muoveno a far questa ingiuria ai mariti, esser quella stessa per la quale i mariti si muoveno a far vendetta delle mogli. Questo è lo sdegno ch’altri ha di vedersi tôrre il suo per darlo altrui, ed il dispregio che gliene segue. E, benchè non negarò qualcheduna, per sua cattiva natura e mala educazione, molte fiate non contentarsi del marito e d’un uomo solo, s’ha pur da considerare ciò dover esser molto di rado; dove all’incontro si può vedere per isperienza che molte caggiono in quell’errore provocate da’ mariti. Avengachè, se per coniettura si può venir a la certezza delle cose dubbie, si può ancora argomentare che ’l primo adulterio del mondo fu piú tosto commesso dal marito che dalla moglie. Conciosiacosachè la donna si vede esser piú timida dell’uomo, sí come per natural debolezza d’animo è piú iraconda e vindicativa. Oltre a ciò, l’uomo ha piú libertá di conversare e farsi vedere che non ha la donna, per la qual licenza egli viene a procacciarsi molte commoditá, che la donna aver non può. Ecco, pogniam caso, sará un marito ed una moglie, amendue innamorati l’un dell’altro: occorrerá che ’l marito, per le dette cagioni, s’invaghirá d’un’altra donna, con la quale rimescolandosi, ingiuriará la moglie. È da stimare che costei, veggendo un’altra donna in possessione della cosa amata, con quello sdegno, ch’è proprio al sesso feminile, correrá tosto a la vendetta, la quale non sará altro che far copia di sè ad altro uomo, sí come il marito di sé fece ad altra donna. Dalla qual cosa molte fiate avviene che il marito, dimenticandosi di lei per seguirne un’altra, overo andando in paesi lontani, la lascia sola. Ed ella, che s’era maritata per dover star sempre col marito, né potendo per questa assenza di lui sodisfare ai naturali appetiti di Venere, mette un altro in luogo suo. E per questo conto il dottissimo Ipocrate (che non men bene insegnò con l’essempio a schifar le corna che con la dottrina le infermitá), partendosi dalla patria per gir ad Abdera a guarir Democrito della pazzia, scrive a Dionisio, suo discepolo, che venga a guardargli la moglie, dicendogli che le donne hanno una lascivia naturale, la quale, se di per di non si riseca, a guisa di lussuriosa pianta, germoglia sempre qualche nociva materia. Per la qual cosa coloro che abbandonavano le mogli e, disprezzandole, ad ogni altra cosa, piú che a loro, attendevano, eran chiamati «tori». Percioché questi animali hanno per natura che, dopo aver usato con le femine della sua spezie, non solamente non ricercano di nuovo usar con esse, ma, per non pascersi dove quelle si pascono, quanto piú possono se ne vanno lontani. Quindi una donna appo d’Aristofane, dolendosi della partenza e del dispregio del marito, dice:
οἴκοι δ᾽ ἀταυρώτη διάξω τὸν βίον
Finito ch’io ebbi il mio discorso, parve al Selvago, sendo venuta la volta sua, d’esser uscito di prigione. Perciochè, come uomo di pronto ed acuto ingegno, molte cose s’avea proposte nell’animo di dover dire e, non dicendole subito, dubitava «che gli fuggissero dalla memoria. Per la qual cosa, senza altro ordine dal re attendere, cosí tosto incominciò: — E’ mi pare, altissimo re e nobilissimi signori, che tutti quelli che innanzi a me hanno dell’infamia delle corna ragionato, si siano in modo portati (quasi l’èmpito di qualche corno temuto avessero), che non hanno i cornuti di che dolersi di loro. Anzi Trifone (se ben mi ricordo) nel principio del suo parlare pose le corna in tanto pregio e riputazione, che quasi m’ero disposto a dover tôr moglie, per averle anch’io. Ma, perchè per una certa opinione meco nata, ho pensato sempre le corna essere il maggior oltraggio che possa uomo avere, lasciando il desiderio della moglie a chi la vuole, mi darò a ricercare anch’io della prima origine d’esse. E non son punto in dubbio che, se la cosa s’ha a discorrere naturalmente, e lasciar stare in cielo o dove si siano la Luna e Bacco, ed i montoni e i tori nelle montagne, trovaremo che non per altro uno. a cui la moglie faccia, sí come si dice, «le fusa torte», è detto «cornuto», se non perchè della sua infamia, come dell’altre cose publiche, si suonano i corni per le piazze. Il che quanto sia vero, si può leggermente conoscere in questo: che una donna, quantunque disonestissima, mentre che ella occulta al mondo le cattivitá sue, ella è tenuta casta ed il marito senza corna. Ma, tosto che altri s’accorge delle sue tristezze, chiama lei «impudica» ed il marito «cornuto». Essendo dunque le corna non cosa essenziale in sè, ma piú tosto una publica opinione, che il volgo communemente ha dell’infamia d’un marito, ed essendo questa infamia in quel tempo tanto enorme, che, sí come suole essere dell’altre cose grandi, si spargeva prestamente pertutto, ne venne poi il nome delle corna, togliendo la similitudine dai bandi e dall’altre cose pubbliche, le quali si fanno sapere a tutti a suono di tromba o di corno; poichè insin a quel tempo usavan farsi le trombe di questa materia. E, se ben ora, per esser la cosa tanto allargata che rari son quelli che non l’abbino, non se ne fa piú quel gran romore ch’io vi dico, è però da credere che per li tempi addietro (quando ancora gli uomini non eran dati a quell’ozio, nel quale questo nostro secolo è marcito, e che maggior fede tra loro si portavano che non facciamo ora noi), l’adulterio fusse in quella meraviglia ch’esser sogliono i mostri e l’altre cose rare e inusitate. Per la qual cosa Licurgo, ottimo fondatore delle leggi de’ lacedemoni, domandato per qual conto non avea imposto pena agli adúlteri, rispose che non poteva imaginarsí che in una cosí ben fondata repubblica gli adultèri avesser luogo. Essendo dunque allora gli adultèri in quella raritá che oggi sogliono essere le donne caste, e non avendo gli uomini quella temenza, che oggi hanno, delle corna, ma contentandosi ciascuno della moglie propria, s’attendeva tanto alla procreazione de’ figliuoli, che i popoli moltiplicavano quasi in infinito. Laonde si legge di molte cittá, piú popolate che oggi non sono le grossissime province. Ecco: Agrigento, patria d’Empedocle, richiudeva nel cerchio delle sue mura ottocentomila cittadini, dove oggi non credo che tutta l’isola di Sicilia trapassi di molto questo numero. Avendo anticamente guerra insieme i sibariti e i crotoniati, di Crotone uscirono a combattere cento migliaia di persone, e de’ sibariti trecento; dove oggidí sarebbe impossibile a trarne cinquantamilia di tutto il paese della Magna Grecia. Nè ciò d’altronde procede se non che gran numero di belli spiriti, vedendo esser cresciuta tanto l’infedeltá degli uomini, e l’avarizia, insieme con la lussuria, delle donne, si risolveno a viver senza moglie, per non entrar contra lor voglia nel possesso del contado di Cornavaglia; e cosí a poco a poco, la generazione viene scemando e mancando. Per la qual cosa non posso se non sommamente lodar quegli antichi poeti ed ammirar la divinitá del loro ingegno, perciochè, facendo le corna al dio Pan (che in nostro idioma vuol dir «tutto», e tra loro era simbolo di tutto il mondo), volsero figurare l’infelicitá del nostro secolo, il quale è quasi tutto quanto pieno di corna. E di qui poi si dice: «il mondo peggiora», «il mondo è imbastardito». Peggiora per certo e s’imbastardisce di giorno in giorno, per esser tutto quasi ripieno di bastardi, la natura dei quali (perché, generandosi, passarono per le corna de’ patrigni, e furono ingiustamente conceputi) è d’essere insolenti ed ingiusti e di resistere a le leggi; non altrimente che sogliano resistere al fuoco quei legumi che, seminandosi, toccarono le corna de’ boi, i quali rinascono tanti duri, che quanto piú bollono piú s’indurano. La qual cosa mentre che un galantuomo considera, è forza che si sgomenti di tôr moglie. Percioché, togliendola non ad altro fine che per l’amore c’ha verso di se stesso e per un natural desiderio di perpetuarsi, non potendo ciò fare nell’individio, cerca farlo per via di successione. Ma. veggendo a rincontro questa successione tanto dubbia e parendogli sempre d’affaticarsi per acquistar ai figliuoli, non suoi, ma della moglie, ristrigne al fine i suoi desidèri e s’astiene in tutto dal matrimonio. Ché in vero, se si togliesse moglie solamente per sodisfare agli appetiti di Venere, non credo che nessuno vi si riducesse giamai; conciosiaché l’atto è in sé tanto brutto che, fatto ch’egli è, subito ne segue la vergogna, la penitenzia ed il langore. E, dove l’altre cose guadagnano la perfezzion loro dal fine, questa in contrario s’acquista tanta imperfezzione, che, tosto che s’è compita, altri odia se stesso, come imperfetto, e la donna, come causa della imperfezzion sua. E, se ben molte volte la donna si desidera, naturalmente, per altro che per far figliuoli, a ciò fu trovato (perdonatemi s’io uso i propri vocaboli) il rimedio del prostibolo; il quale si può pensare che ai tempi migliori, quando si viveva con piú sicurtá, s’avesse per cosa deliziosissima. E ben si può benedir Solone che l’instituì; ché almeno, quando altri si scapriccia in quel luogo, non ne segue a nessuno l’ingiuria delle corna. Ma, perché Pandora, che fu femina anch’ella, tra tanti altri mali che sparse nel mondo, si preservò all’ultimo il mal franzese (forse perché, essendo maggior degli altri, non potè in un tratto uscir con gli altri), da questo molti si risolveno di starsi piú tosto nelle proprie case, a guisa di lumache, e di comparir al mondo con le corna che mostrarsi in piazza senza barba. Benché a’ meschini non sempre riesce cosí. Perciochè spessissime volte è avvenuto che le proprie mogli attaccano il mal franzese ai poveri mariti, e fanno loro cadere i denti, non che i peli:
Ώς ούκ αίνότερον καί κύντερον ἄλλο γυνεκός
come dice Omero. Or, per ritornar al nostro discorso, e’ si può ben dire che le corna siano tanto abbominevoli, che gli stessi animali bruti hanno a schifo d’averle. Ecco l'eliocorno, il cervo, l’elefanto nascondeno le corna, non giá per invidia che hanno a l’uomo, come altri s’ha creduto; ma piú tosto per odio che hanno a quelle, acciochè, celandole, non resti memoria d’esse. Anzi l’elefanto, il quale, sí come di corpo, cosí, dopo l’uomo, avanza d’ingegno ogn’altro animale, non per altro teme tanto il montone, che per vederlo con le corna, cosí schifa cosa e terribile. Carissimi compagni, io mi conforto a non prender moglie; perciochè, per communicarvi un segreto grande, del quale vi potranno ragguagliar questi anatomisti, la natura delle donne si mantiene per due corna. Or pensate come la va! Badiamo al fatto nostro, e chi si la becca, suo danno! — E cosí detto, il Selvago si tacque, il quale quanto desse da ridere a tutti, non è da domandarne. Niuno quasi vi fu, a cui per soverchio riso non venissero le lagrime in sugli occhi. Perciochè quel segreto delle corna fu detto da lui pian piano, e con tanta grazia, che fu dolcissima cosa ad udirlo. Ma, poichè ’l ridere ebbe fine e fu a ciascun di noi rassettata la fronte, disse il Raineri: — E’ mi pare che ’l Selvago abbi fatto come sogliono certe donne, le quali, mentre son giovani, attendano a sollazzarsi e darsi buon tempo con gli amici, ma, poichè s’invecchiano e si veggano disprezzate dagli uomini, diventano pinzochere e, riprendendo gli altrui difetti, vogliono acconciar il mondo. Così egli, che tutta la sua giovanezza ha speso in far l’amore, ora che va invecchiando e che tuttavia si vede perder con le donne, è divenuto predicatore ed attende a biasimar i vizi. — A questo il Selvago, alzata la fronte: — Io non so — disse — da qual filosofo abbiate voi imparato a dividere cosí bene l’etá degli uomini, che un, che non abbi piú di trentaquattro anni, vi paia esser vecchio. Volentieri vorrei saperlo da voi, per impararlo anch’io. — Disse allora il Cesario: — Io non so di che anni voi vi siate, ma parete ben al viso ed a’ canuti, che voi mostrate, d’averne... presso che non dissi quarantacinque. — Allora il Selvago, quasi fusse punto oltra il giubbone: — Se i vostri libri — rispose — v’hanno insegnato ad esser cosí buono, oratore come sète fisionomo, io non dubito punto che voi ci arete perduto il tempo. Perciochè io vi mostrarò uomo, il quale è tutto canuto, e non arriva pure a’ venticinque. — Rispose allora Trifone:
— S’io mi ricordo bene, o Selvago, son giá dieci anni che voi diceste d’averne trentaquattro, allora che ’l Molza vi battezzò per «giovane perfetto», e mi pare che dimoriate pur troppo in questo termine. Perchè, se non volete confessare d’esser vecchio, sostenete almeno d’esser riputato uomo di mezzo tempo. — Il Selvago in questo s’era apparecchiato a contradire, ma, avendo paura della legge (della quale poco dianzi fu vicino a pagar la pena), con un crollar di testa e con un riso amaro, a la fine pur si tacque. Per che il re impose al Marmitta che ragionasse. Ed egli in questo modo incominciò:
— Io godo molto tra me stesso, splendidissimo re e virtuosa compagnia, che mi sia stata data occasione, per la quale io possa scoprir un mio pensiero e communicarlo oggi con voi, conceputo giá è gran tempo nell’animo mio, senza mai avere avuto occasione o modo di poterlo scoprire. Ringrazio dunque il re e Trifone: de’ quali l’uno con l’envitarmi, l’altro col porre in campo sí fatto ragionamento, mi dánno ora occasione, e massime tra tanti galantuomini, come voi sète, di palesarlo. E, se ben sará a fatto contra l’universal opinione degli altri uomini, tanto piú egli vi dee essere, quanto conoscerete da qui innanzi in che errore ed in quai tenebre il mondo si truova involto, e voi per aventura insieme con gli altri. Perciochè io non intendo quel che voi avete insino ad ora fatto e quel che fa continuamente ogni uomo, di biasimar le corna. Anzi, sí come un tempo furono in pregio, cosí anco intendo ora con vive ragioni ed essempi dimostrarvi che non sono da esser biasimate o dannate. Per la qual cosa fare, bisogna prima darvi a conoscere la vera origine d’esse; la quale non per lontane conietture nè per favole mendicando, ma d’una antichissima istoria traendola, voglio narrarvi. Avengachè, secondo che si può argomentare da quel ch’io ne trovo scritto, l’origine delle corna, sí come anco di tanti altri bei costumi e riti, vien dagli indi, i quali e da Omero e dagli altri sono stati per amici degli iddii e sapientissimi giudicati. Avean dunque le donne dell’India per costume (benchè per castissime celebrate) che, quando un amante offeriva over presentava a la donna amata un elefanto, ella potesse communicar seco l’uso del suo corpo e farlo godere della sua bellezza. La qual cosa non solamente era senza pregiudicio della fama ed onestá della donna, ma le era a grandissima lode, insin dal marito istesso, attribuita: quasi la bellezza sua fusse in tanta stima appresso il mondo, che meritasse cosí gran preggio. Quindi si può giudicare che ’l marito coi figliuoli e gli altri successori si preservassero un gran tempo le corna, come la miglior parte dell’elefanto, per poter quelle poscia mostrar al mondo, come una insegna o trofeo della bellezza della lor donna. Che, sí come tra i greci e tra’ romani fu giá in usanza di mostrar le imagini ed altri segni de’ loro antecessori, e tra noi ora di mostrar dipinte o scolpite le nostre armi in segno di nobiltá, cosí tra loro fusse costume di mostrare le giá acquistate corna. Quindi s’incominciò a dire: «egli è nobile, egli è potente, egli è degno d’onore». Conciosiachè le corna negli antichi tempi erano di tanto preggio, che moltissimi dii si dipignevano cornuti; ed oltre a ciò, la materia istessa, nella quale s’intagliavano le loro statue, era di corno. Perciochè quante statue de’ dii leggiamo noi che furono intagliate d’avorio, il quale altro non è che corno d’elefanto! Il che non per altro facevano, se non per mostrar al mondo la degnitá e potenzia d’essi dii. Ma, lasciando quelli da parte, le ghirlande nel tempo del verno, quando non son fiori, non si facevano elle di corno? Oltre a ciò, quando a Cippo romano nacquero le corna, non furono elle augurio e presagio di dover regnare? Il montone nato con un corno non fu a Pericle portento d’imperio e di vittoria contra il suo nemico? Eran dunque le corna segno di potenza e d’onore, la qual cosa si può giudicare, essendo anco insin ad ora tra noi un cotal modo di dire pervenuto; chè, quando uno ha patito qualche ingiuria o in parole o in fatti, nè se n’ha potuto prevalere, gli si dice: «Egli è rimasto scornato», cioè senza difensione e senza onore. Per la qual cosa non posso se non sommamente meravigliarmi, veggendo il mondo tutto inietto di questa falsa opinione ed usanza: che, quando la moglie è impudica, fa che il marito è tenuto vituperato e chiamato «cornuto», usando cosí malamente questo onorato nome di «corna», intanto che vilissimo s’estima quel marito che, col sangue o della moglie o dell’adultero, non si leva quella vergogna dal viso. Il che non posso imaginarmi esser per altro adivenuto, se non dalle continue rivoluzioni del mondo e mutazion de tempi e degli imperi, co’ quali si sono eziandio mutati i costumi e gli idiomi. Perciochè nei miglior tempi, ancor che quasi in tutti i luoghi del mondo gli adultèri fusser proibiti, e gli adúlteri tenuti vili ed effiminati, non però la viltá e l’infamia della donna era attribuita all’uomo, o, per lo contrario, quella dell’uomo a la donna. E, lasciando da parte tante consuetudini e costumi di popoli diversissime, per le quali potreste conoscere ch’essi non volsero questa briga che ora noi chiamamo «corna», e venendo a certi particolari essempi, de’ quali la memoria è piú fresca, sostenete, di grazia, ch’io possa, di moltissime ch’io potrei, alquante istorie addurvi. Ecco: Solone, che diede cosí buone e sante leggi agli ateniesi, volse che a qualunque donna maritata ad alcuno impotente e mal atto a l’uso del matrimonio, fusse lecito di tirarsi nel letto i parenti del marito piú stretti, i quali, in cambio di lui, con essolei si giacessero. Ed in Roma, regina del mondo, non fu egli costume antichissimo, instituto da Numa Pompilio, che, quando un uomo avesse avuti figliuoli a bastanza dalla sua donna, gli fusse anco lecito prestarla ad un altro, che avesse bisogno e desiderio di quelli? La qual cosa si legge non aver abborrito di fare il severissimo Catone con Marzia, sua moglie. Platone, chiamato «divino», e molti altri degni filosofi, non volevano eglino che le donne fussero ugualmente a tutti communi? Il che poi d’alcuni popoli fu posto in uso; anzi, secondo mi pare d’aver inteso, in certe cittá di Boemia infino al di d’oggi si costuma. Ma, passando piú oltre al particolare, e’ si legge di Pisistrato, tiranno d’Atene che non solamente non si vendicava di chi avesse di piacere amoroso ricerco le sue donne, ma gli invitava con doni a dover sodisfare a le voglie loro. Avvenne una volta fra l’altre che, sapendo egli che la madre s’era invaghita d’un certo giovane, il quale per paura di lui non le facea quella copia di sè che ella voluto arebbe, Pisistrato, invitatolo una sera a cena, dopo mangiare il domandò come gli parea essere stato trattato da lui; ed egli rispose che magnificamente e come a re s’apparteneva. Soggiunse allora Pisistrato: — Tu parteciparai di queste carezze ogni giorno, se ti disporrai di contentare la mia madre. — Un’altra volta, essendogli da Trasibulo baciata in pubblico la figliuola, ed essendo dalla moglie a farne vendetta fortemente instigato: — Se noi — disse egli — trattaremo a questo modo quelli che ci amano, che farem noi a coloro che ci voglion male? — E pochi di dopo gliela diede per moglie. Perdonò ancora a certi giovani, che per ebbrezza s’erano in parole ed in fatti portati disonestamente con la moglie. Agi re similmente, avendo sentito che Alcibiade usava con la moglie, non corse subito alla vendetta, come facciamo noi (la quale, essendo egli in quel grado di re, forse gli sarebbe stata agevole), nè gli parve che, per saperlo il mondo, egli perciò dovesse partecipare dell’infamia della sua donna, ma la pubblicò infin al tempio d’Appolline delfico con questo epigramma:
᾽Υγρὰς, καὶ τρυφερὰς βασυλεὺς Ἄγις μ´ ἀνέθικεν.
Ma, per lasciare gli stranieri essempi da parte, Augusto, imperator del mondo, non tolse egli per moglie Livia, pregna di sei mesi, con la quale visse tanti anni in tanto amore e concordia? Non ebbe egli due Giulie, la figliuola e la nipote, che furono pubblico essempio di disonestá? Nè però fece egli quegli uomini morire, coi quali elle usavano impudicamente. Anzi si legge che, dando una volta ad un giovane certe guanciate, per essere accusato d’essere stato trovato con la figliuola in adulterio, e quegli risentendosi ch’egli stesso rompeva la legge che contro gli adúlteri pubblicata avea, sì fu grande il dolore che ne sentì, che non solamente si rimase di dargli, ma per quel giorno non vòlse cenare altrimenti. Oltre a ciò, Fausto, figliuolo di Silla, sentendo che la sorella due innamorati avea, de’ quali l’uno era chiamato Fulvio, figliuolo d’un lavapanni, l’altro Pompeio Macula, non si voltò a vendicarsi della sorella, ma, facendosi piú tosto beffe di lei, diceva di meravigliarsí come avesse in sè macula, avendo per amico un lavapanni. Che se vorremmo far conto alcuno dell’autoritá de’ poeti antichi, noi trovaremo Menelao, appresso Omero, contentarsi, riavendo Elena, di lasciar l’impresa di Troia, e non tenersi però cornuto; sí come non si tenne poscia, quando la riebbe, e rimenòsela. Vulcano non si risentì altrimenti di Marte e di Venere, sua moglie, che col farli vedere ignudi agli altri idii, e col far publica l’ingiuria, che era celata. Da questi essempi dunque si può facilmente conoscere che l’ingiuria delle corna a que’ tempi non era nè in parole nè in fatti. Per la qual cosa non posso se non sommamente dannare e biasimare l’etá nostra, e infelice riputarla; perciochè, sí come dell’altre etá è stato detto che altra fu d’oro, altra d’argento e altra di ferro, cosí la nostra, per la cattiva opinione che ha di se stessa, si può per similitudine chiamar «di corno», credendo che le corna siano cosí mala cosa e che mettan quasi le radici pertutto. Ma chi vorrá dirittamente giudicare questa usanza o, per dir meglio, abusione, si vedrá chiaramente ciò solo avvenire a le genti povere e di vil animo; chè tra signori e grand’uomini non se ne tiene quel conto, nè se ne fa quel romore che ne soglion fare gli artegiani ed i plebei. Perciochè, se bene i gran signori dell’etá nostra patiscono anch’essi la lor parte di gelosia ed hanno a dispetto l’impudicizia delle mogli, non si vede però che l’ammazzino o faccino quelle pazzie, che l’altre genti basse sono usate di fare. Ed io, per me, non saprei essempio addurvi nei dì nostri che re nè imperatori o altri principi del mondo s’abbin bruttate le mani nel sangue delle loro mogli, quantunque elle sien femine come l’altre. Sono dunque le corna solamente de’ poveri uomini che le vogliono; poveri, dico, non solo di beni di fortuna, ma d’animo e di consiglio. Perciochè, per la straordinaria paura che n’hanno, si strette le tengono, ingelosiscono e tanta guardia prendono delle lor mogli, che elle poi, veggendosi a torto fare ingiuria dai mariti, s’avvisano a consolazione di se medesime di trovar modo, se alcuno ne posson trovare, di far sí che sia loro fatto a ragione. E si può pensare che i poeti, i quali molte volte, assaliti dal divin furore, predicevano la veritá, abbino vaticinato le corna ai poveri dell’etá nostra. Laonde Ovidio, parlando di Bacco, disse:
Tunc veniunt visus, tunc pauper cornua sumit.
Ed Orazio:
Tunc addis cornua pauperi.
E che altro pensate voi che significhi la favola d’Atteone, se non l’infelicitá di questi meschini? Avengadio che, volendo che le lor donne vincano Diana di castitá, sì scioccamente n’ingelosiscono e con tanta cura e diligenzia le riguardano, che, per voler saper troppo de’ loro segreti, s’accorgono alfine che elle sono come l’altre, e che han voglia di quel che l’altre. Per la qual cosa, divenuti del tutto vili e sciocchi, a guisa di cervi si consumano dentro il cor loro di dolore e di rabbia, non altrimenti che se fussero da’ propri cani sbranati. Possi dunque conchiudere vana cosa esser l’opinione delle corna nè degna d’abitare in animi gentili, poichè sono piú tosto romore di genti plebeie che cose essenziali. Voi dunque, bellissimi spiriti, spogliatevi di questa falsa opinione, se alcun ve n’è che l’abbia, e vestitevi della contraria, senza paura alcuna piú aver delle corna; massimamente ch’elle sono della natura della peste, che a chi piú ne teme piú s’attaccano. —
Quando il Marmitta ebbe finito il suo discorso, parve che ci lasciasse tutti freddi e confusi. Perciochè, volendone svellere una opinione sì antica e sì radicata nell’animo per piantarvene un’altra nuova, contraria a la prima, sarebbe stato di piú lungo ragionamento mistiero. Perchè, benchè le sue ragioni paressero a tutti vere e palpabili e per questo nessun s’ardisse di contradirgli, non perciò tra noi si vedeva una libera risoluzione: di che facea segno un queto silenzio, nel qual taciti dimoravano tutti.
Allora il re: — Io non so — disse — come voi del ragionamento del Marmitta e degli altri siate rimasti sodisfatti. Di me vi posso io ben dire che mi han posto, come si dice, il cervello a partito, e, per tante e sì diverse opinioni che in questa materia si son dette, restarne piú tosto confuso che risoluto. Pur, se volete ch’io vi dica, in modo d’epilogo, quel che dei nostri ragionamenti ho potuto cavar di buono, il dirò brievemente. — Allora tutti incominciavano a pregamelo, ed egli in questo modo prese a dire:
— Come voi sapete, l’equivocazione, tanto nemica agli investigatori della veritá, sempre è stata cagione di gravissimi errori. Dico questo, perciochè, per quel che me ne paia, insin ad ora in cotesti vostri belli ed ingegnosi discorsi sempre s’è equivocato nel nome delle «corna». Perciochè, avendo le corna in sè varie cagioni e perciò producendo diversi effetti, ne segue di necessitá che abbino avuto diversa origine e che sieno tra se stesse per natura differenti. La qual cosa si può comprendere, per aver tutti detto si bene, benchè differentemente, dell’origine e degli effetti di esse. Ho pensato dunque che, sí come sono diverse spezie di corna, cosí parimente sieno diverse spezie di cornuti. E, perchè chi di voi ha attribuito l’origine delle corna al bècco, chi al montone, chi al toro, chi al cervo, chi a l’elefanto, adducendo ciascuno le sue ragioni, le quali, per non allungarmi troppo, non replico; dalle cose dette conoscerete la differenza de’ cornuti. Perciochè chiunque per ingordigia o per ebbrezza dá il largo a la moglie di far i suoi piaceri, può esser chiamato «bècco»; chi per altrui potenza o forza, senza ch’egli o della moglie o dell’adultero possa vendicarsi, si può chiamar «montone»; e chi, per abbandonar la moglie e andar vagabondo, non compie al natural uso del matrimonio, ma dá materia di cercar di fuori quel che non si truova in casa, si potrá dir «toro»; sí come chi per viltá d’animo e per soverchia gelosia, porgendo gli occhi pertutto, accende nella mente della sua donna quei desidèri, che forse da se stessa avuti non averebbe, a guisa d’Atteone, si potrá chiamar «cervo». Ma chi, compiacendo della sua moglie a gran maestri e valentuomini, dá principio a la casa sua di riputazione e grandezza, non senza ragione potrá chiamarsi «elefanto». A questi ultimi dunque, perchè sono in minor numero degli altri, pare che per un certo rispetto che ha loro il mondo, come favoriti de’ signori e de’ principi, non si dá il nome di «cornuto», e forse anco per non essersi ancora esso risoluto se questo animale ha corna o denti. Dove degli altri tutto il giorno si sente dire: «egli è un bècco», «egli è un bue», «egli è un cervo», «egli è un montone». Per che si può conchiudere che, da diverse similitudini e nature d’animali di corno, sieno anche diverse spezie di cornuti. —
E, cosí detto, il re si tacque. Per la qual cosa quest’ultima risoluzione ci parve sì bella e nuova e sì destramente tratta e raccolta dai nostri ragionamenti, che giá, essendo approbata da ognuno, pareva che sopra la materia delle corna fusse stato detto e conchiuso tutto quello che dire e conchiuder vi si poteva, e che fusse qualunque nuovo discorso vi si facesse anzi soverchio che no. Per che ciascuno giá si taceva. Ma io, che, mentre in Napoli diedi opera agli studi della filosofia, avevo da piú persone sentito lodare il Piccolomini per un degli eccellenti filosofi de’ nostri tempi, e dai suoi scritti eccellentissimo il riputavo, avevo un grandissimo desiderio nell’animo d’udirlo sopra questa materia ragionare. Oltre che, sentendomi giá delle cose piacevoli e ridicole, che s’eran dette, non pure stanco, ma sazio, avrei voluto da quelle ormai a le piú gravi e serie pervenire; e dalle istorie e dalle favole, che sopra la materia delle corna addutte s’erano, trapassar al maturo e certo giudicio della filosofia. A la qual cosa fare giudicavo il Piccolomini essere attissimo. Per che, fatto segno al nostro re ch’egli solo restava di ragionare, fui cagione che gli impose che seguisse. Ed egli, quasi da profondo sonno svegliato, in questo modo a dire incominciò:
— Se mai, umanissimo re e gratissima compagnia, ebbe altri mistiero, disputando, d’essere eloquente, ben conosco ora quanto io piú ch’ogni altro bisogno n’abbia. Avengachè, dovendo io con esso voi, che sapientissimi sète, ragionare, e forse anco in quel che detto avete contradirvi, e dall’animo una antica opinione, per iscriverne un’altra, diradicarvi, maggior forze si richiederebbono che le mie non sono. Massimamente intendendo io esaminare e trattare questa materia delle corna non per via di favole o di stirati essempi (come infin ad ora mi par che sia stato fatto), ma piú tosto, con vive ragioni tratte dal profondo centro della sacra filosofia, farvi conoscere che non è possente la disonestá della donna a far vergogna a l’uomo o a tôrgli punto di quella gloria, che, per aver egli virtuosamente operato, gli si convenga o s’abbia acquistato. Anzi, se la donna è vissa impudicamente (e perciò si viene in opinion di corna), a lei, piú tosto che a l’uomo, cotal opinione s’appartiene, e piú tosto ella che l’uomo è da esser detta «cornuta». A la qual cosa fare, dirollo ingenuamente, sento le forze in tanto avanzate dalla volontá, quanto il desiderio concorre con la cosa del pari. Ma, poichè qui s’ha da scoprir la veritá, la qual, candida e bella per se stessa, non ha punto bisogno, per comparir orrevole nel conspetto degli uomini, di lisciatura alcuna d’eloquenza, e tanto meno ora, ch’ella ha da mostrarsi a voi, che, suoi domestici e famigliari essendo, non durarete fatica a riconoscerla; dirò (seguitando il precetto di Pittagora, che a le muse e non a le sirene volea che si sacrificasse) con quella simplicitá, che conviene a la narrazione delle cose vere. E volesse Iddio che, sí come poco appresso ella a noi sia palese, cosí parimente a tutto il mondo si palesasse! chè non si sentirebbono ogni giorno tanti omicidii, tante brighe e tanti malefizi, di quanti, chi volesse ben por mente a l’importanza della cosa e con occhio ben sano riguardarla, ne conoscerebbe chiaramente esser cagione questa sciocca ed invecchiata opinion delle corna. Ma, poichè, sí come chi lungo tempo in una oscura grotta fusse stato, se di repente comparisse al sole, sentendosi dal suo lume offeso, subito serrarebbe gli occhi per non vedere, cosí il mondo, stato cotanti secoli nelle tenebre di questa cieca opinione sepellito, se il lume della veritá gli si scoprisse, offeso chiuderebbe gli occhi dell’intelletto per restar, senza vederla, nella prima ignoranza, lasciando gli altri in disparte; a voi, che gentilissimi spiriti sète e dal volgo in tutto lontani, rivolgerò il mio stile. Volendo dunque disputare che la vergogna della donna non può l’onor dell’uomo oscurare, poco del nome delle corna curandoci, ma, venendo a la cosa istessa, fie necessario dir prima che cosa è onore e vergogna, e dove, come in suo proprio soggetto, l’un e l’altro si stia. Ritrovo dunque, (se la memoria non m’inganna), che, volendo il divino Platone che cosa sia onore dimostrarci, dice che non è altro che seguir le cose migliori, e delle peggiori convertir nel meglio che si può quelle che migliori posson farsi. Quel che si dice dell’onore potrá anco farci conoscere che cosa sia vergogna, essendo la natura di due contrari cosí fatta, che, come se ne conosce l’uno, cosí se ne conosce l’altro. Or, per meglio intendere questa dichiarazione o definizion che chiamar la vogliamo, e’ si vede che Platone fa la volontá nostra causa agente dell’onore; la forma ed il fine, l’onore istesso; la materia poi, o soggetto che vogliam dire, sono le cose che o seguire o fuggire si debbono. Ma, perchè sono due sorti di cose (avendo però sempre rispetto a l’uomo, del cui voler si ragiona), cioè interiori ed esteriori, l’interiori veramente non sono altro che accidenti dell’anima e delle potenzie sue: i quali, se son buoni, si chiaman «virtú»; se son rei, son detti «vizi». E, sí come tutte le virtú si ristringono in quattro principali, cioè prudenzia, giustizia, temperanza e fortezza; cosí parimenti tutti i vizi dell’animo si ristringono in quattro altri, i quali sono ingiustizia, ignoranza, intemperanza e viltá d’animo. L’esteriori, se ben sono altrettante, si divideno però in questo modo: che altre sono beni di fortuna, altre di corpo. I beni della fortuna son quelli che non sono in noi, ma che per via di sorte o l’acquistiamo o le perdiamo, senza tramutazion veruna dell’essere dell’uomo, come è a dir regni, stati, danari ed altre possessioni. I beni del corpo sono tre: il primo è la sanitá, il secondo la bellezza, il terzo la gagliardia; i quali beni, senza gran mutazione o alterazione del corpo nostro, non possono o venire o partirsi da noi. Or, essendo, come abbiam detto, due sorti di cose, cioè interiori ed esteriori, si vede manifestamente che l’esteriori, o che sian del corpo o della fortuna, elle non sono in podestá nostra d’averle o d’acquistarle, poichè non dipendono dalla nostra elezzione, ma dalla natura e dalla fortuna; le quali, come due tiranni del mondo, dispensano le loro ricchezze o senza ragione, o (quel che è piú tosto da credere) con ragione non conosciuta da noi. Sarebbe bene egli in podestá nostra il desiderio e l’odio d’esse: in quanto ciascuno naturalmente desidera d’esser sano, bello, gagliardo e ricco; ed odia all’incontro la bruttezza, la debolezza, la povertá e l’infermitá; in maniera che, s’egli potesse da se stesso accettare o rifiutare bellezza, ricchezza over povertá e deformitá, per certo egli farebbe elezzione d’esser piu tosto bello e ricco che povero ed infermo. Ma dell’interiori dell’animo, cioè delle virtú o de’ vizi, non avvien cosí. Conciosiacosachè, per seguir elle l’intelletto, come lor capitano, e per esser atti overo abiti della volontá, anzi per dipendere dalla nostra elezzione, la quale è in tutto libera, nè dipende d’altri che da se stessa, a noi sia il voler operar gli atti virtuosi o seguir i vizi. È ben vero che l’esteriori, se ben non si possono eleggere, poichè dipendeno dalla natura e dalla fortuna e non dal voler nostro, si possono però da noi, qualunque elleno si siano, dirizar a buon fine, e sottoporle in modo a l’interiori che, volendo noi virtuosamente operare, quelle non ci ostino o ci impediscano. Come sarebbe a dire: l’esser mio bello o difforme non dia noia a la temperanza; l’esser sano o infermo, debole o gagliardo, non m’impedisca la prudenzia o la fortezza dell’animo; sí come l’esser povero o ricco, non m’osti a l’esser giusto. Chè, altrimenti facendo, ne seguirebbe un grande inconveniente, il quale è questo: che, sí come l’esteriori, che sono umane, andarebbeno innanzi a l’interiori, divine; cosí il corpo, ch’è fatto per uso dell’uomo, signoreggiarebbe a l’anima; e questo nostro stato diventarebbe tirannide o democrazia, e tutti i begli ordini e statuti anderebbono a rovescio. Or, per ritornar a la definizion di Platone, e’ si vede che l’onore non è altro che seguir le virtú interiori dell’anima e, secondo quelle, virtuosamente operare; e dirizar l’esteriori a quel fine, che siano piú tosto istrumento e mezzo che impedimento di virtú. Altrettanto si può dire della vergogna, ché ella non è altro che abbandonare in tutto le virtú dell’animo e seguir i contrari vizi; e non solamente sottoporre l’animo al governo del corpo, ma quei beni, che al corpo s’appartenevano, convertir in mal uso. Per la qual cosa, se l’onore e la vergogna dipendono dalla nostra volontá, per il suo seguire o fuggire le interiori virtú dell’animo e per bene o male usare gli beni esteriori del corpo, si può conchiudere, senza contraddizione veruna, che l’impudicizia della donna, sí come è in tutto vergogna d’essa donna, cosí non può offuscare o macchiare l’onor dell’uomo. Che l’impudicizia oscuri una donna e sia di sua grandissima vergogna cagione, si vede egli manifestamente, essendo la pudicizia e l’onestá la prima e principal virtú di questo sesso ed il vero ornamento dell’animo feminile. Anzi, per non aver la donna quelle occasioni, che ha l’uomo, d’essercitarsi nell’altre tre virtú (benché, esercitandosi nell’una, non si possino tralasciar l’altre), ma essendo continua, principalmente negli atti della temperanza, della quale nobilissima parte è la pudicizia, sí come estremo è l’onore e’l pregio che s’acquista, essendo casta, cosí anco estremo è il biasimo e la vergogna che viene, essendo impudica. Avendo dunque la donna smarrita questa divina e bella virtú interiore dell’animo detta «castitá», per seguir il vizio suo contrario, cioè la sporca impudicizia, sí come avendo drizzata a mal uso quella beltá del corpo, la qual doveva (come dicea Socrate) invitarla a mantener bella l’anima, ragionevolmente può essere biasimata dal mondo, e per disonorata ed infame tenuta. Ma con qual ragione, che buona sia, si può biasimare quel marito, ch’essendo virtuoso, s’imbatte in una disonesta moglie? Che colpa ha il padre o il fratello della disonestá della figliuola o della sorella? In che cosa ha errato o erra il figliuolo, se la madre è stata o impudica e libidinosa? Certamente, dipendendo ordinariamente la disonestá di questa donna non dalla volontá del padre o del fratello, del marito o del figliuolo, ma dalla libera sua elezzione, non di costoro, che non v’han colpa, ma di lei sola è la vergogna. E, per confermar questa ragione con l’essempio dei grandi e famosi uomini, l’azzioni de’ quali non poco monta nelle nostre riguardare ed a loro similitudine comporci e governarci, voi avete pur testè udito quel che è stato detto d’Agi, re di Sparta, il quale ebbe una moglie disonestissima, e pur non fu bastante nè ella nè Alcibiade ad oscurargli quel nome, che insin al nostro tempo è chiaro e glorioso pervenuto. Non avete voi letto d’Alessandro, figliuol di Filippo? che, essendogli rapportato che la figliuola con un bello e grazioso giovane si dava buon tempo, per piú non curarsene: — Lasciam — disse — ch’anch’ella in alcun modo abbia parte nel regno. — E pur non perdè per ciò il nome di «magno», che egli di sè lasciò al mondo, per sempre restarvi. Che direm noi di Stilpone, filosofo da Megara? Bastò forse la disonestá della figliuola a tôrgli quella gloria o quella tranquillitá di mente, che con lo studio della filosofia egli acquistato s’avea? Certo no. Anzi, essendogli detto che la figliuola gli facea vergogna: — Ed io — rispose prontamente — gli fo onore. — Quasi volesse dire che nessuno dall’altrui biasimo biasimo s’acquista, ma che dalla propria vita e costumi si deveno estimare il vituperio e la gloria. Ma pogniamo che grande infortunio sia a l’uomo la disonestá della donna (se ben Stilpone niega anche questo a Metrocle che sia), pogniam però che sia infortunio, poiché chiunque ha moglie impudica viene ad esser privo quasi d’una mezza parte di felicitá; non perciò ne segue ch’egli sia disonore. Chè, s’un buon marinaro, che abbi patito naufragio, non si sente disonorato al lito del mare per aver rotta la nave, nè un buon mercatante per aver la sua merce annegata; e se un buon agricoltore, perché per insidie del vicino gli sieno state arse le biade, non si sente però arsa e spenta la gloria che prima avea; anzi se son tenuti degni di compassione piú che di biasimo: qual ragione v’è che uno, che patisca per colpa della sua donna, debba dal mondo ricevere piú tosto scorno che pietá? È ben vero che, essendo la moglie cosa che viene parte dalla sorte, che la dona, e parte dalla volontá del marito, che la elegge, il marito si può riputar disonorato, in quanto forse ha errato nella elezzione. Percioché, pogniam caso ch’un uomo sappia l’impudicizia d’una donna, e nondimeno la si prenda per moglie: allora si può dire che colui abbi fatto cattiva elezzione, e che per ciò partecipi di vergogna. Sì come anco sará un padre, un fratello, un figliuolo, che, conoscendo, oltre la fragilitá del sesso, la cattiva natura della madre, della sorella e della figliuola, e non chiudendo loro, per quanto egli può, la via del mal operare, pare che, per la negligenzia ch’egli usa in non isforzarsi di convertir nel meglio che si può quella cattiva natura, che, non so in che modo, erri con la propria volontá, e che perciò n’acquisti biasimo. Il qual biasimo, per non dipendere in tutto daH’uomo, che vi concorre per trascuraggine e quasi non volendo, non dee però avere tanta forza appo il volgo, che, dove quel tale non si vendichi con la morte della donna e dell’adúltero, s’abbi a tenere vituperato afatto e, come altri dice «cornuto». Ma il volgo fu sempre sciocco ed ignorante maestro. Quanto sarebbe meglio imparar dai piú savi, e, rifiutando le false opinioni del volgo, attendere sempre le migliori! Ecco i legislatori, i quali tanto sapienti furono dal mondo stimati, che ciascuno giudicava le loro leggi essere dettate dagli iddii celesti, quasi i sapienti fussero interpreti d’essi iddii: non trovarete mai che per l’impudicizia della donna abbino biasimato il marito, il padre o il fratello, ma solamente lei e l’adúltero, il che manifestamente appare, per aver essi solo agli adúlteri imposto la pena. Ma, se, il volgo seguendo, arem certa credenza (senza far differenza piú d’uno che d’un altro, che n’abbia colpa o no) che l’uomo sia disonorato per l’impudicizia della donna, e che per questo sia tenuto con l’altrui morte a riacquistarsi il perduto onore, come può egli essere che noi siamo si ciechi, che non veggiamo quanto piú di vergogna n’apporti il contradir a le leggi e bruttarsi le mani ne l’uman sangue, che l’aver moglie o parente disonesta? Avvengadio che nel romper delle leggi spontaneamente concorriamo, e cosí da noi stessi eleggiamo d’essere ingiusti; dove la disonestá ed intemperanza di quella s’oppone ed attraversa a la nostra volontá. Dite, di grazia: non è egli piú gran vergogna l’omicidio? Il quale è di tanta importanza, che Romolo, fondatore di questa cittá, non impose nuova pena a chi uccidesse il padre e la madre, parendogli che ogni omicidio fusse insieme parricidio? Non è egli piú gran vergogna l’uccidere un uomo che l’aver moglie disonesta? Certo sí. Anzi chi per tal cagione incorre spontaneamente in questo fallo, colui, per fuggire un incerto biasimo, il quale in effetto non è suo, si compera a rincontro con gran rischio, cosí della robba e della vita come anche dell’anima, una certa ed indubitata vergogna. Percioché non si può fare al mondo peggior cosa che ammazzare un uomo. Chè noi non siamo come gli alberi, che, tagliati, novellamente germogliano; nè imitiamo il sole, che la sera manca e la mattina piú chiaro e bello rinasce. Anzi ben disse un poeta:
Che, se quindi il Sol parte, fa ritorno:
a noi, poi ch’una volta il dí ci manca,
mai piú non si rinfranca;
notte sen vola agli occhi nostri intorno.
Vedete, di grazia, che cosa è l’omicidio, che, se talora in sogno (quando per lo piú la razionale parte dell’uomo dorme e la ferina veglia) par altrui d’ammazzar alcuno, chi vorrá confessar il vero, dirá d’aver sentito il maggior affanno ed il maggior cordoglio del mondo. Percioché, in qualunque modo ei s’ammazzi, cosí come è miserabile chi uccide un uomo a torto, cosí non è da desiderare d’esser simile a chi l’uccide con ragione; conciosiacosaché ’l coltello non istá bene se non nelle mani della giustizia, e per tal conto è da lasciare a quelle la vendetta dell’adulterio, come degli altri escessi. E, se pur altri non volesse a l’umane leggi ricorrere e per qualche accidente non potesse, sappia di certo che la vendetta concorse in un medesimo tempo con la ingiuria. Avengadio che, oltre a la pena dell’infamia, che gliene seguí, la quale è via piú grieve che altri non estima, oltre al rimordimento della conscienza, che, a guisa dell’avoltoio di Tizio e dell’aquila di Prometeo, continuamente gli rode il core, v’è anco un’altra vendetta, da se stessa acerbissima. Percioché, essendo in peggior partito chi fa l’ingiuria che chi la riceve (in quanto chi la fa viene ad offendere il suo animo con farlo ingiusto, e per conseguente a disonorar se stesso; dove chi la riceve, senza dipartirsi punto dal bello esercizio delle virtú, patisce solo quello accidente, il quale non consiste in altro che in opinione), ne segue che ogn’altra pena ed ogn’altro supplicio, che gli si desse, di grandissima lunga sarebbe inferiore a questo che egli da se stesso riceve. Conciosiacosaché, sí come l’animo è piú eccellente del corpo, cosí la pena interna, che affligge l’animo, avanza ogni altra pena esteriore, che il corpo patisca. Oltre che, spessissime volte occorre che, pensando altri di vendicarsi d’una ingiuria che falsamente si crede aver ricevuto, non solo inganna se stesso, ma si fa ingiustamente micidiale, senza che l’uomo o la donna uccisa v’abbi colpa veruna. E, per raccontarvi sopra tal proposito un miserando caso, occorso nei nostri tempi, il quale, per essermi stato raccònto da un uomo degno di fede, non m’è stato gran fatto a crederlo. Un valoroso capitano della nazione spagnuola, il cui nome ciascuno di voi ha per avventura udito ricordare, ch’io ora per buon rispetto mel taccio, avendo moglie e figliuoli, gli nacque una persuasione diabolica nell’animo: che la moglie fusse stata disonesta e che i figliuoli nati da lei non fusser suoi. Da questa cattiva opinione instigato, fingendo un dì alla moglie di voler seco andar a diporto per mare, e postola coi figliuoli in una barca, come fu allontanato dal lido, cosí quella coi figliuoli annegò. È pur grande la giustizia di Dio: percioché, essendosi egli infermato a morte, gli apparve l’ombra della moglie, la quale, domandando egli chi fusse, rispose con parole forti, sì ch’altri l’udì, che ella era la sua moglie, la quale il citava dinanzi al tribunal di Dio, per render conto dell’ingiuria che fe’ a lei ed ai propri figliuoli, per avergli a torto annegati, e che indi a due ore comparir dovesse. La qual cosa cosí fu, percioché indi a due ore si morì. Da questo essempio dunque potrete conoscere che non sempre altri ha buona credenza ne le cose sue e che, sí come ne l’altre, cosí anco in questa delle donne si può agevolmente ingannare. Or, perché mi par d’avere udito cosí oggi tra noi, come anche moltissime volte da uomini d’ogni sorte, biasmar il matrimonio, anzi molti, per parer d’esser savi piú che gli altri, cosí s’astengono da quello, come se fusse la piú rea e malvagia cosa del mondo, non posso se non dire infelicissimo essere il nostro secolo e degno non so se piú di compassione che di riso. Avengadio che, lasciandosi a dietro le male usanze, schifando come un duro scoglio la semplicitá de’ costumi e riputando sciocchi quei pochi che a ben vivere attender vogliono, di sí perverse e tra se stesse contrarie opinioni s’ingombrano l’intelletto, che si potrebbe credere essere in loro quell’antico caos. Ecco: che altro è biasimare e fuggir il matrimonio che disprezzar Iddio ed odiar il consorzio del mondo e la continua succession dell’uomo? Conciosiacosaché il matrimonio sia stato instituito da Iddio, ed in tanto posto innanzi dalla Veritá, che vòlse che fusse da noi per sacramento tenuto. È stato approbato da legislatori e per cosa necessaria riputato. Anzi, per tacer della legge d’iddio data a Mosè e di molti altri popoli, non si sa egli tra lacedemoni essere stata imposta pena a colui che rifiutava di prender moglie? come inutile a la repubblica e come infame tenuto, gli eran proibiti i pubblici spettacoli? In Roma non fu egli uno statuto, che tutti i flamini diali avesser moglie, e che quegli, a cui ella morisse, s’intendesse subito privato del sacerdozio? persuadendosí che la casa di chi aveva moglie fusse perfetta, sí come a rincontro quella di chi ne rimaneva vedovo, non solo fusse imperfetta, ma scema. Cercate pur l’istorie antiche, ché difficil cosa fie trovar un savio, un filosofo o qualch’altro eccellente uomo, che non abbi avuto moglie. Solamente questi savi d’oggidi, piú sapienti di Dio, piú intendenti de’ legislatori e piú diligenti de’ filosofi, biasimano il matrimonio e, come cosa malvagia, lo rifiutano. Ma vedete, di grazia, in quante tenebre sia involto il senno e l’intelletto loro! Considerate in che errore la lor diligenza gli conduce! Costoro, che, per voler essere piú onorati degli altri, fuggono d’aver moglie, stan sempre infangati nelle sporcizie delle concubine, ed, empiendosi le case di bastarde, le quali quasi sempre son somiglianti a le madri, in luogo di legitima ed onesta prole che potevano avere, mantengono una perpetua successione di meretrici. E cosí avviene a costoro che, avendo a guisa di donne pregne, l’appetito corrotto e lo stomaco guasto fuggono le cose buone, e, ansando, cercano le cattive. Percioché ne segue poi (quel che si vede non molto di rado) che i lor figliuoli o figliuole portan seco un segno demostrativo del perverso desiderio di chi gli produsse. Anzi, per aver in odio la donna (come d’Aristone efesio si legge), si mescolano con l’asina, dalla qual poi nasce una fanciulla, bella certo di tutto il resto, ma con le gambe somiglianti a la madre. Che, se bene il prender moglie non riesce ad ognuno a suo modo, non perciò segue che il matrimonio sia malvagio: ché ciò non sarebbe altro che un voler anche biasimar il fuoco perché fa fumo, l’acqua perché ci bagna, il sole perché ci disecca. Anzi si doverebbe pensare non esser cosa tra mortali tanto buona, che, mal usandola, o non divenga o pur non paia cattiva. A me pare che niuna dolcezza e tranquillitá sia al mondo pare a quella d’un ben fondato matrimonio, nel quale, quasí come ne l’etá dell’oro, non si sente «mio» nè «tuo», ma ogni cosa insin al corpo ed a l’animo è commune. Cerca sempre il marito di gratificarsi la moglie, e la moglie sollecita al governo del marito. Questi si affanna di fuori per acquistare, questa attende di dentro a conservare. Con la quale cambievole concordia nella seconda fortuna l’allegrezza moltiplica, e l’avversa con meno noia si sopporta. Ma tutto è nulla rispetto a la contentezza de’ figliuoli, la quale non si può avere senza questa grata ed amichevole compagnia. Percioché, oltre il dolce pegno che hanno l’uno dell’altro del loro amore e consorzio, vengono eglino di mano a mano a riguardar se stessi dentro quegli e veder ivi, come in politi e chiari specchi, la sembianza de’ corpi e degli animi loro. Oltre a ciò, vengono a crearsi insieme certi quasi pastori della loro vecchiezza, custodi e conservatori dell’acquistata casa e ricompensatori delle loro fatiche. Quale stato dunque può a questo agguagliarsi? qual compagnia trovarsi piú dolce, piú utile e piú fidata? o pur, malamente usandola (come il dí d’oggi si costuma di fare), qual mostro può dimostrarci piú terribile del matrimonio? Laonde si può ben dire non il matrimonio, che per sé è santo e buono, ma il suo abuso esser da condannare. Conciosiacosaché in questo nostro secolo pochissimi ne siano che a’ fraudi ed a barrarie ed a ogn’altra sceleratezza, piú tosto che a’ matrimoni, non somiglino. La qual cosa in gran parte procede sì dalla mala educazione che danno il padre e la madre a lor figliuoli, sì anco dal perverso giudicio e cattivo governo de’ mariti. Percioché quanti sono di quei padri, che, or parlando disonestamente con le mogli, e qualche volta operando, non diano nelle proprie case malo essempio a le figliuole? quanti fratelli con la lasciva lor vita, senza aver riguardo alle sorelle, insegnan loro il modo di dover essere men che oneste? E cosí avvienne che, essendo la natura inchinevole sempre al male, ed imitandosi naturalmente colui a chi si crede e si vede, s’imprimeno pian piano in quella etá tenera certi cattivi costumi, difficili e quasi impossibili a scancellarsi, i quali sono poi di grandissimi disordini e straboccamenti cagione. Oltreché, con che ragione o con che viso può un padre, una madre o un fratello riprendere la figliuola o la sorella di quei difetti, de’ quali egli stesso nelle proprie case gli è stato quasi dimostratore e maestro? Ma, per lasciar di dire de’ padri e de’ fratelli, chi è quel marito, che nel prender moglie abbi debita diligenza usata per sapere di chi ella sia stata figliuola, cioè per aver notizia de’ costumi del padre e della madre, accioché, da quegli la sua educazione argomentando, potesse aver di lei quella cognizione, che in tal caso si ricerca, avendo a vivere ed a morire insieme? Certo pochissimi ne sono. Anzi ognun corre per sapere s’ella è nobile, s’ella è ricca; ma come ella sia allevata, radissimi ne domandano. E veramente questo è un grande abuso, avengadio che, essendo instituito il matrimonio non ad altro fine che per la sucessione della prole, né potendo di quella aver buona speranza se la madre anch’ella non vi concorre con la buona educazione, a niuna altra cosa si doverebbe aver l’animo e ’l pensiero piú che ad aver moglie ben costumata e ben allevata. Ché, se in comprar un bue, un cavallo o alcun altro animale, atto a servire ai communi bisogni della vita, la prima cosa si domanda di qual razza egli è e dove è stato allevato, che si doverebbe egli far della moglie, la quale ha da partorire quei figliuoli al mondo, che hanno a esser l’anima del padre? Ecco colui, che si sente esser ricco: la vuol bella, nè ad altro pensa nè per altro s’affatica che per saper come ella è fatta del viso e della persona; e, per contentar gli occhi, poco curandosi dell’orecchie, s’ará una moglie bella, si tiene felice marito. Anzi, come s’usa in alcuni luoghi d’Italia, non vuol prender moglie, la quale non abbi vagheggiata gran tempo; e cosí prima le insegna ad esser meretrice, che donna e madre di famiglia. Che direm dunque di costui, se non che, togliendolasi per una sua lascivia, bisogna poi che ’l fine ed il mezzo del matrimonio corrisponda col principio? Altri poi, che ha consumato tutto il patrimonio in giuochi, meretrici ed altre disonestá, ricorre al matrimonio; e, per aver la moglie ricca, poco o niente si cura dell’educazione o d’altra buona qualitá. E cosí viene a vendere se stesso ad una brutta e vil feminella e di fecciosi costumi; ed a quella casa, dove libero nacque, si mena una donnicciuola, che gli sia donna e signora sempre. Ma quante fiate avviene che, mettendo egli a sbaraglio cosí la robba della moglie, come ha messa quella del padre, non gli resta poi dove ricorrere, se non a la penitenzia, e da quella a la bestemmia ed a la disperazione. Vien poi quell’altro, il quale, da vilissima stirpe disceso, e con gran iattura dell’anima del padre, veggendosi rimasto ricco, va cercando il modo da far nobile la sua casa. Ma, perché, a guisa del monton di Frisso, tutto il suo pregio consiste nella lana d’oro, conoscendosi non aver in sè virtú veruna, con la quale per se stesso possa farsi chiaro ed illustre, pensa di tôr donna di gran sangue, accioché con la nobiltá di quella possa, se non lui, almeno i suoi figliuoli e nipoti ingentilire. Quinci è che gli avviene quel che d’Issione favoleggiano i poeti, il quale, innamorato della moglie di Giove, avendo, non seco, ma col suo idolo amorosa domestichezza, generò poi non uomini, non dii, ma superbissimi centauri. Conciosiacosaché, non potendo la donna illustrar l’uomo come ben può l’uomo illustrar la donna, ne segue che, non essendo egli congiunto con la vera nobiltá (la quale s’acquista con la propria virtú), ma piú tosto con una finta imagine di quella, che i figliuoli, che poi ne nascono, sono d’una terza natura, diversissima da quella del padre e della madre. Anzi, come avviene nelle cose che tralignano, togliendo dall’uno la ruvidezza de’ costumi, dall’altro la superbia, riescono sí zotichi ed insolenti, che per la prima disprezzano il padre istesso ed odiano la memoria dell’avolo infelice e degli altri antecessori. Benché tosto segue loro degna vendetta, percioché i parenti della madre hanno altrettanto, o piú, a schifo la viltá di quegli, e, rifiutandogli come indegni, non vogliono ad alcun patto riconoscerli per parenti; e cosí sono, ed a l’una ed a l’altra parte ed al mondo istesso, odiosi sempre. Che direm poi di quel vecchio, il quale, per essere stato un di quei savi che detto abbiamo, ha sempre nella sua giovanezza fuggito il prender moglie, ma, veggendosi nella vecchiaia disprezzato da ognuno e patendo gran disaggio intorno al governo della sua vita, si conduce finalmente a prenderla, quasi il matrimonio non fusse stato ad altro fine instituito che per far una salsa, lavar e lavorar una camicia e simili altre feminili faccenducce? Direm noi altro se non che egli è simile a colui, che, correndo al palio e noiandolo la troppa gravezza de’ vestimenti, si fermò in mezzo del corso per ispogliarsi? Perché, trovando un altro vecchio, cosí d’avarizia come d’anni carico, e facendo a gara di farsi conoscere l’un piú che l’altro per rimbambiti, questi, non curandosi di dote, anzi facendola (come molte volte è avvenuto nei di nostri ed avvien tuttavia), prende per moglie la figliuola di quello, ed egli per miseria gliela concede. Da questi dunque sí mal fondati matrimoni non pensate che possino se non duri avvenimenti succedere, i quali abbino a tenerli mal contenti insin a l’ultimo della lor vita. Ecco: costei, che, giovane, bella e fresca, si vede consumar il fior dell’etá sua nel rancolo del marito, non potendo, anzi non volendo, piú oltre la sua tosse e gli sputi sopportare, pensa pigliar altro partito a’ caci suoi. Per che, piú sdegnata che consigliata, ad altro non attende che, tirandosi alcun giovane in camera, a far vendetta de’ suoi vecchi, e tener quel conto dell’onor suo che se ne tenne il padre medesimo. Quell’altro, che con tanto ardore desiderava cosí fatta moglie, parendogli nella bellezza di lei dover trovare l’ultima felicitá, non è anco finito l’anno che (come per lo piú suole in questo lascivo amore avvenire) cosí in un tratto se ne sente satollo, che ogni atto, ogni parola della moglie, per buona e bella che sia, l’offende oltra misura. Per la qual cosa, discordando non sol da lei, ma da se stesso, e parendogli d’aver perduto seco troppo di tempo e troppo a disaggio essere stato, ricerca nuove strade per adempir le sue straordinarie e disordinate voglie. La qual cosa da lui sí palesemente vien fatta (essendo questi uomini deliziosi e delicati per lo piú d’opinione che niun piacere si possa perfettamente gustare, se altri nol sa), che la moglie istessa l’intende. Da che nasce un grande inconveniente. Percioché, veggendosi colei per la sua bellezza vagheggiata da molti, e tanto di presente sprezzata dal marito quanto prima desiderata (il che le è tanto piú grave a sopportare, quanto le passate contentezze furon maggiori), ricorre tosto a lo sdegno, il quale per in tutto ismorzare, l’Amore, suo nemico, la consiglia in modo che furiosamente si precipita a la vendetta. Ed egli, che tardi s’accorge del suo poco senno, incomincia a tenerla sí stretta e con tanta gelosia, che teme che le mosche istesse non le rechino l’ambasciate. La qual gelosia non è giá quella che sogliono gli amanti delle cose amate avere (che sarebbe sopportabile), anzi, essendo in amendue spento ogni amore, non è altro che una diffidenza, da sommo odio causata. Quell’altro poi che, la ricchezza ad ogni altra cosa anteposta, non curò punto d’aver la moglie nobile e bella, si riputa infelice, veggendosi appresso un mostro, e vorrebbe esser cieco e sordo per non vederla ed udirla giamai. Per che, come la peste fuggendola, tutti gli altri luoghi son da lui frequentati piú che le proprie case. Ma colei a rincontro, che s’avea imaginato ne l’animo di dover seco una felice vita menare, veggendosi caduta dalle sue speranze, non fa mai altro che borbottare e bestemmiare. Per la qual cosa il marito, che l’odia come la mala ventura, perduta la pazienzia, ricorre a le minacce, e da quelle al bastone, ed ultimamente a le battiture. Ma che bisogna ir raccontando i disordini che ne segueno, essendo essi infiniti? Bastivi sapere che un mal fondato matrimonio per lo piú convien che ruini. Che se i padri e le madri avessero, e con l’essempio e con l’educazione, bene instituite ed ammaestrate le figliuole, e se gli uomini nel tòr donna avessero miglior modo tenuto, io non dubito punto che non si sentirebbeno ogni giorno sì grandi e sì spessi inconvenienti. E se, pur fatta ogni diligenzia, non si vede che altri abbi moglie a suo modo, non bisogna subito, a guisa d’imperito nochiero, abbandonare il timone e, disperatosi di se stesso, rimettersi in tutto ad arbitrio e volontá di fortuna. Anzi, cosí come un buono artefice ammenda con l’arte i difetti della natura e, ora giungendo ora scemando, supplisce ai disordini di quella, cosí un prudente marito, conoscendo alcun mancamento nella moglie, s’adopera in modo, or in una guisa or in un’altra, che finalmente le imprime nell’animo un’altra natura, diversa in tutto e dissimile a la prima. La qual cosa non potendo egli fare se non col tempo (poiché non si può trapassare dall’uno estremo a l’altro senza alcun mezzo), bisogna, tra questo, che il buono uomo le si mostri paziente e mansueto; avvengadio che l’uomo è un animale cosí fatto, che non si può domare se non con la mansuetudine, oltre che la consuetudine, figliuola del tempo, viene anch’ella a conciliar gli animi, quantunque difformi, e fa parer dolce ogni amaro cibo. E, se pur nè la sua prudenza nè il tempo istesso fusse bastante ad imprimerle nuovi costumi, faccia conto o di sopportare quel che essere non può altrimente, overo di trasformar se stesso ne la natura della moglie. Anzi, essendo questo sesso debole e fiacco e, per conseguente, sospettoso, iracondo e vendicativo, dee l’uomo col suo senno ogni occasione troncarle, per la qual potesse cotale divenire. E, avvengaché il matrimonio sia stato da Dio instituito perché la donna non solo sia compagna e non serva dell’uomo, ma una cosa istessa con lui, deve egli altrettanto astenersi dal fare ingiuria a quella quanto s’astiene dall’ingiuriar se medesimo. E, sí come egli può disporre a suo modo de’ beni della moglie, cosí anco sopporti che possa ella disporre delle cose di lui. Percioché, avendo communi i corpi e gli animi, deono ancora quelle cose communi avere, che sono di minor importanza. E cosí in questo modo, invece d’oltraggiarla, onorandola, ne seguirebbeno quei begli effetti che suol l’amore e la concordia producere. Di che cosa dunque si possono rammaricar costoro delle mogli, piú che di se medesimi, poiché, cosí nella stolta elezzione dal principio fatta come nel maltrattarle nel mezzo, sono stati essi stessi cagione di malvaggio fine? Che giova l’averne tanto sospetto e mantenerle con tanto riguardo, quasi di mariti fussero loro guardiani e paurosi tiranni divenuti? Pensano esser forse miglior custodi delle lor donne con la tanta gelosia, che elleno stesse ne siano col timor dell’infamia e col zelo del proprio onore? A che fine tenerle in tanta tirannia, che non possano disporre d’una minima cosuccia di casa, quasi fussero state comprate con l’istessa lor dote, per esser serve ai servi del marito? Per qual conto s’ha egli a bastonar la moglie, dalla quale, come diceva Catone, si deono tener le mani inviolate, non altrimente che se fusse un santissimo tempio o qualche altra cosa sacra? Anzi gli antichi, sacrificando a Giunone nuziale, toglievan via il fele della vittima e buttavanlo dietro a l’altare, non per altro che per insegnarci il matrimonio dover esser da ogni iracondia lontano. Ma che direm noi poscia di quella ingiuria, che, parendo leggieri per l’abuso del mondo, non è altro che un pestifero e mortal veleno del matrimonio? Questo è il gran torto che si fa a le mogli, quando i mariti, senza aver rispetto a la promessa fede, fanno ad altre donne copia di sè; il quale è di tanta importanza appo loro, che non sentono dispregio maggiore di questo. Avengadio che niuno sopporta d’esser privato del suo onore, nè si contenta di perder le cose sue, per qualsivoglia altra acquistarne. Ma qual cosa dee essere piú propria della donna e piú da esserle mantenuta dal marito, che una santa ed inviolata compagnia? Parmi certamente si possa dire che il marito a gran torto si lamenti della moglie, se egli stesso le ha il modo insegnato di vendicarsi dell’onta ricevuta. Per che non è da dubitare, dei disordini, che nascono nel matrimonio, in gran parte esserne cagione gli uomini istessi, per portarsi scioccamente cosí nel governo delle mogli, come anco nella elezzione di quelle. Chè, se nell’eleggerle si preponesse la virtú ad ogni altra cosa, e nel governarle s’astenessero dal far loro ingiuria, oh mogli beate! oh mariti felici! E, se vogliamo ancor noi in ciò confermarci con l’essempio de’ poeti antichi, e spezialmente d’Omero, chi non sa d’Elena e Paris? il matrimonio de’ quali, per esser l’una avarissima, l’altro delizioso e sottoposto ai piaceri, non essendo in virtú fondato, è cagione della discordia dell’Asia e dell’Europa e dell’estrema ruina di Troia? Se Agamennone s’innamora di Criseide, barbara e serva, ed ha ardimento in presenza di tutti i greci d’agguagliarla a la moglie, vedete quel che gliene segue! Percioché Clitennestra non solamente, insegna da lui, viola le leggi del matrimonio, ma non cessa insin a tanto che non se ne vendica con la morte d’esso. Vedete all’incontro il matrimonio del prudente Ulisse e della casta Penelope, per esser fondato in virtú, che bei frutti produce! Essi non solo s’amano presenti, ma ancora lontani si portan fede, e se ella venti anni, tessendo e stessendo, inganna i proci, ed egli disprezza le promesse di Calipso e di Circe, e prepone l’amor della moglie a la promessa immortalitá. Imparino dunque gli uomini nel matrimonio a tener il gentil modo di questi due savi e castissimi consorti, se non vogliono quegli affanni e biasimi sentire, de’ quali hanno tanta paura. E, fondandosi nella virtú e ne’ buoni costumi, cessino d’ammirar le ricchezze, la beltá e la nobiltá. Percioché, dove queste cose (essendo soggette a la fortuna, a la natura ed al tempo) bisogna che, quando che sia, manchino, la virtú sola, coi buoni costumi, finiscono con la vita dell’uomo. —
E, questo detto, il Piccolomini si tacque, non giá per aver ancor finito di ragionare, ma per riposarsi alquanto e ripigliar fiato, perché potesse alcuna altra bella cosa discorrerci. E giá voleva piú oltre seguire, quando vedemmo intrar in sala intorno a dieci mattacini, i quali in forma di satiri, con la coda e con le corna e con le maschere contrafatte, davano insieme piacere e meraviglia a chi le riguardava. Entrati dunque incominciarono tra loro a ballare in cerchio, e dopo questo a saltare ed urtarsi e percoter l’un l’altro e far altri giochi assai belli. Ma, poiché i mattacini ebber le lor piacevolezze finite, ed andatisene, disse il Selvago: — Io non so qual destro corvo o qual manca cornice, per dirla petrarchevolmente, ci abbi mandato innanzi questa schiera di cornuti animali. Ed invero non potevano a miglior otta farsi vedere tra noi, che in questo diporto d’oggi. Di grazia, finiamola un tratto, ché, mentre pulci allunghiamo in questo ragionare, tuttavia temo di qualche cornuto intoppo. — Soggiunse allora il Raineri, ridendo: — Io dubito, Selvago, che voi sarete di quei savi del mondo, che ricordò testè il Piccolomini, che, non volendo tôr donna in gioventú, la torrete in vecchiezza; e Dio vi aiuti! — Dubitate pur di voi — rispose il Selvago, — ché, quanto a me, vi prometto, per simil conto, d’esser savio sempre. — Disse allora Trifone: — E’ mi pare che il Piccolomini abbia cosí bene spiegato queste sue ragioni e con tanta diligenza insegnatoci la bella arte del prender moglie, che voglio credere da qui innanzi che chiunque di noi per paura di prenderla si rimane, sia veramente cornuto. Per la qual cosa, dopo questi preti, che non la possono avere, facciam, di grazia, in modo che non passi l’anno, che ciascuno abbia la sua. — E cosí, riso e motteggiatosi buona pezza, il ragionamento ebbe fine.
APPENDICE
I
All’illustrissimo e reverendissimo signore
monsignor Innocenzio cardinale di Monte
Giovan Battista Modio
È usanza di capitani d’eserciti, innanzi che venga la occasione del combattere, ordinar le squadre de’ lor soldati ed esercitarli diversamente; e, ora insegnando loro a seguire, ora a ritirarsi con debiti modi, ora ad aspettare il nemico e combattere arditamente, far in modo che, dopo gli adombrati combattimenti, non temano al bisogno i non finti pericoli del guerreggiare. E negli studi delle scienzie è antico costume di buoni maestri di avezzare i lor discepoli al contradire e disputare tra se stessi; accioché, talvolta argomentando e talvolta rispondendo, sien presti in ogni occasione a difendere la veritá delle loro opinioni. Altrettanto farò io, illustrissimo e reverendissimo monsignore (se con le cose grandi s’hanno le minime d’agguagliare). Imperoché, avendo in animo di scoprir un giorno, negli anni piú maturi, qualche mio concetto, non ancora udito, ho pensato d’esercitarmi prima ne le cose di poca importanza, e di purgare, quanto per me si potrá, la ruggine della mia natural lingua, per poter poi trattar le maggiori con piú sicurezza e leggiadria. Non altrimente fece Omero, che, avendo di sua natura l’animo intento a gravissimi pensieri, prima che cantasse le battaglie e gli eroici fatti de’ principi troiani e greci, non ebbe a schifo di scriver le contese de’ topi e delle rane. Non altrimente Virgilio, il quale, avendo la mente pregna di altissimi sentimenti e misteri sopraumani, fece dir a una zanzara quel che poi partorí con tanto grido nel suo miglior libro. Sperando io dunque, con l’essempio e con l’autoritá di sì grandi uomini, di ritrovare iscusa appo coloro che sono di piú purgato giudizio, mi son posto a scrivere un ragionamento, fatto per ischerzo da certi gentiluomini un dì di carnevale in un convito, che si fece in questa cittá, della falsa opinione che ha il mondo delle corna e dell’origin d’esse, perché si conosca chiaro che non può la donna, per impudica che sia, far vergogna a l’uomo, che non acconsenta alle sue disonestá. Pensier basso veramente, non giá per conto di coloro che per burla ne ragionano, anzi per conto mio, che lo scrivo. Ma, benché basso, non però inutile afatto, considerando di quanti errori sia causa questa sciocca opinione, che, non so per qual sua colpa, è passata e cresciuta sì grandemente a l’etá nostra in tanto che, per ridurlo a dovuto fine, vi sarebbe bisogno di maggior forze, che le mie non sono. Ma, comunque io ritratto l’abbia, lo dono e consacro a voi, sì per far il mio debito, essendo ciascuno che vi conosce obligato alla vostra cortesia e bontá, sì anco perché io spero esser da voi aiutato a questa a me difficile impresa (non giá qual Ercole da Iolao, per esservi io senza alcuna proporzione inferiore; ma, al contrario, piú tosto qual debole Iolao da Ercole forte ed invitto); accioché, dove io mancassi con lo stile, possiate supplir voi con l’autoritá e grandezza vostra. State sano e felice.
II
i
Iulius papa III
Motu proprio etcetera. — Cum sicut dilectus filius noster Ioannes Baptista Modius, e Sancta Severina medicus, nobis exponi fecerit ad communem omnium utilitatem, sua propria impensa, opus quoddam Convivium nuncupatum, in quo agitar «quod mulier impudica viro probo dedecori esse non possit», hactenus non impressum, imprimi facere intendat; dubitetque ne huiusmodi opus postmodum ab aliis absque eius licentia quod in suum praeiudicium tenderet; nos propterea eius indemnitati consulere volentes, motu simili, et ex certa scientia, eidem Ioanni Baptistae ne supradictum opus, hactenus non impressum, et per ipsum imprimendum, per x annos post impressionem dicti operis a quocunque, sine ipsius licentia, imprimi ac vendi seu venale teneri possit, concedimus et elargimur ac indulgemus. Inhibentes omnibus et singulis Cristi fidelibus ubique, tam in Italia quam extra Italiani existentibus, praesertim bibliopolis et librorum impressoribus, sub poena ducentorum ducatorum auri et amissionis librorum, quoties contraventum fuerit, ipso facto et absque aliqua declaratione incurrenda, ne intra decennium ab impressione dicti operis, respective computandum, dictum Convivium, sine eiusdem Ioannis Baptistae expressa licentia, imprimere, vendere, seu venale habere aut proponere audeant. Mandantes universis venerabilibus fratribus nostris, archiepiscopis, episcopis, eorumque vicariis in spiritualibus generalibus, et in Statu clericali Sanctae romanae Ecclesiae etiam legatis, vicelegatis Sedis apostolicae et ipsius status gubernatoribus, ut, quoties pro ipsius Ioannis Baptistae parte fuerint requisiti, vel eorum aliquis fuerit requisitus, eidem Ioanni Baptistae efficacis defensionis praesidio assistentes praemissa ad omnem ipsius requisitionem contra inobedientes et rebelles, per censuras ecclesiasticas etiam saepius aggravandos, et per alia iuris remedia. auctoritate apostolica exequantur. Invocato ad hoc etiam, si opus fuerit, auxilio brachii secularis, non obstantibus constitutionibus et ordinationibus apostolicis, caeterisque contrariis quibuscumque. Insuper, quia difficile admodum esset praesentem Motum proprium ad quaelibet loca deferri, volumus et apostolica auctoritate decernimus ipsius transumptis, vel exemplis, plenam et eandem prorsus fidem ubique, tam in iudicio quam extra, haberi, quae praesenti originali haberetur, et quod praesentis Motus proprii sola signatura sufficiat, et ubique fidem faciat in iudicio et extra: regola contraria edita non obstante. Placet et ita mandamus.
Iulius.
2
Cosmhs Medices Florentiae dux II
Cum neminem prorsus industriae fructu vigiliarumque suarum commodis fraudandum censeamus, ipsa rei aequitate moti, huiusce privilegii tenore cuiucunque impressori, negotiatori, bibliopolae caeterisque ducalem hanc nostram ditionem frequentantibus interdicimus ne quis eorum, proximo ab hoc ipso die decennio, Ioannis Baptistae Modii medici opus, cui titulus est Convivii imprimere, aut imprimi facere, seu venale exponere, citra ipsius Ioannis Baptistae consensum et voluntatem, audeat: decem in quodlibet volumen aureorum, necnon voluminum ipsorum ammissionis poena (si quis adversus ea fecerit) ipso facto infligenda; cuius quidem altera pars operis auctori, altera vero ducalis fisci nostri iuribus acquiratur. Contrariis cuiusvis, etiam his inserendi tenoris, non obstantibus quibuscumque. Quorum in fidem diploma hoc fieri iussimus, nostra marni ac soliti plumbei sigilli appensione munitum.
Datum Florentiae in ducali palatio nostro, die VII martii mdliv.
Cosmus Medices Florentiae dux.