Manuale di economia politica con una introduzione alla scienza sociale/Capitolo V

Capitolo V - Gli ostacoli

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CAPITOLO V.

Gli ostacoli


1. Lo studio del modo col quale si superano, ossia lo studio della produzione, è più lungo di quello che indaga come operano i gusti; e ciò accade per cagione della grande complessità della produzione presso i popoli civili.

2. La divisione del lavoro e l’impresa. — Presso questi popoli appare un fenomeno noto sotto il nome classico di divisione del lavoro. Esso consiste essenzialmente in ciò che, per la produzione, occorre radunare ed adoperare un gran numero di elementi. Come bene osservò il nostro Ferrara, se si considera ciascun elemento e la parte che esso ha nella produzione, si vede la divisione del lavoro; se si considerano quegli elementi complessivamente e si pone mente allo scopo pel quale sono uniti, si vede la cooperazione1. Si hanno così due nomi per un [p. 274 modifica]solo fenomeno, secondo l’aspetto sotto il quale si considera.

3. Ove alla divisione del lavoro si dia il significato più ristretto, ed etimologicamente più proprio, che è quello della partizione di un’opera tra vari individui, si scorge che da un lato essa ha effetto di separare le funzioni, e dall’altro di rendere vicendevolmente dipendenti gli uomini. Col crescere della divisione del lavoro, crescono le parti del tutto che costituisce la produzione; e, per essere quelle parti dipendenti l’una dall’altra, si estende la cooperazione degli uomini.

4. L’impresa è quell’ordinamento il quale unisce i vari elementi della produzione e li volge a compierla. Essa è un’astrazione, come l’homo oeconomicus, e sta alle imprese reali nella stessa relazione che l’homo oeconomicus sta all’uomo di carne ed ossa. Il considerare l’impresa non è che un mezzo per studiare separatamente i vari uffici compiuti dal produttore. L’impresa può avere diverse forme: essa può essere affidata a privati, o esercitata dallo Stato, da Comuni, eco; ma ciò non ne muta la sostanza.

5. Un’imagine materiale dell’impresa si può avere figurandosi un recipiente ove concorrono molteplici rigagnoli, che rappresentano gli elementi della produzione, e dal quale esce un fiume, che rappresenta il prodotto.

6. Quegli elementi della produzione vengono in parte da individui, come per esempio il lavoro e certi prodotti; in parte da altre imprese, come per esempio certi prodotti che debbono servire ad ottenerne altri.

La circolazione economica può grossolanamente figurarsi nel modo seguente. A, A', A''...., sono [p. 275 modifica]le imprese; m, m', m'', m'''... n, n', n'', n'''... sono gli individui. Parte di quegli individui, per esempio Fig. 40m, m', m'', n, n', n'', provvedono di certe cose l’impresa A (pensiamo di lavoro, risparmio, ecc.); e possiamo figurare certi rigagnoli, che movendo da quegli individui, vanno a versarsi in A, ove pure giungono prodotti di altre imprese. Può darsi che i prodotti di A non sieno adatti direttamente al consumo; in tal caso da A esce un fiume di prodotti che si partiscono altre imprese A', A''. Gli individui m, m'.... ricevono i prodotti che consumano, sia da quelle imprese A', A'', sia solitamente da altre A'''... Quelle circolazioni s’intrecciano in modo quasi inconcepibile, tanta e tale e la varietà che presentano. Per solito un operaio provvede del suo lavoro una sola impresa, e riceve prodotti da moltissime altre, che possono non avere la menoma relazione diretta colla prima. Occorre trovare il bandolo di quella matassa tanto intricata, e procurare di ridurre il fenomeno ai suoi elementi.

7. Per ciò fare, considereremo separatamente una impresa, vedremo cosa riceve e cosa dà, valuteremo l’entrata e l’uscita, e studieremo il modo col quale regola la produzione.

8. Il fine a cui intende l’impresa. — Giova tosto fare una distinzione eguale a quella già fatta per l’individuo (III, 40). Abbiamo cioè due tipi di fenomeni: (I) L’impresa accetta i prezzi del mercato senza tentare di modificarli direttamente: sebbene [p. 276 modifica]contribuisca, senza saperlo nè volerlo, a modificarli indirettamente. Essa è guidata solo dall’intento di raggiungere un certo fine. Questo per l’individuo era il soddisfare i proprii gusti; per l’impresa tale fine deve essere dichiarato, ed è quanto si farà più sotto. (II) L’impresa può, invece, aver di mira di modificare direttamente i prezzi del mercato, onde poi trarne un qualche vantaggio o conseguire altro fine qualsiasi.

9. Quanto dicemmo dei tipi (I) e (II) per l’individuo vale anche per l’impresa e deve intendersi qui ripetuto. Come per l’individuo, anche per l’impresa, il tipo (I) è quello della libera concorrenza, e il tipo (II) è quello del monopolio.

Si possono, per l’impresa, imaginare molti fini; ma giova evidentemente restringerci a studiare quelli che di solito occorrono nel concreto.

10. Frequentissimo è il caso in cui le imprese mirano a conseguire il massimo vantaggio per sè, e tale vantaggio quasi sempre, si potrebbe dire sempre addirittura, è misurato in denaro. Gli altri casi sono come eccezioni di fronte a questo.

Per ottenere il massimo utile in danari, si usano mezzi diretti e mezzi indiretti. Direttamente ogni impresa procura di pagare il meno possibile ciò che compra, e di farsi pagare il più possibile ciò che vende. Inoltre, quando per ottenere una merce vi sono più vie, sceglie quella che è di minore spesa. Ciò vale tanto pel tipo (I) come pel tipo (II); la differenza tra i due tipi stando solo in ciò che nel tipo (I) l’impresa accetta le condizioni del mercato quali sono, mentre nel tipo (II) intende a modificarle.

Indirettamente l’impresa, quando ne ha podestà, cioè quando trovasi nel tipo (II), procura di recare alle condizioni del mercato e della produzione tutte [p. 277 modifica]quelle modificazioni le quali possono, o che detta impresa crede potere, recare ad essa alcun utile di denaro. Già discorrendo del baratto (III, 47) notammo alcuni mezzi che per ciò si usano, altri avremo ora da considerare.

11. Notisi che il fine al quale mira l’impresa può non essere conseguito, e ciò in vari modi. Da prima essa può ingannarsi interamente; e, nella speranza di conseguire un utile in denaro, usare mezzi che invece le recano un danno. Può anche accadere che quell’utile in denaro corrisponda ad un danno in ofelimità per le persone che ne godono. Infine, ed è considerazione meno ovvia e più sottile, può quel fine stesso modificarsi appunto per i mezzi usati per raggiungerlo, onde l’impresa percorre una di quelle curve che sono dette d’inseguimento. Per esempio, l’impresa, essendo in a, vuole recarsi in m, seguendo la via a m; ma nel ciò fare sposta m; onde, quando l’impresa è in b, m si è spostato in m'. Di nuovo l’impresa mira ad m', e segue perciò la via b m; ma giunta in c, trova che da capo il bersaglio a cui mira si è spostato e trovasi in m''; onde segue la via e m''; e così di seguito. Per tal modo l’impresa che move da a, col disegno di recarsi in m, va a finire invece in M, che figura un fine a cui non mirava punto. Vedremo più lungi come ciò segua in un caso di gran momento, che è quello della libera concorrenza (§ 74).

12. Come pel baratto (III, 49), giova, per la produzione, distaccare dal tipo (II) una classe di fenomeni che hanno per carattere che l’impresa ha di [p. 278 modifica]mira di procacciare il massimo benessere a tutti coloro che partecipano al fenomeno economico; e si ha così lo stesso tipo (III), già considerato quando ragionammo del baratto.

13. Le diverse vie dell’impresa. — Da prima l’impresa, quando va sul mercato per comprare o vendere, può seguire le diverse vie che già studiammo a proposito del baratto (III, 97, 98): poscia ha pure, per solito, varie vie che le si parano dinanzi per ottenere la merce che vuol produrre. Certi elementi della produzione sono fissi; ma altri sono variabili. Per ottenere farina di grano ci vuole certamente grano; ma si può macinare il grano in un molino mosso dall’uomo, da un animale, dal vento, dall’acqua, dal vapore. Si possono usare macine di pietra o cilindri di ghisa indurita. Si possono usare mezzi più o meno perfetti per separare la crusca dalla farina, ecc.

14. Inoltre, le quantità stesse di quegli elementi sono variabili entro certi limiti, più o meno ristretti. In tale materia si dà per esempio classico quello della coltura estensiva e della coltura intensiva del suolo. La stessa quantità di grano si può ottenere con molta o con poca superficie di suolo, facendo variare gli altri elementi della coltivazione. Ma lo stesso fenomeno si osserva in tutte le altre produzioni. Ci sono certi elementi che variano pochissimo: per esempio, da una stessa quantità di grano si può ottenere poco più o poco meno di farina; altri elementi variano moltissimo; è enorme la differenza tra una macina mossa da un mulo, e uno dei grandi ruolini a vapore che ora si usano per ridurre il grano in farina; è pure enorme la differenza tra la ciurma delle antiche galere, mosse dai remi, e la ciurma di un moderno piroscafo; ed altri infiniti esempi di quel genere si potrebbero recare. [p. 279 modifica]

Occorre che l’impresa scelga tra quelle varie vie; e ciò tanto nel caso del tipo (I) come nel caso del tipo (II).

15. Qui s’incontra uno fra i maggiori errori dell’economia politica. Si è supposto che tale scelta fosse imposta dallo stato tecnico della produzione, cioè che fosse determinata esclusivamente dal progresso tecnico. Ciò non sussiste. Il progresso tecnico è solo uno degli elementi della scelta. Naturalmente, quando non si conoscevano le ferrovie, è manifesto che non si potevano usare per trasportare le merci; ma ora che si conoscono, non hanno sostituito ogni altro mezzo di trasporto. In certi casi si usano ancora carri tratti da animali; in altri, carriuole mosse dall’uomo; in altri, mezzi ancora diversi. Ora che si conoscono le macchine da cucire, si può cucire a macchina, ma si cuce pure ancora a mano. Per l’illuminazione si adoperano, in concorrenza, stearina, olio, petrolio, gas, elettricità2.

16. In ogni caso occorre dunque determinare quale mezzo convien usare. Un impresario ha da trasportare ghiaia dalla cava in altro luogo. Secondo i casi, a lui gioverà usare carri tratti da animali o costruire una piccola ferrovia. Un altro ha da segare legna; secondo i casi, la farà segare da uomini, o impianterà una segheria meccanica. In questi ed altri casi simili, la decisione dell’impresario sarà determinata non solo da considerazioni tecniche, ma ben anche da considerazioni economiche.

Per potere scegliere fra le varie vie occorre conoscerle. Principiamo dunque dal considerarne una qualsiasi e studiamola. [p. 280 modifica]

17. I capitali3. — Supponiamo di voler fare il bilancio di un molino mosso da una ruota idraulica.

Si produce farina e crusca. I principali elementi della produzione sono: il corso d’acqua — il fabbricato del molino — la ruota idraulica, le trasmissioni, le macine, ecc. — arnesi vari, apparechi d’illuminazione, ecc. — l’olio da dare alle macchine, altre materie per l’illuminazione, per la pulizia, e per molti altri usi — il lavoro del mugnaio e dei suoi garzoni — il denaro che circola per provvedere alle spese — il grano che è macinato.

18. Dobbiamo ordinare un poco quegli elementi cotanto vari e diversi, e farne una classificazione, la quale, come tutte le classificazioni, sarà in parte arbitraria.

In realta è l’energia, la forza meccanica del corso d’acqua, che è trasformata nella produzione; ma nel fenomeno economico questo elemento della produzione si presenta sotto forma diversa, cioè sotto la forma dell’occupazione, dell’uso, del corso d’acqua.

Similmente è pure l’edifizio che viene trasformato, sebbene lentamente, nella produzione. Quell’edifizio non si può concepire campato per aria, senza la superfice del suolo sulla quale sta; ma, per astrazione, si possono separare l’edifizio e la superficie del suolo. In tal caso, quest’ultima non consumandosi nè punto nè poco, si ha un elemento della produzione di cui si fa solo uso senza che si consumi. [p. 281 modifica]

19. Avuto tale concetto, si può estendere approssimativamente ad altri oggetti, e fare due grandi classi degli elementi della produzione; la prima racchiude le cose che non si consumano, o si consumano lentamente: la seconda racchiude le cose che si consumano rapidamente.

20. Tale classificazione è arbitraria e poco rigorosa, come sono arbitrari e poco rigorosi i termini: lentamente, rapidamente; ma pure l’esperienza dimostra che giova assai nel trattare la materia economica. Similmente sarebbe difficile, discorrendo degli uomini, di fare a meno dei termini: giovine, vecchio; sebbene nessuno sappia dire quale è il momento preciso in cui finisce la gioventù, e quale è il momento preciso in cui principia la vecchiaia. Il linguaggio volgare è costretto di sostituire per tal modo delle differenze qualitative arbitrarie, alle differenze quantitative reali.

21. Alle cose che non si consumano, o che si consumano lentamente nell’atto della produzione, si è voluto dare un nome, e si sono chiamate capitali.

Il punto in cui termina la classe dei capitali e principiano le altre classi degli elementi della produzione non è maggiormente determinato di quello in cui finisce la gioventù dell’uomo e principia l’età matura.

Inoltre la stessa cosa, secondo il modo col quale si considera, può essere posta tra gli oggetti di consumo, o tra i capitali. Nell’esempio precedente si consuma l’energia meccanica dell’acqua che fa muovere il molino; sicchè, sotto tale aspetto, si può dire che per produrre farina si consuma energia; e nel bilancio dell’impresa si possono porre tanti cavalli-vapori consumati, al prezzo di tanto l’uno. Ma la stessa, identica cosa si può esprimere in [p. 282 modifica]altro modo. Per produrre farina, si fa uso del corso d’acqua, il quale non si consuma, permane; e, nel bilancio dell’impresa, si può porre un tanto di spesa non più per un consumo, bensì per l’uso del corso d’acqua. In ultima analisi, il bilancio rimane lo stesso.

22. Se vogliamo fare uso del concetto dei capitali, daremo luogo, senza difficoltà, nella loro classe al corso d’acqua di cui l’uso serve per muovere le macine; e così pure al fabbricato del molino. Anche la ruota idraulica ci può stare. Ma che diremo delle macine? Se consideriamo che non si consumano tanto presto, le porremo tra i capitali; ma, se poniamo mente che si consumano molto più presto dell’edifizio e della ruota idraulica, le potremo porre nella classe degli oggetti di consumo.

23. Una classificazione così incerta, usata senza riguardo, può facilmente portare a conclusioni vuote di senso: ed infatti gli economisti che hanno usato simili classificazioni qualitative, senza correzione, spesso si sono dati a vere logomachie.

Non ostante l’aiuto che ci porge nell’esprimerci col linguaggio volgare, dovremmo dunque abbandonarla, se non ci fosse modo di correggerla e di ricondurla alla realtà quantitativa.

24. Quel modo esiste, e sta nel porre nel bilancio dell’impresa certe spese che valgono a reintegrare le cose che si considerano come capitali, onde, dopo ciò, si può rigorosamente ammettere che se ne usa solo senza consumarle.

Supponiamo che il nostro mugnaio consumi precisamente due paia di macine all’anno. Egli principia l’anno con un paio di macine nuove e lo finisce dopo di avere consumato il secondo paio di macine. Se a lui piace di mettere le macine tra gli oggetti [p. 283 modifica]di consumo, porrà tra le spese: al 1.° gennaio, l’acquisto del primo paio di macine; al 1.° luglio, l’acquisto del secondo paio. Se a lui piace di considerarle come capitale, porrà tra le spese: al 1.° luglio, la spesa di un primo paio di macine, per reintegrare il capitale; al 31 dicembre, la spesa di un secondo paio di macine, per reintegrare da capo il capitale.

Le spese sono dunque identiche, comunque si considerino le macine; variano bensì le epoche in cui sono fatte: ma di ciò diremo quando discorreremo dello trasformazioni nel tempo; per ora, trascurando ciò, si vede che, comunque si classifichino le macine, il risultamento del bilancio è lo stesso (e si vedrà che è pure lo stesso quando tratteremo delle trasformazioni nel tempo) (§ 47); onde, poichè è solo il risultamento del bilancio che ci preme, possiamo conservare la classificazione qualitativa dei capitali, e metterci, o non metterci, a piacere certi oggetti o certi altri.

Similmente, per una società di assicurazione che ha tavole di mortalità precise, preme poco che un uomo di 30 anni si ponga tra i giovani o tra gli uomini di età matura; in ogni modo, il coefficiente di mortalità rimane lo stesso per lui.

25. La teoria dell’equilibrio economico senza il concetto, e col concetto, di capitale. — Poichè l’equilibrio economico nasce dal contrasto tra i gusti dell’uomo e le difficoltà per procacciarsi le cose atte a soddisfarli, si possono solo considerare quelle cose che saranno consumate direttamente, o di cui si consumerà l’uso. Per produrre quelle cose si possono considerare esclusivamente consumi, ed in tale caso si fa astrazione dal concetto di capitali; oppure si possono considerare consumi di certe merci e uso di certi capitali. In sostanza, [p. 284 modifica]si giungerà allo stesso risultamento. Nell’un caso e nell’altro è necessario tenere conto delle trasformazioni nel tempo (§ 47).

I due modi di considerare il fenomeno si usano più o meno nel concreto. Per ottenere pane e sfamarsi c’è, per un uomo, l’ostacolo che conviene avere un forno per cuocere quel pane. In quel modo il forno appare come un capitale: esso, mediante certe spese, durerà indefinitamente e produrrà sempre pane. Oppure l’ostacolo sta nel procacciarsi le cose (mattoni, calcina, ecc.) le quali, consumate e trasformate, daranno il forno. Sotto quella forma non c’è più capitale; ci sono solo consumi che si ripartiscono su quantità più o meno grandi di pane prodotto. Inoltre, vi saranno le spese per le trasformazioni nel tempo, ma ora non ce ne occupiamo.

Nei paesi civili il forno, e tutte le cose che occorrono per edificare il forno, si considerano come equivalenti al prezzo in moneta: ossia, tanto i capitali come i consumi, possono essere sostituiti dal loro prezzo in moneta. Per tal modo l’ostacolo appare sotto una terza forma, cioè sotto quella del dover fare una certa spesa.

26. Quindi per ottenere pane, uno degli ostacoli appare sotto una delle tre forme seguenti: avere un forno — avere il suolo, la mano d’opera, i mattoni, la calcina, ecc., necessarii per edificare quel forno — disporre della somma che costa quel forno, oppure della somma che costano le cose necessarie per edificarlo.

27. Abbiamo detto disporre di quella somma, non già possederla materialmente sotto forma di moneta. Infatti, mercè certe combinazioni in uso presso i popoli civili, una spesa considerevole si può fare con una piccola somma di moneta, che circola. [p. 285 modifica]

Lo avere trascurato tale osservazione, pure molto ovvia ed evidente, ha tratto parecchi in un singolare errore. Hanno creduto che l’ostacolo sotto quella terza forma stesse nel possesso materiale dell’intera somma di moneta eguale al prezzo dell’oggetto, cioè, nel nostro esempio, del forno. Poscia, tornando al concetto di capitale e alla prima forma, hanno concluso che il capitale era solamente moneta.

In tale affermazione vi è di vero che ogni capitale si può valutare in moneta. Similmente ogni consumo si può valutare in moneta. Quando si dice che un uomo ha mangiato un pranzo di cinque lire, non s’intende mica che abbia mangiato uno scudo di argento; quando si dice che, per produrre pane, occorre una cosa che vale mille lire, non si deve intendere che occorre adoperare materialmente duecento scudi, o cinquanta marenghi, per produrre il pane. Nell’un caso e nell’altro, per fare una spesa totale di mille lire, può occorrere l’uso materiale di 10 marenghi; e sono allora quei 10 marenghi, cioè 200 lire, che soli possono essere considerati come capitale.

Lo studio dell’equilibrio economico, considerando solo consumi, ci dà un concetto del fenomeno complessivo e ci fa trascurare le sue parti. Ciò può essere utile in qualche caso, ma in generale non possiamo trascurare quelle parti. È certo che gli ostacoli per viaggiare in ferrovia si riducono, in ultima analisi, oltre alle trasformazioni nel tempo, di cui si discorrerà più tardi, alla mano d’opera ed ai materiali necessari per edificare la ferrovia, provvederla del materiale di trazione, ed esercitarla. Sicchè non c’è dubbio che finalmente l’equilibrio deve risultare dal contrasto tra quegli ostacoli e i [p. 286 modifica]gusti degli uomini per viaggiare. Ma il salto è veramente troppo grande da questi a quelli; e giova fermarci un poco a notare quali sono gli anelli intermedii di sì lunga catena. Cioè ci gioverà considerare a parte almeno la costruzione e l’esercizio della ferrovia; col che studiamo il fenomeno sotto la prima forma; e, se vuolsi, sotto la terza.

28. Simili considerazioni valgono per le merci che si consumano nella produzione. Non si vede perchè, precedentemente, ci siamo fermati ai mattoni, alla calcina, ecc., necessari per edificare il forno, e perchè non siamo risaliti alla terra da fare mattoni, ai consumi per ottenere la fornace che li ha cotti, e via di seguito: ma con ciò otterremmo dal fenomeno un concetto troppo generale e fuori del concreto. In realtà vi sono varie imprese; e quella che produce il pane non produce, generalmente, i mattoni. Giova dunque considerarle separatamente.

29. Il bilancio dell’impresa sarà quindi fatto nel modo seguente. Essa riceverà da altre imprese certe merci da consumare, e ne porrà il prezzo tra i suoi consumi; avrà certe cose dette capitali, che, mercè artifizi contabili, saranno considerate come rimanenti sempre identiche a sè stesse. Nel suo bilancio quei capitali figureranno per le spese occorrenti per reintegrarli, ed inoltre per una certa somma che si paga per il loro uso. Nel caso delle macine, quella somma sta appunto per colmare la differenza che presentano i due fenomeni notati al § 24; nel primo, cioè quando le macine sono considerate come oggetto di consumo, figurano nel bilancio, al 1.° gennaio e al 1.° luglio, le spese per acquistare un paio di macine; nel secondo, cioè quando le macine si considerano come capitali, quelle spese figurano il 1.° luglio e il 31 dicembre. [p. 287 modifica]

Su ciò, come accennammo, torneremo quando studieremo le trasformazioni nel tempo: ora dobbiamo guardare un poco più da vicino quelle spese per reintegrare gli oggetti classificati come capitali.

30. Ammortamento e assicurazione. — Le cose possono deperire lentamente, perchè si consumano; oppure essere distrutte, interamente od in parte, per un caso fortuito.

Per reintegrare il capitale, i restauri e l’ammortamento provvedono al primo caso; l’assicurazione, al secondo.

Una macchina è mantenuta in buono stato coi restauri; ma nonostante invecchia, e viene giorno in cui conviene meglio comprarne un’altra che seguitare a spenderci intorno. Una nave si mantiene in buono stato coi restauri, ma non indefinitamente. L’ammortamento deve provvedere non solo al deperimento materiale, ma anche ad altro che dicesi economico. Infatti viene giorno in cui la macchina, la nave, ecc., sebbene possano ancora essere materialmente in perfetto stato, sono antiquate, e giova sostituirvi altra macchina, altra nave, ecc., di tipo più moderno e perfezionato. Nel bilancio, le spese pei restauri figurano generalmente tra le spese di esercizio; l’ammortamento sta da sè e serve a reintegrare il capitale.

L’assicurazione è quella somma che ogni anno devesi risparmiare ed accumulare per provvedere ai casi fortuiti. Una impresa può assicurare essa stessa gli oggetti che possiede e che sono sottoposti al caso fortuito. Ciò effettivamente accade qualche volta per le grandi società di navigazione, che assicurano esse stesse le proprie navi. In tal caso l’assicurazione figura nei bilanci come l’ammortamento, ed è una somma che costituisce un fondo [p. 288 modifica]speciale amministrato dalla società. Spesso è un altra impresa che provvede all’assicurazione, e che si occupa esclusivamente di tali operazioni. In tal caso l’impresa che ha da assicurare oggetti, paga un premio di assicurazione ad una società, la quale ad essa restituisce il prezzo dell’oggetto, ove questo venga a perire totalmente o in parte, pel caso fortuito considerato. I modi dell’operazione sono diversi; la sostanza è la stessa, e il fine è sempre la reintegrazione del capitale.

31. Sogliono le società industriali avere un terzo fondo speciale, detto fondo di riserva, che serve a fini varî, tra i quali predomina per altro, spesso, quello di assicurare il capitale sociale e reintegrarlo all’occorrenza. In vero il caso fortuito non si manifesta solo colla perdita di un oggetto materiale. Una guerra, un’epidemia, una crisi commerciale, alterando lo circostanze in cui si svolge un’industria, possono a questa cagionare perdite momentanee e transitorie. Parte del capitale della società viene così perduto, e si reintegra appunto colla riserva.

Questi brevi cenni valgono solo a dare un concetto dei modi coi quali si provvede a reintegrare il capitale, non già ad esaurire l’argomento (§ 68; VIII, 12 e seg.). Ci basta sapere che in un modo o nell’altro, occorre provvedere perchè il capitale sia reintegrato, oppure tener conto per diversa via delle sue variazioni.

32. Una casa è in una città che si spopola e nella quale i fabbricati scemano di valore. Di tale fatto si terrà conto nell’ammortamento. Un’altra casa è in una città che prospera e nella quale i fabbricati aumentano di valore. Abbiamo qui un fenomeno inverso del precedente, e, per non moltiplicare le [p. 289 modifica]denominazioni, giova considerare come un ammortamento negativo la somma di cui bisogna tenere conto per mantenere sempre il capitale al suo medesimo valore. Similmente ci può essere un premio di assicurazione negativo, quando il caso fortuito rechi vantaggio e non danno al possessore dell’oggetto.

Tutti quei fenomeni si manifestano chiaramente per certi titoli di borsa. Supponiamo che un individuo comperi al prezzo di 120 lire dei titoli del valore nominale di 100 lire e che fra dieci anni saranno ritirati dalla società pagando 100 lire al portatore. Chi possiede quei titoli ha un oggetto che deperisce in modo che, costando oggi 120 lire, costerà solo 100 lire fra dieci anni. Se quei titoli si vogliono considerare come capitale, occorre dunque provvedere coll’ammortamento per colmare la differenza.

Se questi titoli costassero oggi 80 lire, invece di 120 lire, vi sarebbe ancora una differenza col prezzo che costeranno fra dieci anni; ma tale differenza sarebbe in favore del portatore, e se ne terrebbe conto con un ammortamento negativo.

Se i titoli di cui discorriamo, invece di essere rimborsati tutti fra dieci anni, sono rimborsati mediante estrazioni annue, chi possiede un titolo comprato per 120 lire perde, quest’anno, 20 lire, se il numero del suo titolo viene estratto pel rimborso. Ne guadagnerebbe 20, ove avesse comprato il titolo per 80 lire. Al primo caso corrisponde un premio di assicurazione positivo; al secondo, un premio di assicurazione negativo.

33. I servizi dei capitali. — Poichè i capitali, con finzione che più o meno si avvicina alla realtà, e che diventa realtà colla considerazione [p. 290 modifica]dell’ammortamento e dell’assicurazione, si suppongono rimanere sempre nello stato primitivo, non si può ritenere che si trasformino nel prodotto. Solo il loro uso giova per ottenere tale prodotto, e diremo che in questo si trasforma il servizio del capitale.

Notisi che è solo quistione di forma. È propriamente l’energia, il lavoro meccanico del corso d’acqua che disgrega la materia del grano e dà la farina; onde è propriamente l’energia del corso d’acqua che, col grano, si trasforma in farina. Esprimiamo sostanzialmente la stessa cosa, ma con forma diversa, dicendo che l’uso del corso d’acqua ci serve ad ottenere farina, oppure che è il servizio del corso d’acqua che, col grano, si trasforma in farina.

34. Beni materiali e beni immateriali. — Gli economisti del principio del secolo XIX disputarono molto per sapere se tutti i beni economici sono materiali, o se ve ne sono di immateriali; e furono dispute che finirono in vere logomachie. L’ultima parola fu detta dal nostro Ferrara, il quale chiaramente mostrò che «tutti i prodotti sono materiali, se si riguarda al mezzo con cui si rivelano; e tutti sono immateriali, se si riguarda all’effetto che sono destinati a produrre». Occorre per altro subito aggiungere che l’identità materiale di due cose non trae seco la loro identità economica; ma tale osservazione ci porta in altro campo.

35. I coefficienti di produzione. — Per ottenere un’unità di un prodotto, si adoperano certe quantità di altri prodotti e di servizi di capitali. Quelle quantità si chiamano i coefficienti di produzione.

36. Se, invece di considerare l’unità di prodotto, si considera una quantità qualsiasi di prodotto, le quantità di altri prodotti e di servizi di capitali adoperati per ottenere quella quantità di prodotto, si dicono fattori della produzione. [p. 291 modifica]

Veramente è inutile avere così due nomi per cose che differiscono solo per una semplice proporzione; ed useremo generalmente la denominazione di coefficienti di produzione. Abbiamo ricordata l’altra, solo perchè usata da parecchi autori.

37. I coefficienti di produzione possono variare in più modi (§ 15, 76), e sono determinati dalle imprese in modo diverso, secondo il tipo (I), o il tipo (II), dei fenomeni economici.

38. Trasformazioni nello spazio (III, 72). — Di tali trasformazioni c’è poco da dire. Conviene solo notare che esse ci porgono un primo esempio di cose le quali, pure essendo materialmente identiche, sono economicamente diverse. Una tonnellata di grano a New York, e una tonnellata della stessa qualità di grano a Genova, sono cose materialmente identiche, ma economicamente diverse, e che quindi possono avere prezzi diversi: la differenza di quei prezzi non è necessariamente eguale al costo di trasporto da una località ad un’altra. Il valutare in tale modo la differenza dei prezzi, è in relazione con una erronea teoria dell’equilibrio economico (III, 224).

Le trasformazioni nello spazio non mancano mai; talvolta sono insignificanti, tal’altra di gran momento. Ci sono imprese che se ne occupano esclusivamente, e si dicono imprese di trasporti. La facilità delle trasformazioni nello spazio estende l’area dei mercati e fa più estesa la concorrenza: quindi quelle trasformazioni sono socialmente di gran momento. Il secolo XIX rimarrà notevole nella storia come quello in cui tali trasformazioni furono molto perfezionate, onde seguirono mutamenti sociali assai estesi.

39. Trasformazioni nel tempo (III, 72). — Sono [p. 292 modifica]interamente analoghe alle precedenti; ma, se le trasformazioni nello spazio furono ognora riconosciute, quelle nel tempo furono e sono spessissimo negate. Di tale fatto i motivi sono varî e molti; qui ne rammenteremo solo due.

Le trasformazioni nello spazio sono accompagnate dal lavoro e da un costo visibile; onde il riconoscerle non urta i pregiudizi di coloro i quali credono che la differenza di prezzo di due merci non può dipendere da altro che dal diverso lavoro necessario per produrre quelle merci, oppure, più generalmente, dal diverso costo di produzione. Invece, nelle trasformazioni nel tempo, non si vedono le materiali dipendenze di tali trasformazioni colle erronee teorie ora accennate.

Ma, per far disconoscere le trasformazioni nel tempo, vi è altro motivo, più potente di tutti, e sta nell’essere questa materia trattata col sentimento invece che colla ragione, e nelle cupidigie che stanno dietro quei sentimenti. Nessuno, o quasi nessuno, imprende a studiare l’argomento delle trasformazioni nel tempo colla mente libera da ogni pregiudizio. Ognuno, prima ancora di avere studiato il problema, sa già come deve essere risoluto; e ne ragiona come un avvocato tratta la causa di un cliente.

40. Se ci poniamo dal punto di vista esclusivamente scientifico, vedremo tosto che, allo stesso modo in cui due oggetti materialmente identici differiscono economicamente per il luogo in cui sono disponibili, differiscono pure economicamente per il tempo in cui sono disponibili. Un pranzo oggi e lo stesso pranzo domani non sono punto la stessa cosa; se un uomo ha freddo, ha bisogno subito di un mantello, e lo stesso mantello che per lui fosse disponibile dopo un giorno, dopo un mese, dopo un anno, non gli [p. 293 modifica]farebbe davvero lo stesso effetto. È dunque evidente che due beni economici materialmente identici, ma disponibili in tempi diversi, possono avere prezzi diversi, precisamente come possono avere prezzi diversi beni che non sono materialmente identici. Non si concepisce perchè uno stimi perfettamente naturale che il prezzo del vino differisca da quello del pane, o che il prezzo del vino in un luogo differisca dal prezzo dello stesso vino in altro luogo, e poi faccia le meraviglie perchè il prezzo di quel vino disponibile oggi, differisca dal prezzo dello stesso vino disponibile fra un anno.

41. Ma la smania di premature applicazioni pratiche fa sì che chi studia l’argomento non si ferma al problema scientifico ora posto, ma subito corre ad esaminare se non fosse possibile con certi mezzi di far sì che il prezzo del vino disponibile oggi, diventasse precisamente eguale a quello del vino disponibile l’anno prossimo.

Non vogliamo ora ragionare di ciò, come non ricerchiamo se ci sono certi mezzi tecnici atti a fare sì che il prezzo del vino diventi eguale a quello del pane, o che il prezzo del grano a New York diventi eguale a quello del grano a Genova. Ci basta avere posto in luce che merci disponibili in tempi diversi sono merci economicamente diverse, e che quindi possono avere prezzi diversi.

42. Dalla teoria dell’equilibrio economico ci sarà fatto noto come poi tali prezzi sono determinati. Occorre dunque badare bene di non cadere nell’errore che si manifesta col dire che la causa della differenza di quei prezzi è la diversità del tempo in cui i beni sono disponibili. Non c’è già una causa per tale differenza; ve ne sono moltissime, e stanno in tutte le circostanze, nessuna esclusa, [p. 294 modifica]che determinano l’equilibrio economico. La considerazione del tempo serve solo a differenziare l’uno dall’altro due beni che non sono disponibili nel medesimo momento. Similmente la composizione chimica differenzia il minerale di rame dal rame metallico, ma non è già la causa della differenza del prezzo del minerale di rame e del prezzo del rame metallico. Questa differenza non ha una causa; ha moltissime cause, o, per spiegarci con maggior rigore, sta in relazione con molti altri fatti; i quali sono per l’appunto tutti quelli che determinano l’equilibrio economico.

43. Il bilancio dell’impresa e le trasformazioni nel tempo. — Nel § 26 abbiamo veduto che la produzione può considerarsi in tre modi differenti, che poi, sostanzialmente, dànno lo stesso risultamento.

44. I. Si considerano esclusivamente consumi, senza fare uso del concetto di capitale. — In questo caso la trasformazione nel tempo consiste nel sostituire ad un bene disponibile in un certo tempo, un bene disponibile in altro tempo. Per produrre grano occorre adoperare sementa. Essa può considerarsi come un consumo che si fa all’epoca in cui si semina. Quella quantità di grano non è economicamente identica ad altra quantità eguale di grano disponibile solo all’epoca del futuro raccolto. Le due combinazioni economiche per la produzione: (A): 100 kg. di grano da consumarsi all’epoca della semina; (B): 100 kg. di grano da consumarsi all’epoca del futuro raccolto, non sono identiche; sono merci diverse; quindi (A) può avere un prezzo diverso di (B); in generale quel prezzo è maggiore (eccezionalmente potrebbe essere minore). La differenza del prezzo di (A) e del prezzo di (B) [p. 295 modifica]è il prezzo di una trasformazione nel tempo, e figura tra le spese dell’impresa. Per esempio, chi per la prima volta semina grano, non può certo adoperare per far ciò il grano della sua raccolta passata, poichè questa non esiste, ed egli avrà solo disponibile, a suo tempo, il grano della raccolta futura. Quindi, nel suo bilancio, deve porre all’uscita una certa spesa per quella trasformazione.

45. II. Si fa uso del concetto di capitale. — In questo caso la trasformazione nel tempo appare nella necessità di avere, o di produrre, quel capitale, prima di poter produrre la merce. Il prezzo della trasformazione nel tempo sarà parte di ciò che costa l’uso del capitale.

La sementa per produrre grano si può considerare come un capitale. Essa viene consumata quando si semina, ricostituita quando si raccoglie; sicchè, per l’azienda agricola, rimane sempre la stessa ed è solo il suo uso per un certo tempo che serve alla produzione del grano. Nel 1895 l’azienda agricola aveva 100 kg. di grano; li ha adoperati per sementa; al raccolto nel 1896 ha messo da parte 100 kg. di grano; lo stesso anno li ha adoperati da capo per sementa; al raccolto nel 1897 ha messo da parte 100 kg. di grano. Qui si fa punto, e si fa il bilancio dell’operazione. L’azienda ha principiato avendo disponibile 100 kg. di grano, e finisce avendo 100 chilogrammi di grano. In realtà dunque, complessivamente, non ne ha consumato punto; ha solo goduto dell’uso di quella quantità. La trasformazione nel tempo sta in quell’uso, e il prezzo di detta trasformazione è parte del prezzo di quell’uso. Se l’impresa è sola, il prezzo di quell’uso sarà pagato all’impresa stessa, e starà in equilibrio coi sacrifizi necessari per produrre [p. 296 modifica]l’oggetto che usa. Se l’impresa acquista da altri quell’oggetto, dovrà porre da una parte il disagio che ha per dovere anticipare il prezzo che paga per l’oggetto, e dall’altra l’utile che ha dall’uso che ne ricava, e vedere se vi è compenso ed equilibrio; infine, l’impresa, invece di produrre l’oggetto o di comprarlo, può comprarne solo l’uso; e il prezzo di quell’uso figurerà nelle spese del suo bilancio.

46. III. Si considera il valore, in moneta, dei fattori della produzione. — In questo caso la trasformazione nel tempo riguarda la moneta, e sta nel permutare una somma disponibile in un certo tempo, in una somma identica disponibile in altro tempo.

Supponiamo che i 100 kg. di grano valgano 20 lire. Per l’azienda agricola, avere disponibile queste 20 lire, vuol dire avere disponibili quei 100 kg. di grano necessari per la sementa. Non occorre che abbia materialmente disponibile un marengo; può bastare, ad es., che abbia solo un mezzo marengo. Con quella moneta compra 50 kg. di grano, poi vende cacio, e torna ad avere un mezzo marengo, col quale compra altri 50 kg. di grano; e così in tutto ha 100 kg. di grano. La trasformazione nel tempo sta dunque in ciò che l’azienda ha bisogno di avere disponibili, nel 1895, la somma di 20 lire, che restituirà solo nel 1897. Nel suo bilancio deve dunque figurare la spesa necessaria per avere disponibile quella somma, per usarne; e ciò tanto nel caso che quella spesa sia pagata all’azienda stessa quanto nel caso che sia pagata ad altri.

47. Torniamo all’esempio del § 24. Se il mugnaio considera le macine come oggetti di consumo, nel suo bilancio, abbiamo le spese: [p. 297 modifica]

(A)
1.° gennaio 100 lire
1.° luglio 100 »

Totale nell’anno 200 »

Se le considera come capitale, le spese sono:

(B)
1.° luglio 100 lire
31 dicembre 100 »

Totale 200 »

La combinazione (A) dà la stessa spesa precisa della combinazione (B), ma fatta in epoca diversa.

Le macine debbono essere pagate dalla farina prodotta. Nella combinazione (A), al 1.° gennaio, occorre comperare le macine, che saranno pagate colla farina prodotta dal 1.° gennaio al 30 giugno, occorre dunque fare una trasformazione nel tempo, per avere disponibile, al 1.° gennaio, ciò che sarebbe solo disponibile al 30 giugno dello stesso anno. Se si fa uso del concetto di moneta, occorre avere disponibile al 1.° gennaio una somma di 100 lire che sarebbe disponibile solo al 30 giugno. Supponiamo che per ciò si paghi 2 lire. Occorrerà ripetere la stessa operazione dal 1.° luglio al 31 dicembre. In tutto si spenderà 4 lire, e la spesa totale della combinazione (A) sarà 204 lire.

Nella combinazione (B), le macine si pagano solo il 1.° luglio, quando già, dal 1.° gennaio al 30 giugno, si è macinata tanta farina quanta occorre per potere far quella spesa. Ma, d’altra parte, per potere fare uso della combinazione (B), occorre avere l’uso di quel capitale. Occorre cioè, precisamente come nella combinazione (A), avere, sino dal 1.° gennaio, l’uso di macine. Se si valuta quel [p. 298 modifica]capitale in moneta, occorre avere l’uso di 100 lire, per un anno; e, se per quell’uso si spende 4 lire, la spesa totale della combinazione (B) sarà 204 lire, e sarà eguale a quella della combinazione (A).

48. Il frutto dei capitali. — L’ostacolo che si manifesta col costo dell’uso di un capitale, ha una parte che è indipendente dall’ordinamento sociale e che ha origine dalla trasformazione nel tempo. Comunque sia ordinata la società, è evidente che un pranzo che si può mangiare oggi, non è identico ad un pranzo che si può mangiare solo domani, e che 10 kg. di fragole disponibili in gennaio non sono identiche a 10 kg. di fragole disponibili in maggio o giugno. L’ordinamento della società ci dà la forma sotto la quale si manifesta quell’ostacolo ed in parte lo modifica nella sostanza. Lo stesso preciso accade per le trasformazioni materiali e per quelle nello spazio (VIII, 18 e seg.).

Un medesimo oggetto può essere prodotto da una qualsiasi di quelle tre trasformazioni. Per esempio, a Ginevra, in luglio, un individuo usa un pezzo di ghiaccio per rinfrescare la sua bevanda. Quel pezzo di ghiaccio può essere stato prodotto da una fabbrica di ghiaccio artificiale (trasformazione materiale); può essere stato trasportato da un ghiacciaio (trasformazione nello spazio); può essere stato raccolto l’inverno e serbato sino in estate (trasformazione nel tempo). Tali trasformazioni si comprano con certi disagi o costi, parte dipendenti e parte indipendenti dall’ordinamento sociale. Per esempio, se gli individui di una collettività raccolgono ghiaccio in gennaio e legna in luglio di uno stesso anno, godranno bevande fresche in luglio, ma avranno patito il freddo nel gennaio. Se [p. 299 modifica]avessero potuto raccogliere legna in quel mese di gennaio e ghiaccio nel seguente mese di luglio, il lavoro compiuto sarebbe stato identicamente lo stesso, ed avrebbero goduto il caldo d’inverno ed il fresco d’estate. Lo avere dovuto anticipare il lavoro di raccoglimento del ghiaccio, costa loro il patire freddo in quel mese di gennaio, e ciò è evidentemente indipendente dall’ordinamento sociale.

Se c’è una seconda collettività che presti alla prima, in gennaio, la legna, ricevendone la restituzione in luglio, la prima collettività non patirà più il freddo; mercè quel prestito consumerà, non materialmente, ma economicamente, in gennaio, la legna che raccoglierà solo sei mesi dopo, e godrà di tale trasformazione nel tempo. La seconda collettività eseguisce una trasformazione nel tempo precisamente inversa.

49. Quando i capitali sono proprietà private, chi li presta, ossia ad altri ne concede l’uso, riceve, di solito, una certa somma, che diremo frutto lordo di quei capitali.

50. Quel frutto è il prezzo dell’uso dei capitali; ne paga i servizi (§ 33). È sempre questione di forma, non di sostanza. Se un individuo paga 10 lire per avere una certa quantità di ciliege, compra una merce. Supponiamo che quella quantità sia appunto prodotta da un ciliegio in un anno; se quel tale individuo compra, con 10 lire, l’uso di quel ciliegio per un anno, viene in sostanza ad avere, per lo stesso prezzo, la medesima quantità di ciliege, come prima. Solo la forma dell’operazione è diversa; egli ha ora comperato il servizio di un capitale (§ 33).

51. Badisi, che se la persona che mangia le [p. 300 modifica]ciliege è la stessa che possiede il ciliegio, non c’è più nessuno a cui pagare le 10 lire, ma rimane sempre il fatto che quella persona gode le ciliege; e tale fatto si può considerare sotto due aspetti, cioè: 1.° direttamente: come il godimento di una merce; 2.° indirettamente: come il godimento del servizio di un capitale.

52. Quando il fenomeno si studia sotto la forma dei servizi dei capitali, viene fatto di ricercare come se ne stabilisce il prezzo, cioè quale valore abbia quel frutto lordo. Si capirebbe facilmente che esso fosse eguale a tutte le spese necessarie per reintegrare il capitale, cioè alle spese di restauro, più l’ammortamento e l’assicurazione; ma per solito quel frutto lordo è maggiore di tale somma, e la differenza, che diremo frutto netto, si para a noi dinnanzi come un’entità di cui l’origine non è tanto palese.

53. Il dire che quel frutto netto paga la trasformazione nel tempo, allontana la difficoltà, non la risolve; poichè dopo chiediamo perchè la trasformazione nel tempo ha un prezzo, e come quel prezzo è determinato.

54. Viene facilmente in mente di unire, colla relazione dell’effetto alla causa, il fatto dell’esistenza di quel frutto netto e l’altro dell’appropriazione dei capitali. Invero, sono fatti concomitanti; e d’altra parte è manifesto che, se non ci fossero proprietari dei capitali, non ci sarebbe nessuno a cui pagare il frutto netto; rimarrebbero solo le spese per reintegrare i capitali, le quali in ogni modo si debbono fare. In altri termini gli ostacoli che si manifestano coll’esistenza del frutto netto hanno esclusivamente origine nel fatto che i capitali sono appropriati.

55. Tale affermazione è lungi dall’essere assurda [p. 301 modifica]a priori e potrebbe benissimo essere vera. Occorre dunque esaminare i fatti e vedere se confermano, o non confermano, quell’affermazione.

Gli ostacoli che uno incontra, in Italia, per procurarsi acqua del mare, se trascuriamo il lavoro ed altre spese necessarie per attingerla, nascono esclusivamente dal fatto che il governo, avendo il monopolio della vendita del sale, proibisce ai privati di attingere quell’acqua. Tali ostacoli dipendono dunque esclusivamente dall’ordinamento sociale; se il governo lasciasse ognuno libero di attingere l’acqua, sparirebbero gli ostacoli che ora impediscono agli italiani di procurarsene; eccetto, si capisce, quelli già rammentati che stanno nel lavoro ed altre spese occorrenti per il trasporto di quell’acqua del mare al luogo dove si vuole usare. Ecco dunque un esempio favorevole alla tesi che il frutto netto dei capitali ha la sua origine nell’ordinamento sociale.

Gli ostacoli che incontriamo per procurarci ciliege, si manifestano a noi sotto la forma del prezzo che richiede il mercante di ciliege. Il nuovo caso pare quindi simile al precedente, e viene voglia di credere che basterebbe eliminare i mercanti di ciliege perchè sparissero gli ostacoli che abbiamo per procurarcene. Ma basta pensarci un poco, per vedere che non è così. Dietro al mercante c’è il produttore, dietro al produttore c’è il fatto che le ciliege non esistono in quantità esuberante pei nostri gusti, come accade per l’acqua del mare. Diremo noi perciò che l’ordinamento sociale, pel quale esiste il mercante di ciliege, non ha parte alcuna negli ostacoli per procurarci ciliege? No davvero; ma diremo che vi è, in ciò, solo parte degli ostacoli; ed un’attenta osservazione dei fatti ci farà anche aggiungere che [p. 302 modifica]spesso è una parte assai piccola, paragonata a quella del rimanente degli ostacoli.

L’ostacolo che noi abbiamo per procurarci ciliege — o ciò, che torna lo stesso, ad avere l’uso di un ciliegio — nasce dunque dall’essere i ciliegi a nostra disposizione in minor numero di quello che ci vorrebbe per soddisfare interamente i nostri gusti. Ed è dal contrasto tra quell’ostacolo e i gusti nostri che ha origine il fenomeno del prezzo dell’uso del ciliegio.

56. In generale, l’ostacolo che si incontra per l’uso dei capitali — o por la trasformazione nel tempo corrispondente — nasce dall’essere i capitali — o i mezzi per eseguire la trasformazione nel tempo — in quantità minore di quella che ci vorrebbe per soddisfare i nostri gusti. Ed è dal contrasto fra quell’ostacolo e i gusti nostri che ha origine il fenomeno del frutto netto dei capitali — o del prezzo della trasformazione nel tempo.

Con ciò siamo semplicemente ricondotti alla teoria generale del prezzo di una cosa qualsiasi, il quale prezzo sempre ha origine dal contrasto tra i gusti e gli ostacoli; contrasto che può solo esistere quando la cosa considerata esista a nostra disposizione in quantità minore di quella che ci vorrebbe per soddisfare interamente i nostri gusti (III, 19).

57. Il frutto netto è dunque regolato dalle stesse precise leggi che regolano un altro prezzo qualsiasi; e il costo della trasformazione nel tempo segue le stesse leggi del costo della trasformazione nello spazio, o del costo di una trasformazione materiale qualsiasi.

Questo costo della trasformazione nel tempo non si può determinare separatamente dagli altri prezzi e da tutte le circostanze da cui dipende l’equilibrio [p. 303 modifica]economico; esso è determinato, insieme a tutte le altre incognite, dalle condizioni dell’equilibrio economico4.

58. Frutti netti di diversi capitali. — Da quanto precede non risulta menomamente che ci sia un solo frutto netto per ogni capitale ossia che il prezzo della trasformazione nel tempo non vari secondo le circostanze in cui si compie. Infatti, nel concreto, si trovano frutti netti diversi pei vari capitali. Si pagano frutti netti diversi: per l’uso di un cavallo — per la somma che vale il cavallo — per quella somma presa in prestito mediante ipoteca — mediante cambiale — mediante una semplice obbligazione, ecc.

La teoria dell’equilibrio economico ci farà noto che parte di quei frutti netti tendono a diventare eguali; e c’insegnerà sotto quali condizioni ciò ha luogo; ma è essenziale di non confondere i caratteri propri a certi fenomeni e i caratteri che quei fenomeni acquistano solo nel caso in cui ha luogo l’equilibrio economico.

59. Il bilancio dell’impresa e i frutti dei capitali. — Il bilancio di un’impresa deve essere fatto a un’epoca fissa; e tutte le somme riscosse, o spese, dall’impresa debbono essere riportate a quell’epoca, aggiungendo o togliendo una certa somma dipendente dai frutti netti. Per spazi brevi di tempo, ciò si fa generalmente colla considerazione del frutto semplice; per spazi più lunghi, colla considerazione del frutto composto.

Nei calcoli delle assicurazioni, è frequente la considerazione del valore presente di una somma futura. Supponiamo, per esempio, che una società debba [p. 304 modifica]pagare 100 lire in fine di ogni anno ad un individuo di 30 anni, e ciò sino che campa. Adoperiamo i dati sperimentali raccolti dalle società di assicurazioni inglesi. Quei dati, mediante certe operazioni sulle quali è inutile fermarci, sono modificati in modo da togliere certe irregolarità che si suppongono accidentali. Si ha così che su 89.865 individui viventi all’età di 30 anni, ne rimangono 89.171, all’età di 31 anni; 88.465, all’età di 32 anni, ecc. Perciò, se si fosse dovuto pagare 100 lire a ciascuno di quegli individui, alla fine del primo anno si sarebbe dovuto pagare 8.917.100 lire; alla fine del secondo anno, 8.846.500 lire; ecc. Si ammette, il che è ipotetico, che il futuro sarà eguale al passato; ed inoltre per un individuo si usano numeri proporzionali a quelli ora segnati; cioè si suppone che, in media, si dovrà pagare a ciascun individuo: , alla fine del primo anno; , alla fine del secondo anno; e via di seguito.

Si cercano ora le somme le quali, col frutto composto, d’anno in anno, riproducono le somme testè trovate. E qui occorre fare un’ipotesi sul frutto. Supponiamo che sia del 5%. Troviamo che una somma di 94.503 posta al frutto del 5% dà, dopo un anno, 99.228; una somma di 89.290 dà, dopo un anno, 93.7545, e dopo due anni 98.442. Quindi diremo che il valore presente della somma di 99.228, pagabile dopo un anno, è 94.503; e il valore presente della somma 98.442, pagabile dopo due anni, è 89.290.

60. I bilanci industriali si fanno più semplicemente. La maggior parte dei frutti sono semplici, e se ne tiene conto approssimativamente. [p. 305 modifica]

In sostanza, per altro, ogni bilancio, per essere preciso, deve essere fatto ad un’epoca data, e tutte le spese e le entrate debbono essere valutate a quell’epoca. Supponiamo che il bilancio si faccia al 1.° gennaio 1903, e che il frutto dei capitali sia del 5%. Una spesa di 1000 lire fatta il 30 giugno 1902 deve figurare per 1025 lire nel bilancio. Similmente per l’entrata. Nella contabilità usuale, quella spesa, o quell’entrata, figurano per 1000 lire al 30 giugno; ma, nel caso della spesa, si trova una somma di 25 lire spese come frutti; e, nel caso dell’entrata, si trova eguale somma riscossa come frutti. In fine dunque torna allo stesso.

61. Il bilancio dell’impresa, il lavoro e i capitali dell’imprenditore. — Nel bilancio dell’impresa occorre tenere conto di tutte le spese; e, se l’imprenditore conferisce qualche cosa o qualche servizio all’impresa, devesi valutare e metterne il prezzo nelle spese.

Un uomo può essere direttore di un’impresa per conto di una società anonima, o di un altro uomo, ed in tal caso riceve uno stipendio; oppure può essere il direttore di un’impresa propria: in tal caso, il suo stipendio si confonde coll’utile che dall’impresa ricava; ma dobbiamo far cessare quella confusione, se vogliamo conoscere il costo preciso dei prodotti e i risultamenti dell’impresa. Similmente i capitali che quest’uomo reca alla propria impresa, devono essere considerati come prestati, ed il loro frutto deve figurare tra le spese. Ecco un uomo che guadagnava 8000 lire all’anno, dirigendo per conto di altri un negozio; egli ne mette su uno per conto proprio, lo dirige e, per l’impianto, spende 100.000 lire. L’utile apparente di tale impresa, senza tenere conto del lavoro e [p. 306 modifica]dei capitali del suo proprietario, è di 10.000 lire. In realtà, c’è una perdita di 2000 lire; poichè occorre mettere fra le spese 8000 lire per lo stipendio del direttore e 4000 lire pei frutti dei capitali. Se quell’uomo avesse seguitato a rimanere direttore per conto altrui ed avesse comperato titoli del debito pubblico fruttanti 4%, avrebbe avuto 12.000 lire all’anno; colla sua impresa ne ha solo 10.000; dunque ci rimette 2000 lire.

62. L’impresa e il proprietario dei beni economici. — L’impresa, come già dicemmo (§ 4), non è che un’astrazione, il cui fine è di isolare una delle parti del processo della produzione.

Il produttore è un essere complesso, in cui stanno confusi l’imprenditore col direttore dell’impresa ed il capitalista; ora li abbiamo separati; ma non basta; c’è ancora da considerare il proprietario di certi beni economici di cui si vale l’impresa.

Supponiamo un possidente che produca grano nel suo possesso, esso può essere figurato dal produttore considerato (III, 102) che produce una merce, con costo crescente colla quantità prodotta. Ma in quell’uomo ci sono due parti da considerare, cioè: 1.° il proprietario della terra; 2.° l’imprenditore che della terra e di altri beni economici si vale per produrre grano. Per dare forma concreta a quell’astrazione, consideriamo un imprenditore che affitta quella terra e che produce grano.

63. Se il produttore trovasi dalla parte degli indici positivi, fa un utile: a chi va quell’utile, ora che si sdoppia in un possidente e in un imprenditore?

Tale problema si risolverà coi principii generali già posti. Supponiamo che, pel possidente, la terra, di cui la quantità che egli possiede è figurata da [p. 307 modifica] o h, non sia direttamente ofelima. Portiamo sull’asse o a la somma, in denaro, che il possidente ricava dalla sua terra. Siamo qui nel caso (IV, 51); la linea dei baratti è h o a pel possidente. Per gl’imprenditori, gli assi saranno h n, h o. Sia h k una linea tale che, se per una quantità qualsiasi h b di terra l’imprenditore paga b d, egli non fa utile alcuno; h k sarà per lui una linea di indifferenza, e precisamente quella di indice zero, ossia quella delle trasformazioni complete. Se si fa k k' eguale a 1, la curva k' h', parallela a k h, sarà un’altra curva di indifferenza, cioè quella di indice uno, e su di essa l’imprenditore farà l’utile 1. Al di là di h k stanno le curve con indice negativo.

64. Se l’imprenditore ha un monopolio, egli si procurerà il massimo utile, recandosi sulla curva di indifferenza h'' k'' che passa per o. Dell’utile della produzione egli avrà tutto e il possidente niente. Se c’è concorrenza tra gli imprenditori, egli dovrà finire col recarsi nella linea h k, per le ragioni già tante volte esposte. Il punto di equilibrio è in k all’intersezione di h k colla linea o a dei baratti del possidente. Questi prende tutto l’utile della produzione, e l’imprenditore niente. Seguirebbe evidentemente lo stesso ove la terra, od altra merce di quel genere, fosse ofelima pel possidente.

65. Si conclude che, quando c’è concorrenza tra le imprese, queste debbono stare sulla linea delle trasformazioni complete; non hanno cioè nè utile nè perdita. [p. 308 modifica]

Le curve di indifferenza degli ostacoli non mutano, nè possono mutare; ma la curva di massimo utile pel possidente diventa curva delle trasformazioni complete per l’impresa.

Occorre vedere come e sin dove tale proposizione teorica può essere vera per le imprese reali, che più o meno differiscono dalle imprese teoriche.

66. Le imprese reali e i loro utili e danni. — Da prima è evidente che la proposizione teorica non può essere vera che come una media per le imprese reali. In vero, queste differiscono dalle astratte in ciò che sono ad un tempo possidenti di certi ordinamenti, di una certa fama che procura a loro la clientela, di certi terreni, miniere, opifici, da esse comprate, ecc. Il carattere astratto di impresa si combina sempre più o meno con quello di possidente.

67. Per le imprese reali, è facile vedere, se si ragiona oggettivamente, che non ci può essere, in media, nè utile nè danno, ove, s’intende, si tenga conto di tutte le spese, compresi i frutti dei capitali dell’impresa. Presentemente un gran numero di tali imprese hanno forma di società anonime e i loro titoli si vendono in borsa; ogni giorno, del rimanente, ne sorgono delle nuove. Perciò qualsiasi persona che abbia quattrini, anche in piccola quantità, può partecipare a quelle imprese comprandone uno o più titoli. Non sarebbe quindi davvero concepibile che queste avessero un qualche vantaggio sui titoli di debito pubblico o su altri titoli di debito pei quali si paga un frutto fisso. Se questo vantaggio esistesse, tutti comprerebbero azioni di società anonime. Si è detto che occorre tener conto di tutte le circostanze; quindi occorre tenere conto dell’incertezza dei dividendi, del fatto che quelle società [p. 309 modifica]hanno vita più o meno breve, ecc. Perciò può parere che i loro titoli fruttino di più; ma fatte quelle deduzioni, il frutto, in media, diventa eguale a quello dei titoli di debito con frutto fisso. Per esempio, in Germania, azioni di miniere di carbone che fruttano circa il 6% equivalgono all’incirca a titoli del debito prussiano che fruttano il 3 %.

68. Si può per altro osservare che tale equivalenza è in parte soggettiva; cioè sta il fatto che i tedeschi credono a quell’equivalenza — se no venderebbero i loro titoli di consolidato prussiano e comprerebbero azioni di miniere, od altre — ma la realtà potrebbe, in parte almeno, differire dal concetto che gli uomini ne hanno.

Per tal modo diverge il fenomeno concreto dal fenomeno teorico. Per operazioni che durano breve tempo, spessissimo ripetute, che possono dar luogo a molti adattamenti e riadattamenti, pare che piccola debba essere quella divergenza; ma non possiamo, a priori, asserire che è zero, anzi pare piuttosto che, sebbene piccola, debba sempre esistere.

Supponiamo, per esempio, due usi del risparmio che dànno eguale frutto netto, tenute conto dei premi di assicurazione e di ammortamento; ma il primo ha probabilità di grandi guadagni e di grandi perdite, che mancano nel secondo (VIII, 12).

Il primo sarà preferito da un popolo avventuroso, il secondo da un popolo quieto; quindi, per la diversa domanda che si fa di questi usi del capitale, i frutti netti potranno cessare di essere eguali. Un popolo avventuroso comprerà più volontieri azioni di società industriali che titoli di debito pubblico; e un popolo buon massaio e timido economicamente, farà l’opposto. Quindi può darsi che, in realtà, le imprese industriali abbiano un piccolo utile o un piccolo danno proprio. [p. 310 modifica]

69. Solo l’esperienza può darci ulteriori notizie in proposito; e fortunatamente una statistica, studiata con molta cura dal Moniteur des Intérêts Materiels, ci porge modo di avere un concetto sperimentale del fenomeno.

Quell’ottimo giornale ha pazientemente ricercato, coi documenti ufficiali, quale era stata la sorte delle società anonime belghe create dal 1873 al 1887. Sono in tutto 1088 società con un capitale totale di 1.605,7 milioni. Occorre dedurne 112,6 non ancora versati, e rimane un capitale totale iniziale di 1.493,1.

Di tali società, 251, con un capitale di 256,2 milioni, sono sparite, e non è più possibile trovarne traccia alcuna; è probabile che l’intero capitale loro è perduto. Altre 94, con un capitale di 376,5 milioni, hanno liquidato, colla perdita, pare, dell’intero capitale. Le seguenti hanno pure liquidato; 340 società, con un capitale di 462,4 milioni, hanno restituito circa 337,0 milioni; 132 società con un capitale di 166,8 milioni, hanno liquidato con utile, ed hanno restituito 177,5 milioni. Totale delle restituzioni 514,5 milioni. Rimane pel capitale investito nelle società, parte perduto, e parte ancora attivo nel 1901, 978,6 milioni. Totale all’origine come sopra 1493,1 milioni.

Il frutto totale ottenuto dalle società sopravviventi è di 55,9 milioni all’anno; e quindi, paragonato al capitale iniziale, si vede che questo, in ultima analisi, ha fruttato il 5,7%.

Siamo quindi molto vicini al frutto che si può ricavare col semplice prestito del denaro.

Il frutto netto deve essere inferiore, a quello che abbiamo trovato, poichè da quell’entrata di 55,9 milioni ci sarebbe ancora da dedurre dei premi di [p. 311 modifica]ammortamento e di assicurazione, di cui il valore preciso ci è ignoto. Ma, ragionando sul frutto del 5,7%, si noti che dal 1873 al 1886 ci furono molte occasioni di comprare debito pubblico di Stati perfettamente solvibili, in modo da ottenere un frutto dal 4 al 5%. Si vede dunque che, nel Belgio, il frutto ricavato dal risparmio adoperato nelle società anonime è pressochè eguale a quello che si sarebbe ottenuto comperando debito pubblico di Stati godenti un buon credito.

Occorre anche notare che nell’utile di parte di quelle società, per esempio di quelle che esercitano miniere, è incluso l’utile del possidente.

Se anche, per tenere conto dell’incertezza di queste statistiche, supponiamo che le 251 società che sono sparite senza lasciare traccia alcuna hanno restituito la metà del capitale; e chiunque abbia pratica della Borsa può vedere quanto tale ipotesi è poco probabile: il frutto netto rimane inferiore al 6,6%; quindi la differenza col frutto medio del semplice prestito, se pure esiste, non è grande.

Questi risultamenti sono confermati da altre statistiche pubblicate nello stesso giornale del 31 gennaio 1904.

Dal 1888 al 1892 furono costituite, nel Belgio, 522 società anonime, con un capitale, all’ultimo bilancio, di 631,0 milioni di franchi. Rimangono da versare 37,3 milioni; e perciò il capitale effettivo è di 593,8 milioni.

Abbiamo 98 società, con un capitale di 114,3 milioni, delle quali non si sa più nulla. Supponiamo che abbiano restituito la metà di quel capitale, cioè 57,6 milioni. Trentotto società, con un capitale di 51,7, di cui rimanevano da versare 4,0, hanno liquidato, con un utile di 3,6; quindi hanno restituito [p. 312 modifica]51,3. Novantacinque società con un capitale di 94,7, di cui rimanevano da versare 3,1, hanno liquidato, con una perdita di 18,6; quindi hanno restituito 73,0. Altre cinque società hanno liquidato con una perdita minima, ed hanno restituito 35,5. Totale delle restituzioni 216,4. Rimane dunque un capitale di 377,4 milioni.

L’utile annuale era di 12,5 milioni, e quindi il frutto era del 5,9%.

Naturalmente, se non si tiene conto delle imprese che perdono e liquidano, il frutto diventa maggiore; ed in questo fatto sta l’origine del pregiudizio secondo il quale le imprese, dove c’è libera concorrenza, ottengono un utile considerevole in più del frutto netto usuale dei capitali. A mantenere poi questo pregiudizio concorre il fatto che si confonde l’utile dell’impresa coll’utile del possidente, o coi frutti di certi monopoli, brevetti d’invenzione, ecc.

La media dei frutti è ottenuta sommando frutti alti e frutti bassi. Il giornale citato ha calcolato, nel suo numero del 31 marzo 1901, questi frutti per varie imprese. Per le banche stanno tra 10,7 e 1,8%; per le ferrovie, tra 20,4 e 1,6%; per le tramvie tra 9,6 e 0,8%; per le miniere di carbone tra 17,8 (trascurando un caso eccezionale in cui si ha 38,3%) e 0,86%; per le ferriere e gli opifici meccanici tra 12,9 e 2,10%; per i produttori di zinco, tra 30,9 (Vieille montagne) e 11,8; per le fabbriche che trattano il lino, tra 16,5 e 0,66%; per le vetrerie, tra 13 e 3,1%. Tutti quei frutti sono calcolati in relazione al capitale nominale.

In sostanza, astrazione fatta da ogni o qualsiasi teoria, e tenuto pure largo conto delle imperfezioni e delle incertezze delle statistiche, i fatti dimostrano [p. 313 modifica]che, almeno nel Belgio, le imprese, dove esiste libera concorrenza, ottengono pei loro capitali, in media, un frutto netto che non si discosta molto dal frutto usuale dei prestiti; se pure quei due generi di frutti non sono pressochè eguali.

I fatti corrispondono dunque assai bene alle deduzioni teoriche.

70. Variabilità dei coefficienti di produzione. — L’impresa ha, nella produzione, per ufficio principale di determinare i coefficienti di produzione, in relazione alle condizioni economiche.

71. Qui occorre distinguere due tipi di fenomeni precisamente come si è fatto pel consumatore e pel produttore (III, 40). Il tipo (I), per ora, è quello che viene generalmente seguito dalle imprese. Queste fanno i loro conti coi prezzi che sono praticati sul mercato, senza curarsi d’altro; e sarebbe impossibile operare diversamente. Un’impresa vede che, ai prezzi del mercato, scemando la quantità di mano d’opera ed accrescendo la quantità di capitale mobiliare (macchine, ecc.), ottiene un minore costo di produzione. Segue quella via, senz’altro. Effettivamente, l’aumento della domanda di risparmio può farne crescere il frutto; la diminuzione della domanda di mano d’opera, può farne scemare il prezzo; ma manca ogni criterio all’impresa per valutare, anche con grossolana approssimazione, quegli effetti, onde se ne astiene. Del resto, qualunque siano le cagioni del fenomeno, basta guardare come sono fatti i conti di un’impresa qualsiasi, per vedere che esso sussiste. Se verrà giorno in cui i trust invaderanno gran parte della produzione, potrà mutare quello stato di cose, e potranno esservi molte industrie che seguiranno il tipo (II) per la determinazione dei [p. 314 modifica]coefficienti di produzione; per ora non ci sono; il che non toglie che siano molte quelle che seguono il tipo (II), per la vendita dei prodotti.

72. Bisogna intender bene l’operazione che compie l’impresa. Essa fa i suoi conti coi prezzi del mercato e, in conseguenza, modifica le sue domande di beni economici e di lavoro; ma queste modificazioni nelle domande mutano i prezzi; onde i conti già fatti non stanno più bene; l’impresa li rifa coi nuovi prezzi; da capo le modificazioni nelle domande dell’impresa, e di altre che similmente operano, mutano i prezzi; quindi ancora deve l’impresa rifare i conti; e così via di seguito, sinchè con prove e riprove successive trova la posizione in cui il costo di produzione è minimo5.

73. Come già abbiamo veduto accadere in casi simili (III, 122), la concorrenza costringe ad operare secondo il tipo (I) anche chi ne fosse restio. Potrebbe darsi che un’mpresa si astenesse dall’aumentare, ad esempio, la domanda di mano d’opera per timore di farne crescere il prezzo; ma ciò che quest’impresa vorrebbe astenersi dal fare, un’altra impresa concorrente lo farà; e la prima dovrà pure battere quella via, se non vuole trovarsi in condizioni inferiori, e quindi essere tratta in rovina.

74. Occorre poi osservare che, la concorrenza cacciando le imprese sulla linea delle trasformazioni complete, ne segue che, effettivamente, se si considera il fenomeno in media e per un tempo assai lungo, sono i consumatori i quali finiscono col godere la maggior parte dell’utile che ha origine da tutto quel lavorìo delle imprese. [p. 315 modifica]

Per tal modo le imprese concorrenti riescono dove non intendevano menomamente di andare (§ 11). Ciascuna di essa badava solo al proprio guadagno, e dei consumatori si curava solo in quanto li poteva sfruttare; ed invece, mercè i successivi adattamenti e riadattamenti imposti dalla concorrenza, tutto quell’affannarsi delle imprese riesce di beneficio pei consumatori.

75. Se nessuna impresa guadagnasse nulla in quelle operazioni, il giuoco durerebbe poco. Ma effettivamente accade che le più sollecite ed avvedute fauno un utile, temporaneamente e sinchè non si sia giunti al punto di equilibrio; mentre quelle che sono più tarde e meno accorte, perdono e si rovinano.

76. Ci sono certe relazioni tra i coefficienti di produzione per cui si può compensare il diminuire dell’uno coll’aumentare dell’altro; ma ciò non è vero di tutti i coefficienti. Per esempio, nell’agricoltura si può compensare, entro certi limiti, la diminuzione della superficie coltivata coll’aumento dei capitali mobiliari e della mano d’opera, ottenendo sempre lo stesso prodotto. Ma è pure manifesto che non si potrebbe mantenere la stessa produzione di grano, aumentando i granai e scemando la superficie coltivata. Un orefice può aumentare quanto vuole la mano d’opera, ma da un kg. d’oro non potrà mai ricavare più di un kg. di gioielli in oro, allo stesso titolo.

77. Vi sono anche casi in cui il compenso sarebbe possibile teoricamente, ma non lo è economicamente; e tutte le relazioni tra i coefficienti di produzione le quali non stanno nei limiti delle cose praticamente possibili, sono inutili a considerarsi. Per esempio, è inutile ricercare se può [p. 316 modifica]scemare la mano d’opera che occorre per stagnare le casseruole di rame, usando invece casseruole d’oro. Ma, se l’argento scemasse ancora di prezzo, si potrebbe considerare la sostituzione di casseruole di argento, o di rame ricoperto da una lamina d’argento, alle casseruole di rame.

78. Ripartizione della produzione. — Il costo di produzione non dipende solo dalla quantità trasformata, dipende altresì dal numero dei produttori o delle imprese. Per ognuna di queste vi sono spese generali che si debbono ripartire sulla sua produzione; e, inoltre, l’essere quell’impresa più o meno estesa muta le condizioni tecniche ed economiche della produzione.

79. Si è creduto che le imprese fossero in condizioni tanto migliori quanto più estesa fosse la loro produzione; e da tale concetto ha avuto origine la teoria per la quale l’industria dovrebbe metter capo alla costituzione di pochi e grandi monopolii.

I fatti non concordano con quella teoria. Già era noto che, per l’agricoltura, vi sono, per ogni genere di produzione, certi limiti di estensione dell’impresa che non conviene varcare. Per esempio, la coltura dell’ulivo in Toscana, e l’allevamento del bestiame in Lombardia, sono due generi di imprese interamente diverse. Ai grossi affittuari lombardi non tornerebbe menomamente conto di torre in affitto uliveti in Toscana, ove invece la mezzadria seguita a prosperare.

Ora molti fatti, per l’industria ed il commercio, hanno mostrato che, oltre certi limiti, la concentrazione delle imprese reca più danno che utile. Si diceva che, a Parigi, i grandi magazzini avrebbero finito col concentrarsi in uno solo; invece, si [p. 317 modifica]sono moltiplicati, e ancora seguita a crescerne il numero. Dei trust americani, alcuni hanno avuto prospero successo, altri sono finiti malamente e con gravi rovine.

80. Si può ammettere, in generale, che, per ogni genere di produzione, vi è, per l’impresa, una certa mole la quale corrisponde al minimo costo di produzione: quindi la produzione, lasciata libera, tende a ripartirsi tra imprese di quel genere.

81. Equilibrio generale della produzione. — Pei fenomeni del tipo (I), abbiamo già veduto (III, 208) che quell’equilibrio era determinato da certe categorie di condizioni, che indicammo con (D, E). La prima, cioè la categoria (D), stabilisce che i costi di produzione sono eguali ai prezzi di vendita; la seconda stabilisce che le quantità richieste per la trasformazione sono le quantità effettivamente trasformate.

La considerazione dei capitali nulla muta sostanzialmente a quelle condizioni; solo la forma è diversa in ciò, che, invece di sole merci trasformate, si tiene conto di merci e di servizi di capitali.

Si osservi che non è necessario che ogni merce abbia il proprio costo di produzione. Per esempio, il grano e la paglia si ottengono insieme, ed il prezzo di produzione è complessivo. In tali casi esistono certe relazioni che ci fanno conoscere in che rapporti stanno le merci così unite: per esempio, si sa quanta paglia si ottiene per tanto di grano. Tali relazioni faranno parte della categoria (D) di condizioni.

82. Occorre ora tenere conto della variabilità dei coefficienti di produzione. Principiamo col supporre che tutta la quantità di una merce Y sia prodotta da una sola impresa. Nei fenomeni del [p. 318 modifica]tipo (I), che ora consideriamo, l’impresa accetta i prezzi del mercato, e con questi fa i conti per vedere come ad essa conviene di regolare i coefficienti di produzione.

Supponiamo che, per produrre quella stessa quantità di Y possa, ai prezzi del mercato, per esempio al prezzo di 5 lire per giornata di operaio, scemare la mano d’opera di 50 lire al giorno, purchè aumenti la spesa delle macchine di 40 lire al giorno; è evidente che all’impresa gioverà fare quell’operazione.

Ma, quando per tale modo sarà scemata la domanda della mano d’opera e cresciuta quella delle macchine, muteranno i prezzi; e muterà pure la quantità totale della merce Y prodotta dall’impresa, poichè al nuovo prezzo di Y si venderà una quantità diversa.

Da capo, coi nuovi prezzi e la nuova quantità totale, l’impresa rifarà i calcoli. E così seguiterà sinchè per certi prezzi, e per certe quantità, tanto è il risparmio sulla mano d’opera, quanto la maggior spesa per le macchine; e lì si fermerà.

83. Pei fenomeni di tipo (II), la via seguita è diversa. Quando sia praticamente possibile, il che per altro spessissimo non è, si tiene conto subito dei mutamenti nei prezzi e nelle quantità. Quindi, nell’esempio precedente, l’impresa non farà i conti supponendo che la giornata del lavoratore sia di 5 lire, ma la valuterà, poniamo, a 4,80, per tenere conto che, scemando la domanda del lavoro, può scemare il prezzo della giornata; similmente farà per le macchine; similmente farà per la quantità prodotta.

È manifesto che, per poter fare tutto ciò, occorre sapere calcolare quelle variazioni dei prezzi e delle [p. 319 modifica]quantità; e nella pratica ciò segue raramente e solo nei casi di monopolio. Un agricoltore può facilmente calcolare, ai prezzi del mercato, se a lui più giova adoperare la forza di un cavallo o quella di una locomobile, per pompare l’acqua; ma, nè egli, nè uomo al mondo, è capace di sapere quale effetto la sostituzione della locomobile al cavalle avrà sui prezzi dei cavalli e delle locomobili; nè quale maggiore quantità di ortaggi saranno consumati, dopochè i consumatori godranno del risparmio procurato da quella sostituzione.

84. Torniamo al caso dei fenomeni del tipo (I). In generale, i produttori sono parecchi. La produzione si ripartisce tra essi come è stato detto ai § 78 a 80, e dopo ciascuno di essi determina i coefficienti di produzione come se fosse unico produttore. Se ciò modifica la ripartizione, si rifanno i calcoli colla nuova ripartizione, e via di seguito.

85. Le condizioni così ottenute per la ripartizione e quelle per la determinazione dei coefficienti di produzione formeranno una categoria che diremo (E).

Per determinare i coefficienti di produzione ci saranno, dapprima, le relazioni che corrono tra quei coefficienti, e le relazioni che indicano quali sono costanti; poscia vi saranno le condizioni in virtù delle quali i valori di quei coefficienti sono fissati in modo da ottenere il minimo costo di produzione (§ 82).

Si dimostra in modo analogo a quello usato precedentemente che le condizioni (F) sono in numero pari a quello delle incognite da determinare (Append. 27).

86. Pei fenomeni del tipo (II), le condizioni (D) sono sostituite, in parte, cioè per quelle imprese [p. 320 modifica]che seguono il tipo (II), da altre condizioni, le quali esprimono che dette imprese ricavano il massimo utile dai loro monopoli. Generalmente quell’utile è espresso in denaro. Le condizioni (E) non mutano. Le condizioni (F) mutano, sia perchè, come si è veduto al § 83, la via seguita è diversa, sia perchè ci può essere un monopolio di certi fattori della produzione, o di certe imprese.

87. In generale, quando si considera tutta una collettività, la somma, in moneta, di ciò che vendono le imprese è eguale alla somma spesa dai consumatori; la somma di ciò che comprano le imprese è eguale all’entrata, ristretta al fenomeno economico, degli individui componenti la collettività.

88. Produzione dei capitali. — I principii ora posti sono generali e valgono per ogni genere di produzione; ma, tra queste, alcune meritano di essere considerate a parte.

I capitali sono spesso prodotti dalle imprese stesse che li adoperano, ma, anche spesso, da altre imprese. Essi sono merci che recano utile solo pel frutto che danno; quindi, chi li produce o li compera, deve pagarli un prezzo equivalente a quell’utile, quando l’equilibrio sia stabilito e si operi secondo il tipo (I).

Ma in quelle condizioni il prezzo di vendita è eguale al costo di produzione; e, d’altra parte, c’è un prezzo solo sul mercato per la stessa merce. Segue da ciò che, nelle condizioni esposte, i frutti netti (§ 52) di tutti i capitali debbono essere eguali.

Ciò è strettamente subordinato all’ipotesi fatta che tutti quei capitali siano contemporaneamente prodotti.

89. Successive posizioni di equilibrio. — Consideriamo tanti spazi di tempo eguali e successivi. [p. 321 modifica]In generale la posizione di equilibrio muta dall’uno all’altro di quegli spazi. Supponiamo che una certa merce A abbia il prezzo 100 nel primo spazio di tempo, e che abbia il prezzo 120, nel secondo. Se in ogni spazio di tempo si consuma precisamente la quantità di A prodotta in quello spazio, non vi sarà altro da dire se non che la prima porzione di A sarà consumata col prezzo 100; e la seconda, col prezzo 120. Ma, se nel primo spazio di tempo avanza una certa porzione di A (o tutta la quantità di A), il fenomeno diventa molto più complesso e dà luogo a considerazioni di gran momento.

La porzione di A che è avanzata aveva il prezzo 100; ma si confonde ora colla nuova porzione di A, che ha il prezzo 120, e quindi avrà anche quel prezzo. Per tal modo chi possiede quella porzione A, sia un privato o la collettività, fa un guadagno eguale alla differenza dei prezzi, cioè 20, moltiplicata per la quantità della porzione avanzata. Farebbe invece una perdita analoga, ove il secondo prezzo fosse minore del primo.

Per altro quel guadagno sarebbe semplicemente nominale, ove tutti i prezzi delle altre merci avessero aumentato nelle stesse proporzioni; e perchè il possesso di A rechi un qualche vantaggio in paragone del possesso di B, C,.... occorre che quelle proporzioni siano diverse.

90. La rendita. — Il fenomeno, rimanendo sostanzialmente lo stesso, muta forma quando si usa il concetto di capitale.

Sia A un capitale. Come abbiamo veduto al § 24, si tengono i conti in modo che si può supporre che A si adoperi senza essere consumato, che se ne goda solo l’uso. Quindi non una porzione, ma [p. 322 modifica]tutta la quantità di A avanza dal primo spazio di tempo e si ritrova nel secondo.

Principiamo col supporre che il frutto netto dei capitali sia lo stesso nel primo spazio di tempo e nel secondo, e che sia, per esempio, del 5%. Vuol dire che A, che aveva 100 per prezzo nel primo spazio di tempo, dava allora 5 di frutto netto; e che, nel secondo spazio di tempo, avendo il prezzo 120, darà 6 di frutto netto.

Viceversa dai frutti si possono dedurre i prezzi. Sia A un capitale che non si produce; per esempio la superficie del suolo. Nel primo spazio di tempo dava 5 di frutto netto; se ne deduce che il suo prezzo doveva essere 100; nel secondo spazio dà 6 di frutto netto, se ne deduce che il suo prezzo è diventato 120.

Vi è in ciò un vantaggio por chi possiede quel capitale A; ma, se tutti gli altri capitali hanno aumentato di prezzo nelle stesse proporzioni, non vi è alcun vantaggio ad avere A piuttosto che B, C,.... Se invece tutti i capitali non hanno aumentato di prezzo nelle stesse proporzioni, il possesso di uno di essi può essere più o meno vantaggioso del possesso di un altro.

91. Supponiamo che, in media, tutti i prezzi dei capitali abbiano aumentato del 10%; il prezzo di A, invece di 100, dovrebbe dunque essere 110, e al 5% dovrebbe dare 5,50 di frutto netto: quindi, paragonato agli altri capitali, A dà 0,50 di vantaggio sul frutto netto. Tale quantità sarà da noi detta rendita acquistata passando da una posizione ad un’altra6.

92. Supponiamo poi che muti anche il saggio del [p. 323 modifica]frutto netto; era 5% nella prima posizione e diventa 6% nella seconda. In tal caso, A che valeva 100 nella prima posizione, dava 5 di frutto netto; e, valendo 120 nella seconda posizione, darà 7,20 di frutto netto. Ma, supposto che in media, i prezzi di tutti i capitali abbiano aumentato del 10%, se A fosse stato nelle condizioni di quella media, avrebbe il prezzo di 110, e darebbe, al 6%, un frutto netto di 6,60; invece dà un frutto netto di 7,20; la differenza, cioè 0,60, misura il vantaggio di chi possiede A, ed è la rendita acquistata passando dalla prima posizione alla seconda7.

93. La rendita della terra, ovvero rendita di Ricardo, è un caso particolare del fenomeno generale ora studiato8. Diede luogo a molte discussioni, spesso inutili. Si ricercò se i possessi territoriali avevano quel privilegio; e si riconobbe, da alcuni, che il fenomeno era più generale; altri negarono l’esistenza della rendita, collo scopo di difendere i proprietari fondiarii; altri invece, per combatterli, videro nella rendita l’origine di ogni genere di guai per la società.

94. Ricardo affermava che la rendita non fa parte del costo di produzione. C’è da prima qui il solito errore di credere che il costo di produzione di una merce sia indipendente dal rimanente del fenomeno economico. Lasciando poi stare ciò, e volgendosi al ragionamento col quale si prova che la rendita non fa parte del costo di produzione, si vede che essenzialmente esso sta nelle proposizioni seguenti: 1.° si suppone che una merce, [p. 324 modifica]grano ad esempio, sia prodotta su terre di fertilità decrescente; 2.° si suppone che l’ultima porzione della merce sia prodotta su una terra che dà una rendita zero. Poichè il prezzo della merce è unico, esso è determinato dal costo di produzione, eguale al prezzo di vendita di quell’ultima porzione, e quel prezzo non varierà evidentemente se, per le prime porzioni, la rendita, invece di essere riscossa dal proprietario, è riscossa dall’imprenditore; sarà semplicemente un regalo fatto a quest’ultimo.

95. Vi è da osservare su ciò che la seconda ipotesi spesso non è vera; e che la rendita può esistere per tutti i possessi. Inoltre, concedendo che siano vere le ipotesi fatte, si osservi che, se il possidente fosse ad un tempo l’imprenditore e il consumatore, la rendita dovrebbe necessariamente essere dedotta dal costo di produzione. Abbiamo, per esempio, due terreni che, con 100 di spesa ognuno, producono il primo 6 di grano; il secondo, 5 di grano; il prezzo del grano è 20 lire. Il primo terreno ha una rendita di 20, il secondo, di zero. Coll’ordinamento in cui c’è un possidente, un imprenditore, un consumatore, il consumatore paga 220 lire per 11 di grano; di quella somma 20 lire vanno al possidente come rendita, 200 lire sono spese. Il costo di produzione, per l’imprenditore, eguale al prezzo di vendita, è 20.

Se c’è una sola persona, che è possidente, imprenditore, consumatore, quella quantità 11 di grano è prodotta colla spesa di 200, e perciò ogni unità costa 18,18. Il costo di produzione è dunque diverso da quello che era precedentemente.

96. Giova vedere la relazione di questo caso particolare colla teoria generale della produzione (III, 100). [p. 325 modifica]

Su o y portiamo i prezzi delle quantità di grano, su o x le quantità di moneta che rappresentano le spese. Facciamo o a eguale a b, eguale a 100; a h, eguale a 120 è il prezzo della quantità di grano prodotto nel primo possesso; Fig. 42l k, eguale a 100, è il prezzo della quantità di grano prodotta nel secondo possesso; o h k è la linea delle trasformazioni complete. Se tiriamo la retta o s t parallela a h k, h s, sarà eguale a 20, la linea v s t è linea di indifferenza degli ostacoli di indice 20. È la sola per la quale un sentiero rettilineo movendo da o possa essere tangente ad una linea di indifferenza, al disopra di h l (si confonde con quella linea da s verso t). Esiste una linea di massimo utile che è precisamente s t. L’equilibrio dovrà avere luogo su quella linea. Non c’è che da ripetere quanto dicemmo nei paragrafi precedenti.

97. Quando il possidente si confonde coll’imprenditore e col consumatore, non consuma più tutto il suo grano ad un prezzo eguale per tutte le porzioni; egli segue la linea delle trasformazioni complete o h k, invece di seguire la linea dei prezzi costanti o s t; l’equilibrio ha luogo in un punto di h k, invece di avere luogo in un punto di s t.

Tale fenomeno ha luogo in casi molto più generali di quello ora accennato, e sarà studiato nel capitolo seguente.

Note

  1. Il Ferrara dice: associazione. Egli, nella prefazione intitolata: L’agricoltura e la divisione del lavoro, XIV, dopo di avere rammentato il fatto che più uomini, invece di uno, concorrono ad un’opera produttiva, aggiunge: «Quando questo fatto, questo concorso, noi lo riguardiamo dal lato dello scopo e del risultato comune, vi vediamo l’Associazione; quando lo si considera dal punto di vista degli individui concorrenti, rispicca la Divisione».
  2. Systèmes, II, p. 372 e seg.
  3. Sui diversi significati che può avere quel vocabolo, vedasi prof. Irving Fisher, What is capital? Economic, Journal, Dec., 1896; Senses of capital, ibid., June, 1897, Procedents for defining capital, Quart. Journ. of economics May, 1904.
    Inoltre Systèmes, I, p. 158, 357 a 362.
  4. Systèmes, II, pag. 288 e seg.
  5. Cours, § 718.
  6. Cours, § 746 e seguenti.
  7. Il concetto generale, coi simboli algebrici, trovasi esposto Cours, 747, nota.
  8. Cours, § 753.