Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/Riflessioni d'ignoto autore sopra i capitoli XVII, XVIII, XIX, XX, XI, XXII, XXIII, XXIV e XXV

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Riflessioni d'ignoto autore sopra i capitoli XVII, XVIII, XIX, XX, XI, XXII, XXIII, XXIV e XXV
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RIFLESSIONI

D’IGNOTO AUTORE

SOPRA I CAPITOLI

XVII, XVIII, XIX, XX, XXI, XXII, XXIII, XXIV E XXV

DELLA STORIA DELLA DECADENZA

E ROVINA DELL’IMPERO ROMANO

DI

EDOARDO GIBBON

DIVISE IN TRE LETTERE

DIRETTE

AI SIGG. FOOTHEAD E KIRK

INGLESI CATTOLICI

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LETTERA I.


So per lunga esperienza, che l’amore del vero, e lo zelo per la Santa Religione Cattolica, che vi siete obbligati con giuramento solenne di propagare nella Inghilterra, dove nasceste, prevalgon di molto in cuore vostro allo spirito di patriottismo: e però non temo di confessarvi, che quanto più mi vado inoltrando nella lettura della Storia Romana del vostro Gibbon, tanto meno mi sembra meritevole di quelle lodi, che io sull’altrui relazione in presenza vostra incautamente gli tributai. A me par di vedere nel Sig. Gibbon uno scrittore per verità elegante ed erudito; ma che ora vergognosamente si contraddice, ora dà per indubitati dei fatti di Storia Ecclesiastica; i quali se non sono falsissimi, sono almeno dubbi, e non bene decisi; e per l’opposto nega ed oscura i meglio autenticati e i più certi, e ciò sempre a danno ed avvilimento del partito Cattolico; mostrando sempre un indicibil dispregio dei Santi Padri, depositari fedeli e sostenitori indefessi di quei venerabili dogmi, che egli malamente conosce, e sfigura. Non è già intenzione mia di tener dietro al Sig. Gibbon in tutti i suoi traviamenti: se io lo facessi, vi stancherebbero le mie riflessioni per la moltitudine e la lunghezza, e vi priverei di quel piacere che si gusta nel rilevare da se medesimo gli sbagli degli uomini, che menan rumore nella Repubblica letteraria. Ne farò adunque quante possan bastare a porre in chiaro l’asserzion mia: e per quel [p. 116 modifica]che riguarda la prima parte di essa mi ristringo a S. Atanasio, a Giuliano l’Apostata, ed al carattere generale dei Cristiani dei loro tempi.

Ecco adunque come il Sig. Gibbon parla del primo. „L’immortal nome di Atanasio non potrà mai separarsi dalla Dottrina Cattolica della Trinità. Quindi è, che essendo la causa di lui quella della verità, e della giustizia quella, io dico, della verità religiosa, il regno dell’Imperadore Costanzo restò infamato dalla ingiusta persecuzione del grande Arcivescovo intrepido campion della Fede Nicena, ed ospite venerando di Costantino il figlio, il quale colla decenza del suo contegno si conciliò l’affezione del Clero non men che del popolo: e rei pur furono di solenne ingiustizia quelli Ecclesiastici Giudici, che lo condannarono in Tiro.

Or se io dicessi, che noi possiam diffidare delle proteste di rispetto, che quell’istesso Atanasio faceva all’Imperatore Costanzo; che egli in quel modesto equipaggio, solito ad affettarsi dalla politica e dall’orgoglio, faceva le visite Episcopali; che Arsenio era un’immaginaria sua vittima e suo segreto amico; che egli sì abbondante di difese rispetto ad Arsenio medesimo ed al calice, lasciò la grave accusa di aver fatto battere, ed imprigionare sei Vescovi senza risposta; se io mettessi in forse, che la ragione fosse veramente dalla parte di Atanasio: se finalmente decidessi, che la differenza tra homoousion, ed homoiusion essendo quasi invisibile all’occhio Teologico più delicato, Atanasio mostrossi avido di fama ed attaccato dal contagio del fanatismo; neghereste voi mai, che io fossi oppostissimo di sentimento al Sig. Gibbon in riguardo a quel celebre Primate di Egitto? E come negarlo? Asseri[p. 117 modifica]sce l’Autore, che il Clero deposto sotto Costanzo era Ortodosso, che la dottrina di Atanasio era Cattolica, che i Giudici di lui furono ingiusti; io per lo contrario direi, che buona parte di quella disputa fu più grammaticale che teologica, e che Atanasio fu ben fanatico a sacrificarsi se non per un dittongo, almeno per un vocabolo proibito dal Concilio d’Antiochia. Il Sig. Gibbon afferma, che il contegno di quel Santo era decente, ed attissimo a conciliarsi l’affetto universale: ed io in quel modesto equipaggio ravviserei l’orgoglio, la politica, e l’avidità della fama. Il Sig. Gibbon ripete sovente, che la giustizia e la verità, e per conseguenza la ragione assistevano la causa di Atanasio: io dubiterei se la ragione fosse veramente dalla sua parte: il Sig. Gibbon profonde per Atanasio luminosi titoli di grande, d’immortale, di venerando, io gli darei quelli di finto, di adulatore o di subdolo. Non valuto però molto quell’ultimo, perchè essendo lo stesso, che Venerabile, questo l’Autore lo trova benissimo conciliabile in S. Gregorio Nazianzeno con l’altro di stolto e di calunniatorenota. Nell’esporvi la mia ipotesi non ho fatto altra cosa, che trascrivervi letteralmente le parole del Sig. Gibbon, che voi potete riscontrare nel libro. Vi sarà dunque facile il conchiudere, che il Sig. Gibbon è in opposizione con se medesimo. 1 [p. 118 modifica]

Dovremo noi credere a questo A. nel primo caso o sibben nel secondo? Io per me voglio credergli assolutamente nel primo; perocchè il carattere, che ivi fa di Atanasio è conforme a quello, che fanno di lui il Tillemont ed i Monaci Benedettini: ed egli stesso m’insegna, che la diligenza del Tillemont e degli Editori Benedettini ha raccolto tutti i fatti ed esaminata ogni difficoltà concernente la vita del grande Atanasio: e mi maraviglio che dimenticatosi di una regola così giusta, tratti Gioviano d’adulatore, empio e stravagante per aver detto celestiali le virtù del S. Arcivescovo, ed averlo chiamato figura della Divinità2, e con una nuova opposizione con se medesimo non ammetta la delicatezza del Baronio, del Valesio, e precisamente del Tillemont nel rigettare l’aneddoto del rifugio di Atanasio in casa della bella vedova Alessandrina, indegno certamente della gravità della Storia Ecclesiastica, ingiurioso alla memoria di un Santo sì illustre, e forse inventato dal livor degli Ar- [p. 119 modifica]riani. Ma che volete aspettarvi di coerente da un Autore, il quale ad onta degli originali ed autentici monumenti, onde confessa esser giustificate le apologie e le lettere ai Monaci di Atanasio ha la stravaganza di dichiararsi di prestarvi minor fede: perchè egli troppo vi apparisce, innocente e troppo assurdi gli avversari di lui? Intanto con questo suo modo di pensare e di scrivere ci fa toccar con mano, come non vi ha assurdo delirio, di cui non sia capace un uomo preoccupato dallo spirito di religioso partito, o di una tolleranza sfrenata. Osservatelo più distintamente in Giuliano l’Apostata.

Già v’immaginerete, che egli debba esser l’Eroe del Sig. Gibbon, ed in sostanza è così. Erano inimitabili, dice egli, le virtù di Giuliano, ed il suo trono era la sede della ragione, della virtù, e forse della vanità, vanità, che il medesimo nostro Critico non si risovvenendo del forse chiama eccessiva. Io non istarò a discutere quale alleanza possa darsi tra la vera virtù e la vanità: Teologia sarebbe questa troppo sublime per uno che applaude ai Protestanti della [p. 120 modifica]Francia, della Germania, e dell’Inghilterra per aver sostenuta con l’armi la civile e religiosa lor libertà contro la teoria e la pratica costante dei primi Cristiani, e che giudica lo stesso Giuliano tollerabil Teologo sebben sostenga che Cristo è uomo puro, e che la Trinità non è dottrina nè di Paolo, nè di Gesù, nè di Mosè. Chiederò solo al Sig. Gibbon primieramente, se Giuliano costantemente, o spesso almeno si rammentava di quella fondamental massima di Aristotele, che la vera virtù si trova in ugual distanza fra gli opposti vizi? Ora ei mi risponde, che l’indole di Giuliano era di rammentarsene rare volte. Dunque il trono di lui non era la sede della ragione e della virtù, ed il Sig. Gibbon si contraddice3. Domando a voi in secondo luogo, se l’ingiustizia, l’ingratitudine, la mala fede, la leggerezza di naturale siano ragionevoli e virtuose? Una simile domanda ecciterà forse le vostre risa, e forse il vostro sdegno. Incolpatene il Sig. Gibbon: egli è che mi obbliga a farvela. Imperciocchè se la giustizia medesima parve che piangesse il fato di Ursulo tesorier dell’Impero, ed il suo sangue accusò l’ingratitudine di Giuliano, di cui si erano opportunamente sollevate le angustie dall’intrepida liberalità di quell’onesto Ministro; se l’Imperatore stesso restò profondamente colpito dai propri rimorsi per un attentato, che Ammiano (L. XX.) chiama impurgabile, o conviene ammettere un’ingiustizia ed una ingratitudine ragionevole e virtuosa, o d’uopo è confessare, che il trono di Giuliano non fu la sede della ragione e della virtù. Si obbligò ancora Giuliano con una promessa, che avrebbe dovuto esser [p. 121 modifica]sempre inviolabile, che se gli Egizi, i quali altamente richiedevano i doni fatti o illegittimamente o per imprudenza, fosser comparsi in Calcedonia, avrebbe ascoltato in persona, e decise le lor querele; ma intanto dal trono, che era la sede della ragione e della virtù, partì un ordine assoluto, che vietando di trasportare a Costantinopoli Egizio veruno, esausta la loro pazienza e il denaro, furono costretti a tornare con isdegnosi lamenti al nativo loro paese. Ma vi è di più. L’Imperatore, che occupava quel trono, sede della ragione e della virtù, sostenne l’ingiustizia di escludere i Cristiani da tutti gli uffizi di fedeltà e di profitto, maliziosamente rammentando loro, che non era lecito ad un Cristiano di usar la spada o della giustizia o della guerra, e dissimulando più che potè l’ingiustizia, che esercitavasi in nome di lui dai Ministri, (per quanta tara si debba fare all’espressioni degli Storici Ecclesiastici) esprimeva il suo real sentimento intorno alla loro condotta con dolci riprensioni e con reali premi e per finirla, quell’Imperatore medesimo leggiero di naturale ordinò senza prove, che fosse immediatamente eseguita la vendetta contro i Cristiani, ai quali un leggierissimo rumore imputava l’incendio del Tempio di Dafne. Con tutto ciò affinchè sembri mancar qualche cosa alla grazia e perfezione della intera figura, bisogna guardare con minuta e forse malevola attenzione il ritratto di Giuliano, poichè ei cercò sempre di unire l’autorità con il merito, e la felicità colla virtù.

Siccome questo giudizio intorno a Giuliano è espresso da Gibbon in un paragrafo a parte, il quale ha per titolo (il suo carattere), però mi azzardai di asserire, che questo Imperatore è il suo Eroe. Non [p. 122 modifica]lo è per altro del Mosheim dottissimo Protestante ancor esso. Fate di grazia il confronto di questi giudizi: „Per collocare (dice questo Scrittore, Storia Eccl. Sec. I. part. n. 13.) Giuliano tra i più grandi uomini, conviene essere od acciecato all’eccesso dai propri pregiudizi, o non aver letto giammai con attenzione le opere di lui, o non aver finalmente alcuna giusta idea della vera grandezza. Il carattere di Giuliano presenta pochi di quei tratti, che contraddistinguono un uomo grande... Egli era superstizioso all’eccesso; prova ben chiara di un intelletto limitato e di uno spirito basso e superficiale... Aggiungete a ciò l’ignoranza la più perfetta della vera filosofia, e giudicate se Giuliano quand’anche fosse superiore in alcuna cosa ai figli di Costantino, non è però al di sotto di Costantino medesimo ad onta delle ingiurie con cui l’opprime, e del disprezzo che ne mostra in qualsivoglia occasione„. Voi forse potrete dirmi, letta che avrete la storia del Sig. Gibbon, che ancora egli confessa essere stato Giuliano credulo all’arte divinatoria quant’altri mai, dissimulatore solenne in fatto di Religione, per una strana contraddizione avere sdegnato il giogo salutare del Vangelo, mentre fece una volontaria offerta di sua ragione sugli altari di Giove e di Apollo e preferì gli Ancili alla Croce, essersi per fine avvilito con le visioni e coi sogni e con una superstizione che pose in pericolo la sorte dell’Impero Romano. Che se è così, perchè dunque per una più strana contraddizione asserire che inimitabili furono le virtù di Giuliano, e che bisogna riguardare con minuta, e forse con malevola attenzione il ritratto di lui, affinchè sembri mancar qualche cosa alla grazia e perfezione [p. 123 modifica]dell’intera figura? O fidatevi del Sig. Gibbon, quando si tratta di formare i caratteri! Finisco con fare una osservazione di quello, che ei fece in generale delle Sette Cristiane, cioè di quegli ostili Settari, che prendevano i nomi di Ortodossi e di Eretici; ai quali la nostra tranquilla ragione, a suo dire, imputerà un uguale, o almeno „non molto diversa dose di bene e di male .... poichè sì dall’una che dall’altra parte poteva esser lo sbaglio innocente, la fede sincera, la pratica meritoria o corrotta„. Qui sicuramente si parla degli Atanasiani od Omousiani, e degli Arriani loro avversari. Ma questi servironsi per ripetute confessioni del Sig. Gibbon dell’ambiguità dell’ingegnosa malizia, di una squisita malignità dell’inganno, dei destri maneggi, dell’arte sofistica; questi, che al Concilio di Tiro avevan segretamente determinato di fare apparir delinquente, e di condannare il lor nemico Atanasio, procurarono di mascherare la loro INGIUSTIZIA coll’imitazione della forma giudiciaria. Questi, opponendosi alla causa di Atanasio, opponevansi ancora alla Fede Nicena, di cui egli era il campione, ed alla verità religiosa. Ed in uomini di tal tempra poteva esser lo sbaglio innocente, la fede sincera? E questo non è un contraddirsi, ed un abusarsi della pazienza d’un onorato lettore? [p. 124 modifica]

LETTERA II.

Vi ho fatto osservare nella mia prima lettera, che il Sig. Gibbon si protesta di non poter ammettere la delicatezza del Baronio, del Valesio, e del Tillemont, che quasi rigettano il racconto di Palladio intorno al rifugio di S. Atanasio in casa della Vergine Alessandrina, che egli con ogni scaltrezza vorrebbe pure far credere una lunga corrispondenza amorosa. E che? Sarebbe forse un troppo gran torto fatto a Palladio, il preferire alla sua l’autorità di S. Gregorio Nazianzeno, e di Atanasio medesimo, il quale attesta, che subito dopo l’invasione della Chiesa di Alessandria fatta da Siriano fuggissi nell’Eremo? Che ivi poi si trattenesse per lungo tempo il dimostrano le lettere, che ei di colà scrisse, come ne fa fede la data4, e il conferma la minuta descrizion del saccheggio dato a quei Monasteri dai furibondi soldati, che l’obbligarono a ricovrarsi in un orrido nascondiglio. Ma quando fosse stato sì scrupoloso il Sig. Gibbon da negar tutto a Palladio, perchè invece di far una vana pompa di delicatezza di stile non ha piuttosto avvertito, che non apparteneva alle vergini il lavare i piedi dei Santi, che l’intrepido Campion della fede Nicena non era sì molle da esigere da una vergine un tale uffizio in mancanza di [p. 125 modifica]vedove5, che quella vergine inerendo al racconto dello stesso Palladio doveva essere allora non di venti anni, ma quasi quadragenaria, e che finalmente brevissima e transitoria dovette essere la dimora del S. Arcivescovo presso di lei, essendo fuor di ogni dubbio, che egli visse nel deserto presso a sei anni, e che intruso appena Giorgio di Cappadocia nella sua sede, sotto pretesto di andare in traccia di lui, furono saccheggiate le case, ed aperte perfino le sepolture; e le vergini, altre svelte dalle braccia dei genitori, altre insultate per le pubbliche vie di Alessandria (Athan. ad solit. p. 849. a 53.)? Or come persuadersi, che fosse dalla sfrenata licenza di mal credenti soldati rispettata la casa di colei, che descrivesi come un prodigio di bellezza notissimo? Il Sig. Gibbon però, tacendo tutto questo, chiude la sua narrazione con asserire senz’altra testimonianza, fuor di quella del suo capriccio, che nel tempo della sua persecuzione ed esilio, Atanasio replicò sovente le sue visite alla bella e fedele amica6.

Almeno il Sig. Gibbon contentandosi di calunniare così audacemente nella condotta morale il grande ed immortale Atanasio, lo risparmiasse nella credenza! Ma no: Atanasio, secondo lui, difese più di vent’anni il Sabellianismo di Marcello di Ancira, ed il Petavio dopo un lungo ed accurato esame ha pronunziato con ripugnanza la condanna di Marcello. Io confesso, che il Petavio7 enumera vari Scrittori gravissimi del secolo di Marcello, [p. 126 modifica]dai quali esso fu tenuto per vero eretico Sabelliano. Egli però in tuono molto diverso da quello del Sig. Gibbon parla di lui; poichè trova di malagevole discussione la causa di quel Vescovo: Minus explicatu facilis est Causa Marcelli Ancyrani (§. 1. ivi), e così conchiude il §. V: Quare digna est ea res, de qua amplius cogitent eruditi, ed antiquitatis Ecclesiasticae periti. Questo appunto io vedo eseguito dal Ch. Natale Alessandro8 nella dissertazione de Fide Marcelli Ancyrani, in cui dimostra l’integrità della dottrina di quel Prelato, bersaglio delle calunnie Eusebiane, sì con la confessione di fede da lui presentata al Pontefice Giulio riferita da S. Epifanio (haeres. 72.), come dalla esposizione di fede, che da lui ricevuta, i suoi discepoli presentarono ai Vescovi Ortodossi, ed ai Confessori, in cui si anatematizza, tra le altre distintamente, l’eresia di Sabellio, per tacere le testimonianze di S. Atanasio ed il giudizio del Concilio Sardicese: e fa eziandio svanire le difficoltà dedotte dagli Scrittori enumerati dal Petavio9. A me però basta, che gli argomenti di quel dotto Domenicano e del Montfaucon vaglian soltanto a lasciare il fatto di Marcello nell’antica dubbiezza10 per verificare, che il Sig. Gibbon per iscreditare il partito Cattolico pone per indubitati dei fatti, che non lo sono. Ma quand’ancora si potesse provar chiaramente, che l’Ancirano sostenne il Sabellianismo, resterebbe pure [p. 127 modifica]da mostrare a Gibbon, che S. Atanasio difese il medesimo errore, ed il difese per più di vent’anni, ed io lo sfido a citarmi un sol testimone in suo favore. Ma gli spiriti filosofici dei nostri giorni si arrogano l’altissimo privilegio di asserir senza prove, ed in bocca loro un’espressione enfatica, od un motto pungente ha da passare per una perfetta dimostrazione. Uditelo infatti: Il celebre sogno di Costantino può spiegarsi o colla politica, o coll’entusiasmo dell’Imperatore, e la famosa apparizion della Croce è una favola Cristiana, che potè trarre la sua origine dal sogno, e si mantenne un onorevole posto nelle leggende di superstizione, finattanto che l’ardito e sagace spirito di critica osò di non apprezzare il trionfo, e di attaccar la veracità del primo Imperatore Cristiano.

Chi non crederebbe a sentir parlare in un tuono sì decisivo, che questo avvenimento si dimostrasse falso al dì d’oggi come si è dimostrata falsa la storiella della Papessa Giovanna? Non sono già leggende di superstizione a giudizio del Sig. Gibbon medesimo le opere del Tillemont, del Fleury, del Noris11: eppure ed il celebre sogno, e la famosa apparizion della Croce vi trovan luogo tuttora. Non è una leggenda di superstizione la bella dissertazione del Benedettino Matteo Jaccuzzi12, nè troppo supersti[p. 128 modifica]ziosi, cred’io, si diranno gli Autori della Storia Universale; eppur questi ed altri moltissimi ricevon tutto il racconto di Eusebio (L. I. C. XXVIII. in V. Constantini). Ed a ragione: poichè se la politica e l’entusiasmo avesser potuto indurre il primo Imperatore Cristiano ad uno spergiuro sacrilego, avrebbe almeno egli avuta tanta politica da non allegare per testimone della visione tutto l’esercito, che lo seguiva. Che se Costantino non solo narrò al suo confidente Eusebio il prodigio, ma soggiunse: eo viso et seipsum, et milites omnes qui ipsum sequebantur, et qui spectatores miraculi fuerant, vehementer obstupefactos: ecco migliaia di persone atte a scoprir l’impostura del primo già morto, mentre Eusebio scriveva, ed a rilevare e decidere la credulità del secondo. Il fatto si e però che id quod subsecutum est tempus sermonis hujus veritatem testimonio suo confirmavit. Lo confermarono le vittorie e la conversione di Costantino, lo confermarono il Labaro, e l’iscrizione conservataci da Eusebio, e lo confermarono con ogni apparenza di verità molti di quegli spettatori, che, quando scrisse Eusebio13 tai cose, sopravvivevano. Nè starò ad allegare gli atti del Martire Artemio, rigettati senza però sospirare, come afferma falsamente il Sig. Gibbon, dal Tillemont: il Cronico Alessandrino, Lattanzio, Filostorgio, Socrate, Niceforo, Gelasio Ciziceno, e molti altri Scrittori di ogni nazione ed età, e di religione diversa: le pitture dell’Effemeridi Greco-Moscovite, una antica lucerna, nella quale sotto il monogramma di Cristo si legge: ε̉ν τουτω νικα: son testimoni e monumenti, i quali dal più ardito e sagace spirito di [p. 129 modifica]Critica non si abbatteranno giammai con puri argomenti negativi, quali sono gli addotti dal Sig. Gibbon: ciò non ostante ha da essere un tale avvenimento una favola Cristiana, ed una leggenda di superstizione, solo perchè il Sig. Gibbon decide così: come pure per la ragione medesima noi dobbiam credere, che la fermezza di Liberio fosse superata dai travagli dell’esilio, e che quel Romano Pontefice comprasse il suo ritorno a prezzo di alcune ree condiscendenze. Qui però mi aspetto, che voi prendendo le parti del vostro compatriota vi maravigliate, come io ardisca rimproverarlo intorno ad un fatto, di cui tra i Protestanti del pari che tra i Cattolici comunemente si è convenuto, e parmi di vedervi stendere la mano alla penna per tessere il numeroso Catalogo degli Scrittori che sostengono la caduta di quel Pontefice. Vi prego però a voler sospendere questa inutil fatica, ed a riassumer piuttosto l’esame di questo fatto con quella maturità di riflessione, la quale è sì propria di voi. Quali adunque mai furono queste ree condiscendenze di Liberio? Soscrisse egli forse qualche formula di Fede eretica? Questa opinione, che fu già dei Centuriatori Magdeburgesi, di Giunio, di Chamber ec. è stata omai confutata pienamente dal Gretseronota e da Natale Alessandronota per tacere degli altri, nè ardirei mai di attribuirla al Sig. Gibbon. Forse Liberio, sorpreso dagli artifizi dei Semiarriani, gli ammise alla sua comunione, soscrivendo la personal condanna di S. Atanasio? Questo appunto sembra essere il sentimento del nostro Storico, e questa è 14 15 [p. 130 modifica]stata sempre, io nol niego, la comune opinione. Non la pensano però così il Ch. Corgnio Canonico di Soissons16, non l’eloquentissimo Card. Orsi17, non l’eruditissimo Zaccaria nell’appendice alla Teologia del Petavio in una Dissertazione: De Commentitio Liberii lapsu. Ed eccone le principali ragioni. Teodoreto18 versatissimo nelle storie, che chiama Liberio nell’atto di andare in esilio gloriosum veritatis Athletam, lo chiama poi di ritorno, egregium omni laude dignissimum, admirandum: Son eglino titoli questi, che convenissero a Liberio, il quale avesse comprato il suo ritorno a prezzo di alcune ree condiscendenze? Cassiodoro19 detto da Incmaro Remense20 virum acerrimi ingenii, et insignis eruditionis pensa, e scrive nei termini di Teodoreto. Altrimenti vogliamo noi credere, che il popolo Romano avesse accolto Liberio siccome avvenne per testimonianza di S. Girolamo, e di Marcellino21 in aria di trionfante? Quel popolo, io dico, a cui esso era carissimo appunto per la sua fermezza in resistere all’Imperatore Costanzo22, che era amantissimo di S. Atanasio, e che non odiava l’intruso Felice, se non perchè comunicava con gli Arriani, quantunque formulam fidei a Nicenis Patribus expositae integram quidem, et inviolatam servabat23. Che [p. 131 modifica]se Liberio vinto dai travagli dell’esilio avesse condisceso a Costanzo a danno della causa del grande Atanasio, e della verità religiosa, ed a prezzo sì indegno avesse comprato il suo ritorno, avrebbe pur anche espiata con opportuna penitenza la propria colpa; e la prima e necessaria testimonianza di pentimento sarebbe stata una ritrattazione o dichiarazione del suo operato: ed il Sig. Gibbon istesso par che ne abbia veduta la necessità, come ancora la vide quell’impostore, che ci ha lasciato un frammento di una lettera comunicatoria sotto il nome di quel Pontefice diretta a S. Atanasio24. Ora il pentimento dei Vescovi ingannati a Rimini vien contestato da molti Autori contemporanei25; ma nè Sulpizio Severo, nè Socrate, nè Sozomeno, nè Teodoreto fanno menzione di quel di Liberio. Aggiungete, che questo Papa scrivendo ai Vescovi dell’Italia26 dopo il Concilio Riminese, dice che sebbene vi fossero alcuni di parere non esse parcendum his qui apud Ariminum ignorantes egerunt, ei però pensa diversamente, così esprimendosi: sed mihi, cui convenit omnia MODERATE perpendere, maxime cum et Egyptii omnes et Achivi hanc adunati sententiam receperint (secondo la correzione degli Editori Benedettini) visum est parcendum quidem his, de quibus supra tractavimus. Qui pone in veduta Liberio, che il Sovrano Pontefice debba essere moderato: qui egli sembra determinarsi pel perdono a contemplazio[p. 132 modifica]ne ancora dei Greci e degli Egiziani. Ma come avrebbe potuto mostrar di esitare a concedere perdonanza a dei Vescovi pentiti di ciò che ignorantes egerant in una causa, in cui egli medesimo avesse lasciata vincere la sua fermezza e fosse stato colpevole condiscendente? E come ostentare moderazione senza esporsi alle risa, ed alle invettive degli emuli, e forse di quei medesimi, a cui accordava il perdono? Unite tali riflessioni alle testimonianze degli Storici sopraccitati27, e decidete se la caduta di Liberio non debba aversi per favolosa, giacchè quello, che si ha di essa in S. Atanasio, ed ha fatto illusione a tanti illustri Scrittori, si dimostra esser parto di una mano ignorante o maligna; e supposti eziandio interpolati, ed indegni di S. Ilario si provano quei testi, che per essere stati da molti tenuti per genuini, rendevano indubitata la caduta di Liberio28. Io però mi sarei contentato29, che il Sig. Gibbon avesse citato Ruffino là dove dice30; Liberius Romae Episcopus, [p. 133 modifica]Costantio vivente, regressus est. Sed hoc utrum quod acquieverit voluntati suae ad subscribendum, an ad populi R. gratiam, a quo proficiscens fuerat exoratus, indulgens pro certo compertum non habeo. Non è però da pretendersi questa sincerità e moderazione da chi mette in dubbio i fatti più certi, e che talora anche li nega od oscura. Incominciamo dalla riedificazione del tempio di Gerusalemme tentata in van da Giuliano. „La demolizione dell’antico tempio, dice il Sig. della Bleterie31 era terminata, e senza pensarvi si erano rigorosamente adempiute le parole di Cristo: non relinquetur lapis super lapidem, qui non destruatur32. Si vollero gettar le nuove fondamenta, ma usciron dal luogo medesimo vortici spaventosi di fiamme, che con formidabili slanci divorarono i lavoranti. Lo stesso accadde diverse volte, e l’ostinazione del fuoco rendendo inaccessibile quel luogo, costrinse ad abbandonare per sempre l’impresa„. Son questi gli stessi termini di Ammiano Marcellino, autore contemporaneo33. [p. 134 modifica]Ruffino34, Teodoreto35, Socrate36, Sozomeno37, Filostorgio confermano il fatto attestato altresì da tre Padri coetanei ancor essi Gio. Grisostomo, Ambrogio e Gregorio Nazianzeno, dal primo vent’anni dopo davanti a tutta Antiochia38, dal secondo non molto dopo, come cosa notissima scrivendo all’Imperatore Teodosio; dal terzo in uno39 dei suoi discorsi contro Giuliano composto l’anno medesimo. Non vi è adunque, conchiude il Mosemio40, avvenimento certo sì come è questo. Tuttavolta a sentimento di Gibbon, un Filosofo potrà sempre domandare l’original testimonianza d’intelligenti ed imparziali Spettatori. Sì certamente potrà domandar un filosofo Spinosista, od uno che sembra insultare i Santi Ortodossi sfidandoli a scegliere intorno alla celebre morte d’Arrio o il veleno o un miracolo, quand’ei fu sempre attorniato da una folla di Eusebiani; sì uno che ha la franchezza di domandare col Sig. Jortin chi prova la verità dei miracoli dei Monaci antichi Egiziani, mentre quello, che asserisce Teodoreto41 del Monaco S. Giuliano, può con ragione asserirsi di quasi tutti: magnitudinis autem miracolorum factorum ab illo testes etiam sunt hostes veritatis. Qui non si tratta di un fenomeno passaggiero, come è un fuoco fatuo, od una stella caden[p. 135 modifica]te; i vortici di fuoco si videro diverse volte: metuendi globi flammarum prope fundamenta crebris assultibus erumpentes fecere locum exustis ALIQUOTIES operantibus inaccessum. Nè i testimoni del fatto son puri Cattolici, e però tali da non dispiacer loro un miracolo. Ve n’ha degli Eterodossi, ve n’è un Pagano giudizioso e candido storico per confessione del Sig. Gibbon, e spettatore IMPARZIALE della vita e della morte di Giuliano, per non contarsi Giuliano medesimo42. Considerate poi se la nazione Giudaica, di cui gli uomini si erano dimenticati della loro avarizia, e le donne della loro delicatezza per agevolare la sospirata intrapresa; se il Monarca, che si proponeva di stabilire in quel tempo un ordine di Sacerdoti, l’interessato zelo dei quali scuoprisse le arti, e resistesse all’ambizion dei Cristiani loro rivali, ed invitarvi gli Ebrei, il forte fanatismo dei quali sarebbe sempre stato pronto a secondare ed anche prevenire le ostili misure dal Paganesimo; se il virtuoso, dotto, fortissimo Alipio, che presiedeva coraggiosamente a quell’opera; se Libanio l’adulatore più sfacciato, che abbian conosciuto le Corti, sarebber sempre rimasti in un vergognoso silenzio, quando tante bocche Cristiane gridarono altamente al miracolo? Conchiuderò dunque col lodato Mosemio: „Chiunque esaminerà questo fatto con attenzione e senza parzialità, troverà le più forti ragioni di aderire all’opinion di coloro, che lo attribuiscono all’azione immediata della Divinità. Gli argomenti, che si propongono per provare che fu un fenomeno naturale, o come altri il pretendono, effetto dell’arte e dell’impostura, [p. 136 modifica]non hanno solidità, e si possono confutare con la maggiore facilità„.

Un altro fatto oscuro pel Sig. Gibbon è lo scisma dei Donatisti. Forse, egli dice, la loro causa fu decisa giustamente, e forse non era priva di fondamento la lor querela, che si fosse ingannata la credulità dell’Imperatore: Due cose però egli tiene per ferme, la prima che il vantaggio, che Ceciliano poteva trarre dall’anteriorità della sua Ordinazione veniva tolto di mezzo dall’illegittima od almeno indecente fretta, con cui si era fatta senza aspettare l’arrivo dei Vescovi della Numidia; la seconda è che i due partiti non ostante il loro irreconciliabile odio avevan gli stessi costumi, lo stesso zelo e dottrina, la istessa fede e lo stesso culto. Ma per quanta oscurità possa trovarsi in tal fatto sappiamo da S. Ottato Milevitano43 e da S. Agostino44, cioè da scrittori i meglio informati di tutta la controversia, che l’ambizion di Bostro e Celesio, i quali con Lucilla formarono il rabbiosissimo scisma, impedì l’intervento dei Vescovi della Numidia all’elezione di Ceciliano: che questi fu eletto con i suffragi di tutto il popolo, e quindi ordinato dal Vescovo di Aptonga, città vicina a Cartagine, e conseguentemente a norma del costume vegliante, in quel modo appunto che il Vescovo Romano si consacrava da quello d’Ostia. E ciò è tanto vero, che cent’anni dopo pretendendo i Donatisti, che Ceciliano fosse stato condannato per non aver ricevuta l’ordinazione dal Primate Numida, [p. 137 modifica]S. Agostino fu in grado di sostenere, che questa ommissione neppur gli era stata obiettata. Infatti Ceciliano all’arrivo dei Vescovi della Numidia era già unito con tutta Cartagine, trattine pochi Scismatici, e per mezzo delle usate lettere comunicatorie con la Chiesa di Roma, con tutte quelle dell’Affrica e dell’Universo. Non credeva adunque la Chiesa Cattolica, che l’anteriorità dell’ordinazione di Ceciliano venisse tolta di mezzo dall’assenza dei Numidi, nè poteva crederlo per le ragioni addotte, e nol credevano gli stessi faziosi: perocchè, non trovando delitto da rimproverare a Ceciliano, si ridussero ad asserire contro la verità che il Vescovo Aptungitano Consecrante era uno dei traditori.

Con qual fronte poi osa il Sig. Gibbon di decantare nei due partiti tanta uniformità di costumi, di zelo, di dottrina e di fede? I Donatisti rovesciavano gli altari, o li purgavano come contaminati da quei che si dicevan Cattolici: frangevano i sacri vasi e li fondevano, infierivano contro i vivi e contro i defunti, gettavano il Crisma per le finestre, ed ai cani la Sacratissima Eucaristia, come attestano i Padri sopra lodati, ed espone il medesimo Sig. Gibbon45. Ora dove si legge che fossero somiglianti costumi nel partito Cattolico? Qui si chiedono al Sig. Gibbon testimonianze da stare a confronto con quelle di Ottato e di Agostino. Ma non allegandone, e non potendone allegare veruna: qual concetto formerete del vostro Gibbon? E per riguardo alla dottrina e alla fede non erano i Donatisti quei soli, che ribattezzando nega[p. 138 modifica]vano l’efficacia del battesimo amministrato fuor della vera Chiesa contro i decreti dei Concili di Arles46 e di Nicea47? E non riputavano una meretrice la Chiesa Cattolica, pretendendo che la vera ed immacolata fosse riconcentrata nella fazion di Donato, e pronunziando nel tempo medesimo la condanna della loro eresia con quelle solenni parole liturgiche, con cui dicevano di offerire il Sacrificio per l’unica Chiesa, la quale è sparsa per tutta la terra? Ommetto, che Donato il Cartaginese era Arriano di sentimento, perchè la moltitudine dei Donatisti non vi aderiva48: essendo assai manifesto e per le cose già dette e per essere stati refrattari i Donatisti ad ambedue le legittime Potestà, il Sacerdozio e l’Impero, aver eglino avuto una Fede ed una Dottrina molto diversa da quella dei loro avversari.

Avendo il Sig. Gibbon intrapresa in qualche modo la difesa dei Donatisti, con quanta ragione però già l’avete veduto: credete voi che ei volesse abbandonare la causa dei Novaziani? Pensate: essa è la migliore del Mondo, perciocchè ortodossa era la loro fede e sol dissentivano dalla Chiesa in alcuni articoli di disciplina, i quali forse non erano essenziali per la salute. A dir vero, sulle prime, Novaziano si contentò di dolersi, che in Roma i caduti si ricevessero alla Comunione con soverchia facilità, e questo potè passare per uno zelo di disciplina49, ed anche sedurre alcuni Santi allor prigionieri per la [p. 139 modifica]fede. Ma quindi ed egli, e molto più apertamente i seguaci di lui50 unirono allo scisma l’eresia negando alla Chiesa la potestà di riconciliare i caduti in tempo di persecuzione per qualsivoglia penitenza che essi facessero contro le generali ed illimitate espressioni di Gesù Cristo51, e condannando le seconde nozze per modo da dichiarare adultere quelle vedove che si rimaritavano, come se avesser preteso di saperne più di S. Paolo52, dice S. Agostino, ed avere una dottrina più pura di quella degli Apostoli. Senza che io mi dilunghi a noverare gli altri errori dei Novaziani ed intorno all’assoluzione dei peccati gravi commessi dopo il battesimo stesso, al culto delle reliquie, il Canone VIII. del I. Concilio Niceno basta per se solo a distruggere affatto la loro pretesa Ortodossia. Haec autem prae omnibus eos, (Cioè i Novaziani, i quali avevano assunto l’orgoglioso nome di Catari) convenit profiteri, quod Catholicae et Apostolicae Ecclesiae Dogmata suscipiant et sequantur, idest et bigamis se communicare, et his qui in persecutione prolapsi sunt. Non ho avuto difficoltà ad allegare l’autorità di un Concilio, primieramente perchè il mio disegno scrivendo è di premunir voi, che vi gloriate di esser Cattolici contro gli errori del Sig. Gibbon; ed in secondo luogo perchè egli per quanto ironicamente possa chiamarne infallibili i Decreti, trattandosi dei generali pur si confessa ben soddisfatto dell’articolo [p. 140 modifica]Concile nella Enciclopedia e ne cita ancor esso le decisioni, quando gli torna in acconcio. Sarebbe pure stato considerabile in uno storico giudizioso e sincero, che ne avesse allegata alcuna per confermare, che la superstizione de’ tempi abbia insensibilmente moltiplicati gli ordini, giacchè nella Chiesa Romana oltre il carattere Episcopale se n’è stabilito il numero di sette, tra i quali però i quattro minori son presentemente ridotti a vuoti ed inutili titoli. Per altro pur troppo è giusta riguardo a molte Chiese particolari quest’ultima riflessione: comecchè dai Padri Tridentini53 fosse fatta ai Vescovi una gravissima esortazione, ed un positivo comando, che nelle sacre funzioni si rendessero attivi i Chierici dal Diacono fino all’Ostiario. Ma questo istesso dimostra, che la Chiesa universale rappresentata da quel sacro Consesso, contro l’avviso del Sig. Gibbon è persuasa che tutti questi Ordini, benchè sia forse soverchio il numero degli Ordinati, non sono un parto della superstizione. Erano forse tempi di superstizione i primi tre secoli della Chiesa e l’età degli Apostoli? Or di quei tempi appunto gloriosissimi per Santa Chiesa s’introdussero questi ordini per sentimento del medesimo S. Concilio: Sanctorum Ordinum a Diaconatu ad Ostiariatus functiones ab Apostolorum temporibus in Ecclesia laudabiliter receptae in usum juxta Sacros Canones revocentur. Non ignoravano quei venerabili Padri, che fino dalla metà del terzo secolo Cornelio R. Pontefice scrivendo a Fabio Antiocheno54 numera sette Suddiaconi, 42. Accoliti, e tra Esorcisti, Lettori, ed Ostiari 52: e che S. [p. 141 modifica]Ignazio Patriarca antichissimo di Antiochia scrive in una lettera: saluto Sanctum Presbyterium, saluto Sacros Diaconos, saluto Subdiaconos, Lectores, Exorcistas... Li vedevano rammentati nel quarto secolo dai Concili Laodiceno e Cartaginese come cosa già da gran tempo stabilita, e per conseguenza eran convinti, che non per superstizione tali Ordini sunt adjecti, ma bensì propter utilitatem ministerii, quod propter multitudinem credentium per alteros postea impleri debere necessitas flagitavit55.

Ciò che finora io sono andato divisando, benchè di volo, può, cred’io, bastare a convincervi, che il Sig. Gibbon dà per indubitati alcuni fatti di Storia Ecclesiastica, che se non son falsi, sono almen dubbi ed indecisi, e che per l’opposto i meglio autenticati e più certi o niega od oscura sempre a danno ed avvilimento del partito Cattolico. Leggetelo con attenzione, e troverete altri esempi per confermare la verità della mia asserzione. [p. 142 modifica]


LETTERA III

Chi ha del Vangelo la stranissima idea, che esso apra un infinito prospetto d’invisibili mondi, e spieghi la misteriosa essenza della Divinità, la quale abitando in mezzo ad una luce inaccessibile noi viatori non possiam vedere che di riflesso ed in enimma, non dee recar maraviglia se mal conosca e sfiguri i Dommi della nostra SS. Religione quantunque fondamentali. Tal è il Sig. Gibbon. Primieramente è suo disegno l’inculcare, che quello, che dai Cristiani si crede del Divin Verbo, altro non è se non se un Domma già maravigliosamente annunziato da Platone anzi il fondamental principio della Teologia di quel Filosofo: il quale però non si stabilì sufficientemente, come una verità, o trovossi in stato di restar sempre confuso con le filosofiche visioni dell’Accademia ... finchè il nome, ed i divini attributi del Logos non furono confermati dalla celeste penna dell’ultimo e del più sublime fra gli Evangelisti.

Secondariamente si lusinga nella controversia Arriana di andare seguendo il progresso della ragione e della Fede, dell’errore e della passione in un modo da farsi credere uno storico, il quale tiri rispettosamente il velo del Santuario (p. 90.).

Nella presente lettera farò alcune riflessioni su questi due punti: e riguardo al λογος, asserisco I. che il Domma Cristiano del Divin Verbo non è maravigliosamente annunziato da Platone, e che verisimilmente [p. 143 modifica]neppure il nome λογος è stato preso da lui56. II. Che prima dell’Evangelo di S. Giovanni per divina rivelazione era stato scoperto al Mondo il sorprendente segreto, che il λογος, che era con Dio, fu dal principio, che era Dio ec. Si era incarnato ec.

Esaminando senza prevenzione le opere di Platone egli è ben difficile, per non dire impossibile, il persuadersi, che esso distinguesse l’idea, il λογος dal sommo Dio. Infatti in quel libro, in cui riferisce ciò che egli aveva appreso da Timeo Locrese, Pitagorico illustre, fissando che due son le cagioni di tutte le cose, stabilisce, che di quelle, le quali si fanno secondo la ragione ella è una mente Νὁον μεν των κατὰ λογον γιγνομενων la quale chiamasi Dio, è cagione delle cagioni θέον τε ονομαὶσερ θαι, αρχην τε των αρχων, e che questo Dio è un Essere improdotto ed immutabile ed intelligibile esemplare di quante cose soggiacciono a mutazione καὶ τὸ μὲνεὶμεν αγενατον τε καὶ αχινάτον. . . νοατον τε καὶ παραδειγμα τὸν γεννωμένων, όπὸσα ὲν μετὰβολα εντε e per fine questa mente, questa Idea, questo Dio, questo Esemplare non stassi ozioso ma tien la ragione di maschio, e di padre ω τό μέν ειδος λόγος εχει αρρενος τε καί πὰτρος. Fin qui adunque non sembra aver neppur sospettato Platone, che l’Idea, il Verbo, od il λόγος si distingua da Dio Sovrano. Indi prosegue a dire, che prima della disposizione dei Cieli fatta λόγος altro non vi era che Idea, materia: ma che Ο Φὲος δημιυργος Iddio sommo Artefice: ordinò la seconda, sottoponendola a certe determinate leggi. Se adunque il Cielo od il Mondo secondo quel Filosofo [p. 144 modifica]è formato λὸγος, e questo λὸγος è l’idea ίδεα, e l’idea, la quale esso chiama in appresso, intelligibile essenza... ed esemplare, che in se contiene tutti gli animali intellegibili τὰν νοητὰν ουσιὰν… καί τὸ παρὰδειγμα περὶεχον πὰντα τὰ νοατὰξῶα ὲν ὰυτῶ, e l’Idea, io dico non è punto distinta da Dio; si rende manifesto, che Platone non fa distinzione alcuna tra il Logos, e Dio.

Il Dialogo intitolato il Timeo, in cui più diffusamente si espongono i pensamenti di quel filosofo conferma ciò che abbbiamo veduto finora. E come non vedere che il Logos non è una persona distinta da Dio, ma o il raziocinio di lui λυγισμος θεου57 o la Idea, la Nozione, il pensiero di Dio εξ ουν λόγου καί διάνοιας θεου ec58 è infine Dio stesso che avendo pensata λογισαμένος„ e che per tal pensiero, o ragione 5960 formò l’Universo?

Una maggior somiglianza della dottrina Platonica con la Cristiana apparisce nella lettera, in cui Platone invita Ermia, Erasto, e Corisco ad unirsi in amicizia chiamando in testimone Dio regolatore delle cose tutte esistenti e future, e Padre Signore del Regolatore e Principio. καί τὸν τῶν πὰντον θεὸν ήγέμονα τῶν τε οντῶνκαί τῶν μελλόνκων τε ήγέμονός καί αιτίου πατέρα κυρίον νεπομνύτας. Egli è però certo, che quel Filosofo per figlio di Dio, non intende altro che il Mondo, come ei dichiara nell’Epimonide, dicendo: E quale Dio mai vado io celebrando? Il Cielo senza fallo. 61. Sì il Cielo od il Mondo, come si spiega in più luo[p. 145 modifica]ghi del Timeo, lì è Figlio di Dio, del quale parla il filosofo Ateniese, generato dalla prima ed immutabile cagione62, figlio Unigenito, immagine di Dio, e Dio perfettissimo, perchè creduto da lui di una perfettissima somiglianza non colla sola eterna idea del sommo Fattore, ma col sommo Fattore medesimo. Di qui lo scherzo di Velleio Epicureo nel chiamare rotondo il Dio di Platone63. È poi ciò tanto vero, che Platone per prevenire l’obbiezione, che poteva farsegli contro la pretesa perfettissima somiglianza del Mondo con Dio, essendo questo sempiterno, e quello formato, soggiunge64 che siccome il solo prototipo Dio esiste da tutta l’eternità: così il Mondo è il solo ad essere stato, ad essere attualmente, e che sarà per tutto il tempo. Τό μέν γὰρ δὴ παρα. δειγμα πάντα αιωνα εδίν ον. ὸ δ’ αὺδιὰ τέλους τον απαντα χρονον γεγωνος (ουρα ος) τε και ῶν, καί εσομὲνος εδι μόνος. E poichè tuttavolta dopo la produzione del tempo mancava ancor qualche cosa al Mondo per essere somigliantissimo al suo esemplare Dio; questi al parer di Platone vi fece altrettante specie di animali, quante corrispondessero alle sue idee, essendo egli l’eterno animale. Aggiungete, che niuno degli antichi i più versati nelle opere di quel creduto Dio de’ filosofi vi ha ravvisato giammai che il Logos sia figlio vero di Dio, ed una persona da lui distinta. Non Cicerone, il quale chiamando la vera legge: mentem omnia ratione aut cogentis, aut vetantis Dei: e dicendola nata simul cum mente [p. 146 modifica]divina, conchiude che ella è in sostanza Ratio recta summa Jovis65. Non Plutarco; poichè sebbene attribuisca il sistema di tre principi a Platone, cioè Dio, la materia, e l’Idea che egli chiama essenza incorporea; ciò nonostante non la distingue da Dio, ma la pone esistente nei concetti e nell’immaginazione del medesimo Dio ὲν νομάσι καὶ φαντάσιαις τοῦ θεοῦ 66. Non Celso finalmente, il quale sebben sovente deridesse i Cristiani come plagiari di Platone, e mille volte li rampognasse della loro credenza intorno al Figlio di Dio G. C., confessa chiaramente, accennando senza dubbio Platone, che gli antichi chiamavano il Mondo figlio di Dio, perchè esso è prodotto da Dio: ὰνδρες παλαιοὶ τὸν δὲ τόν κόσμον ως εκ θεοῦ γεγομένον, παιδὰ τὲ αυτοῦ ηιθεον προσείπον67. Ciò presupposto, vi par egli che la fede Cattolica del Divin Verbo sia un Domma già maravigliosamente annunziato da Platone, anzi il fondamental principio della Teologia di quel filosofo? Quando non fosser giustissime le spiegazioni dei luoghi sopraccitati68, e si temesse di fare ingiuria ai Padri della Chiesa69 (scrupolo che se è potuto cadere nel Ch. Zaccaria, è del tutto fuori del carattere dei Sig. Gibbon) a non concedere a quel filosofo alcun’ombra d’idea dell’arcano, di cui ragiono; non basterebbe a smentire la proposizione dello storico, e mostrare che ei non conosce, o sfi[p. 147 modifica]gura i nostri dommi veramente fondamentali, e la discordia che osservasi tra gl’interpreti più celebri della dottrina Platonica, Plotino, Numenio, Proclo, ed altri da quest’ultimo confutati, e quel che ne dice nella sua stupenda opera il P. Petavio, anzi quel che ne dice il Sig. Gibbon istesso? Il Logos di Platone è per il Sig. Gibbon una metafisica astrazione animata dalla sua poetica immaginazione, con cui rappresentosselo sotto il più accessibil carattere di Figlio di un Eterno Padre Creatore e Governatore del Mondo. Ma il Logos, di cui S. Giovanni ha sì chiaramente definita la precedente esistenza, e le divine perfezioni, è per Domma Cattolico vero figlio di Dio, ed è una Persona distinta dall’Eterno suo Genitore. Dove è dunque tanto maravigliosamente annunziato da Platone questo Domma Cattolico? Ella è poi un’altra quistione di pura critica, se S. Giovanni togliesse da Platone questo vocabolo λόγος: il che sebben sia facilissimo l’asserire, tanto è lontano da potersi provar chiaramente, che anzi le congetture son del tutto contrarie. Basti riflettere, che Platone era il favorito dei Farisei, e degli Eretici contemporanei degli Apostoli. Questi adunque per l’uno e per l’altro motivo dovevan guardarsi dal far uso a bella posta sì delle dottrine, che delle espressioni Platoniche. Vero è però, che in progresso di tempo Ammonio, fondatore della scuola Alessandrina, volendo formare un sincretismo universale filosofico e teologico, pretese che Platone avesse insegnata la Trinità: ed i Padri della Chiesa se ne persuasero per la lusinga di far ricevere ai Gentili i nostri misteri coll’autorità dei medesimi loro filosofi. Così le oscurissime idee di Platone furon determinate nel senso Cristiano. Ma quanto la Trinità di Platone [p. 148 modifica]sia lontana dalla nostra Cristiana pochi vi sono che nol sappiano, specialmente dopo la celebre opera del P. Mairan70.

Vediamo adesso, se prima del Vangelo scritto da S. Giovanni nel regno di Nerva71 fosse ancor rivelato, che il Logos che era con Dio fin dal principio, che era Dio, che aveva fatto tutte le cose, e per cui tutte le cose erano state fatte, si era incarnato nella persona di Gesù di Nazaret, era nato da una Vergine e morto sulla croce. Avvertite bene: io non metto in questione se S. Giovanni fosse primo tra gli Scrittori inspirati dalla nuova alleanza ad usare la voce λόγος; pretendo solo contro il Sig. Gibbon, che il soggetto, o la persona, a cui l’applicò S. Giovanni fosse già nota per divina rivelazione, pretendo in somma, che la dottrina, che assegna a Dio un figlio da Lui distinto, eterno, ed a Lui eguale fosse rivelata bastantemente molto prima dell’ultimo Evangelista. Ciò poi dovrà intendersi dimostrato quando si provi, che in quel medesimo Gesù di Nazaret la rivelazione divina aveva fatto conoscere riuniti quegli stessi caratteri ed attributi, che si ravvisano nel Logos di S. Giovanni.

Io non istarò ad insistere con il dotto Lamy72 [p. 149 modifica]sulle testimonianze di Filone73 per mostrar che gli antichi Giudei avevano la stessa nozione del Verbo Divino ιοῦ λόγου θεἰου θεἰου, la qual ce ne danno gli scritti dei Cristiani, nè sulle parafrasi Caldaiche del V. T. le quali in cento luoghi insinuano, che il Membra corrispondente al λόγος dei Giudei Ellenisti è distinto da Dio Padre, è Dio, e mediatore tra Dio e gli uomini. Osserverò bensì col Ch. vostro Pocok nelle sue note ad Portam Mosis, che tutti gli antichi Ebrei interpretarono il secondo Salmo Davidico del Messia (e conseguentemente di G. C.) tenuto sempre per vero figlio di Dio74 finchè non si videro costretti ad interpretarlo altrimenti, ut respondeatur Minacis seu haereticis, cioè a noi Cristiani, secondo l’espressione di R. Jarchi. Mi unisco ancora col soprallodato Lamy a maravigliarmi come chi ha dato un’occhiata al Vangelo possa esser d’avviso, contro la testimonianza di S. Epifanio75, che fosse ignota ai buoni antichi Israeliti la Trinità: mentre l’Angelo Gabriele nell’annunziazion della Vergine abitante in Nazaret76, le ne ragiona come di cosa notissima. E notate che l’ossequio di lei alla fede era quale l’esi[p. 150 modifica]ge S. Paolo da tutti i Cristiani, non cieco, ma ragionevole. La difficoltà da lei opposta sulla propria fecondità ne sia la riprova. Eppur ella non chiese chi fosse lo Spirito S. fecondatore, non chi il figlio dell’Altissimo Salvatore, e Re Sempiterno, mistero per lo meno tanto sublime ed astruso, quanto la fecondità di una Vergine. Ma checchesia della credenza Giudaica prima della venuta di Gesù Cristo, certo è che S. Luca riferì molto prima77 del Vangelo di S. Giovanni questa celeste ambasceria, ed inserì ancora nella sua narrazione il Cantico di Maria, il colloquio di lei con Elisabetta, e l’altro Cantico di Zaccaria. Ora nel primo la Vergine esulta alla vista del suo Salvatore vicino78 σοτηρί μου, Elisabetta si umilia profondamente alla madre del suo Signore79, e Zaccaria chiama il suo neonato Profeta dell’Altissimo e Precursor del Signore80 disceso dall’alto de’ Cieli ad illuminare l’uman genere sedente nelle tenebre e nell’ombra di morte. Lume illustratore delle nazioni e Salvatore fu detto Gesù ancora dal buon Simeone81, quando colle tremule braccia se lo strinse al seno, allorchè Maria presentollo al Tempio: come forse prima ancor di S. Luca, e certamente non molto dopo narrò S. Matteo82. E che diremo poi di quel[p. 151 modifica]la voce celeste, che in occasione del battesimo di G. Cristo pubblicamente lo autenticò per figlio di Dio: Hic est filius meus dilectus in quo mihi bene complacui83? Mi si opporrà forse coi Sociniani, che si parla in quel luogo di una figliuolanza di adozione? Ma quelle parole, specialmente coll’enfasi del testo Greco ὸ υι̉όςμου, ο̉ α̉γάπητος ille est filius meus, ille dilectus84, non indicano la preesistenza della persona, a cui son dirette, ed alludendo chiaramente al Cap. VIII. dei Proverbi, ove parla la Sapienza medesima, o il λὸγος divino non coincidono con l’espression del Salmista85 Dominus dixit ad me: filius meus es tu, ego hodie genui te? Espressioni applicate a G. Cristo negli atti Apostolici86, e da S. Paolo nella sua sublime Epistola agli Ebrei87. Seguiamo pertanto la sicura traccia di quel gran Dottor delle genti. Egli è fuor di dubbio, che l’intenzion dell’Apostolo nel domandare: Cui enim dixit aliquando Angelorum, filius meus es tu, ego hodie genui te? Ella è di confermare, che Cristo è figlio di Dio in un modo distinto e del tutto singolare. Ma gli Angeli ancora son detti nelle Sacre Scritture figli di Dio88, perchè son tali per adozione. Dunque se Cristo è quell’unico figlio, che [p. 152 modifica]dicesi generato da Dio Padre, e generato hodie, avverbio attissimo ed usato nel sacro linguaggio89 ad esprimere l’eternità; egli debbe essere necessariamente figlio non adottivo, ma per natura90. Ed invero nel capo ottavo della lettera ai Romani, dove il medesimo Apostolo parla diffusamente della figliuolanza di adozione di tutti i credenti, quando rammenta Gesù Cristo, che ce l’ha meritata sottoponendosi alla morte di Croce, lo chiama in opposizione Figlio proprio dell’eterno Genitore. ος γε του ιδίου υύου ούκ ὲφείσατο91. Qui etiam proprio Filio (suo) non pepercit: espressione esattamente corrispondente a quella di S. Giovanni, là dove ei dice, che i Giudei cercavano di uccidere Gesù Cristo non tanto come violatore del Sabato, quanto perchè92 diceva Iddio πατέρα ιδίον Padre proprio, agguagliandosi in tal maniera a Dio stesso: dritto però che secondo il medesimo Apostolo giustamente arrogavasi93: Qui cum in forma Dei esset non rapinam arbitratus est se aequalem Deo. E come non dovea credersi proprio, e natural figlio di Dio quello, che vien chiamato dall’istesso San Paolo assolutamente tale le tante volte94, Immutabile e Sempiterno95? Quello di cui dice: portans omnia verbo virtutis suae96, omnia per ipsum et in ipso [p. 153 modifica]creata sunt97, per quem fecit et saecula98? Quello che viene intimato agli Angeli di adorare99, ed è chiamato super omnia Deus benedictus in saecula, e Dio100 sedente sopra un eterno trono101? Ecco adunque manifestato per una divina rivelazione anteriore di non poco a quella fatta per mezzo di San Giovanni in Gesù di Nazaret un figlio di Dio, Luce vera, un figlio proprio e naturale, Dio ancor esso eguale al Padre, che ha fatto tutte le cose, e per cui tutte le cose sono state fatte, incarnatosi, e nato da una Vergine, e morto sulla Croce. Ma questi sono i caratteri del λόγος di S. Giovanni. Ecco adunque atterrata la proposizione del Critico: ed altro non si può per conseguenza conchiudere se non che l’ultimo Evangelista introdusse una nuova parola, ma esprimente l’idea comune, e ischiarò la materia, spiegando la generazione divina di G. Cristo contro l’oscura e scarsa setta degli Ebioniti, confusi a torto da Gibbon102 coi Nazareni, con quella esattezza, con cui gli altri [p. 154 modifica]tre Evangelisti ne avevano narrata la generazione carnale.

Ci resta ora ad esaminare, se il sig. Gibbon nel seguire il progresso della controversia Arriana abbia tirato il velo del Santuario con quel rispetto che vanta. Già voi sareste in grado di giudicarne sì dalla taccia di Sabellianismo, e da quella di fanatismo data ad un Santo, il cui zelo era temperato dalla discrezione (son parole dell’Autore), e che fu tanto alieno dal tumulto, che dovette perfino difendersi dalla calunnia di codardia che gli procurò la sua fuga103, come pure dalla caduta di Liberio asserita con tanta franchezza. Ma poichè trattasi del principal Capo di nostra fede, come osservarono ancora i Vescovi adunati in Ancira104, mi convien darvi una più chiara riprova del rispetto del nostro Storico pel Santuario.

Egli pertanto vuol proibito l’uso dell’Homoousion dal sinodo Antiocheno, e considera quel termine misterioso, che ognuno era libero d’interpretare secondo le proprie opinioni, come un temperamento politico della maggior parte dei Vescovi presenti al Concilio Niceno, alcuni dei quali inclinavano ad una Trinità nominale, ed altri che erano i Santi allor più alla moda, il dotto Gregorio Nazianzeno, e l’intrepido Atanasio favorivano il Triteismo. Quindi a scorno dei Consustanzialisti, che pel loro buon successo avevan meritato il nome di Cattolici reca in trionfo un passo di S. Ilario trascritto da Locke nel modello del suo nuovo repertorio, in cui si duole che tanti sinodi rigettassero, ammettessero, ed interpretassero quel [p. 155 modifica]celebre termine: e sembra che si compiaccia nel rammentar le furiose dispute, che quegli ebbero con gli Homoiousii i quali tanto accostavansi, al parer suo, alle porte della Chiesa, che narrando le crudeltà di Macedonio in difesa (com’ei dice) dell’ομοιουσιον, non può ritenersi dal rammentare che la differenza tra Homoiousion, e Homoousion è quasi invisibile all’occhio teologico più delicato: conchiudendo in fine che tutti erano egualmente agitati dallo spirito intollerante, che avevano tratto dalle pure e semplici massime dell’Evangelio.

È verissimo che il Bull come ancora i nostri teologi si son creduti in dovere di conciliare fra loro i due sinodi Antiocheno e Niceno, osservando che i Santi Atanasio, Basilio ed Illario rammentano la proibizione della voce Ομόουσιον fatta dal primo; ma egli è vero egualmente, che niuno di essi attesta di averla letta nell’Epistola Sinodica: ond’è che essi ne parlarono solo in supposizione, che ella vi fosse, come andavano divulgando i Semi-Ariani, ma falsamente ed a solo oggetto di mostrar che gli Homoousiasti o Consustanzialisti, come per dispregio essi chiamavano gli Ortodossi105, avevan cambiato dottrina. Imperciocchè se otto, o nove anni prima di quel sinodo i Pentapolitani avevano accusato Dionigi Alessandrino lor Vescovo al Romano Pontefice del medesimo nome come impugnatore dell’Eternità, e Consustanzialità del Figlio col divin Padre, e tal dottrina aveva irritato quel Pontefice, ed il Concilio da esso a bella posta adunato in Roma: se l’accusato avevala rigettata siccome erronea prima in una lettera, e quindi più ampiamente in quattro Libri, rendendo palese la calun[p. 156 modifica]nia dei suoi malevoli; mi sembra chiaro, che la credenza della Consustanzialità del Figlio col Padre era fin d’allora comune, come potè sovente S. Atanasio rinfacciare agli Arriani. Or come è mai verisimile, che il sinodo Antiocheno Ortodosso volesse dar sospetto di opporsi in qualche maniera ed alla credenza comune, ed al Romano Pontefice, ed a tutto il suo sinodo condannando la voce Ομοόυσιον? Osservate inoltre che non cominciossi a rammentar tal decreto prima del Concilio Aneirano del 358, vale a dire intorno a novant’anni dopo. Vi par egli che i refrattarj al Concilio Niceno maestri d’inganni, intrighi e sofismi avesser taciuto per sì lungo tempo un Decreto, che gli avrebbe tanto, almeno apparentemente favoriti? L’avrebbe mai od ignorato o taciuto uno dei principali sostegni del partito Ariano, Eusebio di Cesarea, secondo Gibbon, il più dotto dei Prelati Cristiani? Anzi egli medesimo nel Lib. VII della sua storia inserì una gran parte della lettera dei PP. Antiocheni, eppure ivi non ne fa cenno: ed in una, che esso ne scrisse poco dopo al Concilio Niceno106, limpidamente confessa che i Padri antichi si eran serviti di quella voce. Che se realmente si fosse fatta in quel sinodo tal condanna, come mai pochi anni dopo S. Pamfilo nell’Apologia per Origene avrebbe inserito un intero Capitolo per dimostrare la Consustanzialità del Verbo? Ne volete di più? Nella professione di fede opposta dal sinodo Antiocheno medesimo agli errori di Paolo di Samosata più volte si adopera la voce Ομοουσιον. Apparisce al presente, non so negarlo, fatta in Nicea quella formula: ma che sia questo un errore degli [p. 157 modifica]Amanuensi il prova il silenzio di Gelasio Ciziceno presso Fozio, e l’espressa testimonianza del sinodo generale Efesino107.

Per quello poi che riguarda i motivi, che indussero i Padri Niceni ad adottare il vocabolo Ομοουσιον, egli è tanto difficile il persuader un animo non preoccupato da massime eterodosse a giudicar di quel venerando Consesso, come ne giudica il sig. Gibbon, quanto è malagevole l’atterrare i più stimabili fondamenti della certezza storica. „Erano dispostissimi, siccome attestano S. Atanasio108 e Teodoreto109, quei rispettabili Vescovi ad inserire nella professione di fede quelle espressioni soltanto, che si trovavano in termini nelle S. Scritture, cioè che Gesù Cristo è da Dio, è Verbo e Sapienza, e proprio Germe del divin Padre; ma non essendo possibile rinvenirne alcuna che gli Arriani non adattassero al Verbo egualmente, che alle creature, avvedutisi i Padri della lor frode ed empia astuzia furon costretti ad esporre con parole più chiare ciò che intendessero con quella espressione esser da Dio, ed a scrivere per conseguenza, che il Figlio è della sostanza di Dio: affinchè la detta espressione esser da Dio non si credesse accomunata al Figlio ed alle creature, e propria egualmente di loro. In fatti l’esser della divina sostanza non è proprio di crea[p. 158 modifica]tura veruna, ma unicamente del Verbo... Parimenti quando trattossi d’inserir, nel formulario di fede, che il Figlio è la vera potenza ed immagin del Padre, a lui somigliante, immutabile onninamente, eterno, ed indiviso nel Padre, tanto bisbigliarono gli Eusebiani, tanto mostrarono di applaudirsi scambievolmente con le occhiate e con i cenni, che ben si comprese, che l’espressioni esser simile a Dio, essere in Dio, esser la potenza di Dio eran da essi accomunate al Figlio, ed agli uomini, leggendosi nelle Sacre Scritture, che l’uomo è l’immagine e la gloria di Dio.... Quindi è che i Vescovi, considerata la loro ipocrisia e maliziosa indole, furono anch’essi COSTRETTI DALLA NECESSITÀ a raccogliere il senso di quelle espressioni dalle Scritture, ripetendo con più chiari termini ciò che avanti avevano detto scrivere che il Figlio è ομοουσιος Consustanziale al Padre ec.„. Questo medesimo vien ripetuto dal S. Primate nella sua Epistola agli Affricani110, e da S. Gregorio Nazianzeno111. Adunque non per nascondere le lor differenze, non per sospendere le loro dispute, non per unire i loro partiti divisi tra il Sabellianismo ed il Triteismo i Padri Niceni adottarono l’Homoousion; ma per recidere COSTRETTI DALLA NECESSITÀ con un colpo solo la nefanda testa dell’Arrianesimo.

Ma vi era poi realmente quel gran numero di fautori di una Trinità nominale magnificato da Gibbon nell’assemblea, che introdusse quella voce nel simbolo? I Santi, che a detta del nostro rispettosissimo [p. 159 modifica]Critico, erano più alla moda al tempo degli Arriani Atanasio, Gregorio Nazianzeno, a cui si aggiungono il Nisseno e Cirillo l’Alessandrino112 favorirono veramente l’ipotesi delle tre menti, o sostanze, e dei tre esseri coeguali e coerenti mediante la perpetua concordia di loro amministrazione e l’essenzial conformità del loro volere? Dio buono! E come può essere ignoto al sig. Gibbon, che presentatosi S. Illario al Sinodo di Seleucia113 primum quaesitum est ab eo, quae esset Gallorum fides; quia tum Arrianis prava de nobis vulgantibus ab Orientalibus suspecti habebamur TRINONYMAM SOLITARII DEI UNIONEM secundum SABELLIUM credidisse? Ma quando ancora egli ignori un tal fatto, da quelle oscure dispute, e certi notturni combattimenti da lui rammentati coi termini stessi di Socrate, non credo di fargli ingiuria a dedurne, che esso abbia letto il Cap. VIII del I Libro di quello storico. Ivi dunque avrà letto altresì le parole: qui του ομοουσιοου την λεξιν Consubstantialis vocem aversabantur SABELLII DOGMA ab iis qui vocem illam probabant, induci arbitrabantur. Atque idcirco impios illos vocabant, utpote qui Filii Dei existentiam tollerent114. Or perchè non inferirne, che quel Sabellianismo è una mera calunnia, di cui i nemici della divina natura di Gesù Cristo, od almeno di quella voce, che tanto ben l’esprimeva, caricarono i Padri Ortodossi difensori dei termini precisi del Con[p. 160 modifica]cilio Niceno? Come può dunque vantar rispetto pel Santuario chi rinnova le antiche calunnie contro di quelli, che sì gelosamente ne conservarono lo splendore? E non è un rinnovare con Clerc le antiche calunnie il tacciare di fautori del Triteismo i due Gregori, Atanasio e Cirillo l’Alessandrino a cui (non già a S. Basilio) vuolsi attribuire il Libro περι της αγιας Τριαδος ec. de S. Trinitate ec. Tres Deos a nobis coli causantur... eamque CALUMNIAM probabiliter struere non intermittunt... Sed veritas pugnat pro nobis115. Sia pure un actum agere, come dice il sig. Gibbon il provare, che Homoousios significhi una sostanza in specie, che secondo Aristotele le stelle sono homoousie, e che tre uomini sono consustanziali in quanto appartengono alla medesima specie; sarebbe ancora per altro un actum agere il dimostrare, che i Padri Niceni affissero a quel celebre termine una significazione diversa da quella, in cui usavasi o nel comune linguaggio, od in quello della filosofia dei Gentili, come fin d’allora S. Atanasio rispondeva agli Arriani116: Haec sunt Ethicorum interpretationes, nosque nihil eorum egemus, quae ipsi afferunt; essendo già state raccolte le chiarissime testimonianze di Socrate117, di S. Atanasio medesimo118, e dell’istesso Eusebio di Cesarea119, il quale scrisse: Homoousion esse Filium Patri, cum adlatis rationibus discussum esset (nel sinodo di Nicea) convenit non juxta [p. 161 modifica]corporummodum, neque instar mortalium animantium accipi debere120. Sarebbe molto più un actum agere l’allegare una lunga serie dei luminosissimi resti di quei Santi amatori della dottrina Apostolica, non della moda, che apertamente dimostrarono la loro Ortodossia intorno al mistero della Santissima Trinità, specialmente scrivendo a Voi, che sì di proposito vi applicate agli studi Sacri con la guida di dotti Maestri, e sotto gli auspicj di un illuminato e religiosissimo Cardinale Protettore della vostra nazione. Sarò pertanto brevissimo su questo articolo; ed in difesa del Nazianzeno riferirò solamente quelle parole dell’Orazione XXXVII, in cui ragiona quel Santo Padre della Trinità contro i Macedoniani e gli Arriani, le quali per esser decisive furono artificiosamente omesse dal Clerc, che ad inganno dei semplici non ebbe rossore di confermare il suo falso sistema con passi tratti da quell’Orazione medesima. Horum quodlibet Unitatem habet non minus ejus cum quo conjungitum, quam sui ipsius respectu propter essentiae et potentiae IDENTITATEM τω ταυτω της ουσιας, και της δυναμεως. Atque haec unionis hujus ratio est, quantum quidem ipsi percipimus. Questa non è certamente la pericolosa ipotesi delle tre menti o sostanze, o di tre esseri coeguali ec. Il Nazianzeno asserisce, che tra le Divine Persone non solo vi è uguaglianza di potenza e natura, ma IDENTITA’. Confermiamolo. Se l’Unità di natura nelle Divine Persone al parere del S. Padre consistesse in una mera coeguaglianza, e nella sola [p. 162 modifica]conformità del loro valore, quell’Unità resterebbe, quand’anche si concepisse mancante d’una delle tre Menti, o Sostante Divine. Ma egli nullo modo, soggiunge esclamando, UNAM ILLAM NATURAM, ac peraeque venerandam trunca. Alioqui si quid ex Tribus everteris, TOTUM everteris, imo a TOTO excideris. È dunque patente l’Ortodossia di S. Gregorio Nazianzeno. Può egli inoltre confessarsi più chiaramente, che il Figlio non è una seconda Mente o Sostanza, ma bensì il Verbo, o la Sapienza del Padre, ed una Sostanza istessa con lui di quello che lo confessi Cirillo l’Alessandrino? Si può mai più nettamente asserire, che la Divina sostanza è una sola, benchè distinta in tre Persone di quel che faccialo S. Atanasio? Ecco le parole del primo121: Intelligendum sic ex Patre natum Filium, ut Sapientia ex mente, quae sicut et alla quodammodo esse a mente per expressionem ipsius videtur, et in ipsa vere est; non enim SEPARABILITER ab ea prodit. I termini del secondo son questi122. Neque tres hypostases per se ipsas DIVISAS, ut in hominibus pro natura corporum accidit fas est in Deo cogitare: ne ut gentes Deorum multitudinem inducamus... Laudanda colendaque et adoranda Trinitas UNA et INDIVIDUA est, nec ullam figuram habet, sed sine confusione CONJUNGITUR; quemadmodum ejusdem UNITAS distinguitur sine DIVISIONE. Quindi è manifesto non potersi sfuggir la taccia di calunniatore da chiunque asserisce, che i Padri soprallodati favorissero il Triteismo. Egli è poi tanto falso che l’Homoousion [p. 163 modifica]popotesse essere caro ed ai Triteisti, ed ai fautori di una Trinità nominale, che nel linguaggio Teologico a norma delle espressioni di G. Cristo medesimo Ego, et Pater unum sumus... Ego in Patre, et Pater in me est123, si credeva piuttosto capace di non conciliare i due supposti contrari partiti, ma di distruggerli. Vox ista ομοουσιον, et SABELLII impietatem corrigit, tollit enim hypostaseos identitatem, et perfectam Personarum intelligentiam introducit. Non enim aliquid idem est sibi ipsi Homoousion, sed alterum alteri. Itaque rectissime, et cum pietate conjunctissime hypostaseon dividuntur proprietates, et immutabilitas naturae inalterabilis repraesentatur. Così S. Basilio Magno124, a cui egregiamente uniformasi S. Ambrogio scrivendo125. Frustra autem verbum istud propter SABELLIANOS declinare se dicunt et in eo suam impietatem produnt. Homoousion enim aliud alii non ipsum est sibi. Recte ergo Homoousion Patri Filium dicimus quia eo verbo, et PERSONARUM DISTINCTIO (contro Sabellio), et NACTURAE UNITAS (contro i Politeisti e gli Arriani) significatur.

Ma se così grande era la forza di quel vocabolo, [p. 164 modifica]e sì ben fissata la significazione, perchè mai tanti sinodi lo rigettarono, l’ammisero, l’interpretarono? Il Sig. Gibbon istesso mi presenta in gran parte come rispondervi. Ciò avvenne perchè gli Arriani sempre stimaron prudente consiglio quello di mascherare con ambigue parole i lor sentimenti e disegni, avvenne per l’astuzia dei loro Capi, per il loro odio verso Atanasio, ed in modo singolarissimo per il minuto e capriccioso gusto dell’Imperator Costanzo126, che perseguitava con egual zelo quelli, che difendevan la simil sostanza, quelli che sostenevano la Consustanzialità, e quelli che negavano la somiglianza del Figlio di Dio. Anderebbe ingannato a partito chi credesse in quel passo del S. Vescovo di Poitiers127 delineato il carattere dei difensori del simbolo di Nicea egualmente che quello dei nemici dell’Homoousion: e molto più chi volesse dedurne l’estinzione o l’incertezza della vera credenza nel vasto Impero Romano. Non è però nuovo l’abuso dei libri di S. Illario per quest’oggetto. Anche Vincenzo Rogatista vi si faceva forte disputando contro S. Agostino sulla Cattolicità della Chiesa. Dico che sarebbe un abusare delle opere di quel S. Padre a pensare in tal modo, poichè intorno a quei tempi medesimi per la testimonianza di Socrate128 Achajae et Illyrici civitates, et reliquae Occiduarum partium Ecclesiae tranquillae adhuc erant, et inconcussae, tum quod inter se consentirent, tum quod fidei regulam a Nicaeno Concilio traditam constantissime retinerent, ed Illario nel IV. Libro de [p. 165 modifica]Trinitate129 provoca gli Eretici alla fede della Chiesa universale, in cui omne os credentium Christum Deum loquitur. Il parlare come se uno avesse parte a un disordine, da cui si vogliano ritrar coloro, coi quali si forma una società, è forse il più efficace linguaggio per l’intento, che sappia dettar l’umiltà e la prudenza. Vedendo pertanto lo zelantissimo Vescovo, che nel Conciliabolo Costantinopolitano sotto gli occhi dell’Augusto Sovrano si erano soscritti gli Arriani decreti fatti in Rimini130 dopo la partenza dei Legati, e non ancor disperando del ravvedimento dei dissidenti e del Principe, intende realmente in quella Rappresentanza di rimproverar questo e quelli perchè convochino tanti Sinodi, e con tante formule vadano in traccia della fede, come se non vi fosse131; ma lo fa in termini, i quali denotando che ciò avvenisse per comun colpa di tutti i Cristiani, non irritassero i veri colpevoli ed il prepotente lor fautore. In fatti confrontate il passo trascritto da Gibbon, ed inserito nel suo Repertorio da Locke con quel che scrisse San Illario probabilmente132 pochi mesi dopo, e giustificate a chi egli imputasse la colpa di sì scandaloso disordine, dicendo all’Imperatore quando ei si fu tratta la maschera: Synodo contrahis, et Occidentalium fidem ad impietatem compellis.... Orientalis autem dissensione artifex nutris133. Namque post primam vere [p. 166 modifica]Synodi Nicaenae... novis vetera subvertis, nova ipsa rursum innovata emendatione rescindis, emendata autem iterum emendando condemnas... His quidem ego intra Nicaeam scripta a Patribus fide fundatus, manensque non egeo134. Quindi ancora deducesi, che l’Homoousion fu riguardato con savissima avvedutezza da S. Illario sotto diversi aspetti, ora cioè come inutile, or come pio e religioso, ed or come scandaloso ed empio. Riguardollo siccome ozioso ed inutile per coloro, i quali erano immobilmente fondati nella sostanza della fede Nicena, dicendo: his quidem... ego non egeo, e in appresso135. Quod tametsi nobis ad fidem otiosum sit ec.; come pio e religioso poi per quegli stessi, qualora lo usassero a solo oggetto di evitare la confusione Sabelliana, che i maligni Settari spargevano, che si celasse nell’Homoousion dagli Ortodossi, come sopra osservammo136. Mihi quidem similitudo ne UNIONI detur occasio sancta est. E qui dee notarsi che dal S. Vescovo della Gallia non differisce di troppo l’immortale Primate d’Egitto, giacchè protestasi di riguardare i medesimi come fratelli nella credenza, mentre scrive137: Adversus autem eos, [p. 167 modifica]qui omnia Synodi Nicaenae scripta recipiunt, de solo autem CONSUBSTANTIALI ambigunt, non ut adversus inimicos affici nos decet... Sed veluti fratres cum fratribus disceptamus, ut cum quibus nobis eadem sit sententia, controversia autem de Verbis. Onde si vede chiaro quanto sia rispettoso il Critico a giudicare Atanasio attaccato dal contagio del fanatismo, e a darci i due opposti partiti, come egualmente agitati dallo spirito d’intolleranza. Riguardavasi finalmente come scandaloso ed empio in bocca di quegli impugnatori della Consustanzialità, che lo prendevano in opposizione all’eguaglianza perfetta del Figlio col Padre e all’unità dell’essenza, come porta la sua genuina e nuda significazione. Et me movet (cum scandalo) homoousii nuditas138. Così il S. Vescovo di Poitiers, il quale prosiegue139. Multa saepe fallunt, quae similia sunt... similitudo vera in veritate naturae est. Veritas autem in utroque naturae non negatur HOMOOUSION, come leggesi concordemente nei Codici MSS. ed esige il buon senso. Has enim similitudines, quae non ex unitate naturae sint, metuo. Così pure S. Atanasio de Synod. Qui secundum substantiam simile dicit, participationem quadam simile esse definit... Hoc vero factarum rerum est, quae propter participationem fiunt similes Deo. Così l’A. de Filii Divinit.140. Denique sublato Homoousion idest unius substantiae vocabulo, Homoousion, idest similem (Filium) factori suo posuerunt, cum aliud sit similitudo, aliud veritas. Ed in tal caso non fa di mestiero di [p. 168 modifica]un occhio teologico delicato gran fatto per distinguere la differenza tra quei due famosi vocaboli141: e perciò S. Illario soggiunse142. Non puto quemquam admonendum in hoc loco ut expendat, quare dixerim SIMILIS SUBSTANTIAE PIAM INTELLIGENTIAM nisi quia intelligerem et IMPIAM, et idcirco similem, non solum aequalem, sed etiam eamdem dixisse, ut neque similitudinem, quam tu frater Lucifer praedicari volueras, improbarem, et tamen SOLAM PIAM esse similitudinis intelligentiam admonerem, quae UNITATEM Substantiae praedicaret. Che questo poi fosse il caso di una gran parte dei Vescovi dell’Oriente io lo deduco dal ripeter che fa Sant’Illario per ben due volte nel Libro de Synodis143, che a proporzione delle molte Chiese che vi erano, pochi professavano la vera fede, e dal dir loro, apostrofandoli, che gli avevan dato speranza di richiamare la vera fede, (opponendosi, com’è verisimile, agli Anomei) non già che l’avessero richiamata144. Ma che tale [p. 169 modifica]fosse altresì l’Homoousion sostenuto da Macedonio, non ardisco asserirlo145. So però con certezza che esso uscì dalla scuola degli Arriani, che da loro fu ordinato Vescovo, e che fu Eresiarca nell’impugnare la Divinità dello Spirito Santo; che il suo odio contro il Patriarca Paolo ed i fautori di lui fu intestino, e la sua ambizione senza misura146, e francamente asserisco, che l’esecrande tirannie dei Macedoni e dei Giorgi di Cappadocia, che la squisita malignità degli Eusebi, che gl’intrighi dei Valenti e degli Ursaci non si trovaron giammai nei Santi alla moda del tempo loro147, e so per fede divina che quei Settari avrebbon potuto apprendere dalle pure e semplici massime dell’Evangelio ad unire alla prudenza del serpe la semplicità di colomba, ad esser miti ed umili di cuore come fu Gesù Cristo, egregiamente imitato dai due distinti Campioni della Fede Nicena Atanasio148 ed Illario149, e a dar la loro vita per la lor greggia, non [p. 170 modifica]a toglierla altrui. Perciò riconosco in chi asserisce che tutti egualmente erano agitati nel tempo della Controversia Arriana dallo spirito intollerante, che avevano tratto dall’Evangelio, non uno Storico, il quale tiri rispettosamente il velo del Santuario, ma sivvero (per usare un’espressione suggeritami dal Sig. Gibbon istesso) un Profano.

Ho, per quanto mi sembra, adempiute le mie promesse. Tocca ora a voi, intraprendendo un’ampia confutazione degli errori del Sig. Gibbon, a vendicare l’onore della Religione oltraggiata, e a sostenere il decoro del partito Cattolico della nazione; giacchè avete ambedue ed acutezza d’ingegno e cognizione delle lingue erudite ed ogni dì più divenite valenti nelle Ecclesiastiche Controversie. Avvertite però, il vostro Avversario è un Proteo, il quale

Omnia transformat se se in miracula rerum,
Ignemque horribilemque feram fluviumque liquentem.


Note

  1. L’A. allude a mio credere al celebre Galilaee vicisti, satiare ec. ed al racconto, che Giuliano volesse precipitarsi nel fiume vicino per celar la sua morte, e così passar, come Romolo, per un Dio. Ma S. Gregorio (Orat. IV. p. 290. Edit. Paris. 1583) non dice cosa veruna delle bestemmie di quell’Imperatore, nè del sangue gettato contro al Cielo; e benchè accenni il secondo fatto, osserva in generale, che le circostanze della morte di Giuliano erano incertissime. Sozomeno poi (l. VI. c. 2), e Teodoreto (l. 30. c. 25. Ed. Vales.) parlano del primo come di cosa non ben sicura, e come un discorso di pochi. Vedi della Bleterie pag. 495 e segg. Se il sig. Gibbon avesse ben ponderata la forza del titolo di Calunniatore si sarebbe astenuto dal darlo a Gregorio ed ai Santi più moderni, per non meritarlo egli stesso. Vedi Filostorgio H. E. l. 7. in fogl.
  2. Che dirà dunque l’Autore dell’Apocalisse, in cui i Vescovi son distinti col nome di Angeli? Che di G. C. medesimo, mentre disse di loro nella persona degli Apostoli; qui vos audit, me audit, qui vos spernit, me spernit? E come non sapere che di tutti i buoni si legge: Ego dixi, Dii estis ec.? Lo sa benissimo: ma è tanto prevenuto contro Gioviano, che unitamente al merito di Confessore nel precedente regno gli nega quello di aver esatto dall’esercito che lo proclamò Imperatore la professione del Cristianesimo, benchè ne sian testimoni Socrate, Sozomeno e Teodoreto (l. 1V. c. 1. ex Vales.) sol perchè Ammiano dice (l. 1XV. c. 6) hostiis pro Joviano, extisque inspectis pronunciatum est etc. Alle osservazioni del Baronio (ad Ann. 363. §. 118) sul testo citato, aggiungo col Tillemont, che forse alcuni pochi ostinati Pagani compiron quel rito superstizioso senza saputa dell’Imperatore, e che Ammiano avea una cognizione molto oscura e superficiale della Storia Ecclesiastica, E Gibbon istesso che parla in tal modo; perchè in quell’occasione l’ignoranza di Ammiano torna in discredito dei Cattolici.
  3. Grot. L. I. c. 4. Bossuet Var. l. 10.
  4. V. Athan. Epist. ad Lucif. et Serapion.
  5. Vedi Hermant Vie de S. Athanas.
  6. Vedi Baron. ad an. 356. n. 85. Tillemont Tom. VIII. N. 74. Fleury l. 13. n. 32.
  7. L. I. c'. XIII. de Trin. §. 6.
  8. Sec. IV. diss. 30.
  9. V. Bern. Montf. Diatriba de Causa Marcelli Ancyr. T. 2. Coll. Nov. PP. et Script. Graecor.
  10. Il Garner. Diss. ad Mart. Mercat. Opera T. III. p. 312 chiama la medesima causa difficile ed oscura.
  11. Vedi Mamachi T. I. Orig. et Antiq. Christ. i PP. di Trevoux Febr. 1708. Arti 26. Claud. Molinet. 1681, nel Giornale dei dotti di Parigi ec. ec. Tra i Protestanti Gio. Reischko 1681. Gian Cristof. Wolf. 1706. De visione Crucis, etc.
  12. Syntagma, quo apparientis M. Costantino Crucis historia complexa est universa. Romae 1595.
  13. Euseb. loc. cit.
  14. Controv. Rob. Bell. defens. T. II. Col. 1044.
  15. Saec. IV. Diss. 32.
  16. Dissertation Crit. etc. et hist. sur le P. Libere, dans laquelle on fait voir, qu’il n’est jamais tombé. A Paris 1736.
  17. Pap. 185. Tom. II. Venet. 1757.
  18. L. 2. C. 17. Hist. Eccles.
  19. L. 5. C. 18. Hist. Tripart.
  20. De div. et multipl. rat. Animae. c. 2.
  21. Praef. T. 5. Bibl. PP. p. 652.
  22. Sozom. L. 4. 15. Ed. Vales.
  23. Theodoret Hist. l. 2. c. 17.
  24. Labbé T. 2. Conc. p. 655.
  25. Hieron. Dial. adv. Lucifer. Damas. presso Teodoret. L. 2. Hist. Eccl. c. 22. Lib. med. presso Socr. l. 4. Hist. XII.
  26. Nei Framm. di S. Ilario pag. 1357. Ediz. dei Mon. Benedet.
  27. Sulpic. Sever. Hist. Sacr. L. 2. c. 39. Socr. Hist. E. L. 2. c. 37.
  28. Vedi il Cap. IV. e V. della cit. Dissert. De Comment. ec.
  29. L. I. Hist. c. 27.
  30. L’A. non ha troppo buon sangue coi Papi. Il carattere di Damaso è molto ambiguo, e tre parole di Girolamo Sanctae Memoriae Damasus, lavano tutte le sue macchie, ed abbagliano i devoti occhi del Tillemont. Si trovan però dileguate presso questo Scrittore le calunnie, dalle quali fu attaccato quel Santo Pontefice. Si cita inoltre Teodoreto L. V. c. 2., che parla così di Damaso: Is erat Episcopus Romae vita laudabili conspicuus, quique sibi dicenda, faciendaque omnia pro Apostolicis dogmatis statuerat., e nel L. IV. c. 30 lo pone nella classe medesima con i due SS. Gregorio, e con S. Ambrogio. Allega ancora l’autorità del Concilio Calcedonese che nell’allocuzione all’Imperatore Marciano si espresse in questi termini. Sic quoque Damasus Romanae urbis decus ad justitiam, ovvero Romanae urbis Episcopus, et justitia decus. Appella per fine a non pochi antichissimi Martirologi, nei quali con S. Girolamo si legge nominato S. Damaso. Non sono dunque tre parole quelle che hanno abbagliato gli occhi devoti del Tillemont. Vedi T. VIII. Memor.
  31. Vie de l’Empereur Julien L. V. p. 396.
  32. Marc. L. XIII. V. 1. 2.
  33. Lib. 23. c. 1.
  34. L. I. c. 38, 39.
  35. L. 3. c. 17.
  36. L. 3. c. 17.
  37. L. V. c. ult.
  38. Adv. Judeos Orat. 2, Hom. 4 in Matth.; Homil. 41 in Act. Apost.
  39. Greg. Naz. Orat. 2. in Julian.
  40. Sec. IV. 1. p. n. 14.
  41. L. IV. c. 27.
  42. M. della Bleterie pag. 399 in una Nota.
  43. Adv. Parmentanum.
  44. De Unit. Eccl., Cont. Petilian., Cont. Cresc. in Epist. et alibi passim.
  45. Nat. Aless. Saec. IV. pag. 15. Tillem. Tom. VI. Vales. etc.
  46. Can. 8.
  47. Can. 19. cum not. Christ.
  48. S. Ag. De haeres. ad Quod vult Deus. L. 69.
  49. Fleury L. XI. §. 53.
  50. V. Tillem. T. 3. Les Novatiens.
  51. Quodcumque solveris etc. Quorum remiseritis peccata remittuntur eis etc. Jo. 30. Matth. 16.
  52. Quod si dormierit vir ejus, liberata est etc.
         Cui vult nubat. ad Corinth. I. c. 7.

  53. Sess. 23. c. 17. de Reformat.
  54. Sess. 23. c. 17. de Reformat.
  55. S. Ambros. L. 2. de Off. Eccles. L. 6. ex A. malar. Fortun. v. Morin. part. 2. De Sac. Ordin.
  56. L’Autore in ciò si conforma a Clerc Epist. Cr. 7, 8, 9 ed al Mosem. Dissert. de turb. per Plat. Ecclesia.
  57. P. 1049.
  58. P. 1042.
  59. διὰ τόν λογισμον τὸν δε
  60. P. 1049.
  61. τινά δη καί σεμνυνῶν ποτὲ λεγῶ θεον: σχὲδον ούράνον
  62. Tim. p. 1049.
  63. Cic. L. I. de Nat. Deor.
  64. P. 1052.
  65. Lib. II. de Nat. Deor.
  66. L. I. C. 10. de Plat. Philos.
  67. Orig. L. V. p. 307.
  68. Vedi la Pref. degli Edit. Bened. di S. Giustino Part. 2. c. 1.
  69. Not. ad Petav. de Trinit. L. I. c. 1.
  70. Divinitas J. C. manifesta in Script. et. tradit. Vedi Praef. ad S. Justini oper. part. II. C. 1. §. V. e Bossuet Elevazioni alla SS. Trinità II. Settimana.
  71. Pag. 95. T. V. Il Critico segue l’opinion del Lamy Praef. apparat. C. 7. Calmet però dà per ricevuta dalla maggior parte l’epoca dell’ann. 98 di G. C. I. di Traiano In Evang. S. Joan. Proleg.
  72. Dissert. De Verbo Dei §. 3. 4.
  73. Non si nega a Clerc, che Filone fosse un Platonico celebre: ma si ha diritto di esiger da lui, che non dia una mentita a Filone stesso, il quale nel Lib. de Opif. Mundi attesta di aver appresa la dottrina del Logos περί τῦ λὸγου non da Platone, ma da Mosè. Μωσεῶς εστι τὸ υόγμα τουτο, ουκ εμον, Vedi Joh. Lami de recta Christ. in eo quod myster. Div. Tri. adtinet Sententia. L. 4. c. 8.
  74. Dissert. cit. §. 5.
  75. Haeres. V.
  76. Luc. C. 1. v. 26.
  77. I MSS. Greci portan per data l’anno di G. C. ma la più verisimile può fissarsi verso l’an. 53 vedi Calm. in Ev. Luc. Proleg.
  78. Luc. C. 5. v. 47.
  79. Luc. C. 1. v. 45.
  80. Luc. C. 1. v. 76. e seg.
  81. Luc. C. 2. v. 30. e seg.
  82. V. Simon. Hist. Crit. N. T. C. 15. Calmet in Evang. S. Matth. Prolegom.
  83. Matth. C. 3. V. 17. Marc. C. 3. v. 1l. 1uc. 3. v. 23.
  84. Dilectus ibi sonare potest unigenitus: vox enim Jachid idest unicus filius, saepius redditur a LXX. α̉γάπητος Lamy Comment. in Harm. c. V.
  85. Psalm. II. v. 7.
  86. C. 4. V. 25 e seg.
  87. C. I. Il Blondello, lo Spanemio, il Tillemont tengono con la massima parte degli antichi, che la lettera agli Ebrei sia scritta l’Anno di C. 63. Vedi Calm. Proleg. Art. III.
  88. Psalm. 87. Job. 1 6. 11. 1.
  89. S. August. in psalm. 2.
  90. Vedi Abbadie T. III. Traité de la Divinité de J. C.
  91. C. 8. v. 37.
  92. Joh. V. 18.
  93. Ad Philippens. C. 2. v. 6.
  94. Ad Rom. C. 1. v. 4. C. 8. v. 3. Ad Hebr. C. 1. v. 2. C. 5. v. 8. C. 6. v. 6. C. 7. v. 3. C. 10, v. 29. ec.
  95. Ad Hebr. C. 1. v. 11.
  96. d. C. 1. v. 3.
  97. Ad Colos. C. 1. v. 16.
  98. Ad Hebr. C. 1. v. 2.
  99. d. C. 1. v. 6.
  100. Ad Roman. C. 9. v. 3.
  101. d. C. 1. v. 8.
  102. I Nazareni per testimonianza di S. Girolamo: credebant in Christum Filium Dei. Ora secondo la semplicità di quei tempi, ed a norma del simbolo Apostolico il credere in Cristo Figlio di Dio era lo stesso che crederlo propriamente Dio, generato da Dio Padre. Perciò soggiunge S. Girolamo in quem et nos credimus. Vedi Lo Quien Diss. VII Damasc., e la solida confutazion di Freret del Ch. Padre Fassini Profess. di S. Scrittura in Pisa: De Apostolica Evangeliorum Origine n. 25 e 26 dove risponde al Mosemio citato da Gibbon.
  103. Vedi Athanas. De fuga sua.
  104. An. 358. V. N. Ales. Sec. 4. Dissert. 15. e cap. 3. §. 22.
  105. Vedi Bingham. Orig. Eccl. L. 1. C. 2. §. 13.
  106. Ap. Socr. L. I. H. E.
  107. Vedi la Dissert. del P. D. Prudenzio Mairan sopra i Semi-Arriani. Parigi 1722 e l’altra de voce Homoousion ec. Aucto. Liberato Fassoni ec. Romae 1753. V. ancora S. Atanas. De Sent. Dionys. n. 18. Nov. edit. Tom. I. p. 256.
  108. De Nicaen. Syn. Decret. p. 115.
  109. Lib. I. H. E. C. 8.
  110. Pag. 709.
  111. Orat. 49.
  112. Ometto Gio. Damasceno, come appartenente al VII. Secolo. V. gli Aut. cit. di sotto.
  113. Sulpic. Sever. L. 2. Vet. Ed.
  114. Socr. d. C. 8. L. I. H. E. ex Vales. Fu questo il Sofisma d’Arrio medesimo, cattivo Dialettico, Socr. L. 1. C. 5.
  115. Vedi il C. 14 e 26. De recta PP. Necaenor. Fide Jo. Lami.
  116. Lib. 1. de Synod §. 31.
  117. L. I. H. E. C. 25.
  118. De Synod. c. 45.
  119. Apud Socr. L. 1. H. E. C. 8.
  120. Vedi Bull. Defens. Fid. Nicaen. e la cit. Dissert. di D. Gio. Lami De recta Patrum Nicaenorum Fide. Venet. 1733. C. 2.
  121. S. Cyrill. Alex. Lib. I. Thes. C. 7.
  122. S. Athan. in exposit. Fid.
  123. S. Athanas. Lib. de Synod. §. 20. Verum cum Filii ex Patre generatio alla plane sit a natura hominum, nec solum similis ille sit substantiae Patris, sed DIVIDI ab eo non queat, quum item unum ipse, et Pater sit, ut idem dixit, SEMPERQUE VERBUM SIT IN PATRE, ET PATER IN VERBO, eo modo quo splendor se habet ad lucem... idcirco Synodus ea re perspecta eum esse CONSUBSTANTIALEM recte scripsit. Questi non son termini favorevoli a la moda del Triteismo.
  124. Epist. 300.
  125. Lib. 3. de Fid. C. 7.
  126. Ad Constantium Aug. L. 2.
  127. V. Fleury Hist. Eccl. l. 13. §. 43. e l’Avvertim. degli Edit. Bened. ad 2 Lib. ad Constant. A.
  128. H. E. L. 2. C. 27.
  129. 1: §. 30.
  130. Nat. Alex. H. E. Saec. IV. §. 25.
  131. Ad Const. A. Lib. 2. §. 6.
  132. Vedi la Dissert. premessa dagli Edit. Bened. al Lib. Contr. Const. Aug.
  133. L. 2. Constant. A. §. 7. Sono ancora notabili quelle espressioni presso Fozio sulla morte di Costanzo, dicendo: Imperium pariter ac vitam, et Synodos ad stabiliendam impietatem dereliquit. Philost. l. 6. n. 5.
  134. Lib. cit. §. 23. Vedi ancora il Lib. de Syn. seu de Fide Orient. §. 63.
  135. Lib. cit. §. 27.
  136. Quello però riputavasi dal S. Padre un timor vano, mentre nel Lib. de Synod. §. 91 così parla: Interpretati Patres nostri sunt post Synodum Nicaenam ec. Homoousii proprietatem religiose, extant libri, manet conscientia ec.
  137. De Synod. pag. 703. Vedi N. Aless. Dissert. XV. de voce Ομοιουσιον ad Saec. IV.
  138. S. Hilar. Apol. ad Reprehens. VIII.
  139. Lib. de Synod. §. 89. Nat. etc.
  140. Tra le op. di S. Ambrogio C. 2.
  141. V. Mar. Victor. L. 1. adv. Arrium, e Greg. Naz. Or. 21. p. 26.
  142. Apolog. ad Reprehens. III.
  143. §. 66.
  144. De Synod. §. 79. Vedi Apolog. IV. Vedi la Diss. cit. di Nat. Aless. in cui son pochissimi gli Homoousiani difesi come Ortodossi da quel dotto Scrittore. Aezio, che senza raggiro professava la dissomiglianza ανομοιον, rimproverava in faccia a Costanzo i sostenitori dell’ομοιουσιν. . . . . . . Asserens idem se profiteri ac sentire cum illis omnibus. Verum, inquiebat, quod penes me verum est isti dissimulant, et quod ego prae me fero ac palam confiteor, illi omnes non diffitentur, sed fraudulenter obtegunt. Epiph. haeres. l. 3. T. 1. haer. 76.
  145. Theodor. H. E. Lib. 2. C. 6. Vedi Fleury Lib. 15. §. 30. H. E.
  146. Socr. L. I. C 17. H. E. Soz. L. 3. C. 9.
  147. Uomini alla moda χρονιτας chiamò Aezio per ludibrio gli Arriani suoi persecutori, poichè si accomodavano al tempo e alla Corte. Vedi Germon. de Veter. haeres. etc. L. 2. Quando poi si pretendesse dato da quel Capo degli Anomei un tal nome ai Consustanzialisti, molto più risalterebbe il rispetto dell’Autore per il Santuario.
  148. Vedi Tillem. T. 8. S. Athanas. Art. 117. „Il avoit soutenu la verité de la Trinité moins par sa plume que par ses souffrances, et par le Martyre continuel de sa vie„.
  149. Olim in ipso Sacrosancti Sacrificii meditullio, in praefactione scilicet ante canonem Hilarium morum lenitate pollentem (Ecclesia) decantabant. Vedi la Dissert. de Maur. in Lib. Contr. Constant. §. 3.