Il Tesoro (Latini)/Illustrazioni al Libro VII

Brunetto Latini - Il Tesoro (XIII secolo)
Traduzione dalla lingua d'oïl di Bono Giamboni (XIII secolo)
Illustrazioni al Libro VII
Libro VII Indice III


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SULL’AUTENTICITÀ DEL LIBRO VII

DEL VOLGARIZZAMENTO

DEL TESORO DI SER BRUNETTO LATINI

ATTRIBUITO

A BONO GIAMBONI

Bartolomeo Sorio, come dicemmo più volte, aveva promesso un’ edizione criticamente corretta di tutto il Volgarizzamento del Tesoro di ser Brunetto Latini, fatto nel buon secolo della lingua nostra da Bono Giamboni. Fra i saggi che di tempo in tempo ne diede in luce, è l’ intero libro VII, edito a Modena dal Soliani l’anno 1867, col titolo: Libro settimo del Tesoro di ser Brunetto Latmi, testo originale francese e traduzione toscana, indotto alla lezione vera del concetto originale dal P. Bartolomeo Sorio D. O. di Verona. In questo volume sono riuniti i brani già pubblicati in molti fascicoli degli Opuscoli religiosi letterari e morali dal tipografo medesimo stampati. Il volume è di pagine

345 in 8." [p. 520 modifica]
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Alla pagina 3 si legge questo periodo, riportato

da due lezioni pubblicate dal Sorio fra gli Atti dell’ Istituto veneto, volume V, serie III: « Ho detto che io temo, non essere di Bono Giamboni il volgarizzamento di questo libro VII; ed a sospettarne m’induce, il vede’* avere frainteso scapestratamente r originale il traduttore toscano in questo libro troppo pili spesso che Bono Giamboni non fece a gran pezza nel resto dell’opera, ed averlo franteso di quelle voci medesime e di quelle frasi che furono bene intese e tradotte nel resto dell’ opera da Bono Giamboni. Senza che il ms. Ambrosiano, ed un ms. simile, ma più antico forse d’ un secolo, or posseduto dal prof. Roberto De Visiani, questi due mss. del Tesoro volgarizzato da Bono Giamboni ambedue sono mancanti del libro VII intero. Questa è una mia congettura, che ciò che può valer vaglia. »

Divisai di investigare quanto sia fondata sulla verità questa congettura del Sorio. Molto debbo anche al Sorio, degli studii del quale editi e inediti non poco mi giovai nella mia correzione di tutto il Tesoro; ma secondo il motto antico di M. Tullio, ed, assai prima di esso, della ragione, più di Platone, e di qualunque filosofo, dobbiamo essere amici del vero. Veniamo dunque a noi.

La mancanza del settimo libro del Tesoro nel ms. della biblioteca Ambrosiana di Milano, studiato dal Sorio, non veggio prima di tutto come possa provare, che Bono Giamboni non l’ abbia volgarizzato. Se quel ms. fosse autografo del Giamboni, proverebbe

solamente, eh’ egli in quell’occasione lo om[p. 521 modifica]

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mise. Non proverebbe contro l’universale testimonianza,

confortata da tutti in generale i mss. del Volgarizzamento, che prima o dopo, per avventura in un fascicolo a parte egli non l’avesse tradotto, e poi nel Tesoro inserito a suo luogo. Il ms. Ambrosiano non essendo autografo del Giamboni, ne copiato da ms. autografo, prova ancor meno. L’ amanuense avrallo ommesso per ragione che noi ignoriamo, come in altri mss. fu ommesso dove T uno e dove l’ altro trattato, ed in ispecie quello sulla sfera, che leggiamo nel libro II, con molle correzioni del medesimo Sorio.

La mancanza di questo libro VII nel ms. del prof. De Visiani, nulla prova contro l’ autenticità del Volgarizzamento del Giamboni; avvegnaché questo ms. non sia del Volgarizzamento del Giamboni, ma di un anonimo. È molto simile al Volgarizzamento del Giamboni, ed ha, principalmente nel libro IV, come a suo luogo notai, alcuni capitoli identici: ma ha molte e molte varianti, e perfino interi capitoli che mancano al \’olgarizzamento del Giamboni, e^manca di alcuni di essi. Non è il Volgarizzamento di Bono, ma un raffazzonamento di esso, quando non volesse dirsi che fosse il primo abbozzo di quello di Bono. Il primo libro di questo prezioso ms. fu stampato nella dispensa 104 della Scelta di curiosità letterarie inedite o rare dal secolo XII al XVII data in luce dal Romagnoli, col titolo: Del Tesoì^o volgarizzato di Brunetto Latini, libro I:

senza far motto del Giamboni. L’ uno ms. non ha [p. 522 modifica]
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punto attenenza coli’ altro. 11 perchè può credersi

solamente, che per la medesima cagione, a noi ignota, e r uno e l’altro amanuense dei due Volgarizzamenti del Tesoro, abbia ommesso il settimo libro. Contro l’autenticità del Volgarizzamento del Giamboni, questa ommissione punto non prova.

Si potrebbe piuttosto congetturare, che il VII libro, come altre parti aggiuntevi poi, mancasse nella primitiva compilazione del Tesoro. Se per verità làcciamo attenzione al suo prologo, sembra si possa ragionevolmente arguire, che dall’ Autore sia stato poi accodato quale appendice al libro sesto dell’ Etica. Potè forse avvenire, o che mancasse nei mss. più antichi del Tesoro; o che si stimasse compiuta la grande opera del Latini altresì senza quest’appendice. Potè sembrare una giunta sopra la derrata, anzi che una parte essenziale del Tesoro.

Il libro VII cosi comincia: « Appresso che ’1 maestro ebbe messo in iscritto il libro dell’ Etica d’ Aristotile, eh" è quasi fondamento di questo libro, vuole egli seguitare la sua materia su li insegnamenti delle nioralitadi, per meglio dichiarare li detti d’ Aristotile secondo che l’ uomo trova per molti savi: che quando l’ uomo ammassa ad aggiunge più di buone cose insieme, tanto cresce quello bene, ed è di maggiore valuta. E ciò è provato (alias, per l’opera), che tutte le arti, e tutte le opere, ciascuna vuole alcuno bene, ecc. »

Il Tesoro di ser Brunetto fu compilato con parecchie opere minori, originali o tradotte, di tempo

.n tempo da esso prima composte, qui poi magi[p. 523 modifica]

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stralmente concentrate in un grande intero. P. Chabaille

nella prefazione all’ edizione del r.?soro autentico di Brunetto, della quale molto ci occuperemo fra poco, cita un libro edito da J. de Tournes a Lione in 4.° nel 1568, il quale comprende le opere minori, autentiche o supposte, di Brunetto, fuse poi nel suo grande Tesoro.

Il libro VII del Tesoro, potè essere avuto in poco pregio dai Francesi contemporanei di Brunetto, avvegnaché sia il compendio di una rapsodia francese, a que’ giorni fra le mani di tutti, intitolata: Morante des philosophes. Ecco gli insegnamenti delle moralitadi, di cui parla ser Brunetto. Non è perciò improbabile, che più del nuovo compendio apprezzandosi il libro antico originale, non si curassero tutti gli amanuensi di copiarlo nel Tesoro: molto più se copiavano per commissione di chi già possedeva quel libro a tutti noto.

Pongasi mente a questo periodo della prefazione del Chabaille, che, se male non veggo, può spargere molta luce sopra la controversia: « Le second livre du Trésor (cioè i libri VI e VII del Volgarizzamento ), entièrement consacro à la morale.... il se compose de deux Traités distincts. Le premier est un extrait de la Morale d’Aristote, dont Brunetto avait déjà donné une traduction italienne. Le second, plus volumineux que le premier, en est une sorte de commentaire. A part un petit nombre de sentences de son propre fonds, que Brnnetto y a jontès, ce n’ est guère que la copie d’ un recuil de

passages tirés des moralités anciens et modernes, sacrés [p. 524 modifica]
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ou profanes, traduits en vieux français, et connus

sous le titre de Moralité des philosophes: il existe un très-grand nombre de manuscrits de cet ouvrage en vers et en prose, et le savant florentin n’ a guère eu d’autre paine que de choisir la version que lui convenait pour en enrichir le Livre du Tt^esor. Du reste l’ Autor ne lait point mystère de cet emprunt, et donne pour raison que plus on reunit de bonnes choses, plus il eu resuite de bien. » Brunetto confessa appunto questo nelle parole del capitolo I del libro VII riportate poco sopra; oltre la confessione fatta in generale nel prologo del primo libro, che il Tesoro è compilato da molti libri.

Thor Sundby con minuta analisi fa toccar con mano quanto Brunetto copiò da questi libri: Morallum Dogma, di Gautier de Lille: De arie loquencli et tacendl, di Albertauo da Brescia: De quatuor virtutibus carcUnalibus, di Martino Dumense: Summa de virtutibus, di Guglielmo Perrault: Libri Sententiarum, di Isidoro da Siviglia.

Senza che, una rapidissima lettura della descrizione di quaranta mss. francesi esaminati dal Chabaille per la sua edizione, dimostra apertamente come non pochi sieno mancanti di parti essenziali, ed altri sovrabbondino di brani, anche non brevi, ch’egli Analmente riunisce in appendice al volume, e che possono credersi autentici, non essendo stato il Tesoro creato tutto d’ un tratto, ma cresciuto per sovrapposizione a poco a poco. Sono tra questi, una

descrizione di Terra santa, ed un racconto della [p. 525 modifica]

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Passione di Gesìì Cristo, che allora saranno stati importantissimi.

Per la qual cosa l’ accidentale ommissione del libro settimo in due mss. italiani del Tesoro, non pare argomento sufficiente ad impugnare l’ autenticità del Volgarizzamento del libro stesso, generalmente in tutti i mss. inserito fra gli altri otto comunemente attribuiti a Bono Giamboni.

Senza che, nel ms. De Visiani, che dal Serio non fu certo veduto, non manca il libro VII, ma vi è sotto altra forma. Vi è il libro: De costumanciis, edito dallo stesso De Visiani nella dispensa LXI delle Curiosità letterarie stampate dal Romagnoli a Bologna, col titolo: Trattato di virtù morali. Il medesimo libro è così denominato dall’Ubaldini nella Tavola degli autori volgari. È chiamato: Libro di moralità, in un codice di s. Giminiano. Sembra sia il libro del quale parla il Chabaille, il quale ha molte parti eguali o simili al presente libro VII del Teso7^o, come osservò il De Visiani. Questo fatto aggiunge valore alle ipotesi accennate poco sopra. Forse Brunetto da principio inserì nel suo Tesoro questo libro francese: piii tardi l’assimilò meglio al Tesoro, e lo ridusse alla forma presente. Il ms. Visiani sarebbe copiato dal primo abbozzo della traduzione fatto sulla edizione pii^i antica del Tesoro. Ne sono prova altresì i frequentissimi francesismi, ommessi dipoi. Finalmente vi furono aggiunti i capitoli intorno al re Manfredi, senza dubbio scritti da Brunetto

dopo il suo ritorno in patria, se sono auten[p. 526 modifica]
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tici, e non apocrifi come sembra ad altri. Non è il

solo codice De Visiani, che in luogo del libro VII ha il Libro delle costumanze. Il prof. Mussafia nel suo Studio sul Testo del Tesoro di Brunetto Latini (Vienna, Gerold. 18G9) forma una classe a parte dei codici contenenti questo libro, e sono, oltre il De Visiani, il Riccardiano 2221; il Palatino, E, 5, 5. 26; e r Ambrosiano, tutti completi.

La seconda accusa è, che in questo settimo libro sia franteso più scapestratamente l’ originale, troppo più spesso che Bono Giamboni non abbia fatto a gran pezza nel resto dell’opera.

L’ accusa è assai grave. Ma innanzi tutto si osservi, quale sia la scapestratezza del Volgarizzatore, e quale degli amanuensi, (jarticolarmente in questo settimo libro. Né meno degli amanuensi scapestrarono i quattro editori del Tesoro^ senza far eccezione in favore di alcuno. I libri sono stampati, e basta aver occhi per leggerli.

Per’ offerire un tenue saggio della scapestratezza di chi copiò, ricopiò, e quattro volte stampò questo libro, basti dire che degli ottantatre capitoli di cui è composto, un grande numero ha il titolo errato. Il capitolo ragiona di materia diversa da quella indicata nel titolo; e nessuno vi fece attenzione, nessuno vi appose una nota, nessuno corresse. Egli è come se leggessimo scritto farmacia, sulla porta di un’osteria, o calzolaio sulla bottega di im pistore. Anche senza il riscontro dei mss. francesi, doveva bastare il buon senso a scoprire il goffo strafalcione,

e correggerlo. Ora chi fu tanto scapestrato [p. 527 modifica]

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iu una trascrizione solamente manuale; quanto più

potè esserlo nella trascrizione di sentenze, a ben comprendere le quali è necessaria erudizione ed intelligenza non volgare?

Le frequenti e vaste lacune del Volgarizzamento, fanno toccar con mano l’ignoranza e la negligenza degli amanuensi, ai quali la nostra sventura lo diede in balìa. Sì veramente che senza sgorbi e postille conducano a termine in nitido carattere la copia del volume, non si prendono cura se il senso vacilli, varii, manchi. Sono uomini da conio, e null’altro.

Prima di condannare il Volgarizzatore per avere franteso il testo francese; ’bisogna sapere con certezza qual testo francese si avesse egli dinanzi. Il Borio raffrontò il Volgarizzamento di questo settimo libro con tre soli mss. francesi: il Capitolare di Verona, e due posseduti dal principe Boncompagni. Ma s’ egli l’avesse raffrontato coi quaranta del Chabaille, avrebbe veduto co’ suoi occhi, come parecchie volte non frantese, ma ottimamente intese il testo francese, la lezione del quale era diversa da quella dei tre suoi manoscritti. Di sovente nelle varianti di quei quaranta mss. scopriamo la ragione del Volgarizzamento del Giamboni, il quale tradusse una lezione diversa non solamente da quella dei tre mss. del Serio, ma da quella altresì adottata come ottima dal Chabaille. Non sempre fece scelta della miglior lezione; ma ciò non pertanto volgarizzò fedelmente quella che scelse, o, comunque fosse, gli

venne in mano. [p. 528 modifica]
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Quantunque l’ edizione del testo originale fatta

dal Chabaille porti la data 1863, e la correzione critica del libro VII del Tesoro stesso edita dal Serio porti la data 1807, il Serio che n’ebbe tutto l’agio, e possedeva queir edizione, punto non la consultò. Può essere, eh’ egli avesse prima compiuto il suo studio, e non volesse poi ritoccarlo. Oltre che mai non la cita, e la cita invece ma solo cominciando dalla pag. 177 il Veratti, che vi aggiunse alcune erudite note filologiche, il Serio scrive a pag. 83: « Il Maestro tante volte allegato in questa opera non sembra un Autore, ma una Raccolta di sentenze alla guisa del Maestro delle sentenze^ di Pietro Lombardo. » Se avesse letto almeno la prefazione del Chabaille, avrebbe saputo che il suo sospetto era uno storico fatto, ed avrebbe imparato il titolo autentico del libro citato da Ser Brunetto, eh’ è appunto: Mor r alité des philosophes, come abbiamo veduto, da Brunetto chiamato: Insegnamenti di moralitadi.

Ser Brunetto pertanto arricchisce questo libro VII di sentenze di scrittori greci e latini, dalle lingue loro originali già voltate in vecchio francese. La sua è traduzione, parafrasi, e copia, in vecchio francese, d’ altra versione dal greco o dal latino in vecchio francese. Qual maraviglia pertanto, che in una traduzione, parafrasi, o copia di traduzione, siano accaduti frequenti equivoci ed errori ? Molto più, perchè il Serio confronta il Volgarizzamento coi testi originali di Aristotile, Cicerone, Orazio, Seneca, PseudoSeneca, ossia Martino Dumense, ed altri parecchi?

Bisogna innanzi tutto trovare il testo del libro: Mo[p. 529 modifica]

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r alité des philosophes, e raffrontarlo col testo autentico

di Brunetto, per giudicare se Brunetto ha franteso compilando sopra esso, o se l’ Autore di quello ha franteso traducendo dal greco e dal latino. Bisogna scoprire finalmente il codice del Tesoro originale usato da Bono, per giudicare se egli ha franteso.

Egli è agevole provare, che assai di sovente il primo che frantese debbo essere stato il primo traduttore. Ser Brunetto, senza ricorrere ai testi originali, compilò il settimo libro del Tesoro sul libro delle Moralità. Il Giamboni volgarizzò quello che lesse nel testo francese che primo vennegli in mano.

Facciamo un breve esame di testi notissimi, che tutti sappiano a memoria fin da quando eravamo putti tant’ alti.

Bono traduce nel capitolo XXVI: « Nullo mestiere è più buono, che lavorare la terra, né piii crescevole, ne più degno d’ uomo franco, di cui Orazio dice: Quegli ha bene operato, che lascia tutti li mestieri, sì come fecero gli antichi che coltivavano, e queste cose sono senza laidezza, e senza usura. » Se confrontiamo questa versione col testo originale di Orazio, è censurabile. È incensurabile se la confrontiamo col testo francese del Tesoro, secondo il ms. Capitolare Veronese sopra il quale studiò il Serio: « Nul mestier n’ est meilleur que laboureur de terre, ne plus digne de frane home, de cui dit Oraces: Cil est bieneuvres qui laisse toz mestiers, si come firent les ancienes, et cultive ses beufs et ses champs, et

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est (lete sans usure. » I versi di Orazio non bene

tradotti, sono dell’ ode 2.*" dell’ Epodo:

Beatus ille qui procul negotiis Ut prisca frens niortalium, Paterna rura bobus exercet suis, Solutus omni foenore.

Se Bono tradusse: Quegli ha bene operato, dove Brunetto scrisse, secondo il testo del Chabaille: Bieneurés, vergiamo che il ms. Capit. Ver. legge: Bieneurres, ed una variante del Chabaille: Bons ovriers, e questa era nel testo francese di Bono, che non frantese, ma bene intese. Ebbe la sfortuna di avere innanzi un codice scorretto. Avrebbe poi volgarizzato meglio altresì la seconda parte della sentenza di Orazio, se avesse avuto questa lezione del Chabaille: « Et cultive ses biens, et ses chans, et sa terre, sans laidece, et sans usure. » Adagio dunque a’ ma’ passi prima di sentenziare che Bono ha franteso.

Aggiungo di più: che ser Brunetto copiò la sentenza di Orazio da una Raccolta che riportavala da se, comunque tradotta, e non la studiò nell’ode: avvegnaché se in quell’ode l’ avesse egli studiata, avrebbe conosciuto come il poeta qui parli per ironia, e non seriamente, facendo celebrare la beatitudine

della vita campestre, franca da ogni usura, da un [p. 531 modifica]

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crudele usuraio ed ipocrita. Questi sono gli ultimi

versi dell’ ode, che ne palesano l’astuta ironia:

Hoc ubi loquutus foenerator Alphius Jam jam futurus rusticus, Omnem redegit Idibus pecuniam, Quaerit Calendis ponere.

Il maestro Brunetto non era tanto grosso, da non distinguere una sentenza seria da una ironica. se avesse studiata intera quest’ ode.

Nel capitolo LXI Bono traduce, secondo le stampe:

  • Virgilio dice (parlando di misericordia): Voglio

soccorrere li tormenti. » Come legge il testo originale ? Ecco: « Virgiles dit: Je n’ ai pas le maus, mes je viaus secorre les tormentez. » L’ amanuense, non intendendo forse l’abbreviatura, come poco sopra nel capitolo stesso, scrisse tormenti, per tormentati. Ommise inoltre la prima parte del periodo: « lo non ho tormento, ma. Rabberciato in questa guisa il Volgarizzamento raffrontandolo col testo francese, è non di meno errato, se lo raffrontiamo col latino di Virgilio, Aeneid. Uh. 1:

Non ignara mali, miseris succurrere disco.

Non dice Bidone con quel verso, ch’ella sia di (ìresente senza tormenti, e ciò non pertanto voglia soccorrere ai tormentati. Dice, che per esperienza

propria avendo imparato (inteso a prova, avrelìbe [p. 532 modifica]
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cantato il Petrarca) a conoscere le sventure, sapeva

come del)bausi soccorrere gli sventurati.

Il Volgarizzamento traduce male Virgilio, ma traduce bene il Tesoro. Brunetto anche qui avrà copiata la sentenza della Raccolta sopra indicata, badando al significato materiale delle parole, e non al contesto del maestro ed autore del suo immortale discepolo.

Chi può tenersi dal ridere, leggendo nel capitolo XXV, pronunciata in nome di Orazio questa sentenza: « Egli (il vecchio) compiange ciò che perde, e loda il tempo passato, e vole castigare li giovani, e giuocare con le giovane. » ? Raffrontiamo il Volgarizzamento coli’ originale francese, per giudicare il merito della traduzione: « Il se solaint de ce qui est présent, et loe le tens qui est passé; il viant chastier les enlans, et juger les ivenes. » Apprendiamo ben tosto, che l’amanuense scarabocchiò: Ciò che xerde, per: Ciò eh’ è presente: è: Giuocare con le giovani, per: Giudicare li giovani. Ma così corretto il Volgarizzamento, traduce fedelmente la sentenza di Orazio? No. Eccola, nell’epistola ai Pisoni:

Difficilis, querulus, laudator temporis acti Se puero, censor, castigatorque minorum.

Bono fu r eco di Brunetto: ma Brunetto non fu l’eco

di Orazio. Fu ingannato dalla cieca sua guida. [p. 533 modifica]

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Senza recar altri esempi, possiamo conchiudere;

che prima di giudicare che il Volgarizzatore francese le sentenze del testo originale, bisogna sapere, qual testo egli volgarizzò, e come lo stesso autore del Tesoro intese e scrisse quelle sentenze. Il critico processo è molto lungo e complicato: nessuno degli accusati e dei testimonii più vive fra noi.

Se neghiamo l’ autenticità del Volgarizzamento di questo libro settimo, perchè vi rinveniamo non pochi errori di traduzione: come potremo credere autentico qualche capitolo di altri libri, dove in luogo della piana, elegante, e per poco letterale versione del testo francese, cotalchè sopra l’ una può commodamente da chi sa le due lingue leggersi r altra, ex abrupto troviamo una prolissa parafrasi, od un inesatto, per non dire erroneo compendio? È forza conchiudere, che il Volgarizzamento fu fatto in varie circostanze, con lungo intervallo di tempo fra l’ una parte e l’ altra, talvolta con noia dell’ interminabile fatica, talvolta con fretta di compiere il trattato, il libro, la parte. Habent sua fata libelli.

L’ accusa piti grave del Sorio è, che in questo libro settimo sia errata l’ interpretazione delle parole e frasi, che negli altri libri sono rettamente volgarizzate. Non negherò il fatto; ma risponderò che non è di questo libro solo. Quante volte nel mio lungo raffronto fra il Volgarizzamento ed il Testo autentico, dopo di avere, quindici o venti volte appuntato sempre il medesimo errore, veggendolo finalmente

corretto, esclamai: Sia lodato il cielo, che [p. 534 modifica]
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messere l’ ha uua volta intesa ! e i)oi, voltata una carta, incontrai l’ identico errore ! Chi leggiera il Volgarizzamento da me ora corretto, vedrà co’ suoi occhi. In questo libro sei volte su dieci, Li apotres, è tradotto, Gli apostoli: La maniei^e, ò tradotto, La materia: La matière, è tradotto, La maniera: D’ ailleurs, è tradotto Allora; ma quattro su dieci è tradotto, L’ apostolo, La maniera. La materia. Altrove. Anzi nei capitoli XXXIX e XLI, la parola mire, che in altri libri o male interpretata, è ottimamente volgarizzata; e così qualche altra.

Del resto, ecco un saggio dello scapestrare di Bono nel Volgarizzamento dei libri I. e II del Tesoro, contro l’autenticità dei quali il Serio non muove querela. Nel capitolo XLIX il T dice: « Et fu ceint de chaenes de fer » e Bono volgarizzò: « E fu dato mordere alli cani. » Nel capitolo X del libro II il T recita: « Il fu enchaenez en una prison » e Bono: « Fu incarcerato in una prigione. » Nel capitolo L del libro I, il T: Le traiuierent a chevaus » e Bono « L’ uccisone a tradimento. » Nel capitolo X del libro II « Li Juif le traînèrent » e Bono: « Li Giudei lo tradirono. » Dopo cotali ribalderie, non so in fede mia quale scapestratezza ci debba far uscire dei gangheri !

Gran parte della colpa, che il Sorio imputa al Volgarizzatore, bisogna imputarla agli amanuensi, ora sbadati, ora ignoranti, ora l’ uno e l’altro a perfetta vicenda: ora presuntuosi, eh’ eglino pur vollero alla lor volta correggere o migliorare sì il Testo

originale che il Volgarizzamento. Di qui iunuinerabili [p. 535 modifica]

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varianti e svarioni, da compilarne un volume. Beato

chi nella saggia critica trova Arianna, che gli ammanisca il filo ad uscire sano e salvo dall’intricatissimo laberinto!

Senza che, tutto il libro settimo non è in fin de’ conti volgarizzato così scapestratamente, come le parole del Serio possono far credere. Egli vuoisi percorrere le pagine dell’ edizione del Serio, per riscontrare come parecchi capitoli sieno pieni a ribocco di correzioni e note; ma alquanti ne siano affatto, quasi, incolumi e netti. Basta guardare, per vedere.

Che se vogliamo distinguere quali siano i capitoli che pili ebbero bisogno del medico, riscontreremo, che i più magagnati sono quelli che in maggior numero sciorinano sentenze e motti di antichi savi: i più sani ed aitanti della persona, sono quelli che espongono la solita dottrina facile e liscia di maestro Brunetto. Anche tal fatto accresce probabilità alla supposizione poco sopra esposta intorno alla origine della maledizione miracolosa di scerpelloni in questo settimo libro.

Quando leggiamo qualunque nostro classico libro deir aureo secolo della nostra lingua, specialmente in prosa, dove non è freno o legame di numero di sillabe e di accenti, ne di rime a segnar quasi dentro i giusti confini la via, non bisogna dimenticare giammai, che i mss. autografi sono assai rari (ne pur una linea, per esempio, di Dante!):

che possediamo in qualche numero solamente i co[p. 536 modifica]
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dici, mss., spesso copie di copie, fatti per mercede

da uomini venali, ignoranti, negligenti, e tal fiata temerari!: guastamestieri, a compendiar tutto in una parola, i quali lavoravano e non istudiavano: fine dei quali era il lucro, e non la sapienza: i quali l’amor delle lettere non conoscevano forse pure di nome, né sapevano che al mondo fosse mai stato. Rammentiamo che qualche studioso per necessità con ineffaljile fatica da ^è copiava i suoi testi. Ma da quali codici antichi li copiava^ e come conciati da’ più vecchi amanuensi ? Siamo sempre da capo. Francesco Petrarca, il quale aveva amici ed ammiratori in tutta la penisola, sopra la quale esercitava una tal qual sovraintendenza letteraria, tramandò alla j)OSterità descrizioni che possiamo dir tragiche della condizione delle biblioteche, delle officine librarie, e delle difìflcoltà di rinvenire chi a dovere copiasse un libro. Sembrano fatti incredibili; ma sono fatti. Vuol dunque ragione, che si cammini, come diciamo, co" piedi di piombo, prima di pronunciare decreti di condanna contro i padri della nostra lingua e letteratura, giudicandoli secondo le lezioni dei loro hbri come oggi li possediamo, scritti e trascritti da lunga catena di idioti gagliotìi, o saccenti. Ed in fatto di autenticità, bisogna procedere con infinita cautela, prima di negarla, impugnarla, o metterla in dubbio, per soh argomenti negativi, che sovrabbondano e soperchiano, sì veramente che si voglia col fuscellino cercarli entro qualunque scrittura,

ed entro qualunque storia altresì contemporanea. [p. 537 modifica]

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La non interrotta tradizione dei secoli della nostra

letteratura, che attribuì sempre que’ libri a quegli autori, quale testamento dei nostri padri, per regola generale con amorosa osservanza di figliuoli debbe

essere da noi rispettata. [p. 538 modifica]
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Capitolo I.

Postilla del Serio: Questo capitolo è tratto dal capitolo I. dell’ Etica di Aristotele. Vedi questo Tesoro, Libro VI Capitolo I.

Il seguente brano del capitolo XIV del Tesoretto è commento anticipato di molti capitoli di questo Libro VII. Chi leggerà il Tesoretto, si persuaderà eh’ esso è la vera chiave di questa parte del Tesoro. Anche il frasario del Tesoretto, dal volgarizzatore è spesso ripetuto nel Tesoro.

Qui dimora Prudenza, Che la gente in volgare

Suole Senno chiamare E vidi nella corte

Là dentro fra le porte

1) V. cap. VITI di questo libro. [p. 540 modifica]
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Quattro donne reali.

Che a corte principali Tenean ragione, e uso. ’

Poi mi tornai laggiuso A un altro palazzo,

E vidi in bello spazzo Scritto per sottiglianza;

Qui sta la Temperanza, Cui Ja gente talora ’

Suol chiamare ^Misura. E vidi là d’ intorno

Dimorare a soggiorno Cinque gran principesse; *

E vidi eh’ elle stesse

Tenean gran parlamento Di ricco insegnamento.

Poi d’ altra magione Vidi in un gran petrone

Scritto per sottigliezza: Qui dimora Fortezza,

Cui talor per usaggio Valenza di coraggio

La chiama alcuna gente. Poi vidi immantenente

1) Ciò sono: Providenza e Sg-uardo, Cognoscenza ed Inseg-namento, cap. X.

2) V. cap. XXIII.

3) ÌSIisnra, Onestà, Castità, Intendere, e Ritenere, cap. XXIV.

4) V. cap. XXXIl. [p. 541 modifica]

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Sei ricche contesse, ’

E genti rade, e spesse.

Che stavano a udire Ciò ch’elle volean dire.

E partendomi un poco r vidi in altro loco

La donna coronata Per una camminata

Che menava gran festa, E talor gran tempesta;

E vidi che lo scritto, Ch’ era dì sopra fitto,

In lettera dorata Dicea: Io son chiamata

Giustizia in ogni parte, E vidi in altra parte "

Quattro maestre grandi; E alU lor comandi

Si stavano ubbidienti Quasi tutte le genti. ’

Così, s’ io non mi sconto Eran venti per conto ■*

Queste donne reali, Che delle i)rincipali

Son nate per legnaggio, Siccome detto v’ aggio.

1) Magnificenza, Fidanza, Sicurtà, Mag-nanimità, Pazienza, e Costanza d’ira. Cap. XXXII.

2) V. cap. XLIII.

’.i) Di que.ste non parla il Tesoro.

4, ISe io non sconto, vuol dire che non erano venti appunto,

ma in quel torno. Sono infatti dicianove. [p. 542 modifica]
542
Capitolo III.

11 Serio auDota: « Nel testo toscano si legge: Noi istendiamo li hrandoni. Il traduttore non intese nulla il brano Nos estaingnons les brandons, ecc. Egli buonamente ha creduto che Les brandons fossero da Brano, onde viene l’ accrescitivo Brandone, e il diminutivo Brandello..Ma Brandons, viene dalla voce latina barbara Branda, Tizzone, Face ardente: similmente da Brando, idest Fax, Teda dal teutonico Bì^and. Vedi Glossario dei Du Gange, infìmae latini tatis. E nel Glossario francese sarebbe da registrar questo esempio della voce antica Brandon, per Face accesa, Tizzone. »

Del resto, ecco il latino di Tullio parafrasato da Brunetto, onde la questione è sciolta definitivamente: Si tales nos natura genuisset, ut eam ipsam intueri ac perspicere, eaque o.ptima duce cursum vitae conflcere possemus; haud erat sane quod quisquam rationem ac doctriuam requireret, quum natura suflìceret. Nunc vero parvos dedit igniculos (brandons), quos celeriter malis moribus opinionibusque depravatis sic restinguimus (estaingnons), ut nusquam naturae lumen appareat. Sunt enim ingeniis nostris semina innata virtù tum, quae si adolescere liceret, ipsa nos ad beatam vitam natura perduceret (111

Tuscul). [p. 543 modifica]

543
54^

Ancora sul Gapilolo IH.

Spigolatura dalle postille del Sorio.

» Addivenne im dì che uno buono uomo si fuggiva solo ed ignudo ecc.

Ciò recita di Biante^ Cicerone in Paradoxis.

» L’ apostolo disse etc. Opiimimi est enim stabilire cor (Haebr. XIII, 9).

» Disse santo Matteo etc. Si ergo hmien quocl in te est, ienehrae sunf, ijjsae tenebrae quantae erunt? (Matth. VI. 23).

» Meglio turbo oro, che rilucente ottone ( 254, Lib. Sentenze, Faenza 1853).

» Lo cuor del savio è isbarra di virtù altresì come di muro e di fortezza. (64. Op. cit.)

» Melior est canis vivus leone morfuo (Eccles. IX. 4).

» Virtii è graziosa cosa, che i malvagi non si possono tenere di lodarla.

Sentenza di Tullio nel Libro di Sentenze, Faenza, 1853, numero 62.

Colui è onesto, che non ha niuna laida tacca;

che onestà non è neuna altra cosa, che onore sta[p. 544 modifica]
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bile e permaDente. Altra senteuza di Tullio. Ibid.

numero 63.

» Virtù è del tutto accordarsi alla ragione. Sentenza di Seneca. Ibid. numero 67.

Capitolo IV.

Il Sorio, dopo r enumerazione dei personaggi del Vecchio testamento, postilla: Questo brano fu tratto dai Morali di san Gregorio, Libro li cap. 6 del prologo.

Ad ostendendam innocentiam venit Abel; ad docendam actionis munditiam venit Enocli; ad insinuandam longauimitatem spei et operis, venit Noe; ad manifestandam obedientiam venit Abraham; ad demoustrandam conjugalis vitae castimoniam venit Isaac; ad insinuandam laboris tolerantiam venit Jacob; ad rependendam prò malo bouae retributionis gratiam, venit loseph; ad ostendendam mansuetudiuem venit Moj^ses; ad iaformandam contra ad versa tìdiiciam, venit losue: ad ostendendam Inter flagella

patientiam, venit lob. [p. 545 modifica]

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Capitolo V.

Ecco la sentenza del i)rimo libro della Bibbia: Sensus enini et cogitaiio humani cor dis, in malum prona sunt ab adolescentia sua (Genesis Vili. 21.)

Vaeh! tibi, terra, ciijiis rex puer est ( Eccles. X. 16 ).

Ecco la sentenza di Salomone: Non decent stultum deliciae, nec servum dominari principibus (Prov. XIX. 10). Iniquitaies suae capìiunt impium, et funihus peccatorum suoriim constringiiur (Prov. V. 22).

La sentenza di Brunetto: « Volontés ne doit pas estre dame sor la raison. » ci richiama alla memoria

i peccator carnali Che la ragion sommettono al talento

(Inf. V.) e r esordio della celebre canzone del Petrarca

Fatto citar dinanzi alla reina Che la parte divina Tien di nostra natura, e ’n cima siede.

35 [p. 546 modifica]
546
La frase di Bono: « Il vedere (la vene) si conforta

del colore verde » agevola per avventura l’interpretazione tanto controversa del dantesco:

Come falso veder bestia quand’ombra

(Inf. II).

La frase: « La très meillor voie de vivre, que on doit eslire » rammenta:

Il mezzo del cammin di nostra vita. Che la diritta via era smarrita. Che la verace via abbandonai.

( Inf. I ).

^Qcora sul Capitolo V.

Il maestro loda la nobiltà presente, e biasima, per lo meno indirettamente, l’ antica.

Gentile, generoso, patrizio, col suono del vocabolo ricordano il padre, il genere, la gente, onde la nobiltà, notabilità dei nepoti ebbe principio.

Le parole degenere, tralignato, ricordano l’ avversione del popolo contro quelli, che de’ nobili avi ereditarono i titoli, le ricchezze, gli stemmi, le onol’ifìcenze, e non la virtù e l’onore. Nepos volle dire

tanto nipote, quanto scialaquatore. Tanto frequenti [p. 547 modifica]

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a Roma erano gli esempi di scialaquo, a’ tempi altresì

più gloriosi della repubblica ! Un grande ammonimento era posto di continuo innanzi agli occhi di quel popolo, quando i templi della Virtìi e dell’Onore erano edificati in tal guisa, che nel secondo non si potesse entrare se non passando per mezzo al primo.

I moralisti ed i satirici hanno sempre inveito contro r orgoglio dei nepoti, degeneri dagli avi gloriosi. La mia nobiltà incomincia da me ! tuonò già dai rostri Marco Tullio. Orazio figlio di un liberto, morse fieramente i tralignati patrizii, e con molto diletto ed istruzione lo leggiamo, quantunque la parte più acuta delle sue allusioni per la diversità e lontananza dei tempi non possiamo sentire, ne divinare. Persio non fu infiammato d’ira minore Giovenale scaraventa contro i nobili ignoranti, incivili, e presuntuosi, una delle satire più sanguinose.

Dante era altero della nobiltà della sua stirpe, che pretendeva discesa dall’ antica Roma, e qua e colà si applaude; ma non può tenersi dall’ esclamare nel XVI del Paradiso:

poca nostra nobiltà di sangue. Se gloriar di te la gente fai Quaggiù, dove V affetto nostro langue,

Mirabil cosa non mi sarà mai; Che là, dove appetito non si torce,

Dico nel cielo, io me ne gloriai. [p. 548 modifica]
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5-18

Da un campagnuolo, che mille volte dovette arrossire al rimprovero de’ suoi umili natali, nelle sale dei Sardanapali, cui prestava servigio di pedagogo per ritrarue tanto da comprar qualche libro, e dividere sul povero desco un pezzo di pane colla vecchia madre; alla ridicola nobiltà del secolo decimotta vo fu dato il colpo di grazia nel Giorno.

E tutta maravigliosamente personificata, e tino all’ ultimo sangue flagellata, nel

Giovin signore, a cui scende per lungo Di magnanimi lombi ordine il sangue Purissimo celeste.

Ser Brunetto, distinguendo la noljiltà presente dalla vecchia, senza voler credere che alluda a quella dei tempi eroici, e de’ semidei, sembra distinguere la nobiltà personale della gentilizia, o ereditaria.

A’ suoi giorni dovea essere più osservata che oggi, questa grande innovazione.

La nobiltà dinastica, ereditaria, del diritto divino, era il naturale avversario dei re, i quali perciò studiarono sempre di fondare la loro forza nel popolo. Furono i patrizi, e non i plebei, che a Roma cacciarono i re. Qualunque cittadino si mostrasse favorevole al popolo, dai patrizii era accusato di agognare il regno. Lo seppero Manlio Capitolino, e Valerio Publicola.

I re pertanto, a line di opporre all’ antica nobiltà decrepita una pivi vigorosa e tìoreute: a fine

di affezionare alla loro causa i poi)olani, che ^edendo [p. 549 modifica]

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innalzato di tempo in tempo alcuno di essi, tutti ambivano,

speravano, facevano prodigi di prodezza per conseguire altrettanto; istituirono gli ordini cavallereschi, a premio di valore personale, senza trasmissione di titolo, ne di privilegi, ne’ successori.

Fra queste due nobiltà era naturale antagonismo, a bello studio fomentato dai re. I popolani di necessità parteggiavano per la nuova nobiltà, eccettuati quelli che fossero al servizio volontario o necessario dell’ altra, come uomini d’arme, paggi, scudieri, contadini ecc. ecc.

Chi professò le arti nobili, o liberali, fu sempre riguardato come fornito di personale nobiltà, non meno che i figli (liberi) dei patrizi.

Brunetto, notaio, maestro di filosofia, dettatore del Comune, era fra questi.

La distinzione fra nobili nuovi e vecchi, non era senza profonda ragione.

Capitolo MIL

Spigoliamo delle postille del Sorio:

  • Prudentia constat ex scientia rerum honorum

et malorum (Tullio, De Nat. Deor. IIL)

» Priusquam incipias, consulito; et ubi consul neri s mature, facto opus est (Sallustius De Conjur.

Catil. L) [p. 550 modifica]
550
» Toile moras: semper nocuit differre paratos

(Lucau. Pharsal. XXII).

» Melior est sapientia cimctis opibus pretiosissimis, et oinne desiderabile ei non potest comparari. (Prov. VIII. II).

Scrive Brunetto in questo capitolo: « Prudenza non è altro, che senno e sapienza. » Avea scritto nel Tesoretto, capitolo XIV:

Qui dimora Prudenza,

Che la gente in volgare Suole Senno chiamare.

Capitolo IX.

» La veritè a maintes fois face de menconge insegna il maestro; e il discepolo:

Sempre a quel ver eh’ à tàccia di menzogna De" r uom chiuder le labbra quant’ ei puote. Però che senza colpa fa vergogna

(Inf. XVI).

» Tua parola non sia vana. ma sempre ella ammonisca, o ella pensi, o ella comandi. » Cosi è

tradotta nell’edizione di Lione la sentenza di Brunetto [p. 551 modifica]

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Nel capitolo XIV insegua: Di veritè qui soit

creable. car veritèz qui n’est pas creue, est en leu de menconge, » È la sentenza di Dante.

Ancora sul Capitolo IX

Brunetto accenna a parola pensata. Quantunque la sua frase non debbasi intendere in questo senso, ricordiamo intorno alla parola pensata la sentenza di Gioberti: « Per via della parola, l’ ingegn.^ conversa riflessivamente coir idea, si rischiara colla sua luce, e fa procaccio della scienza, eh’ è la radice di ogni incremento, e progresso civile (Del bello I.) »

Bacone da Verulamio, citato da Max Miiller, nelle Letture ’sopra la scienza del linguaggio, Voi. II: « Quantunque noi pensiamo di governare le nostre parole, ed anche sentenziamo, loquendum ut vulgus, sentiendum ut sapientes; tuttavia egli è certo, che le parole, siccome un arco tartaro, ritornano sopra r intendimento dei più saggi, e potentemente imbarazzano e pervertono l’ intelletto. »

Siccome la parola è l’ idea significata; l’ idea talvolta può dirsi la parola pensata.

Il modo felice ond’ è significato un concetto, spesso è occasione, o causa avventurata, di nuovi studi e scoperte. Dice Ugo Foscolo: « Ogni uomo sa, che la parola è mezzo di rappresentare il pensiero;

ma pochi si accorgono, che la progressione, [p. 552 modifica]
552
l’abbondanza, e l’economia del pensiero, sono effetto

della parola (Orazione inaugurale, II.) »

Per la parola pensata facilmente apprendiamo, riteniamo, idee astratte, le quali non possiamo avere avute immediatamente dalle sensazioni. Quando udimmo la prima volta le parole astratte, altezza, bianchezza, ente, virtù ecc. ne intendemmo tosto il senso, per poco che abbiamo meditato su esse. Se nella lingua non avessimo di già rinvenute queste parole, difficilmente avremmo concepito le idee astratte significate per esse. « Nulla s’ attiene sì intimamente alla favella, come le nozioni astratte, le quali a prima giunta non sembrano avere alcuna realtà fuori di essa. L’ontologia non è scienza di sole parole; ma senza parole, essa è nulla (Ozanam, Dante e la filosofia cristiana, Parte 111, cap. 2). »

Per la parola pensata facilmente si apprendono idee metafisiche, sì concrete che astratte, le quali non cadono punto sotto i sensi. Tali, sono, idea, pensiero, anima. Dio.

Per la parola pensata agevolmente apprendiamo idee, le quali non si seppero mai bene definire. Tali sono, bellezza, tempo, spazio. In ciò la loquela manifesta

uno de’ suoi maggiori misteri. [p. 553 modifica]

553
Ancora sul Capitolo IX,

Questo capitolo della Prudenza, il XXXI della Continenza, il XXXIII della Magnanimità, ed il XLIII della Giustizia, sono tratti dall’ opera Formula honesiae vitae di Martino Duraense. Brunetto la attribuisce a Seneca, e col nome di questo filosofo sempre la cita. È stampata fra le opere di Seneca in molte edizioni, e fu creduta autentica da molti. (V. Opere di Seneca, ediz. del Seminario di Padova,

tomo IL

Martino soprauominato Dumense nacque in Ungheria al principio del sesto secolo dell’era nostra. Fu vescovo di Duma nella Spagna, dalla quale città fu cognominato Dnmense, scrisse contro gli Ariani, presiedette a concilii, e fu molto benemerito della religione e della civiltà.

Il libro é dedicato al re Mirone, il quale avevagli chiesto qualche ammaestramento morale, e conforto nella sua vita. L’ autore dichiara nel suo libro le quattro virtù, dalle quali sono intitolati i capitoli copiati da Brunetto; ciò sono. Prudenza, Magnanimità, Continenza e Giustizia.

Il Giamboni tradusse quest’ opera, e dopo di esso, Giovanni delle Celle, ed un anonimo del secolo decimoquarto. (V. Gamba, Opererette d’ istruzione ecc.

Venezia 1830). [p. 554 modifica]
554
Vincenzo ^’annucci nel suo Manuale di letteratura

del primo secolo della lingua italiana, inserì la traduzione dei quattro capitoli suddetti. Da questi, come a suo luogo si accenna, fu desunta qualche correzione. La lezione di questi capitoli non è sempre eguale a quella dei capitoli del Tesoro, perchè questi furono tradotti dall’ originale latino: il Volgarizzamento del Tesoro, fatto sulla traduzione in francese già fatta dal Latini, è traduzione di traduzione.

La miglior edizione dell’opera del Dumense, con molte notizie intorno ad esso, è quella di Modena, tip. della camerale 1836.

Capitolo XL

Amico, primamente Comando che non mente;

E in qual che parte sia Tu non usar bugia;

Ch’uom dice che menzogna Ritorna in gran vergogna,

Però che ha breve corso. E quando vi se’ scorso.

Se tu alle fiate Dicessi veritate.

Non ti sarà creduta.

Ma se tu ha’ saputa [p. 555 modifica]

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La verità d’ un fatto,

E poi per dirla ratto,

Grave briga nascesse; Certo, se la tacesse.

Se ne fossi ripreso Sarai da me difeso.

E se tu hai parente, caro benvogliente,

Cui la gente riprenda D’una laida vicenda,

Tu dei essere accorto, A diritto, e a torto.

In dicer ben di lui, E per far a colui

Discreder ciò che dice. E poi quando ti lice,

L’ amigo tuo gastiga Del fallo, onde s’ imbriga.

Cosa che tu promette. Non vò che la dimette:

Comando, che l’attenga, Pur che mal non avvenga

ecc. ecc.

(Tesoretto, cap. XVII.) [p. 556 modifica]
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Capitolo XIII.

Postille del Sorio: « Questo capitolo fu dal Latini tratto dal testo latino dell’ Albertano delle sei maniere di parlare, e così pure i seguenti. Io ne feci la collazione col testo volgare nella stampa di Bastiano de" Rossi, e nell’ altra migliore del professor Ciampi. »

La legge dice: Quegli è colpevole, che s’ inti’omette di quello che a lui non s’ appartiene. (Albertano pag. 212). E lesu Sirach: Della cosa che a te non appartiene, non ne combattere.

Sicut qui apprehendit auribus canem, sic qui transit impatiens, et commiscetur irae alterius (Prov. VI, 14). Unde, dice Salomone ne’ Proverbii: Così è quelli che s’ inframette nella briga altrui, come quelli che prende ’1 cane per l’ orecchie (Albertano, pag. 3).

E perciò Pietro Alfonso disse: La natura umana si hae questo in se, che turbato l’animo dell’uomo, non hae discrezione (Albertano, Op. cit.)

Sicut urbs patens et absque murorum ambitu, ita vir qui non potest in loquendo cohibere spiritum suum (Prov. XXV, 28).

Loqui ignorabit, qui tacere nescit ( Pittacus,

Polianthea, tit. Silentium). [p. 557 modifica]

557
E un altro savio disse: Chi non sa tacere, non

sa parlare (Albertano).

Nemo stultus, tacere potest (Diogenes. Polianthea loc. cit.)

Aurum tiuim et argentum tiium confia, et verbis tuis facito stateram, et fraenos ori tuo rectos; et

attende ne forte labaris in lingua ne sit casus

tuus insanabilis in mortem ( Eccl. XXVIII, 29). E Salomone disse: De l’ oro e de l’argento fae burbanza, et de le parole tue fae statiera; poni a la tua bocca li diritti freni, e guarda no per avventura discorressi ne la liugua, e che ’1 caso tuo non sia insanabile ne la morte (Albertano, Op. cit.)

Cathon dit: Ire empesche le courage que il uè puet tiner la veritè. Il Veratti nota nell’ediz. di questo settimo libro del Sorio: Questo antico verbo francese passato in Inghilterra, vi dura tuttavia in onore. Esso è divenuto il verbo: to try: far iirova, fare sperienza, esaminare, discutere^ ed è verbo solenne nel foro, ove vale far processo. Da esso vengono, trier, saggiatore. e trial, prova, sperienza, saggio, lite, processo. Pe’ Grigioni truar è giudicare.

Quae culpare soles, ea tu ne feceris ipse: Turpe est doctori, quum culpa redarguit ipsum

(Dionis. Cato De Morihus, lib. I dist. 30). [p. 558 modifica]
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Principium finemque simul pi-iidentia spectat:

Rerum fiuis habet crimen et onme decus

(Pamphilus, De Aiiiore).

Qui ciistodit os Simm, custodit animam suam: qui autem inconsideratus est ad loqueadura, sentiet mala (Prov. XIII, 3.)

homo omnis qui judicas, in quo enim judicas alterum, te ipsum condemnas, eadem enim agis quae judicas...- Qui ergo alium doces, te ipsum non doces?

(^ui praedicas non ruraudum, turaris? Qui dicis non niaechandum, maecharis? (Rom. II, I).

Si est tibi intellectus, responde proximo: sin autem, sit manus tua super os tuum, ne capiaris in verbo indisciplinato, et confundaris (Eccli. V. 14).

Diiplicia mala invenies in omnibus bonis. (Eccli. XII, 7). Gesù Sirach disse: In tutti li beni, troverai doppi mali. E perciò non solamente lo principio, ma la fine, e da che effetto, dèi richiedere e pensare (Albertano, Op. cit.)

Ma a te, bell’amico, Primieramente dico,

Che nel tuo parlamento Abbi provvedimento:

Non sie troppo parlante, E pensati davante

Quello che dir vorrai;

Che non ritorna mai [p. 559 modifica]

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La parola, eh’ è detta,

Siccome la saetta,

Che va e non ritorna. Chi ha la lingua adorna

Poco senno gli basta, Se per follia noi guasta.

Il detto sia soave, E guarda non sia grave

In dir ne’ reggimenti; Che non puoi alle genti

Far più gravosa noja. Consiglio, che si moia.

Chi spiace per gravezza, Che mai non se ne svezza.

E chi non ha misura. Se fa ’1 ben, sì lo fura.

Non sie iniziatore. Né sie ridicitore

Di quel, eh’ altra persona Davanti a te ragiona.

Ne non usar rampogna, Ne dire altrui menzogna.

Né villania d’ alcuno, Che già non è nessuno,

Cui non possa di botto Dicere un laido motto.

Ne non sie sì sicuro. Che per un motto duro

Ch’ altra persona tocca.

T’esca fuor della bocca: [p. 560 modifica]
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Che troppa sicuranza

Fa contra buona usanza.

E chi sta lungo via, Guardi di dir follia.

ecc. ecc.

(Tesoretto Cap. XVI.)

Capitolo XIV.

Ante omnia opera, verbum verax praecedat te, et ante omnem actum consilium stabile (Eccli. XXXVII, 20 ) Dinanzi a tutte le tue opere, vada la parola della veritade: e innanzi a’ tuoi fatti, abbi fermo consiglio (Albertano, Op, cit.)

Potior fur, quam assiduitas viri mendacis. (Eccli. XX, 27.)

Non enim possumus aliquid adversus veritatem. sed prò veritate (II Cor. XIII, 8.)

Le utili paraule sempre devem dire, e le vane tacere, secondo che dice Senaca ne la forma de la vita onesta: La parola tua non sia vana; ma o ella de’ consolare (alias, consigliare) altrui, o insegnare, comandare, o ammonire (Albertano, Op. cit.)

Verbum dulce multiplicat amicos, et mitigat inimicos (Eccli. VI, 5.)

Responsio mollis frangit iram: sermo durus suscitât

furorem (Prov. XVI, 1). [p. 561 modifica]

561
Corrumpiint bonos mores colloquia mala ( I Cor.

XV, 33.)

Omnis sermo malus, ex ore vostro non procédât (I Eph. IV. 29.)

Sermo vester semper in gratia sale conditus, ut sciatis quomodo oporteat vos unicuique respondere (Coloss. IV. 6.)

Qui sophistice loquitur, odibilis est, in omni re defraudabitur, non est enim illi data a Domino gratia (Eccli. XXXVII, 23). Non parli paraula sofistica, cioè paraula d’ inganno, come dice Gesìi Sirach. (Albertano, Op. cit.)

Omnis injuriae proximi ne memineris, et nihil agas in operibus injuriae (Eccli. X. 6.)

Tullio disse: Neuna injuria è sì grande, come quella di coloro, che quando maggiormente fallano, mostrano di no fallare, per essere tenuti buoni uomini (Albertano, Op. cit.)

Regnum a gente in gentem transfertur propter injustitias et injurias (Eccli. X. 8).

Due sono le generazioni de la injuria: l’una si è di coloro che la fanno; l’altra di coloro che la possono stroppiare, e non la stroppiano. E tanto hae di fallo chi non contrasta alla injuria, come chi abbandona lo padre e la madre e gli amici. (Albertano, Op. cit.)

Scrisse Agostino nel libro Del sommo bene: Più è graziosa cosa a fuggire e cessare la injuria tacendo, che soperchiarla rispondendo ( Albertano, Op. cit.)

36 [p. 562 modifica]
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Disperdat Dominas universa labia dolosa, (et linguam

magniloquam (Ps. XI, 4.)

Disse lo profeta: Disperda Dio tutti li dicti di inganno, e le lingue malparlanti (Albertano, Up. cit.

Ubi tuerit superbia, ibi erit et contumelia: ubi autem est liumilitas, ibi et sapientia (Prov. XI, 2.) Colà dov’ è superbia, quivi è contumelia, e colà dov’ è umilità, quivi è sapienza (Albertano, Op. cit.)

Objurgatio et injuria annullabunt substantiam, et domus quae nimis locuples est, annullabitur superbia (Eccli.XXI, 5).

Si ascenderit usque ad coelum superbia ejus, et caput ejus nubes tetigerit, quasi sterquilinium in fine perdetur (lob. XX. 0).

Odibilis coram Deo et hominibus superbia, et execrabilis omnis iniquitas gentium (Eccli. X, 7).

Capitolo XV.

Vedi curioso aneddoto. Scrive il Giamboni: Piero Alfonso disse: Dell’amico che tu hai assaggiato, sì ti provvedi una volta come di inimico. Brunetto aveva scritto: Por les amis que tu n’as esserès, te porvois une foiz des anemis, et mil des amis; car par aventure li amis devenra ennemis. Pietro Chabaille soggiunge: Ce passage est tellement obscur, qui il nus a paru indispensable de transcrire le texte

même de Pierre Alphonse. Le voici: Propter amicos [p. 563 modifica]

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non probatos, provide tibi semel de inimicis et millies

de amicis, quia forsan quandoque amicus flet inimicus (Disciplina dericalis, Fab. II). Albertano scrive: Disse Piero Alfonso: Per li amici non provati, provvedi una volta di nemici, e mille di amici. Un ms. Gianfilippi legge bene (dice il Serio): Et Piero Alfonso disse degli amici non provati: Fa pruova una volta del tuo nemigo, et mille de’ tuoi amizi.

Amico et inimico noli narrare sensum tuum, et si est tibi delictum, noli denudare, audiet enim te, et custodiet te, et quasi defendens peccatum, odiet te (Eccli. XIX. 8).

All’amico ne al nimico non dire il tuo segreto, e se questo segreto è di tuo peccato, non glielo scoprire, peroccli’ egli ti guarderà in del viso, e difendendo lo tuo peccato si gabberà di te (Albertano, Op. cit.)

Multi pacifici sint tibi, et consiliarius sit tibi unus de mille (Eccli. VI, 6). E perciò disse Salomone: Tutti ti sieno pacifici; e consiglieri de’ mille l’uno.

Non credas inimico tuo in aeternum, etsi est humilis vadat et curvus, non credas illi, captus est enim utilitate, non amicitia; revertitur voluntate ut capiat fugiendo quae non potuit prosequendo. Tradotto male nel Volgarizzamento. In oculis tuis lacrimatur inimicus, et si invenerit tempus, non satiabitur sanguine (Eccli. XII, 10.)

In auribus insipientium ne loquaris, quia despicient

doctrinam eloquii tui (Prov. XXIX, 9.) [p. 564 modifica]
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Vir sapiens si cum stulto contenderit, sive irascatur

sive rideat, non inveniet requiem ( Prov. XXIX, 10.)

Anche ti guarda di non aver parole con uomo di molte parole, che ’1 profeta dice:

L’ uomo troppo imparolato, non è in terra amato. E Gesù Sirach dice: L’ uomo troppo linguadro, grande cosa è se molte brighe non sono per lui nella cittade, perchè coloro che follemente parlano, n’ è mestieri che siano odiati. (Albtetano, Op. cit.)

Cum dormiente loquitur, qui enarrat stulto sapientiam (Eccli. XXII, 9.)

Noli arguere derisorem, ne oderit te. Argue sapientera, et diligit te (Prov. IX, 8.)

Cum fatuis consilium non habeas; non enim poterunt diligere nisi quae eis placent (Eccli. VIII, 20).

Terribilis est in civitate sua homo liuguosus; et temerarius in verbo suo, odibilis erit (Ecch. IX, 25).

Qui odit loquacitatem, extinguit malitiam (Eccli. XIX, 5). Chi odia lo troppo parlante, sì spegne malizia (Albertano, Op. cit.). S. Agostino disse: Siccome il fuoco cresce, quante più legna vi si mettono; così il malvagio quanto più ode ragione, sempre cresce la malizia, e nella malivola anima non entra sapienza (Albertano Op. cit).

Nullum secretum est ubi regnat ebrietas

(Prov. XXXI, 4). [p. 565 modifica]

565
5G5

Reges dicimtur multis urgere cnlullis

Et torquere mero, quem perspexisse laborant

(Horatius. Ep. De arte poet. 434.)

È notissimo, come il ministro dell’ interno in Francia cardinal Mazzarino riempisse di suoi confidenti i templi di Bacco e di Venere, per essere informato di quanto si pensasse o macchinasse nel territorio del suo assoluto governo.

Capitolo XVI.

Pécher en chose laide est déguerpir Dieu II fois. Le stampe leggono: Peccare é cosa laida; e da prendere Dio due volte. Il Sorio corresse: j^erdere Dio. Il Veratti nota: La correzione perdere è giustificata ancora dallo strafalcione ptrendere. Ma perdere non dà il vero senso del degiterpnr, che è piuttosto abbandonare, lasciarle, rigettare. Questa non è voce morta nella lingua francese, e la frase Déguerpir d’un lieu, fuggirsi, sloggiare, è notata nei vocabolari, come propria dello stile famigliare. Ma è propriamente voce del foro e deguerpissement è l’ abbandouo d’ un immobile alla giustizia, che un terzo faccia per sottrarsi ai pesi reali a’ quali sia soggetto quel fondo. Il deguerxjir, guerpir

(dacché qui la de non modifica punto il valore del [p. 566 modifica]
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verbo semplice), che nel latino barbaro del medio

evo scrivevasi werpire, viene, secondo il Menagio, dall’ alemanno werpen, ossia dall’ antichissima voce loairpan, o loarpan, che si trova usata fino da Ulfìla nella sua versione gotica degli Evangeli; e che divenne loerpeyi nel Belgio ed in Olanda, e xoerfen, nel tedesco moderno.

Capitolo XVII.

Et così lo tuo modo de" essere in cinque maniere: nel pronunciare, nell’ avachare (lege: avacciare ), nel tradurre, nella quantitade, e in qualitade (adde colla St. degli Accademici) (Albertano, Op. cit.) Postilla del Sorio.

Sit autem omnis homo velox ad audiendum, tardus autem ad loquendum, et tardas ad iram ( lac. I. 19).

Vidisti hominem velocem ad loquendum? Stultitia magis speranda est, quam illis correptio (Prov, XXIX, 20.)

Vidisti virum velocem in opere suo ? Coram regibus stabit, nec erit ante ignobiles (Prov. XXII, 29)

In omnibus operibus tuis esto velox, et omnis infìrmitas non occurret tibi (Eccli. XXXL 27.)

In multiloquio non deerit peccatum (Prov. X, 19.)

Favum mellis composita verba, dulcedo animi,

sanitas ossium (Prov. XVI, 24.) [p. 567 modifica]

567
Ancora sul Capitolo XVII.

Br esche s de miei.

Il Veratti nota: « Nel vocabolario di antiche parole francesi stampate in fine al Dictioìi. Etymologique de la Lengue Française (Paris, 1750) trovasi Bresca, scritta così con forma italiana. e vi sono recati tre versi della Vie de Saint Fides d’ Agen. Ivi: Dois e suaus x^lus que hresca. E da questa parola vi si dice provenuto in Linguadoca il vocabolo Bresque.

Bresca è voce del dialetto modenese, e forse d’ altri, e significa non solo il favo del miele; ma ancora il nido delle vespe, che, salva la diversità della materia, è identico a quello nella sua configurazione. All’ aspetto si mostra parola d’ origine germanica, come sono quasi tutti i nostri vocaboli ove s’ incontra il suono dello sch, come bosco, fresco, scherzo. Ma in Germania sarà forse vocabolo estinto, non trovandosi registrato ne’ piìi copiosi vocabolari della lingua tedesca. La parola hresche, che vi si trova, ed è termine del linguaggio militare, non è altro che la voce francese bì-èche ( la nostra breccia) derivata già dal tedesco brechen, rompere (Menagio, Boiste), e che i Tedeschi hanno ripigliata

lasciandola raffazzonata alla francese. » [p. 568 modifica]
568
Nel dialetto rustico veronese, brescà, o ftrescada,

significa piccola quantità di materia, quanto si può stringere in una mano: lai. pugillum piignillum.

Capitolo XVIII.

Priusquam audias, ne respondeas (Eccli. XI, 8.) Qui prius respondet quam audiat, stultum se

esse demonstrat, et confusione dignum ( Prov.

XVIII. 13.)

Capitolo XIX.

Postilla del Sorio, alla voce: mauvestie, tradotta: malvagità.

» Il francese mauvestie, non vuol qua dire malvagità, ma dappocaggine, viltà; nel qual senso gli antichi dicevano cattività, cattivezza. Vedine esempi nella Crusca, che però non vi corrispondono al tema. In questo senso di dapx)ocaggine, malvagità non vidi usato ancora da nessuno.

Loqui ignorabit, qui tacere nescit.

Pittaco. [p. 569 modifica]

569
Nullae sunt occultiores insidiae, quam hae quae

latent in simulatioue officii, aut in aliquo necessitudinis nomine. Nam eiiin qui palam est adversarius facile cavendo vitare potes. Et Trojanus equus idcirco fefellit, quia formam Minervae mentitus est, dicebat Diogenes philosophus. (M. Tullius, ex Polyanthea hangii, artic. Silentium, Hypocrisis.)

Capitolo XX.

Bibe aquam de cisterna tua, et fiuenta putei tui. Deriventur fontes tui forus, et in plateis aquas tuas divide (Prov. V. II.)

Postilla il Sorio, in fine dei capitolo: Più chiaramente sarebbe il testo volgarizzato così: Seneca disse: Egli è meglio se tu tieni un poco d’insegnamento di sapienza, e l’ hai prestamente per uso, che se tu n’avessi impresa molta, e non l’avessi per mani. Lo maestro disse: Così come l’uomo chiama buono fattore non colui che sa molte arti (di che usa poco; ma colui che in una o in due si travaglia diligentemente, e non fa forza come egli ne sappia pur tanto da guadagnarne la palma: così è egli nella discipUna, che v’ ha molte cose che poco ajutano e molto dilettano: che già sia che tu non sappi per che ragione lo mare si sparge, e perchè i fanciulli piccoli sono conceputi insieme, e non nascono

insieme, e perchè in diverso destino nascono^ [p. 570 modifica]
570
non si conviene quasi a trapensare ciò che non è

lecito a sapere, e che non è irro fitto.

Nella stampa di Modena mutò poi fattore, in lottatore, e che sa molte arti, in che sa molto della corsa, conforme al t: bon hiteor, qui set moli de co7^se, ed al latino di Seneca; ma non conforme al Volgarizzatore, che a bello studio mutò, e per questo lasciai integra la sua lezione.

Seneca scrisse: Solet plus prodesse si pauca sapientiae praecepta teneas, sed illa in promptu, ut in usu tibi sint, quam si multa quidem didiceris, et illa ad manus non habeas. Non refert quam multa sciat luctator, si scit quantum victoriae satis est. Sic in studio multa délectant, pauca vincunt, licet nescias quae ratio oceauum effundat et revocet, quid sit quod geminorum conceptum separet, partum tamen jungat, utrum uuus concubitus spargatur in duos an toties concubuerit, cui pariter natis fata non tibi nocebit transire, quae nec licet, nec prodest: quidquid enim nos meliores beatosque facturum est, aut in aperto, aut in proximo posuit.

Questi sono i versi dell’ Anticlaudiano. lib. VII, 1.

Clausa perit, diffusa redit: nisi pubblica.fìat

Labitur, et multas vires aquirit eundo. [p. 571 modifica]

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57

Capitolo XXIII.

Sincerum est nisi vas, quodcunque intundis acescit.

(Horat. Epist. Lib. I. 2.)

Capitolo XXV.

Comunque voltati dal latino in francese, e dal francese in volgare, questi sono i versi di Orazio, citati in questo capitolo:

Reddere qui voces Jam scit puer, et pede certo Signât humum, gestit paribus colludere, et iram Colligit ac ponit temere, et mutatur in horas. Imberbis juvenis, tandem custode remoto. Gaudet equis canibusque, et aprici gramine campi, Cereus in vitium flecti, monitoribus asper, Sublimis cupidusque, et amata relinquere pernix. Conversis studiis aetas animusque virilis Quaerit opes, et amicitias, inservit lionori: Commisisse cavet quod mox mutare laboret. Multa senem circumveniunt incommoda, vel quod Quaerit, et inventis miser abstinet, ac timet uti:

Vel quod res omnes timide gelideque rainistrat, [p. 572 modifica]
572
Dilator. spe loDgiis, iuers, avidusque futuri,

Difficilis, querulus, laudator temporis acti Se puero, censor, castigatorque minov^um.

(Ep. De arte poetica)

Breve sit quid turpiter audes, Quaedam cum prima resecentur crimina barba, Indulge veniam pueris

(luvenalis VIII, 166.)

Semper in civitate qiiibus opes nullae sunt, bonis invident, malos extollunt, vetera odere, nova exoptant, odio suarum rerum mutare omnia student (Sallustius, Catil.)

Nihil est agricultura melior, nihil uberius, ni’hil dulcius, nihil homine libero dignius (M. Tullius Cicero).

Beatus iile, qui procul negotiis Ut prisca gens mortalium Paterna rura bobus exercet suis Solutus omni foenore.

(Horatius. Epod. 2.)

Quantunque la sentenza sia vera anche intesa seriamente, Orazio la dice ironicamente, perchè, siccome

si pare nel fine dell’ ode, la mette in bocca [p. 573 modifica]

573
di un crudele usurajo ed ipocrita. Così infatti termina

l’ode, e ne palesa tutta l’astuta ironia:

Haec ubi loquutus foeneratur Alphius,

lam jam futurus rusticus, Omnem redegit Idibus pecuniam,

Quaerit Calendis ponere.

Le diverse inclinazioni degli uomini, e i diversi offici a’ quali sono da natura chiamati, il grande poeta discepolo di Brunetto, cantava cosi:

. Dunque esser diverse Convien de’ nostri aftetti le radici:

Perchè un nasce Solone, ed altro Serse, Altro Melchisedech, ed altro quello Che, volando per l’aere, il figlio perse.

Sempre natura, se fortuna trova Discorde a sé, com’ ogni altra semente Fuor di sua région, fa mala prova.

E se il mondo laggiù ponesse mente Al fondamento che natura pone, Seguendo lui, avria buona la gente.

Ma voi torcete alla religione Tal, che fu nato a cingersi la spada, E fate re di tal eh’ è da sermone; Onde la traccia vostra è fuor di strada

(Par. Vili). [p. 574 modifica]
574
Ancora sul Capitolo XXV".

Legge il mis. Cap. Ver. amisurer ses invides e nota il Veratti: « L’ antico significato di desiderio in envis, enviteus, non è perito nella lingua francese; ma dura in certi usi di envier, ed envie.

Bono qui, ed appresso, aveva voltato, invidia.

Le viel a mainz meschiez. Nota lo stesso: « Dal latino elìdere, fecero i Francesi il verbo cheir, cheire, choir, quindi i nomi: mescheoior, raeschef, rneschies, disgrazia, accidente, infortunio.

Choses de luxure et d’autre lecherie. Nota lo stesso: « lechefne, lechure, licherie; gourmandise, friandise, gloutonnerie, vie joyeuse, débauche, libertinage, galanterie, licence, luxure, tromperie, lieu de débauche et de prostitution, luxuria, en anglois léchery (Roquefort, Gloss.)

Lecherie era hen altro che la levità, con che r ha tradotta il nostro antico! *

Capitolo XXVI.

Turpe est enim valdeque vitiosum iure severa convivii dieta, aut delicatum aliquem inferro sermonem.

Bene Pericles quum haberet coUegam in praetura So[p. 575 modifica]

575
O/O

phoclem poetam, hique de comuni officio coavenisseiit et casu formosus puer praeteriret, dixissetque Sophocles. puerum pulchrum ! Pericle. At enim praetorem, Sophocle, decet non soluui manus, sed etiam oculos abstinentes habere. Atque hoc idem Sophocles, si in athletarum probatione dixisset, justa reprheusione caruisset. Tanta vis est et loci et temporis. Ut si quis, quum causam sit acturus, in itinere aut iu ambulatione secum ipse meditetur, aut si quid aliud attentius cogitet, non reprehendatur: at hoc idem si in convivio taciat, inhnmanum videretur, inscientia temporis. (Cic. I. De Offic. 40.)

Ancora sul Capitolo XXVI.

lancjlieres ( altri, ienglieres, ianglieres ) che Bono traduce, lusingatore, ed il Sorio: Imguacciuto.

langlieres da ioculator, come empereres da imperator, ecc. era quasi giullare. E fra’ molti significati delle parole derivate da quel mestiere, v’ è anche quello di lusingare. Quindi ianglerie o iangle valeva anche hahil,, mensonge, flatterie plaisenterie ecc. Così il nostro buon antico errò, non discernendo il senso che aveva in questo luogo quella parola; ma non le attribuì un significato del tutto

estraneo. [p. 576 modifica]
576
Di quella grande famiglia di parole alla lingua

francese moderna restano solo iongleur, iongler, e ionglerie (Veratti).

Capitolo XXVII.

Vinum et mulieres apostatare faciunt sapientes, et arguent sensatos. (Eccli. XIX, 2.)

Capitolo XXVIII.

Domus et divitiae dantura parentibus, a Domino autem proprie uxor prudens (Prov. XIX, 14.)

Capitolo XXIX.

Quid non ebrietas designai? Operta recludit: Spes jubet esse ratas: in proelia trudit inertem: Sollicitis animis onus eximit; addocet artes:

(Horat. Epistol. V. Lib. I.) [p. 577 modifica]

577
Capitolo XXX.

Qui ambulai in justitiis, et loquitur veritatem, qui projcit avaritiam ex calumnia, etexcutit manus suas ab omni munere, qui obturât aures sua? ne audiat sanguinem, et claudit oculos suos ne videat malum; iste in excelsis habitat: munimenta saxorum sablimitas ejus: panis ei datus est, aquae ejus fidèles sunt (Isaias XXXIII, 15.)

Capitolo XXXI.

I. Il T dice: Cil qui est contens de soi, est soffisans, ou il est nez avec les richesses.

Il Giamboni traduce, secondo la stampa: Quegli che è contento di se, egli è sofficiente, o egli è nato con le ricchezze.

Il ms. Bergamasco: Ond’ egli è nato, et est vera lectio, postilla il Sorio.

Il codice lionese delle quattro virtù morali aggiunte all’ Etica di Aristotele: Chi è contento da sé, egli è sufficiente, o egli è nato con le ricchezze.

Il ms. Gianfilippi: Chi assai è a se medesimo, è nato con tutte le ricchezze.

37 [p. 578 modifica]
578
Essendo il testo un po’ oscuro, ciascuno l’ha

dicifrato a suo talento. Vuol dire, che chi è contento di se, ha quanto gli basta (è sufficiente), ed è come fosse padrone di tutte le ricchezze del mondo. È l’uomo beato della filosofia antica.

II. Il T dice: A l’ exemple dou vin composte, par toi du cors, et te jong à ton esperit.

Il codice Capitolare di Verona: Car tu dois ()rochacier solement qu’ il défaillent à l’exemples dou viu, por quoi ton cor, set te ioins de ton esperit.

Bono traduce, secondo la stampa: Che tu dèi pensare solamente eh’ egli venga allo esemplo divino composto. Partiti dal corpo, e congiungiti allo spirito.

Non saprei come ancora raccapezzare il discorso; ed a me è buio ancora.

La stampa lionese è mancante di questo brano. 11 solo ms. Gianfilippi porge una lezione assai ragionevole, ed è la seguente: Cura poco di tuoi desidera, e restringili sì, che quanto tu puoi, tu rechi il corpo composto quasi al divino spirito.

Lesse variamente il t francese, ma certamente assai meglio (Postilla del Serio).

Il Nannucci, Manual Leti. voi. II, ÌQggQ: « Li tuoi desiderii pregia poco; che tu de’ procacciare solamente che non ti talli (il testo: Quia tantum curare debes, ut desinat); e tu, allo esempio divino composto, parti te dal corpo. per te cougiungere col

tuo spirito. » [p. 579 modifica]

579
III. Ma tanto dico bene,

Se talor ti conviene

Giucar per far onore Ad amico, o signore,

Che tu giuochi al più grosso, E non dire: V non posso.

Non abbie in ciò vilezza, Ma lieta gagliardezza;

E se tu perdi posta. Paia, che non ti costa:

Non dicer villania, Né mal motto che sia

(Tesoretto, cap. XV.)

Ecco il testo di Martino Dumense: De IV Virtutlbus. Victus tibi ex facili sit; nec ad voluptatem, seci ad cibum accede (Non ben tradotto nel t, uè nel Volgarizzamento ) Palatum tuum fames excitet, non sapores. Desideria tua parvo redime, quia hoc tantum curare debes, ut desinaut: atque ita ad exemplar divinum compositus, a corpore spiriium, quantum potes, abduce.

Capitolo XXXIV.

Brunetto è (traditore piuttosto che traduttore

di questa sublime sentenza di Orazio: [p. 580 modifica]
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Virtus recludens immeritis mori

Coelum, negata tentât iter via, Coetusque vulgares, et udam Spernit humiim fugiente penna

(III Lib. Od. 2.)

Incipe: qui recte vivendi prorogat lioram, Rusticus expectat dum defluat amnis, at ille Labitur, et labetur in orane volubilis aevum

(Horatius Lib. I, Epis toi. 2.)

Cras hoc flet. Idem cras flet. Quid ? Quasi magnum Nempe dies donas ? Sed quum lux altera venit lam cras hesternum consumpsimus: ecce aiiud cras Egerit hos ann)s, et semper paululum erit ultra

(Persio Sativ. V. 67.)

Virtus repulsae nescia sordidae, Intaminatis fulget honoribus,

Nec sumit aut ponit secures

Arbitrio popularis aurae

(Horatius Odar. Lib. III, 2.)

Temere in acve versari, et manu cum hoste confligisse, immane quidem et belluarum simile est; sed quum tempus necessitasque postulet, decertandum manu est^ et mors servituti turpitudi nique anteponenda

(Cicer. De offic. I, 23.) [p. 581 modifica]

581
5.^1

Vis consilii expers, mole ruit sua: Vim temperatam Dî quoque provehunt In majus: idem odere vires Omne nefas animo mo ventes.

(Horatius. III, Lib. Odar. 4.)

Fortes et magnanimi sunt habendi, non qui faciunt, sed qui propulsant iajuriam (Cicero I Offlc. 19.)

Vera et sapiens animi magnitudo honestum illum, quod maxime natura sequitur, in factis positum, non in gloria, judicat; principemque se esse mavult quam videri (Cicero, De offic. I, 23.)

Di tanto ti conforto, Che se ti è fatto torto,

Arditamente, e bene. La tua ragion mantene.

Ben ti consiglio questo: Che se con lo legisto

Atar te ne potessi, Vorrei che lo facessi;

Ch’egli è maggior prodezza Raffrenar la mattezza

Con dolci motti, e piani, Che venire alle mani:

E non mi piace grido; Pur con senno mi guido.

Ma se ’1 senno non vale,

Metti mal contro male, [p. 582 modifica]
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Né già per suo rumore

Non abbassar tuo onore.

Ma s’ è di te più forte,

Fa senno, se il comporte,

E dà loco alla mischia;

Che foli’ è chi s’ arrischia

Quando non è potente. Però cortesemente

Ti parti da romore. Ma se per suo furore

Non ti lasci partire Volendoti ferire,

Consiglioti, e comando. Non ne vada di bando.

Abbie le mani accorte: Non dubitar la morte,

Che tu sai per lo fermo Che già di nullo schermo.

Si puote uomo coprire. Che non vada al morire

Quando lo punto vene. Però fa grande bene

Chi s’arrischia al morire Anzi che sofferire

Vergogna, ne grave onta, ecc. ecc.

(Tesoretto, Cap. XVIII.) [p. 583 modifica]

583
Capitolo XXXVI.

Sperai infestis, metuit secimdis Alteram sortem bene preparatura Pectus. Informes hyemes reducit

lupiter idem Summovet. Non si male mine, et olim Sic erit.

(Horatius. Odar. Lib. II, 10.)

Dì melius nerao hac re mortalibus minari potest

(Martinus Dumensis.)

Mors dominum servo, mors sceptra ligonibus aequat; Dissimiles simili conditione trahens.

(Hildebertus Cenoraanensis, citato nello Si^eculum Doctrinae.)

Nisi summa dies cum fine bonorum Adfuit, et celeri praevertit tristia leto, Dedecori est fortuna prior quisquam ne secundis Tradere se fatis audet, nisi morte parata.

(Lucanus Pharmh VIII, 29.) [p. 584 modifica]
584
Tabesne cadavera solvat

An rogus, haud refert: placido natura receptat Cuncta sinu, finemque sui sibi corpora debent. Hos, Caesar, populos si nunc non usserit ignis, Uret cum terris, uret cum gurgite ponti. Communis mundo superest rogus, ossibus astra

Misturus

Libera fortunae mors est: capit omnia tel lus Quae genuit: coelo tegitur qui non habet urnam.

(Id. ibid. VII, 809.)

Multos in summa pericula misit Venturi timor ipse mali: fortissimus ille est Qui promptus metuenda pati, si cominus instent Et difFerre potest, placet haec tam prospera rerum Tradere fortunae? gladio permittere mundi Discrimen? pugnare ducem, quam vincere malunt.

(Id. ib. VII, 105.)

Multos in summa pericula misit venturi Umor ipse mali: fortissimus ille est, qui promptus metuenda

patitur (Seneca). [p. 585 modifica]

585
5S5

Capitolo XXXVIII.

Auriim per medios ire satellites Et perriimpere amat saxa potentius Ictu fulmineo.

(Horatius Odar. Lib. Ili, 16.)

Capitolo XXXIX.

Sed quum plerique arbitrentur res bellicas minores esse quam urbanas, minuenda est haec opinio. Multi enim saepe bella quaesierut propter gloriae cu piditatem Parvi eoim sunt foris arma, nisi est

consilium domi (Cic. I, Offic. 22.)

Omnino illud honestum, quod ex animo excelso magnificoque quaerimus, animi efficitur, non corporis viribus. Exercendum tamen corpus est, et ita afficiendum est, ut obedire Consilio rationis attamen corpus et ita possit (Id. ib. 23.).

Capitolo XL.

Praeclaraque est aequabilitas animi in omni vita,

et idem semper vultus, eademque frons. (Id. Oftìc. 26.) [p. 586 modifica]
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Nobilis et varia est ferme natura malorum

Quum scelus admittunt superest constantia. Quid fas Atque nefas ? Tamen incipiunt sentire peractis Criiniuibus. Tamen ad mores natura reciirrit Damnatos fixa et mutari nescia. Nam qui Peccandi finem posuit sibi? Quando recepit Ejectum semel attrita de fronte ruborem ? Quisnam hominum est quem tu contentus videris uno Flagitio ?

(luvenalis Satira III, 336.)

Rides? Quid, mea quum puguat sententia secum, Quod petit spernit, repetit quod nuper omisit, Aestuat, et vitae disconvenit ordine tote, Diruit, aedificat, mutât quadrata rotundis.

(Horatius I. Epist. I, 96.)

Quid terras alio calentes sole mutamus ? Patriae quis exul se quoque fugit ?

Scandit aeratas vitiosa naves

Cura.

(Horatius, Odar. II, 16.)

Optât ephibbia bos piger: optât arare caballus Quam scit uterque libens censebo exerceat artem.

(H^atius I, Epistol. XIV.) [p. 587 modifica]

587
Rectius vives, Licini, ueque altiim

Semper urgendo, neque dum procellas Cautus horrescis, nimium premendo Litus iniquum.

Aiiream quisque mediocritatem

Diligit.

(Orazio II, Od. 10.)

^qiiam memento rebus in ardnis Servare mentem, non seciis in bonis Ab insolenti temperatam Laetitia

(Id. ih. 4.)

Capitolo XLI.

Quod sors feret, feramus aeqno animo: Istuc vivi est officium

(Terentius, Comoedia VI.)

Durum ! Sed levius fit patientia, Quidquid corrigere est nefas

(Horatius I. Od. 24.)

Qui il maestro confonde la pazienza cristiana,

di cui esso scrive, secondo gli insegnamenti degli [p. 588 modifica]
588
ascetici, colla pazienza pagana della quale parla

Orazio. Fides,,pes, charitas, hiimilitas, patieniia, sono paiole che il cristianesimo prese dall’antica lingua latina, ed alle quali mutò portentosamente il significato. La pazienza di Orazio, era quella paHentia ìonga lahorum, la quale incallendo ed il corpo e lo spirito sotto il flagello del dolore, glielo rendeva meno cruccioso, ad esso assuefacendolo. Era la pazienza del bue che si avvezza al giogo, del puledro che si avvezza al freno. La pazienza cristiana, innalzando lo spirito al cielo, ha ben altro conforto. Ricordiamo i martiri, i missionari, le sucre della carità, e milioni di fatti eroici ogni giorno nella vita domestica, ignoti al mondo, ma accetti più che qualunque incenso od olocausto al Padre nostro ch’ò in cielo.

Capitolo XLIIL

Nemo justus esse potest, qui mortem, qui dolorem, qui exilium, qui egestatem tiraet, aut ea quae his sunt

contraria aequitati anteponat Ac mea quidem sen tentia omnis ratio atque institutio vitae adjumenta hominum desiderati in primisque ut habeas quibuscum

familiares possis conferre sermones Atque iis

etiam qui vendunt, emunt, conducunt, locant, contrahendisque negotiis implicantur, justitia ad rem

gerendam necessaria est. (Cicero IL De offlc. XL) [p. 589 modifica]

589
L’ edizione lionese: La giustizia si è cougiimgimento

tacito della natura trovato in aiuto di molti, e non è ordinamento d’ uomo, ma legge di Dio, e legame dell’ umana società. In questo non ti conviene pensare a quello che fare ti convenga; ma ella dice, e dimostra, che lare si conviene.

Capitolo XLIV.

Quietissimam vitam agerent homines in terra, si haec duo verba a natura omnium virorum tollerent: Meum ac Tuum.

Bonis nocet, qui malis parcet (Martinus Dumensis, Lib. De Moribus, V.)

Capitolo XLV.

ToUit personam amici, quum induit judicis

(Cicero, III, De officis, 10). [p. 590 modifica]
590
Capitolo XL^l.

Io vidi Larghezza Mostrar con gran pianezza

Ad un bel cavalier o Come nel suo mistero

Si dovesse portare: E dicea: Ciò mi pare.

Se tu voli esser mio, Dì tanto t’ atfìd’ io,

Che nullo tempo mai Di me mal non avrai;

Anzi sarai tutt’ ore In grandezza, e’ n onore.

Che già uom jjer larghezza Non venne in poverezza.

Ver è che assai persone Dicon, che a mia cagione

Hanno l’ aver perduto, E eh’ è lor divenuto

Perchè son larghi stati; Ma troppo sono errati,

Che, com’ è largo quegli Che pai- che s’accapigli

Per una poca cosa, Dove onor grande posa,

E in un’ altra bruttezza

Farà sì gran larghezza, [p. 591 modifica]

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Che sia smisuranza ?

Ma tu sappi in certanza,

Che nuli’ ora che sia Venir non ti porrla

La tua ricchezza meno, Se ti tieni al mio freno,

Nel modo eh’ io diraggio. Che quegli è largo e saggio

Che spende lo danaro. Per salvar l’agostaro.

(Tesoretto, Cap. XV.

Capitolo XLVII.

Quis enim nostrorum contentus fuit, aut leviter rogari, aut semel?

Qui non, quum aliquid a se peti suspicatus est, frontem adduxit, vultum avertit, occupationes sirnulavit, longis sermonibus, et de industria non invenientibus exiturn, occasionem petendi abstulit, et vanis artibus properantes nécessitâtes elusiti^ (Seneca, De beneficiis, lib. ì, cap. 1).

Errat, si quis sperat responsurum sibi, quem dilatione lassavit, expeotatioue torsit (Ibidem.)

Ingratum est beneficium, quod diu iuter mauus dantis haesit, quodque is aegre dimittere visus est,

et sic tamqiiam sibi praeriperet (Ibid.) [p. 592 modifica]
592
Primiim est antecedere desiderium cujusque:

proximum sequi. Illiid melius, occupare antequam rogemur, quia quum homini probo ad rogaudum os concurrat, et suffundatur rubor. qui hortamentum remittit, multiplicat munus suum (Id. Lib. II, cap. 1).

Non tulit gratis, qui quum rogasset, accepit

Nulla res carius constat, quam quae precibus empta est. (Id. cap. I).

Molestum verbum est, onerosum, et demisso vultu dicendum: Kogo (Id. c. 3).

Nemo illa intercipiat, uemo detineat, nemo in 60 moraturus gratiam suam facere potest, ne non tuam minuat. Nihil aeque amarum, quam diu pendere. Aequiore quidem animo ferunt praecidi spem suam, quam trahi. (Id. cap. 4).

Sunt quidem multi, et quidem cupidi splendoris et gloriae, qui eripiunt aliis quod aliis largiantur. Hique arbitrantur se bénéfices 4n sues amicos visum iri, si locupletent eos quacumque ratioue. Idem autem tantum abest officio, ut uihil magis officio possit esse coutrarium. (Cicero I, De officiis, cap. 14).

Ea liberalitate utamur, quae prosit amicis, uoceat nomini (Ibid.)

Ne major benignitas sit, quam facultates. Qui benigniores voluut esse quam res patitur.... in est in tali liberalitate cupiditas plerumque rapiendi et auferendi per injuriam, ut ad largieudum suppetant copiae (Ibid.)

Quid ? Ego illi sum iudicaturus me dedisse, quum inter prima praecepta ac maxime necessaria

sit, ne umquam exprobrem, imo ne admoneam qui[p. 593 modifica]

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dem? Haec enim beueficii inter duos lex est, alter

statina oblivisci débet dati, alter accepti numquam (Seneca, De Benefìciis, lib. II, cap. 10.) Non Tullio, come cita il Tesoro.

Qui accipere se putavit beneficium, quum daret, qui dedit tamquam non recepturus, recepit tamquam non dedisset. (Id. Lib. I, cap. 7.)

Il fatto di Antigono col Cinico ( voltato in menestrello), e di Alessandro, è nel Lib. II di Seneca, cap. 2 De benefìciis.

Ingratus est adversus primum beneficium ? Adversus alterum non erit. Duorum oblitus est ? Tertium, etiam eorum quae exciderunt memoriam reducet (Id. Lib. I, cap. 3.)

Si deos imitaris, da et ingratis (Id. Lib. IV, cap. 26.)

Il Tobia citato da Brunetto è Matthaei Vindecinensiis, Tobias, ree. Mueldener Gottingae 1855.

Questi sono i versi (257-258) citati:

Est rogo vox miseri, vox importuna pudoris, Prodiga, moeroris piena, favoris egens.

Malim beneficium non recipere, quam non dare, quia qui non dat, vitium ingrati antecedit. Dicam quae seutio: qui beneficium non reddit, magis peccai: qui non dat, citius (Id. Lib. I cap. I.)

Tertium est propositum, ut in beneficentia delectus esset diguitatis: in quo et mores ejus erunt spectandi in quem beneficium conferetur, et animus

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erga nos, et comimitas ac societas vitae, et ad nostras

utilitates officia ante collata: quae ut concurrant omnia, optabile est: sin minus, plures causae majoresque ponderis plus habebunt. Quoniam autem vivitur, non cum perfectis hominibus pleneque sapientibus, sed cum iis in quibus praeclare agitur si sunt simulacra virtutis; etiam hoc intelligendum puto, neminem omnino esse negligendum, in quo aliqua significatio virtutis appareat: colendum autem esse ita quemque maxime, ut quisque maxime, bis virtù tibus lenioribus e rit ornatus, hac ipsa, de qua multa dieta sunt, justitia. Nam fortis animus et magnus in homine non perfecto, nec sapiente, ferventior plerumque est, illae virtutes virum bonum plerumque videntur propius attingere. (Cicero, De offlciis Lib. I, cap. 14.)

Utique cavebimus, ne munera supervacua mittamus: et foeminae aut seni arma venatoria, aut rustico libres, aut studiis ac literis dedito retia. ^Eque ex contrario circumspiciemus, uedum grata mittere volamus, suum cuique morbum exprobatura mittamus, sicut ebrioso vina, et valetudinario medicamenta. (Seneca, De benef. lib. I, 2.)

Guarda che sie intento, Sì che non pai lento;

Che donar tostamente, È donar doppiamente,

E donar con sforzato

Perde lo dono, e ’1 grato: [p. 595 modifica]

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Che molto più risplende

Lo poco chi lo prende

Tosto, e a lunga mano, Che que’ che di lontano

E tardi, e con durezza Dispende gran ricchezza

(Tesoretto cap. XX.)

Capitolo XLVIII.

In referenda gratia, si modo Hesiodo (Isidoro, nel Tesoro) credimus, debemus imitari agros fertiles, qui multo plus adferunt quam acceperunt (Cicero, De oflciis, Lib. I. cap. 15).

I chans gaaignabìes, che abbiamo veduto anche nel libro III capitolo 5, sono gli agri fertiles di Cicerone: i campi, che Bono tradusse guadagnaiori, cioè, dalla coltivazione dei quali si ha certo e grasso guadagno.

Le citazioni di Seneca sono tutte dell’ Opera De heneficiis: la prima, III. 1: la seconda, I, 2: la

terza l\\ cap. ultimo. [p. 596 modifica]
596
Capitolo XLIX.

La prima parte è tratta dal cap. 15 del libro II, De offlciis di Cicerone. La seconda, in cui parla dei giudici, dal cap. 14 del libro stesso.

Capitolo L.

Nel Tesoreiio cap. XV ripete queste dottrine.

È notabile questa dottrina intorno al principio teologico: Fuori della chiesa cattolica non è salute. Non basta essere fuori di essa: bisogna essere ostinatamente fuori di essa per non avere salute.

La ragionevole tolleranza è antica quanto l’Evangelio.

Intorno al modo di pregare dei pagani, i quali alcune domande facevano in pubblico, ed altre in segreto, oltre alcuni brani curiosi degli apologisti cristiani dei primi secoli, abbiamo in Orazio, Epistol. Lib. I, 16.

A^ir bonus, omne forum quem spectat et omne tribunal, Quandocunque deos vel porco vel bove plaçât,

lane pater ! claro, dare quum dixit: Apollo ! [p. 597 modifica]

597
Labra movet, metuens audiri: Pulchra Laverna,

Da mihi fallere, da justo sanctoque videri, Noctem peccatis, et fraudibus objce nubem!

Il lungo testo di Senesa su queste preghiere tradotto nel t, è nella sua Epistola X.

scelerum si bene poenitet,

Eradenda cupidinis Pravi suut elementa, et teuerae nimis

Mentes asperioribus Formanda studiis

(Horatius III, Odar. 24.)

truditur dies die,

Novaeque pergunt interire lunae

(Id. II, Odar. 18).

Immortalia ne speres, monet annus, et almum

Quae rapit bora diem

Pulvis et umbra sumus. Qui scit, an adjciant hodiernae crastina summae

Tempora Dì superi ?

(Id. IV. Odar. 7.)

Si consilium vis,

Permittes ipsis expendere Numinibus, quid Conveniant uobis, rebusque sit utile nostris: Nam projucundis, aptissima quaeque dabunt Di.

(luvenalis, X, 246.) [p. 598 modifica]
598
Non votis neque çupplicationibus ranliebribus

auxilia deorum parantur, sed vigilando, agendo, bene consulendo prospere cadunt omnia. Ubi socordiae te atque ignaviae tradideris, nequicquam Deos implores, irati enim infen&ique sunt (Sallustio Catilin.)

Liberi servique personam veritas séparât, servum liberumque mendacium miscet ( Pseudo-Seneca, Be moìHbusJ.

In Mor. Dogm. XXXIII è riportata questa sentenza di Giovenale:

Carior est illis homo quam sibi.

Capitolo LI.

La dottrina di questo capitolo, è pure nel Tesoretto, capitolo I.

Ed io ponendo cura Tornai a la Natura,

Oh’ audivi dir che tene Ogn’ uom che al mondo vene.

E’ n’esce primamente Al padre, ed al parente,

E poi al suo Comune. Ond’io non so nessuno

Ch’ i’ volessi vedere

La mia cittade avere [p. 599 modifica]

599
Del tutto alla sua guisa,

Né che fosse divisa:

Ma tutti per comune Tirassero una fune

Di pace e di ben fare.

Il testo citato di Cicerone, è I. De offlciis 10. Quello di Sallustio, è De bello lugurt. X.

Capitolo LIT.

Innocentia est puritas animi, omnem injuriae illationem abhorrens (Cicero, De offic.)

Immunis aram si tetigit manus. Non sumptuosa blandior liostia, Mol li vit averses pénates. Farro pio, et saliente mica.

(Horatius, III, Odar. 23.)

Nam vitiis nemo sine nascitur: optimus ille est Qui minimis urgetur

(Horat. Serm. I, 3).

Nemo satis tantum credit delinquere, quantum Permittas; adeo indulgent sibi latius omnes.

(luvea. XIV.) [p. 600 modifica]
600
Capitolo LUI.

Il testo di Salomone, sconciamente mutato in solamente dall’amanuense, è questo: Unguento et variis odoribus delectatur cor; et bonis amici consiliis anima dulcoratur (Proverb. XXVII, 9.)

Solem de mundo tollero videatur, qui araicitiam e vita tollunt, qua ni h il ad usum mortalium melius habemus, nihil jucundius (Cicero, De amicitia.J

Capitolo LIV.

Si est tibi servus fìdelis, sit tibi quasi anima tua, quasi fratrem eum tracta (Eccli. XXXIX, 31).

Amicus fìdelis^ medicamentum vitae (Eccli. XVI 6).

Nihil virtute amabilius ^ nihil est quod magis alliciat (nos atise: è motiva) homines ad diUgendum; quippe quum propter virtutem et probitatem eos etiam, quos nuuquam vidimus, quodammodo diligamus (Cicero, De amicitia. I.)

NuUum habet majus malum eccupatus homo, et bonis suis obsessus, quam quod amicos sibi putat, quibus non est; et quod beneficia sua efficacia judicat ad faciendum amicos, quum quidam quo plus

debent, plus oderiint (Seneca, Ep. 79). [p. 601 modifica]

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Capitolo LV.

Qui utilitatis causa assumptus est, tamdiu placebit, quamdiu utilis fuei’it. (Seneca Ep. 9.)

Virtus est amicitia, non quaestus (Ambrosius, De offlciis, Lib. III.)

In amicis non res quaeritur, sed vohmtas, quia et alterum ab amicis saepe prohibetun, alterum solum charitas tribuit. (Hieronimus, ad Demetriadem.)

Quod divitiis non potes sci re, paupertate scies. Illa veros, certosque retinebit amicos. Discedit quis non te, sed tua sequebatur. (Seneca, Epist. II.

Capitolo LVI.

Amicos secreto admone, palam autem lauda (Martinus Dumiensis, De moribus Lib. I, I.)

Fidem posside cum amico in paupertate sua (Eccli. XXII, 28).

Simulator ore decipit amicum suum ( Proverb.

II, II.) [p. 602 modifica]
602
Capitolo LVIII.

Air epoca dei romanzi, nella quale di tutti i grandi uomini si spacciarono bizzarre avventure d’ amore, anche Aristotele, il maestro di color che sanno, diede argomento a curiosi racconti. Si narra nella sua biografia, che l’ anno 348 av. Cristo, essendo morto Platone, alle lezioni del quale assisteva, e gli Ateniesi avendo intimata guerra a Filippo di Macedonia, egli abbandonò Atene, e si ritirò ad Atarne, dove Ermia suo amico avea sovrana autorità. Ucciso poi Ermia per tradimento del re di Persia Artaserse, Aristotele ne eternò la memoria con un celebre inno, e ne sposò la sorella, di nome Pizia, la quale assai pili giovane del morto fratello, da esso era educata ed amata come figlia, ed allora trovavasi da tutti abbandonata. Essa morì molto prima di Aristotele. Si novellò eh’ egli amante perduto di lei, ne facesse una divinità, e le rendesse gli onori stessi che gli Ateniesi solevano rendere a Cerere. Egli ebbe una figlia, la quale portò il nome della madre. Il filosofo nel suo testamento, conservatoci da Diogene Laerzio, ordinò che il suo cadavere fosse sepolto insieme con quello dell’amatissima sposa, la quale molto tempo prima l’aveva preceduto

nel sepolcrale riposo. [p. 603 modifica]

603
Merlino nacque d’ un Incubo, e d’ una monaca

figlia di un re di Scozia, nei monti di Caledonia. I grandi avanzi di costruzioni druidiche presso Salisbury, si dicono giuochi della magica sua potenza. Un libro di profezie ad esso attribuito, fu stampato la prima volta tradotto in Italiano, a Venezia nel 1495. Le romanzesche favole che lo riguardano, appartengono al ciclo del re Arturo, e della Tavola rotonda. Intorno a’ suoi amori, è famosa l’ allusione dell’Ariosto nel canto III, IO, II, àeìV Orlando FuriosOj dove Bradamante ne visita la grotta e la tomba. Parla la maga Melissa:

Questa è l’antiqua, e memorabil grotta Ch’ edificò Merlino, il savio mago. Che forse ricordare odi talotta. Dove iugannollo la donna del Lago: Il sepolcro è qui giù, dove corrotta Giace la carne sua, dov’ egli, vago Di soddisfare a lei, che gliel suase, Vivo corcossi, e morto ci rimase.

Col corpo morto il vivo spirto alberga, Sin ch’oda il suon dell’angelica tromba Che dal ciel lo bandisca, o che ve l’erga, Secondo che sarà corvo o colomba. Vive la voce, e come chiara emerga. Udir potrai dalla marmorea tomba, Che le passate e le future cose

A chi gli domandò sempre rispose. [p. 604 modifica]
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Capitolo LIX.

Reddito ergo omnibus debita, cui tributum, tributum: cui vectigal, vectigal; cui tiraorem, timorem; cui honorem, honorem (Roman. XIII, 7.)

Hilarem datorem dihgit Deus ( II Corint. IX, 7.) In omni dato, hilarem fac vultum tuum ( Eccli. XXXV, IL)

Alla sentenza: Tu dèi sapere, che nullo luogo sia senza testimonii, il Sorio postilla: Non Tullio, ma Pseudo-Seneca, De moribus.

Capitolo LXI.

Virgilio fa dire a Bidone nel primo dell’Eneide, in senso ben diverso:

Non ignara mali, miseris succurrere disco.

Il manos. Bergamasco traduce il testo di Seneca: Chi ha misericordia degli desiasiadi ^ ha misericordia di se. Il T dice: Des maushaities.

Questo desiasiadi, ricorda: asio, asgio, agio, di molti dialetti, ed i suoi composti. Vuol dire disagiati,

e pericò bisognosi, miserabili. [p. 605 modifica]

605
Capitolo LXII.

Malus obedit linguae iniquae, et fallax obtempérât labiis mendacibus (Prov. XVII, 4).

Est autem in hoc genere molestum, qiiod in maximis splendidissimisque ingeniis pleriimque existant honoris, imperii, potentiae, gloriae cui)iditates: quo magis cavendum est ne quid in eo genere peccetur (Cicero, I De offic. 8.)

Quum autem duobus modis, idest aut vi aut fraude fit injuria, fraus quasi vulpeculae, vis leonis videtur, utrumque homine alienissimum, sed fraus odio digna majore. Totius autem injustitiae nulla capitalior est, quam eorum qui quum maxime fallunt, id agunt ut viri boni esse videantur (Ibid. 13.)

Hispida membra quidem, et durae per brachia setae Promittimt atrocem anirnum. Fronti nulla fides. Qui enim non vicus abundat Tristibus obscoenis ?

(luvenalis. Satyr. II. 11.) [p. 606 modifica]
606
Capitolo LXVI.

Malo pater Ubi sit Thersites, dummodo tu sis ^acidae similis, Vulcaniaqiie arma capesses Quam te Thersitae similem producat Achilles

(luven.. Sat. 8.)

L’ Alixandres citato da Brunetto, è pur citato nel libro Moralium Dogma cap. XXXVI, per questo verso:

Nobilitas sola est, animum quae moribus ornat.

Sappiamo per esperienza quarto poco possiamo fidarci di cotali citazioni di seconda, e di terza mano.

Capitolo LXVII.

rara est concordia forraae Et pudicitiae.

(luvenalis, Satyr. X. [p. 607 modifica]

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Non domus et fundus, non aeris acervus et aiiri,

^groto domini deduxit corpore febres:

Non animo curas: valeat possessor oportet,

Si comportatis rebus bene cogitât uti.

Qui cupit, aut metuit, juvatillum sic domus, aut res,

Ut lippum piclae tabulae.

(Horatius. I, Epist. 2.)

Cèdes coemptis saltibus, et domo

Cèdes, et extructis in altum Divitiis potietur haeres.

Divesne prisco natus ab Inaco,

Nil interest, an pauper, et infima

De gente sub divo moreris

Victima nil miserantis Orci Omnes eodem cogimur....

(Horatius, II, Odar. 4.)

Capitolo LXVIII.

Meismeynent, è medesimamente; ma non qui. Qui è per maismement:, e vuole dire massimamente. Non è errore di scrittura, ma indizio di mutamento accaduto nella pronuncia (V. Burgay, Gloss. alla voce

Magne.) Veratti. [p. 608 modifica]
608
Capitolo LXIX.

Coram re gè suo de paupertate tacentes

Plus poscente lerent. Distat, sumasque pudenter

An rapi as, atqui rerum caput hoc erat

Sed tacitus pasci si posset corvus, haberet Plus dapis, et rixae multo minus, invidiaeque.

(Horatius. I, Epist. 17.)

Qualem commendes etiam atque etiam aspice ne mox

Incutiant aliena tibi peccata pudorem.

Fallimur, et quondam non diguum tradimus. Ergo

Quem sua culpa promet deceptum, amitte tueri

Ut penitus notum, si tentent crimina serves

Tuterisque tuo fìdentem praesidio, qui

Dente leonino quum circumroditur et quid

Ad te post paulo ventura pericula sentis,

Nam tua res agitur, paries quum proximus ardet

Et neglecta soient incendia sumere vires.

(Id. I, Epist. 18.)

Vivendum est recto, quum propter plurima, tum his Praecipue causis, ut linguas mancipiorum Contemnas; nam lingua mali pars pessima servi

(luvenalis, Satyr. 9.) [p. 609 modifica]

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Ancora sul Capitolo LXIX.

Servant.

A lato di questa forma (Servant) invece del v medio, si trova j ovvero f/; Serjant, Serghant, Sergaìit, Sciergant, Servo, Valletto, Domestico, Operaio, Compagno, Soldato. Deriva da serviens, e non dal vecchio tedesco Scarjo, tedesco moderno Scherge, come dice Grimm; perchè il significato primitivo di questo vocabolo, rigetta cotale etimologia: V. Du Gange, Serviens: Burguy, Sej^f (Veratti).

Oderunt hilarem tristes, tristemque jocosi, Sedatum celeres, agilem gnavumque remissi, Potores bibuli media de nocte Falerni Oderunt porrecta negantem pocula.

(Horatius, I, Epist. 18).

Dulcis inexpertis cultura potentis amici; Expertus metuit. Tu dum tua navis in alto est etc.

(Id. Ibid.J

Capitolo LXX.

Spatio brevi Spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida ^tas. Carpe diem. quam minimum credula postero.

(Horatius I, Carmin. II.)

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Ille potens sui

Laetusque deget, cui licet in diem Dixisse: Vixi ! Cras, vel atra Nube polum Pater occupato Vel sole puro; non tamen irritum, Quodcumque retro est, efflciet; neque Diffinget, infectumque reddet, Quod fugiens semel hora vixit.

(Id. III, Carmin. ’^9 )

Per quae Crescere res posse t, minui damnosa libido

(Id. II, Epistol. 1.)

Et genus, et virtus, nisi cum re, vilior alga est.

(Id. II, Satyr. 5.)

Neque divitibus est, Nec vixit maie, qui natus moriensque fefellit

(Id. I, Epist. 17.)

Omnes enim res, Virtus, fama, decus, divina humanaque pulchris Uivitiis parent, quas qui construxerit, ille Clarus erit, fortis, justus, sapiens, etiam et rex, Et quidquid volet.

(Id. III, Satyr. IL) [p. 611 modifica]

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Scilicet improbae

Crescunt divitiae: tamen Curtae nescio quid semper abest rei

(Id. m, Carm. 24.)

Crescentem sequitur cura pecuniam Majorumque famés.... Multa petentibus, Desunt multa

(Id. m. Carm. 16.)

Pauper enim uou es, cui rerum suppetit usus Si ventri beue, si iateri est. pedibusque tuis, ail Divitiae poterunt regales addere manus.

(Id. Epist. 12.)

Faecunda culpae saecula, nuptias

Primum inquinavere, et genus, et domos:

Hoc fonte derivata clades

In patriam, populumque fluxit

(Id. Carm.)

Et mihi res, non rne rebus submittere conor.

(Id. I. Epit. 5.)

Imperat aut servit collecta pecunia cuique, Tortum digna sequi potius quam ducere funem

(Id. I, Epist. 10.) [p. 612 modifica]
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Nocte iter i agressas, gladiura contunique tirnebis

Et motae ad limam trepidabis arundinis umbras. Cantabit vacuus coram latrone viator.

(luvenalis, Satyr. 10.)

Honesta res est laeta paiipertas.

Illa vero non est paiipertas, si laeta est. Cui euim quum paiipertas bene convenit, dives est. Non qui parum habet, sed qui plus ciipit, pauper est. (Seneca, Epist. 2.)

» Ingi’^essamente. Così leggi col francese engressement, il qual francesismo vedi nella Crusca veronese col testimonio del Gr. S. Girol.54» Postilla del Sorio.

In questo capitolo abbiamo col t corretto un Pey^ò, in Persio, e ad esso attribuita una sentenza che aìtrimente era aitribuita a Seneca. La seutenza è di Orazio; scambiandosi forse per errore di memoria Ettore con Achille:

Nihil est ab omni

Parte beatum.

Abstulit clarum cita mors Achillem:

Longa Tithoûum minuit senectus

(II Carm. 16.) [p. 613 modifica]

613
Capitolo LXXI.

Invida futurorum séries, summisque negatum Stare dia, nimioque graves sub pondère lapsus. In se magna ruunt. Laetis hunc numina rebus Crescendi posuere modum

(Lucanus I, 70.)

Saepius ventis agitatur ingens Pinus, et celsae graviore casu Decidunt turres, feriuntque summos Fulmina montes

(Horatius, II Carmin. 10.)

Profecto hoc sic est, ut puto, Omnibus nobis ut dant se se, ita magni Atque humiles sumus

(Terentius, Comoed. V.)

Quid euim censemus superiorem illum Dionisium, quo cruciatu timoris angi solitum? qui cultros metuens tonsoris, candenti carbone sibi adurebat capillos.

(Cicero III, De offlc. 7.) [p. 614 modifica]
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Forse il luogo di Stazio, e non di Orazio, è

questo:

Et quae non grandis mortalibus addita cara Spes ubi longa venit?

(Thaebaid. II.)

Capitolo LXXII.

Dignum laude virura Musa vetat mori

(Horatius. IV Carm. 8.)

Quum bene notum Porticus Agrippae et via te conspexerit Appi. Ire tamen restât Numas quo venit et Aucus

(Id. I, Epist. 6.)

Paulum sepultae distat inertiae Celata virtus

(Horatius IV. Carmin. 9.)

Fulsus honor iurat, mendax infamia terret

(d. I. Epist. 10.)

Il testo di Cicerone è nel libro II De offlcis, 12. [p. 615 modifica]

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Capitolo LXXIV.

I testi di Cicerone, sono nel libro II De offic. 3, e nel III, 5, 6, 9.

Optimum est enim gratia stabilire cor, non esciSa quae non profuerunt ambulantibus in eis ( Haebr. XIII, 9.)

Quid enim est stultius, quam in homine aliena laudare? Quid eo dementius, ui ea miratur, quae in alium protinus transferri pussunt ? Non faciunt meliorem equum aurei froeni (Seneca, 89.)

Vae ei. qui multiplicat non sua ! (Habacuc, II; 6.)

Cautus enim metuit foveam lupus, accipiterque Suspectes laqueos, et opertum milvius hamum. Oderunt peccare boni virtutis amore

(Horatius I, I Capit. 14.)

Capitolo LXXV.

Postilla del Sorio: Qui si riprova il quietismo, nel quale sdrucciolarono i falsi mistici di quel tempo, i quali sogni di cella si predicarono poi sulle piazze e ne venivano i Fraticelli, e Beguini. Vedi Raj^naldus,

Annales Ecclesiastici continuate ad ann. 1294, [p. 616 modifica]
616
etseq.yinraitovì, SrripVRervm Italicar. IX Historia

Dulcini heresiarchae: Wadding, Annales ad ann. 1297.

Capitolo LXXIX.

Et si tradidero corpus meiim ita ut ardeam, charitatem autem non habuero, nihil mihi prodest. (I, Cor. XIII, 5.)

Fortior est quam mors, dilectio.

(Cantic. canticor.)

Capitolo LXXXII.

Postilla del Sorio, al vocabolo Soitie, volgarizzato malamente, comyagno. « Soit vale stupido, onde per derivato: soitie, stupidezza. Il traduttore sembra avere mal letto: socie, onde tradusse: compagno. Il ms. Bergamasco ha lacuna di questa voce,

che egli ommise per non averla intesa. » [p. 617 modifica]

617
^17

Capitolo LXXVIII.

« Quello che non f^ per fede, è peccato. » Postilla del Sorio.

» Questa proposizione oggidì non si può tollerare; ed è la seutenza di s. Paolo ai Romani XIV, 23: Omne aidem qiiod non est ex fide, peccatum est: ma dall’autore fu male intesa la voce fides per la virtù teologale, quando è da doversi intendere per coscienza buona, per buona fede; onde dice l’apostolo, che con una mala coscienza operando si pecca altresì facendo opera per se buona né niente peccaminosa »

FiME DEL Volume Terzo [p. 618 modifica]
618
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619
UsTXDICE

PARTE SECONDA

-^^’^

LIBRO SESTO

Prologo Pag. 7

Cap. I. (a) Etica d’Aristotile...» 11

» I. (b) Del governo della città. » 14

» II. Delle tre virtù » 17

» IH. Del bene » 18

» IV. Qui divisa delle tre potenze

dell’ anima » 20

» V. Di tre maniere di bene.. » 22

» VI. Dello potenze dell’ anima. » 28

» VII. Di due maniere di virtudi. » 31 » Vili. Come la virtù nasce nel r uomo » 32

» IX. Come r uomo è TÌ)-tuoso. » 36 » X. Le tre cose che l’ uomo desidera..., » 37