Novelle umoristiche/La fortuna di un uomo
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La fortuna di un uomo.
I.
Lo zio Giorgio Bicci era noto a Bologna quale curioso tipo di patriotta, di filantropo, di pensatore profondo e di parlatore arguto. Se fosse stato uno scrittore, gli eruditi l’avrebbero forse assomigliato a qualche filosofo umorista moderno e accusato di plagio, quantunque egli non leggesse che i classici latini e i giornali quotidiani. Scapolo e scettico, come in molte cose, intorno alle donne, viveva d’amore e d’accordo con soli il servo Luigi e il nipote Gaspare. Ma questi, al contrario dei più, non poteva credere che lo zio non avesse mai amato alcuna donna.
Essendo ancora ragazzo, una sera tardi, dalla sua camera Gaspare aveva udito una voce angosciosa esclamare sommessamente:
— Figlia mia!...
Ond’egli, per la curiosità che è comune a tutti i ragazzi e che di lui era il difetto più grave, aveva spiccato un salto dal letto ed era corso a spingere lo sguardo per la serratura dell’uscio. Oh! Di là, nella sala attigua, al fioco lume della lampada, una signora vecchia in vesti nere, lo zio Giorgio e un terzo stendevan le mani, a contatto, su di un tavolino, e il tavolino sembrava che ballasse!
A tal vista e alla vista dello zio coi capelli irti, gli occhi accesi e fuori delle orbite, la faccia pallida e contraffatta, Gaspare era ritornato subito sotto le lenzuola, giurando di non scrutare mai più che diavolo si facesse in casa a certe ore notturne; già guarito, e per sempre, del suo difetto più grande. Nè soltanto a ciò gli valse quella paura, perchè nell’avanzare degli anni e nel meditare su quel ricordo fanciullesco si convinse che se lo zio aveva avuto tale orrore dall’esperimento spiritico, certo era meglio lasciar in pace i morti e non confondersi nel mistero della morte; e anche si convinse che se lo zio aveva amato una donna sino a rievocarla in quel modo, con l’aiuto della madre di lei, certo era bene non innamorarsi così appassionatamente.
Quanto a Luigi, meglio che servo, poteva dirsi amico dello zio Giorgio. Commilitoni nelle schiere di Garibaldi, avevano combattuto l’uno a fianco dell’altro; inoltre, il secondo aveva prestato quattrini al primo; e come questi, da ignorante qual era, non dimenticava i benefizî, quegli, da filosofo qual era, si affezionava ai suoi debitori, dimentico dei crediti.
In più d’una battaglia Luigi, il servo, aveva sospettato che il compagno cercasse la morte, e il signor Bicci che il compagno volesse salvargli la pelle. Solo alla presa di Palermo, sul ponte, erano stati divisi nella mischia; ma il domani, dopo lunghe ricerche, l’incolume aveva rinvenuto il ferito all’ospedale: ferito al ventre e a una gamba in modo che si credeva impossibile rattopparlo. Ne rincresceva allo zio Giorgio; e più gli rincresceva che a Luigi, esuberante di giovinezza e di energia, dovesse spiacer molto il morire; e, con cuore di filantropo e con mente di savio, s’era proposto di prepararlo al passo dubbioso affinchè lo varcasse meno malvolentieri.
— Morire per la patria, in campo di battaglia o dopo la battaglia, è sempre glorioso e dolce.
Fra gli spasimi Luigi rispondeva:
— Una delizia. Ma io non muoio!
— Speriamo — augurava l’altro. Poi seguitava: — Non credere, del resto, che la morte sia brutta come dicono i deboli. Seneca.... — e aveva tradotto la sentenza dello stoico.
E Luigi:
— Il suo Seneca può dir quel che vuole; ma io non muoio!
— Quasi quasi non te lo augurerei, di vivere — disse il signor Bicci. Poscia tentò una nuova via: — Morte, che sei tu mai? Ciro Menotti, caro Luigi, recitava il sonetto del Monti nell’andare alla forca.
— Ma io non recito niente, perchè io non vado alla forca: sto qui: non muoio!
— Forse. Quando però non si riuscisse a salvarti, non dubitare che io, di ritorno a Bologna, porterò i tuoi saluti e dirò le tue ultime volontà ai tuoi fratelli.
A questo punto Luigi si drizzò a mezzo del letto.
— Perdio, vuol capirla sì o no? Non muoio! non muoio! non muoio! Se non lo so io, chi l’ha da sapere?
— E tu vivi! — gridò non meno forte lo zio Giorgio, perdendo la pazienza. — Ma la tua vita, bada, sarà legata per sempre alla mia, che non importava t’incomodassi a difendere! Chi sta bene al mondo ha l’obbligo sacrosanto di tener compagnia a chi ci sta male. Hai capito?
II.
Quantunque sappiamo tutti che la perdita dei genitori è il più gran dolore umano, sarebbe disumano dir fortunato Gaspare Bicci perchè nacque postumo e perdè la madre non ancor giunto agli anni della discrezione. Egli però riconosceva che per lui, orfano, era stata una fortuna grande l’aver avuto a fargli da padre e da madre, con alterna vicenda, a seconda dei casi, lo zio Giorgio e Luigi.
Riandando gli anni della puerizia e dell’adolescenza, Gaspare non vedeva che rose senza spine. Fin delle scuole e degli studi, che angustiano e deprimono tutti i ragazzi, serbava grata memoria; così per tempo aveva saputo adattarsi alle necessità del mondo; tanto affetto gli era rimasto dei buoni maestri; tanto agevole gli era parso ciò che appariva disagevole agli altri. A superar gli esami tranquillamente lo zio Giorgio gli aveva dato in aiuto un vecchio precettore, il quale valeva una mediocre enciclopedia; e a guida negli svaghi e nei sollazzi gli aveva concesso Luigi, che gli lasciava lungo il guinzaglio.
Quando di guida non ebbe più bisogno — all’età cioè, in cui tutti pericolano — lo zio lo sorresse donandogli trattati d’igiene e trattati intorno le cause e le forme di morbi insanabili: per di più, le precauzioni non essendo mai troppe, gli regalò il codice penale. Così Gaspare crebbe sano di mente e di corpo; non di molto ingegno, ma abbastanza da comprendere che il grande ingegno rende infelici; abbastanza di cuore da commiserare il prossimo suo, ma non tanto tenero da patir danni, a mo’ dello zio Giorgio, per gli altri; abbastanza di buon senso da persuadersi che i desideri superiori ai mezzi tolgono quiete e pace, e da scorgere in sè e fuori di sè prove indubbie della sua buona fortuna.
Oltre a questo, anzi prima di ogni cosa, chi non gli avrebbe invidiata la nativa arrendevolezza ai bisogni, alle convenienze, alle contingenze, ai consigli della ragione?
Gaspare Bicci non si preoccupò nemmeno delle due sole pretese in cui lo zio Giorgio insisteva. L’una: che suo nipote dimostrasse come i ricchi debbano servire la patria ugualmente ai poveri e come l’anno di volontariato sia un’ingiustizia e una vergogna; l’altra: che suo nipote conseguisse una laurea. «È vero — diceva — che troppe volte è meglio un asino morto d’un dottore vivo; ma giacchè gli asini vivi superano i dottori vivi, e quelli credono aver necessità di questi, è lecito trar partito dal comune pregiudizio.»
Ora, a proposito della laurea, Gaspare non dubitava che presto o tardi, scampato agli scogli della licenza liceale, appagherebbe lo zio e se stesso con un diploma d’ingegnere; e quanto alla milizia, sapeva bene che i volontari d’un anno soffrono, invisi come «signori», le angherie dei caporali e dei sergenti, e che, essendo egli un giovane istruito, diventerebbe presto un bravo sergente, benvisto dagli stessi volontari. Niente, dunque, volontariato!
La qual preparazione ad ambedue gli impegni dell’avvenire gli era così tranquilla, e quasi così grata, che la fortuna avrebbe potuto risparmiarsi la fatica di soccorrerlo.
Invece fu soccorso. Perchè mai? Un triste dubbio gli penetrò per la prima volta nell’animo: che la fortuna sua portasse jettatura agli altri; ed ecco come. Alle prove di licenza s’incagliò nella traduzione del greco; s’ingarbugliò in un maledetto periodo ipotetico, lungo lungo, da cui tutto il resto dipendeva in connessione logica e da cui egli, per quanto tirasse, non riusciva a strappare un senso razionale. E le ore passavano. Già qualcuno copiava la traduzione in buona copia; già i professori guardavano biechi, passando, ai fogli pieni di cancellature e di triboli, che non davan speranza di prossima fine.
E passò un’altra ora. Poscia uno consegnò il cómpito; quindi, in breve, molti; dei quali chi tornava dalla cattedra con aria dimessa: «sarà quel che sarà!»; e chi con viso lieto: «anche questa è fatta!»; e tutti con la colazione davanti agli occhi e l’anima alleggerita.
Ma gl’infelici in ritardo s’asciugavano la fronte; si curvavano sempre più sulle sudate carte e sui vocabolari copiosi e indifferenti; inghiottivano, sentendosi mancare le idee, la speranza e la lena, un pezzetto di cioccolata o s’attaccavano alla bottiglietta del cognac; si compromettevano con segni di richiamo e gettiti di pallottoline che recavano in seno una domanda o una risposta, un’invocazione d’aiuto o l’aiuto d’uno sproposito; vedevano, i miseri, la paterna e la materna angoscia.
Gaspare vedeva lo zio Giorgio e Luigi.
A un tratto il compagno di destra mise un profondo sospiro; guardò con, negli occhi, la gioia della vittoria e insieme una luce di carità; poi chiese a Bicci, piano piano:
— E tu?
— Se non ci fosse quest’ottativo....
— A te! copia...; ma cambia le frasi.
....Gaspare Bicci fu ammesso all’esame orale, si salvò anche dal greco; e il compagno che l’aveva disimpacciato, fu bocciato in greco!
L’anno dopo Bicci andò a estrarre il numero di leva.
In un gran camerone, pieno di fallaci speranze e d’un’allegria fittizia, egli attendeva rassegnato e tranquillo.
— Bicci Gaspare!
....Alla peggio, diventerebbe e rimarrebbe caporale.
— 824!
— Accidenti! — fece uno tra i giovani che aveva più vicini; un operaio.
Parve a Gaspare di leggergli in viso il presentimento che non toccherebbe a lui ventura simile; a quel povero giovane, che col padre o la madre o i fratelli piccoli da mantenere, agognava un numero alto e n’aveva necessità, per rimanere in terza categoria.
Bicci, tra impietosito e curioso, volle aspettarne la sorte; e con un cordiale augurio ne accompagnò la mano entro l’urna.
— 12!
«Jettatore! jettatore!»
Ah era un dubbio assai triste! Quasi per un pudore arcano, Gaspare non osava confidarlo nemmeno allo zio; non prevedeva che questi l’avrebbe consolato subito in quattro parole: La jettatura è un pregiudizio così stupido che fa torto all’intelligenza degli uomini cattivi e alla bontà degli uomini poco intelligenti. Quanto alla fortuna, sia o non sia sottoposta alla divinità, essa è una potenza innegabile. Bada però che è relativa: che, cioè, la fortuna dell’uno è quasi sempre la disgrazia dell’altro; e che ciò che ci sembra fortuna oggi, ci sembrerà disgrazia domani.
Questo, o press’a poco, gli avrebbe detto lo zio. Ma Gaspare si consolò da sè per una diversa riflessione: dal non avere egli mai un forte mal di capo; dal non prendersi neppure un grosso raffreddore, non dovevan conseguire le pleuriti e le polmoniti altrui.
Per fortuna non conosceva dei medici i quali gli dicessero che, secondo la scienza moderna, anche il raffreddore è un’infezione, la benefica natura distribuendo nell’aria, per gli uomini e per le bestie, moltitudini di microbi frigoriferi; onde se la fortuna risparmia qualche suo prediletto dall’ingoiarne, tanti più ne rimangono, di microbi, a danno degli altri uomini e delle altre bestie.
Gaspare tuttavia non credeva d’essere un uomo fuori del genere o sottratto alle conseguenze del peccato originale, ed era appena uscito dal dubbio della jettatura che cadde in un timore più forte. Ricordava che suo padre e sua madre, di cui riteneva la sanità del sangue e della fibra, eran morti giovani entrambi per malattie casuali e violente. Non avrebbe egli la medesima fine? Sarebbe come un rovescio tutto d’un colpo; come una giustizia sommaria che lo rimetterebbe nella regola dell’infelice destino umano!
E per evitare un tal colpo egli era condotto a desiderare qualche piccola disgrazia: una piccola malattia, un fiasco alla Scuola di applicazione.
Ma che! Il diploma d’ingegnere l’ottenne, se non con lode, senz’infamia. Non ebbe subito impiego; ma non lo cercò, avendo modo di vivere modestamente, di leggere romanzi, disegnare, dipingere alla meglio, suonare alla peggio il pianoforte e andare a spasso: di vivere, insomma, senza far nulla. Nè si ammalò lui.
Una sera lo zio Giorgio venne a casa male in gambe, e con un gran freddo addosso.
III.
La malattia dello zio Giorgio fu breve, forse perchè non ne aveva avute altre mai in vita sua.
Sentendo irreparabile il danno del morbo e prossima l’ora, parlò al nipote con la serenità d’un savio antico. E disse:
— Un savio ti esorterebbe a vivere secondo il suo esempio; io, al contrario, non so proprio che consigli darti.
Disse Gaspare:
— Ci penserai quando sarai guarito. Adesso sta tranquillo.
Ma l’infermo, volgendogli uno sguardo in cui languiva il sorriso abituale:
— Credi che io abbia paura della morte? No no. Muoio volentieri: rerum novarum cupiditate. E poi, son convinto di aver già sofferto abbastanza.
Nella faccia serena gli si vedeva ora che aveva sofferto molto, povero zio Giorgio! Seguitava:
— Tu, per soffrir meno, provati a fare in molte cose il rovescio di quel che ho fatto io. Ama te stesso un po’ più del prossimo tuo. Non dubitare di un Dio giusto e misericordioso, e per crederci fermamente, non dimandarti mai se ci credi fermamente. Non confidar troppo nella scienza, perchè in fondo a ogni vero che essa scopre, rimane un mistero. Prendi moglie....
Gaspare, a cui sino a questo punto pareva non aver udito nulla di nuovo, spalancò gli occhi.
— Prendi moglie. Una buona moglie è una vincita al lotto, lo so; ma, non ostante il calcolo delle probabilità, al lotto qualcuno vince. Del resto, se molti mariti sono ingannati, tutti gli scapoli sono ingannati, o, che è peggio, ingannano.... In politica, sii conservatore: è il solo partito che progredisca senza che nessuno se n’accorga; e nessuno t’incolperà mai di mutar bandiera o di retrocedere.... Ama l’arte, ma sta lontano dagli artisti. Ama la poesia, ma temi la fantasia tua più d’ogni altra cosa, dopo Dio....
E l’affanno gli spense la parola: cadde affranto. Non giovando a risollevarlo dimanda alcuna, nè sorsi di marsala, Gaspare mandò súbito per il medico.
Questi, che di grande appetito faceva colazione, credette lo disturbassero per un vano timore; cosicchè, quando arrivò, trovò l’infermo avviato a migliorare.
— Coraggio, zio! — disse Gaspare tornando al letto. — Il medico assicura che sei fuori di pericolo.
— Allora..., son bell’e spacciato.
Infatti non parlò più che verso sera, allorchè mormorò:
— Vado.
E aggiunse:
— Buona permanenza.
Uno stoicismo sublime! Per ammirazione, per emulazione quasi, cordialmente, Gaspare avrebbe forse risposto: — Buon viaggio — se Luigi, dall’altro lato del letto, non fosse scoppiato in singhiozzi costringendo a singhiozzare anche lui.
Intanto l’anima onesta voleva andarsene, ma il corpo, con le fibre che gli avanzavano salde, la tratteneva in un supremo sforzo e in un’agonia penosa; sì che, a ogni minuto, Gaspare sperava lo strappo finale. Per fortuna i minuti furono pochi.
— Zio!... zio!
Passato che fu, Gaspare e Luigi gli chiusero gli occhi, uno per uno, e lo baciarono: prima Gaspare, poi Luigi.
Quindi il servo accese una candela e attese, silenzioso, tutto in lagrime. Attese a lungo; ma come Gaspare, col capo fra le mani, non dava segno di muoversi, nè poteva credersi pregasse ancora o meditasse, Luigi gli si accostò.
— Signorino!... Vuol morire anche lei? Coraggio! Vada a prendere un po’ d’aria. Adesso qui....
Alla mente di Gaspare corse la visione delle tristi cose alle quali la morte obbliga i superstiti; nè tardò a pensare, con gratitudine, che l’incarico di quelle cose sarebbe stato suo quando nel servo non avesse avuto allora e sempre il migliore amico.
Frattanto Luigi lo spingeva fuori della camera; e lasciatolo nell’altra, poco dopo vi rientrava con una tazza.
— A lei! Una goccia di brodo....
Gaspare consentì senza voglia. E domandò:
— Ti par proprio che sia morto volentieri?
— Sì; anzi, se non fosse perchè non lo vedremo più....
Gaspare alzò gli occhi al ritratto che pendeva alla parete.
— Per vederlo — Luigi si corresse, — pazienza: c’è il ritratto. Ma non sentir più la sua voce.... Quella voce, mai più!...
Gaspare corse a rivedere il morto; Luigi, dietro a lui.
Così:... morto. E l’anima?🟌
Era, quel brutto giorno, una bella domenica alla metà di marzo, al tempo che già ferve per tutto un senso di vita nuova. Solo Gaspare Bicci non se n’accorgeva: andava per la strada affollata, solo, raccolto in sè; quasi sotto un peso opprimente; e dopo aver pensato agli uffici di pietà che gli restavano da compiere e alle forme di lutto da osservare, ripensava al mistero della morte.
Riflettè: «Dovendo morir tutti, ed essendo necessario, per morir volentieri, aver sofferto molto, ecco che anche il soffrire diventa un benefizio. Ma si è sempre a tempo.»
Eppure, lui soffriva; si sentiva stanco, stanco anche nelle gambe. Ah zio, zio! perchè morire? così buono!... Quand’ecco, a scorgere una carrozza che passava vuota, egli fe’ un cenno al fiaccheraio e salì.
— Dove vuoi; per un’ora.
Indi riprese i tristi pensieri. Ma perchè lo zio Giorgio aveva patito assai? Oltre che la passione d’amore, a cui serviva di richiamo il tavolino delle esperienze spiritiche, quali altri guai aveva avuto quel nobile cuore?
A queste dimande risponderebbe forse qualche carta lasciata, per memoria, nello scrittoio; insieme col testamento.
Perchè, senza dubbio, lo zio Giorgio aveva provveduto in bel modo e in perfetta regola alle sue ultime volontà; senza dubbio sarebbe il nipote l’erede di tutte le sostanze, all’infuori di una giusta donazione a Luigi e all’infuori d’alcuni lasciti per beneficenza.
Veramente, nè lui, Gaspare, aveva bisogno di nulla, nè il patrimonio dello zio, il quale troppo per l’addietro aveva speso a pro’ della patria e molto sempre, nel beneficare, era cospicuo. Di più: agenti e fattori ladri; disgrazie di grandinate e carestie, etc.
A conti fatti....
Gaspare faceva i conti quasi senz’accorgersene: tanto, la possidenza di Poggiogrande; tanto, la risaia di San Piero; tanto, la villa: una villa malconcia dagli anni, desolata, nell’incuria, laggiù, in una pianura malinconica.... Un ristauro sarebbe stato necessario.
In questo mentre il fiaccheraio, libero per quell’ora del suo arbitrio, credè che il più bel luogo ove condurre un signore svogliato e senza meta fosse il giardino pubblico. Ma come Gaspare, a mo’ di chi si ridesta d’improvviso, si vide fra la gente che andava al passeggio o ne tornava, rimorso dalla sua sventatezza ordinò in fretta:
— No di qua! Torna indietro!
Ed ecco che, al voltar della carrozza, nel voltar gli occhi....
Dio! che bellezza!
Una signorina bionda; modesta nell’abito semplice; con due occhi tra celesti e verdi, meravigliosi, portentosi! Che occhi!
In un istante, nell’attimo che la carrozza voltava, quegli occhi gli scoprirono in viso una sciagura; indovinarono che egli non aveva nessuno, non madre, non sorella, non moglie a consolarlo; affermarono: «io, per consolarvi almeno come moglie, verrei in carrozza, a casa con voi, piuttosto che andare al giardino, alla musica, con la mamma»; promisero, quegli occhi, pur mostrando di promettere invano, conforto, pietà, fede, amore! E tutto in un istante!
Inondata l’anima di poesia, Gaspare, se poeta, avrebbe lì per lì composto un inno alla donna in genere; alla donna, del cui sublime ufficio al mondo l’avevano persuaso lì per lì, e per la prima volta, gli occhi di quella giovinetta.
La donna! Fiore che inebria. Carezze e baci. Vaso di consolazione. Incitamento alla vita perchè essa si rinnovi in altre vite. Tesoro....
«Ammógliati»; era questo il miglior consiglio che lo zio Giorgio gli aveva dato affinchè stesse di buon animo, con Luigi.
E quell’incontro istantaneo, quell’occhiata fugace e profonda acquistavano la significazione d’una volontà che così, per divina grazia, si manifestasse e ripetesse subito, d’oltre la terra.
«Ammógliati».
Gaspare Bicci provava nell’animo una impressione quale di carezza lunga, continua; e il suo sguardo a poco a poco avvertiva come un fervore di luce che s’andava definendo in un miraggio di felicità.
IV.
Per beneficenza il signor Giorgio Bicci non lasciò nulla; perchè — era detto nel testamento — beneficando in vita aveva voluto vedere il buono o cattivo uso del suo denaro; e per carità cristiana non aveva voluto, beneficando in morte, che nessuno si compiacesse della sua morte. Erede di tutto lasciò il nipote Gaspare; con solo l’obbligo di una donazione al servo fedele e con l’avviso che, se era difficile trovare un nipote come lui, Gaspare, era impossibile trovare un servo come Luigi. Le quali parole e la massima: «Ama te stesso un po’ più del prossimo tuo», contennero Gaspare in così equa misura nel far la donazione che a lui non parve compiere alcun sacrificio e a Luigi parve ricevere più di quanto meritava.
— Signorino, è troppo! è troppo!
Ah sì, era un uomo sincero, Luigi! Non nascondeva la letizia di poter vivere agiatamente, insieme col suo Gaspare, gli ultimi anni; tuttavia si ricordava del morto e mormorava spesso con gli occhi pieni di lagrime: — Dove sarà mai, povero padrone?
Ma gli amici! Nelle loro condoglianze quelli vecchi, dello zio, avevano manifestato, più che il dolore della perdita, il presentimento doloroso del comune destino: hodie tibi, cras mihi.
E gli amici di Gaspare, che venivano a trovarlo o che incontrava per via, dicevano, tra mentite frasi, con lo sguardo o, se schietti, addirittura con la bocca:
— Fortunato te! Avere avuto uno zio ricco che ti ha tolto ogni incomodo e lasciata l’eredità!
Se, tutt’al più, avessero detto: — Comprendiamo il tuo dispiacere d’aver perduto una persona che amavi, e, nello stesso tempo, il piacere dell’eredità che hai fatta, poh!, in riguardo all’umano egoismo avrebbero meritato scusa. Dicevano invece, o parevano dire senz’altro: — Congratulazioni — , e invidiavano. Onde Gaspare doveva sfuggirli: a mostrarsi afflitto, non gli credevano; e mostrarsi lieto nè voleva nè poteva, essendo men tristo di loro.
Indispettito, così, delle amicizie, egli sentiva sempre più il bisogno di un’anima che lo comprendesse.
....Or come una sera rincasava, appena dentro la porta Gaspare udì chiedere dall’alto:
— Sei tu?
Rispose:
— Nossignora, sono io.
Era la moglie dell’ingegner Tredòzi, da poco venuto ad abitare al primo piano.
— Stia comoda. Ci vedo — aggiunse Gaspare, mentre accendeva un cerino.
Ma la signora continuava a fargli lume; ed egli, per non bruciarsi, gettò il resto del cerino e salì più in fretta.
Ella disse: — Credevo fosse mio marito.
— Troppo gentile; s’accomodi..., s’accomodi — ripeteva Bicci, che era corso a suonare il campanello.
Se non che Luigi o dormiva o era fuori.
— Colgo l’occasione — disse la signora — per farle, benchè in ritardo, le mie condoglianze.
— Grazie.
Ed ella, nell’attesa, proseguiva:
— Sempre sciagure! Siamo proprio al mondo per soffrire!
— Mah!... — fece Gaspare in tono mesto, con lo sguardo in alto quasi intravvedesse lassù, nella vòlta, la ragione suprema della vita. E Luigi non veniva! Tornò a suonare.
La signora Tredòzi sorrise.
— Una fatalità: la mia donna, malata, e il suo Luigi....
Allora il sangue diè un tuffo a Gaspare. Fosse morto anche Luigi?
Ma no, eccolo.
— Eccolo, eccolo! Grazie...; buona notte, signora. Grazie! Scusi!
— Buona notte, signor Bicci.
Perchè mai una donna così gentile e così bella (non per la prima volta quella sera Gaspare l’aveva trovata bella) era caduta nelle mani di un ingegnere così brutto e così villano come quel Tredòzi?
Le cose che non piacciono, o che dispiacciono, sembrano anormali ed enormi anche quando sono le più naturali del mondo; e questa interrogazione, sebbene egli cercasse di rispondervi ragionevolmente, ricorse al pensiero di Gaspare anche nei giorni di poi, quando rivedeva la signora Silvia. Perchè mai una donnina tanto graziosa apparteneva a un ingegner Tredòzi?
E per pietà di lei, dopo il colloquio su le scale, Gaspare volle rivedere la signora; e si vedevano spesso. Ella dal balcone, a cui si affacciava, e lui dalla finestra della sua camera, potevano anche parlarsi.
Cominciarono infatti con i «buon giorno» e i «come sta?» e con quelle parole che non giovano se non a confermare simpatia tra persone che hanno poca consuetudine di trovarsi insieme: considerazioni del tempo; accenni a qualcuno o a qualche cosa nella strada. Finchè essa ebbe un favore da chiedere al signor Bicci: un libro, perchè si annoiava.
Gaspare le portò sei romanzi. Conoscendone già cinque, lei ne ritenne uno solo; grata, nondimeno, e ancor più gentile e amabile. E nel breve incontro, a cui il prestito aveva dato occasione, Gaspare apprese molte cose. Prima di tutto, che la signora Silvia diveniva più bella più le si andava vicino. Poi, che era infelice per colpa di quel tanghero: mai a un teatro; mai a conversazioni; sempre in casa ad annoiarsi! Infine, che era una signora molto colta e che perciò egli, il quale desiderava essere cortese, avrebbe dovuto provvederla di altri romanzi moderni; e uno alla volta, per godere più spesso della sua gradevole compagnia.
Così, appena il primo libro gli fu restituito, Gaspare ne portò uno nuovo di stampa; e via via. Discorrevano di romanzi. Ma come discorrere di romanzi senza parlar d’amore? Parlavano d’amore. Che se non sempre si trovavano d’accordo intorno al carattere delle eroine e degli eroi, sempre però convenivano in un punto: non essere possibile innamorarsi davvero senza commettere qualche sproposito. Orbene, Gaspare un pomeriggio si rinchiuse nella sua camera stupito, sbigottito: non di sentirsi innamorato della signora Silvia, che non c’era da meravigliarsene (per la solitudine del suo cuore dopo la perdita dolorosa, e per la stagione in cui erano: di primavera), ma stupito dell’aver scoperta innamorata di lui la signora Silvia!
Subito, di rimbalzo, tornò al ricordo dello zio; e subito, coll’intelligenza di un innamorato, egli scorse che all’articolo del matrimonio lo zio aveva avuto a un tempo ragione e torto.
«Gli scapoli sono ingannati, o, che è peggio, ingannano». Certo: ma non eran quelle donne lì, tanto soavi e infelici, che ingannavano gli scapoli; eran quelle altre! Del resto, se per regola ingannare sembra peggior cosa che essere ingannati, ingannare un Tredòzi non era ingannare un amico o un marito che non meritasse di essere ingannato. Un’eccezione, insomma; della quale lo zio moribondo non aveva avuto tempo di avvertire la possibilità, e per la quale il nipote compirebbe un’opera quasi pietosa confortando una povera donna.
— Io l’amo! — Gaspare esclamò senza più temere di commettere uno sproposito, e tuttavia abbastanza sicuro che un tale amore non trasgredirebbe al buonsenso fino a divenire una passione.
E l’indomani, interrotta la signora che, nervosa, con un tremito alle palpebre, prolungava un discorso vano, egli, col tono di un peccatore che si confessa o di un infermo che palesa il suo male al medico:
— Signora — disse d’improvviso, — io.... l’amo!
La signora Silvia impallidì, lo guardò attonita; s’alzò, ricadde; si nascose il viso fra le mani, e — oh gioia! — si mise a piangere.
V.
Gaspare Bicci non si era mai proposto il pericoloso mestiere del conquistatore: nè mai si sarebbe imaginato di navigare per il mare della colpa a vele così gonfie, con tanto vento in poppa e a sì grande velocità. Troppa grazia! Perchè una mattina Silvia gli gettò le braccia al collo in un impeto d’allegrezza annunciando: — Siamo liberi!
C’era da spaventarsi. Liberi?... come?
— Sì. Lui va in montagna per un ponte che s’è rotto, non so dove. Resterà fuori un mese e mezzo!
La libertà inattesa, per la quale si sottraeva all’usato giogo, la inebbriava, l’ammattiva.
— Ne vogliam fare di tutte le sorta! — ella esclamò. Pensò Gaspare che quand’anche proseguissero a farne di una sorta sola, bastava.
E Silvia, ridendo, soggiungeva:
— Figurati che lassù c’è solo una lurida osteria! Dormirà male, mangerà male, etc.: astinenza in tutto. Che castigo!
Ancora una volta la fortuna, per favorire un uomo, ne costringeva un altro — povero diavolo! — a disagi e a danni, e un po’ ripugnava a Gaspare la soverchia letizia della bella. Tradire il marito poteva essere, sì e no, una perdonabile colpa; ma deriderlo e compiacersi del suo malanno, era davvero mancanza di generosità. E se dopo appena un mese che aveva il merito di confortare la signora Silvia, Gaspare Bicci teneva l’ingegner Tredòzi per un «povero diavolo» e l’ingannarlo giudicava una colpa, per quanto perdonabile, Gaspare Bicci non poteva dunque più negare a sè stesso che già gli sbollivano i primi ardori. Anzi, al sentimento della cattiva azione che commetteva, a un senso di profanazione che per quella tresca faceva al recente lutto, e all’amarezza del possesso diviso, gli si aggiungeva il timore d’un vincolo indissolubile. Silvia non dubitava neppure d’un lontano abbandono. «Ci ameremo anche quando saremo vecchi, per l’amore d’adesso» — ripeteva. Vecchi?
Egli contava i suoi anni: ventitrè; e gli anni di lei: ventotto o ventinove o trenta; e della differenza misurava l’entità nell’avvenire; e in proposito all’amore eterno si chiedeva se, caso mai, non fosse predisposto da natura ad amar eternamente una bionda piuttosto che una bruna, quale la signora Silvia.
Però a riflessioni più gravi lo condusse l’assenza dell’ingegnere. Silvia, da amante saggia che era, diventava pericolosa.
Strana donna! Prima, piangeva il suo fallo; temeva l’onta; raccomandava cautele.
— È geloso? — domandava Gaspare.
— Non so; non gliene ho mai data occasione. Ma so che non mi stima e io voglio che mi stimi a suo dispetto.
Onesta per dispetto!
— E tu — chiedeva lei — mi stimi?
Meno dell’altro; sebbene sentisse il dovere di rispondere: — Sì.
— Io tradisco un uomo — mormorava lei.
E lui:
— E io non t’aiuto forse a tradirlo? — Ciò che significava chiaramente: «dimandami se io stimo me stesso, e ti dirò la verità anche per te».
Ora, questa donna che pretendeva stima fin dall’amante, lontano che fu il marito volle a ogni costo informare il mondo che aveva un amante lei pure. Non solo lo traeva a gite in campagna, all’uso (secondo i romanzi) di Parigi: l’obbligava ad accompagnarla nei luoghi cittadini più frequenti; ivi gli dava del tu non a bassa voce o a voce troppo bassa; ivi pareva cercare le amiche perchè la vedessero. Inutilmente Gaspare l’ammoniva: — Giudizio! Qualcuno ne parlerà a tuo marito; qualche voce gli arriverà all’orecchio. — Silvia scrollava le spalle: — Ti amo! Alla peggio, mi ammazzerà, o io fuggirò con te. — Due cose da mettere i brividi solo a pensarle; e nè l’una nè l’altra sembrava la peggiore di tutte: la peggiore, la più probabile, era per Gaspare una terza: una revolverata a lui, Gaspare!
Bicci pertanto cominciava a stancarsi di quel fortunato amore; già desiderava, invocava il ritorno di Tredòzi, affinchè Silvia rientrasse nei limiti della discretezza.
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Quando mai Gaspare Bicci ebbe un desiderio che, pur senza sua grande intenzione, non gli fosse esaudito?
Egli e Silvia una mattina, soli (la serva era uscita per le spese), stavano discorrendo del più e del meno e non attendevano al mal tempo e alla pioggia dirotta, allorchè un’improvvisa tremenda scampanellata li interruppe.
— Lui!
Gaspare non disse nulla: trovò; si mise il cappello in testa.
— Che sia proprio lui?
Una seconda scampanellata.
— Dio!... Nasconditi; subito!
— Dove?
— Sotto il letto!
Già egli era ginocchioni, col cappello in testa.
— No! Meglio nell’armadio! — Mentre ve lo spingeva e ve lo rinchiudeva, Gaspare sentì di odiare quella donna.... E una terza scampanellata, lunga, atroce.... Poscia, dall’armadio, si udirono avanzare le voci; bestiale l’una; fioca l’altra.
— Corpo di...! Son bagnato da capo a piedi, e tu mi lasci fuori al fresco!
— Non avevo sentito; soffro tanto, oggi!
— Si vede: sei gialla. Cos’hai?
— Vertigini.
— E io? Almeno almeno mi sarò presa una polmonite, causa tua! — Tossiva. — Maledetto il tempo, il ponte, la Provincia, il Governo! Auf...! — Sbuffava. — Presto! una camicia; un paio di mutande.... Alle dieci debbo essere in prefettura! — Gridava. — Camicia! Mutande!
E quindi la voce fioca:
— Ecco la camicia; ecco le mutande.
Due tonfi: di scarpe che cadevano sull’impiantito.
— Presto: le altre scarpe! l’abito nero! il cappello sodo!
E Silvia, dopo un poco; dopo un’eternità per Bicci, là dentro:
— Ecco le scarpe; ecco il cappello.
— L’abito!
— Lo cerco.
— Dove lo cerchi? nel comò? È nell’armadio!
— Credo d’averlo messo io nel comò, l’altro ieri.
— Spicciati!
Ma:
— Non c’è.
Allora il marito cadenzando la parola con ira:
— È nell’armadiooo!
— No, ti dico!
— Sì, ti dico!
Due passi di lui a quella volta..., alla volta dell’armadio. La vita di Gaspare Bicci s’atteneva a un ultimo filo di speranza: «Se il marito tradito era in mutande, non poteva avere indosso il revolver; a prenderlo occorrerebbe un certo tempo....» Ma uno strido modificò la catastrofe.
— Oh Dio! Muoio! Un po’ d’acqua!... Presto!... Dell’aceto! Muoio!
Il marito esclamò, più forte della moglie:
— Sei matta?
— Per carità!... Aceto!... Muoio, muoio!...
— Io non ho tempo da perdere!... Cristo!... Dov’è ora l’aceto?
— In cucina; corri!... Oh Dio!... Ah....
. . . .
Gaspare spingeva. Ella aperse.
— Scappa — disse — e chiudi l’uscio!
VI.
Tira e tira, poichè l’uscio d’ingresso non si chiudeva, a chiuderlo con istrepito Gaspare preferì trarlo accosto. Ma uscendo, il marito al quale pareva d’averlo chiuso lui, si meravigliò e collegò un primo sospetto alla storia dell’abito che la moglie aveva voluto non fosse nell’armadio e allo svenimento improvviso; sicchè i sospetti crebbero.
— Per persuaderlo — disse poi Silvia a Gaspare — ho dovuto svenire altre due volte, dopo desinare.
Ebbene, tutto ciò era brutto, era immorale! Le scampanellate; il rifugio nell’armadio; gli svenimenti sapevano di pochade; e assistendo alle pochades Gaspare aveva riso sempre, di gran gusto, ma non gli era mai parso bello imitarne gli eroi. S’aggiunga che nella vita diviene non di rado tragedia quel che in teatro equivale alla pochade; e Tredòzi non aveva faccia d’uomo da lasciarsi prendere pazientemente in giro.
Tredòzi sospettava: perciò Bicci aveva il dovere di ridar la pace a un uomo e di salvare la vita anche a una donna; e perciò bisognava, anzitutto, allontanarsi, essendo la vicinanza che eccitava a pazzie l’innamorata. Bisognava, magari, mutar casa.
Veramente a cambiar residenza stimolava Gaspare un secondo motivo, che non avrebbe confessato neppure a un amico intimo, neppure a Luigi.
Ed era questo: due notti addietro egli aveva preso sonno prima d’aver spento il lume e facendo per spegnerlo in un intervallo di risveglio, gli era comparsa dinanzi una donna bianca, o meglio, un’imagine, una larva che lo guardava con occhi stupiti e dolenti quasi di non riconoscerlo. Balzato a sedere sul letto, la fantasma si era dileguata súbito. Un’allucinazione senza dubbio. E la mattina dopo ne aveva riso. Ma la sera per precauzione non si era dato il disturbo di spegnere la candela. Ed ecco, a trarlo con freddo orrore del dormiveglia, ecco lo spirito entrare, avanzare adagio adagio, con lo sguardo doloroso e incerto; più vicino, più vicino....
Questa volta egli aveva messo un grido. E lo spirito, via.
Alla visione era seguito nel pensiero di Gaspare un raziocinio: forse quell’anima, non sentendosi da tempo più chiamare per mezzo del tavolino, veniva lei in cerca dello zio Giorgio; onde arguivasi che l’anima dello zio era andata da un’altra parte.
Ma continuerebbero quelle visite spaventevoli?
....Un’insania? Sciocchezze, che la scienza positiva deride?... Insomma, fosse pazzia o no, per tutta la notte non gli era stato possibile richiuder occhio; e conveniva evitare una malattia d’insonnia, e paure, angustie.
A tempo dunque venivano i sospetti dell’ingegnere. Confermandolo nella determinazione della notte, permettevano a Gaspare d’andarsene e di ridere de’ suoi terrori notturni.
Rimaneva una difficoltà. Luigi si rassegnerebbe ad abbandonar la casa ove era invecchiato e dove il padrone era morto?
Mentre Gaspare meditava, Luigi gli venne davanti con aria meditabonda.
— Signorino, questa casa non è più per noi.
Forse anche lui aveva avuta la visione paurosa? O forse il buon uomo, consapevole della tresca, ne temeva lui pure le conseguenze?
Gaspare non interrogò; rispose:
— Hai ragione. Cercheremo un appartamento ammobigliato.
Lo trovarono lo stesso giorno; elegante; in una delle vie principali; a buon prezzo: in casa del cavalier Squiti.
Quanto alla signora, essa ebbe una lettera, che Bicci le gettò nel balcone: «In casa e nel vicinato tutti sapevano, spettegolavano, malignavano, mormoravano, spiavano. Era inevitabile una tragedia se qualche voce perveniva all’orecchio di Tredòzi. Diveniva obbligo d’un gentiluomo, in tal caso, salvar la fama e la vita d’una signora, allontanandosi. Oltre a ciò, per faccende d’interessi, Gaspare chiedeva a Silvia una licenza di quindici giorni; trascorsi i quali e chetati sospetti e ciarle, riprenderebbero i loro colloqui nella casa in cui egli andava ad abitare, o altrove.»
Piacesse o no alla signora, questo era buon senso, questa era prudenza!VII.
Il cavalier Squiti, padrone di casa, alto impiegato della Provincia e persona molto grave, non aveva solo la moglie. Gaspare vide, alcune volte, alla finestra.... Che bellezza! Due occhi tra celesti e verdi; capelli biondi; portamento modesto e gentile.... Assomigliava alla signorina che si recava al giardino pubblico il dì mortale dello zio Giorgio. Lei?
Forse non era; ma le assomigliava in modo che a vederla una dolcezza grande veniva, per gli occhi, al cuore di Bicci e, insieme, un panico quasi alla presenza di una divinità. Rapidamente, con la rapidità del destino, egli, che dalla brutta tresca aveva avuti incitamenti all’amore buono e al consiglio dello zio, ne rimase conquiso. Tale, infatti, tale gli appariva la donna vagheggiata ne’ sogni dai giorni che non conosceva l’amore al dì ch’egli l’aveva conosciuto! Tale era la donna amata e da amare: fatalmente. Bando, dunque, al peccato! Mai più signora Silvia! Pace e salute all’ingegner Tredòzi! E a Gaspare, certo che stavolta era la buona, gli bisognava accertarsi anche se il cavaliere Squiti presto o tardi gli darebbe l’angelica giovinetta in moglie.
Accadde che circa ventiquattr’ore dopo aver visto quell’angelo per la quinta volta, Gaspare uscendo s’imbattesse appunto nel cavaliere, che usciva; e s’accompagnassero per istrada.
Scambiati i soliti complimenti: — Ah suo zio! Che galantuomo! — esclamò l’uno.
E l’altro: — Lo conosceva?
— Eravamo amici. Un po’ originale, a dire la verità; un filosofo; ma che cuore, che cuore! E che carattere! Uomini d’antico stampo, caro Bicci!
— Ah sì!
— E che bene le voleva, a lei! A discorrere di suo nipote, ci godeva; proprio come un padre.
— È strano — disse Gaspare: — di me non ne parlava mai con me.
Ma il cavaliere si fermò di botto.
— A proposito: lei, senza dubbio, suona?...
Distratto dal ricordo dello zio o dall’apparente incongruenza di quell’a proposito, Bicci chiese:
— Suono?...
— Il piano?
— Sì, alla peggio.
— Anch’io suono — disse il cavalier Squiti levandosi gli occhiali, pulendone le lenti e rinforcandoli: — non il pianoforte, però; uno strumento più geniale — come dire? — più canoro, più.... cordiale.
— Il violoncello?
— No, il clarinetto.
Gaspare si figurò la persona grave del cavaliere col clarinetto in bocca; e tacque.
— Creda a me: la musica è il miglior conforto nelle disgrazie — seguitò l’altro.
— Lo credo.
— Se mi favorirà qualche volta, suoneremo.
Gaspare allora esclamò entusiasta:
— Volentierissimo!
— Stasera?... Potrebbe?
E gli occhi dello Squiti rifulgevano dietro le lenti.
— Sissignore, posso.
Ripresero la strada; e il cavaliere riprese a dire, senza più sorridere, con tutta gravità:
— Io in casa ci avrei una pianista; ma adesso non ha tempo.
— La sua figliola? — domandò Bicci, al quale battè forte il cuore.
— Non ho figliole: la mia pupilla.
«La sua pupilla? La signorina era sotto la sua tutela?» E Bicci pensò con nuova tenerezza: «Orfana come me!»
— La signorina Roccaforte è per me quel che era lei per suo zio. L’ebbi in casa bambina. Il padre....
Gaspare ascoltava il racconto religiosamente, intanto che benediceva suo zio e il clarinetto.
Poi, essendo già innamorato e con la testa nel cuore, si dimenticò di chiedere allo Squiti perchè la signorina Roccaforte non aveva tempo di sonare.
Nè (importa notarlo?) si ricordava più affatto della signora Silvia. Ah la virtù di ogni amor buono su ogni amore disonesto!
Mai, mai come la sera di quel giorno il giovano Bicci si studiò di rendersi elegante; ed entrò dagli Squiti con grandi palpiti e insieme con la disinvoltura d’un uomo uso al mondo. Ma il cavaliere, che scartabellava della musica, l’accolse solenne; in tono ufficiale lo presentò alla moglie, che faceva la calza. E chiamò ad alla voce:
— Erminia!
Ella dalla finestra (aperta: era di maggio) si fece innanzi, lentamente....
— La signorina Erminia Roccaforte — ....e voltosi a un giovane, che la seguiva (oh Cielo!), il cavaliere presentò: — L’avvocato Enrico Griboldi, suo promesso sposo.
— Tanto piacere.... — All’imbarazzo di Gaspare, la signorina Erminia sorrise a pena a pena.
— A noi! — esclamò lo Squiti in un’istantanea mutazione di gioia. — Badi che io odio la musica tedesca. Non è mai accaduto a lei, caro Bicci, di odiare una cosa bella?
— Ah sì! — rispose Gaspare, che ora odiava la signorina Erminia.
Il primo pezzo — del Faust — procedè a meraviglia, quantunque le mani di Bicci qua e là affrettassero come un cavallo che abbia amor proprio e cui rincresca restar addietro al compagno. Finito il pezzo, la signora Squiti depose la calza e battè le mani; la signorina avvertì che la gente si arrestava per la strada ad ascoltare; il cavaliere, deposto il clarinetto, abbracciò il compagno dimenticandosi d’esser grave.
— Oh che orecchio! che orecchio!
Ma gli altri pezzi ebbero peggior sorte, per colpa di Gaspare che cadeva in pensieri estranei. Pensava: «Io non sono forse meglio di colui? Si può dire un bel giovane? robusto come me? — Avvocato! — E non sono ingegnere, io? Che meriti avrà? Niente: fortuna! Quest’è fortuna! Una moglie bella — così bella! — ricca; e orfana...; nemmeno la suocera!»
— Pazienza...: Terza battuta; là! — riprendeva il cavaliere.
Al diavolo anche il clarinetto! Bicci sudava: con il freddo nel cuore.
Già infelice, sembravagli d’esser stato sventurato sempre; di dover essere infelice sempre, per tutta la vita; e pativa della più grande sventura che possa capitare a un uomo: quella d’innamorarsi d’una ragazza innamorata e fidanzata d’un altro.
VIII.
Assente da lei credeva che il solo contemplarla quale un’imagine di pura bellezza o una cosa intangibile basterebbe a ristorargli l’inedia dell’anima; e vicino, oltre il martirio del clarinetto, che pena la vista dei fidanzati in abboccamenti, in sorrisi, in bisbigli! Era una sconvenienza sociale! Perchè ai fidanzati dev’esser lecito dirsi delle sciocchezze o, magari, parlar male del prossimo a bassa voce, in cospetto del prossimo? Non avevano riguardo quei due nemmeno a una persona giovane, che, in fin dei conti, veniva lì per far servizio al padrone di casa!
Così il povero Gaspare, invece di contemplare, doveva torcere gli occhi altrove; doveva dubitare che gl’innamorati ridessero di lui; doveva resistere alla tentazione di fracassar la tastiera del pianoforte.
Se n’andava. E appena fuori, ogni sentimento d’invidia e d’ira cedeva al desiderio del mirabile viso.
«Siamo seri! ragioniamo!» egli si ripeteva indarno. «Il meglio sarebbe che io mi distraessi.» Ma non trovava il modo; anzi le distrazioni che gli capitavano, gli accrescevano il desiderio d’Erminia. Gliene capitò una, un giorno.... La signora Silvia, avendo scoperto il rifugio di lui, vi penetrò.
— Lei.... tu!...: qua?
— Traditore! — Ella alzò il velo per mostrar meglio due occhi rabidi.
— ....col pericolo di compromettervi? — proseguì lui, trovando il tono giusto.
— Vile!
Ma Gaspare assunse l’aria d’un uomo superiore agl’insulti; freddo, quasi sprezzante.
— Non vi avevo chiesto quindici giorni di libertà? Ho i miei affari anch’io; avevo, ho bisogno di tranquillità, di riposo.
— Ah Gaspare, Gaspare!
Ora gli occhi si riempirono di lagrime e fiammeggiarono; a un tempo, lagrime di duolo e fiamma di tentazione e di colpa.
— Tu, Gaspare! Chi me l’avrebbe mai detto! Non l’hai dunque l’anima? Dodici giorni senza passare sotto le mie finestre! Senza scrivermi nemmeno una riga!
Il dolce rimprovero lo punse più che le offese. Deliberato tuttavia a finirla, Bicci, che voleva finirla da gentiluomo, esclamò:
— Silvia! Debbo dirvi la verità. A me, uomo leale, rincresce offendere un uomo leale com’è l’ingegner Tredòzi! Ecco tutto!
A quest’affermazione Silvia avvampò più che a uno schiaffo.
— Ecco tutto? Tu menti! Non avevi scrupoli prima, quando.... Tu menti! Adesso capisco che non mi ami più!
Infatti, che cosa ha mai a che fare la coscienza con l’amore?
— ....Adesso voglio saper il resto; proprio tutto! Perchè abbandonarmi?... Dimmene la causa vera, subito! — L’investiva, inviperita. — Subito!
Che dirle? Rispose:
— Che volete che vi dica? Incompatibilità di carattere: voi siete piena di fuoco; e io....
— Bugiardo! Incompatibilità di carattere non può esserci che tra marito e moglie! La ragione vera le la dirò io! Tu hai una nuova amante!
— No; ve lo giuro.
— Spergiuro! Infame spergiuro!
Era inutile discutere quando non valeva giurare. Gaspare non aveva ancor scosse le spalle che già Silvia gridava:
— Ah, tu credi che tutto sia finito tra noi? T’inganni! Io ti detesto, ma io ho dei diritti su di te; fra noi due c’è un vincolo; un vincolo morale!... — (Lo chiamava un vincolo morale!) — Tu mi hai sedotta!... C’è il vincolo del rimorso fra noi, e se scoprirò che tu hai un’amante, ti caverò gli occhi; a te o a lei; così imparerai a conoscere le gentildonne!
Su l’uscio, calato il velo, si rivolse per ripetere: — Io sono una gentildonna! — E partì, finalmente.
....Se non che Bicci non gioì neppure della liberazione da quel giogo. Soggiaceva perduto, affannato, disperato a un maggior peso, all’amore fatale e contrastato dal destino. E non un amico col quale confidarsi! Avrebbero riso gli amici: un innamorato muove sempre a riso come chi cada goffamente in terra. Lui dove mai era caduto?
Con la testa tra le mani, negli occhi l’apparenza del suicidio, si abbandonò e parlò al solo che lo compiangerebbe.
— Sono innamorato, Luigi.
Luigi si mise a ridere.
— Eh, lo so da un pezzo!
— Della signora? Di quella dell’altra casa? — esclamò Gaspare, abbattuto. — Credi di quella?
— Di tutt’e due: di quella e di questa.
— No no: solo di questa qui, della signorina — egli protestò — ; ed è già impegnata!
Allora Luigi chinò lo sguardo, quasi pensasse ch’essere innamorato di una sola fosse un malanno assai più serio. Poi disse:
— Perchè non andiamo in campagna? A mutar aria....
Il consiglio era semplice e buono; e la lontananza, gli svaghi campestri, la caccia, il ristauro della villa potrebbero davvero guarirlo. Alla fin fine, non sarebbe una corbelleria morir d’amore?
IX.
Una corbelleria senza dubbio. Ma intanto che passava il tempo, la cotta permaneva. La passione del nipote diveniva una passione più grave, più affannosa forse che quella del povero zio! Perchè se Erminia fosse morta dopo avere amato lui, com’era accaduto allo zio, meno male! Erminia invece non lo amerebbe mai: Erminia amerebbe sempre quell’altro! E Gaspare era innamorato in modo che quando, in certi momenti, credeva d’esser guarito e si rallegrava tutto, ecco d’un tratto tornargli la parvenza cara e nemica, e con essa quella pena al cuore come di un male che, dopo un breve assopimento, rincrudisce; un’amarezza quale di torto ricevuto o di oltraggio patito; una intollerabile smania di rivedere in realtà l’amata donna; una rodente gelosia. Oramai egli non si diceva neppur più uno stupido, convinto sempre più che Erminia era per lui la donna unica; che lei, proprio lei aveva incontrato al passeggio nel giorno funesto; che altre bionde così belle o più belle ne potevano esistere, ma che egli non avrebbe potuto amarle; che, quasi quasi, l’amore è più forte del buonsenso. Essendo perciò impossibile la guarigione e assurda ogni speranza, Bicci aspettava il compimento del suo destino, qualunque si fosse. E compieva frattanto il ristauro della villa; il quale era proceduto a meraviglia.
Appunto la mattina di quel memorabile giorno — 26 luglio — egli se ne stava tra gli operai allorchè Luigi gli portò la posta. C’era, coi giornali, un annuncio di morte. A Gaspare — sempre triste — parve di veder l’annuncio della sua morte; ma, aperto il foglio e letto il nome — oh! — rimase lì stordito, sbalordito, e non di dolore. Oh gioia! A precipizio, come pazzo, discese e corse dietro a Luigi.
Dentro, una voce gli gridava: «jettatore! jettatore!»; eppure un’onda di gaudio gli travolgeva ogni pensiero; gli travolse ogni sentimento umano; e, in un abbraccio all’amico servo, con lagrime ferme su gli zigomi — lagrime di felicità — gridò:
— È morto!
— Chi?
— L’avvocato Enrico Griboldi!
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Ebbene: tosto che gli fu scemata la grande commozione, Gaspare, con moto quasi inconscio dell’animo, riuscì a conciliare l’amore al buonsenso.
Riflettè che per una ragazza il perdere un «ottimo partito», non in colpa sua, sì della morte giova di réclame: e che egli, se non fosse cauto, poteva restar privo d’Erminia un’altra volta. «D’altra parte — riflettè — si consola più presto una vedova propriamente detta che una fanciulla vedovata prima del tempo ed inesperta»; e però gli bisognerebbe aspettare.
— Quanti mesi?
Gaspare non temeva d’offendere la bontà di Erminia augurandone più breve che fosse possibile il cordoglio.
E verso la metà di settembre Gaspare fu a trovare in ufficio il cavalier Squiti; che, desolatissimo, gli disse:
— Morte fura i migliori e lascia stare i rei.
Rimorso come reo, Gaspare parlò sinceramente, in un’induzione dal caso singolare a un genere di sventura.
— Ha ragione, signor cavaliere. Che cosa terribile dev’essere morire nella pienezza della gioventù! con uno splendido avvenire! amato!...
— Per fortuna — rispose il cavaliere, — Griboldi è morto senza saperlo, d’una meningite acuta!
— Meno male! — fece Bicci. Dopo chiese, pallido: — E la signorina?
L’altro scosse il capo.
— Sempre lagrime; sempre sospiri; non vuol più veder nessuno; non esce di casa: un martirio! Le è venuto a noia anche il clarinetto, anche la musica, che è il miglior conforto nelle disgrazie.
«Aspettiamo», si ripetè Gaspare. Infatti non tornò ad abitare a Bologna che al termine dell’ottobre.
Ah che battaglia, la prima visita! Dirle: — Mi condolgo — oppure: — Signorina, le mie condoglianze — gli repugnava; non poteva. Egli salutò e tacque, senza sospirare; Erminia tacque, volgendo gli occhi a terra; la signora Squiti sospirò e taceva. Finalmente — poichè il silenzio si prolungava un po’ troppo — Bicci ebbe una espressione felice: — Povero giovane!
Allora la signorina scoppiò in singhiozzi e la signora intraprese l’elogio del morto. Annuiva Gaspare ad ogni lode, e gli costava così poco!; ma spesso gli occhi gli sfuggivano a guardar la dolente; e pensava: «O il dolore è per le donne, o le donne sono per il dolore: diventano più belle!»
Quella visita, insomma, fece bene a tutti e tre; di guisa che la Squiti, accompagnandolo sino alla porta, gli susurrò:
— Lei abita in casa nostra; lei è un amico di casa, e la sua compagnia ci sarà di sollievo. Se ne ricordi.
— Non dubiti, signora.
Gaspare non chiedeva di meglio. Non di rado però nelle seguenti visite quotidiane, non volendo mentire o mentir troppo, fu per smarrire la bussola. Poco giovava che la signora Squiti s’appigliasse a tutti gli argomenti, se tutti i discorsi cadevano nel muto affanno d’Erminia.
Come Dio volle, egli ebbe un’idea.
— Perchè non si prova a leggere, signorina?
— Non posso; no; è impossibile!
— E se leggessi io?
— Anzi! — disse la signora Squiti; — distrarrà anche me. Bravo, signor Bicci!
E Gaspare andò a leggere ogni giorno.
Dava tempo al tempo. Venne il dicembre; si avvicinarono le feste natalizie. «Quanto saranno tristi per lei! — Bicci pensava. — Non la conforterebbe sapere che io l’amo, anche se lei, per adesso, non abbia voglia di far all’amore?»
Còlto quindi un momento che la signora Squiti non v’era, egli interruppe una lettura per guardare Erminia negli occhi. I quali si abbassarono; subito il bel volto si afflisse. Non era un’esagerazione, oramai? Un po’ troppo, via!...
— Come lo ha amato! — esclamò Bicci perdendo la bussola.
— No — Erminia rispose in modo semplice e in tono tranquillo.
Ora parve a Gaspare di cader dalle nuvole.
E lei:
— Io gli volevo molto bene.
E poichè Gaspare non capiva, ella si spiegò:
— A me sembra che amare significhi più e meno di voler bene. A Enrico io gli volevo bene, perchè egli mi amava; ma sono certa che divenuto mio marito mi avrebbe anche voluto bene. Capisce?
Gaspare avrebbe capito subito, se non fosse rimasto perplesso a chiedersi: «E io che cosa dovrei dirle? Che l’amo, o che le voglio bene?» Tuttavia, a poco a poco, la luce si fece nel suo cervello. Evidentemente, pur volendo bene assai al Griboldi, Erminia non ne era molto innamorata. Perbacco!... Quasi spinto da una molla allora balzò in piedi:
— Signorina! Questo ufficio di consolatore mi è odioso!
Ella interrogava con lo sguardo, stupita.
— L’amo! Io l’amava due giorni prima di sapere che lei era fidanzata; forse l’amavo avanti di conoscerla! Io l’amai solo a vederla, un giorno che lei andava al giardino; e adesso che la vedo soffrire, l’amo e le voglio bene!
La signorina, fredda, rispose:
— Me ne dispiace per due ragioni: la prima, perchè adesso il mio cuore è di pietra; la seconda, perchè, dopo quello che lei mi ha detto, io debbo pregarla di cessare le sue visite.
— Oh questo poi no! — esclamò risolutamente Gaspare. — Io non vivo senza vederla! Muoio anch’io! Mi conceda la grazia che io la veda ogni giorno....
Ella taceva.
— Signorina....
Gli occhi a terra; e zitta.
— Me la fa la grazia? — ripetè Gaspare a mani giunte, attendendo.
Per fortuna, nell’entrare, la signora Squiti s’arrestò, trattenuta da un improvviso sospetto; così Erminia dovè concedere due grazie in una volta.
— Sì. — E alla signora Squiti: — Il cavaliere — ella disse — può riprendere il clarinetto.
X.
Quando alla signorina Erminia non mancava che un mese per compiere l’anno di lutto, Gaspare Bicci ne chiese la mano al tutore cavalier Squiti. Non si meravigliò il tutore, ma assunse nella risposta un’apparenza anche più solenne della solita.
— Il padre della signorina affidata alle mie cure mi lasciò l’obbligo di non concederla in moglie a chi non esercitasse una professione; fosse anche milionario. Lei....
— Io sono ingegnere! — affermò Bicci con l’impeto di un naufrago che si salva.
— Dunque eserciti!
Ma come? ma dove? Gaspare smarrì l’animo di nuovo ricordando e avvertendo che erano brutti tempi, quelli, per gl’ingegneri.
Allora lo Squiti: — È indetto un concorso al Genio Civile. Perchè non concorre? La raccomanderò io a due deputati miei amici e otterremo ciò che vorremo.
Fu buono il consiglio; e Gaspare concorse; e attese confidando. Un mese passò; ne passaron due, tre. Ma non se ne doleva egli, che impaziente, fuor che un po’ nell’amore, non era stato mai, e che giudicava non perduto il tempo del fare all’amore.
Provava, intanto, una gran voglia di lavorare; scopriva in sè una naturale disposizione a valutar terre, a costruire case e ponti, a tracciar strade, a riparar fiumi.... Ed ecco, dopo soli tre mesi e mezzo, cioè abbastanza presto, venir la notizia del concorso. Per i suoi giusti meriti Bicci era riuscito fra i primi. Si comprende dopo ciò che per quelle tali raccomandazioni non gli doveva riuscir difficile nemmeno l’ottenere il posto desiderato alla sede di Bologna.
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E non con altro sentimento che una trepidazione di gioia, al giorno e all’ora prefissi, Gaspare Bicci entrò all’ufficio, su, in Palazzo Comunale. Ma ahi! con una trepidazione diversa guardò all’ingegner capo. Misericordia!
Quegli stava scrivendo; e mentre scriveva, aggrottate le ciglia, immoto il viso ferino, senza guardare, chiese:
— Lei è il signor Bizzi?
— Nossignore: Bicci.
— Uhm! Cominciamo male! — grugnì l’altro. Aggiunse: — Il decreto dice Bizzi. — Però, nell’atto dell’alzar gli occhi, dovè ammettere un errore nel decreto; giacchè fece una smorfia di meraviglia.
— Oh bella! Il nipote del signor Giorgio!
Misericordia! L’ingegner capo era....
Balbettò Gaspare:
— Sissignore, sono io — ; quantunque, a dir vero, fosse divenuto irriconoscibile a riconoscere colui: Tredòzi!
— Bene! Son contento! Suo zio era un bravomo.
— Cercherò....
— Benone! Venga di qua.
Lo condusse nella camera attigua, in cui altri due giovani scrivevano o disegnavano; e prese alcune carte.
— Oggi mi bisognerebbe questo, e questo.... Alle quattro vedremo che cosa avrà saputo farmi.
— Non son cose difficili. — disse Bicci.
— Benissimo! — E prima d’andarsene Tredòzi lo battè con la mano su la spalla:
— Gran bravomo suo zio!
Dopo un poco uno dei giovani colleghi si volse a Gaspare:
— Fortunato lei!
E il compagno:
— È il primo che quel cane non tratta da cane.
Se non che anche di così innocente fortuna, dovuta in gran parte a una virtù o memoria famigliare, Gaspare ebbe a dolersi presto: alle quattro; allorchè tornò l’ingegner capo.
Il quale, esaminata l’opera di lui, disse: — Benone! — ; disapprovò l’opera degli altri due; poi, appena costoro furono usciti, ordinò a Gaspare:
— Lei oggi verrà a desinare da me.
— Impossibile!
A quella decisa risposta sparì dal viso di Tredòzi ogni impronta di umanità.
— Tenga a mente che per me non c’è nulla d’impossibile, mai!
— Ma...; ecco....
— Che cosa.... ecco?
— Io sono fidanzato....
— Benone! No! malissimo!
— ....e per stasera ho promesso....
— Meglio! Cominci dal mancar lei alle promesse; l’avvezzi per tempo, la sposa. Crede che sua moglie un giorno manterrà tutte le promesse che le fa ora?
Fu inutile resistere.
Ma se quell’uomo, ch’egli aveva rispettato e compianto troppo tardi, fingeva, lo traeva in un’insidia?
— Senza complimenti, s’intende — disse quell’uomo — perchè io sono alla buona: leale, sincero, schietto come suo zio e come sarà lei.
Respiro! L’insidia pareva proprio da escludere. Nondimeno non era una disgrazia anche questa? correr pericolo che Silvia, in uno scatto d’amore o d’odio, si compromettesse e lo compromettesse? E in tal caso che accadrebbe, buon Dio?
Nulla accadde. Silvia, invece, fu mirabile; lieta a conoscere di persona il nipote del signor Giorgio, che (già!) conosceva solo di vista.... Non un discorso in cui ella s’imbarazzasse, o che imbarazzasse. Benissimo! E Gaspare, a tanta disinvoltura e sicurezza di spirito, si convinse d’essere un giovane spiritoso e disinvolto.
Ma a tavola, al secondo piatto, l’ingegnere uscì a dire — e aveva uno sguardo torvo:
— Sai che questo disgraziato prende moglie?
Passò, negli occhi di Silvia un lampo; per il quale Gaspare rabbrividì.
Invece ella, dopo, sorrideva.
— Davvero? Me ne congratulo!
— E io me ne dolgo! — ribattè il marito. — Io lo compiango! Una corbelleria! uno sproposito! un delitto che, se suo zio fosse al mondo, non commetterebbe!
Rispose Gaspare: — Tutt’altro! Me lo consigliò lui, quand’era moribondo....
— Ah sì? Ciò prova che quando si è moribondi si ha perduta la testa!
Intanto Silvia esortava Gaspare:
— Non gli badi. Scherza.
— Eh! — proseguì Tredòzi — : se Bicci stesse per annegare e io gli allungassi una mano, ci si attaccherebbe; ma perchè lo consiglio di annegarsi piuttosto che dar retta alle donne, sta pur sicura che darà retta a te!
— Tredòzi!
Imperterrito il marito proseguì:
— Pensare che io cederei fino mia moglie!
— Tredòzi! Tu mi offendi! — gridò la signora Silvia rossa in viso, in atto d’alzarsi. Ma Tredòzi non si scompose.
— Non offendo nessuno. Confronto il bene della libertà individuale al vincolo del matrimonio e dico che se debbo augurare a Bicci la minor sventura possibile, gli auguro la fortuna che ho avuta io.
— Grazie! — scappò detto a Gaspare.
Per fortuna la signora Silvia introdusse un altro discorso, e l’ingegnere, il quale perdeva l’argomento preferito, si quietò e riparlò solo tardi, ad annunciare che usciva per i sigari.
L’ora della cavata d’occhi era giunta. «Ci siamo!» riflettè Gaspare.
— Dunque è vero? — chiese, sorridente, la signora.
— Capirete.... Ho ventiquattr’anni....
Oh! Ella non si turbava.
— Ammògliati pure: una moglie non è un’amante; e io non ne sono gelosa.
Per gratitudine, Gaspare quasi quasi l’avrebbe baciata. Ma non c’era da fidarsi ch’essa interpretasse giustamente la ragione di quel bacio.
— Ed è bionda, o bruna?
— Bionda.
— Ho piacere; tanto piacere!... Quanti anni ha?
— Diciannove.
— Una bambina! Tanto, tanto piacere!
Si vedeva che gioiva. Credeva forse che d’una bionda si stancherebbe, presto? E volle le narrasse la vera storia dell’innamoramento; a che egli accondiscese con qualche ripiego d’innocenti bugie, nella maniera di tutti gli autobiografi. Infine la signora chiese:
— Perchè, caro Gaspare, se non ci è più lecito amarci, non possiamo volerci bene?
La distinzione d’Erminia!
— ....e non restiamo amici?
— Anzi amicissimi! — esclamò l’ingenuo, lieto, salvo. S’imaginava d’esser salvo da ogni castigo.
....Quando fu di ritorno, Tredòzi guardò all’orologio e parlò pacatamente:
— Se il far la corte a mia moglie bastasse, caro Bicci, per mandare a monte il suo matrimonio, la pregherei di restar qui sino a mezzanotte; ma non avendo questa speranza, l’avverto che sono le dieci, e andiamo a letto.
XI.
Come certe cose procedono sempre a un modo per tutti, non è da far meraviglia che anche per Gaspare ed Erminia le nozze, il viaggio di nozze e il resto, tutto procedesse bene. Ma per Erminia e Gaspare la luna di miele sarebbe durata Dio sa quanto, se Dio non avesse permesso a una cattiva donna d’intorbidarne il dolce chiarore; di provare quel che possa l’odio di una donna e a che perfidia la sospinga la vendetta.
Fu così: l’ingegner capo, quando Bicci tornò all’ufficio, riebbe ore di umor buono; durante una delle quali disse a lui, il solo benvisto subalterno: — Silvia desidera fare la conoscenza della sua signora. Contentiamola. Tanto, da mia moglie sua moglie non imparerà nulla che già non abbia imparato.
Tredòzi errava, ignorando che Silvia qualche cosa sapeva la quale Erminia non avrebbe dovuto saper mai. E a parte anche ogni sospetto, a un uomo onesto quale Bicci ripugnava un’alleanza tra sua moglie e l’antica amante.
«Sarebbe un’immoralità! Faremo una visitina di dovere, e basta....»
Ingenuo! La signora Silvia, ch’era sagace, in questo mentre aveva conchiusa amicizia con la Squiti; cosicchè la relazione temuta e sconvenevole diventò naturale, necessaria.
Eppure Gaspare s’illudeva ancora; perchè alle conversazioni in casa Tredòzi venivano, oltre che gli Squiti, molti altri; e si ciarlava e sonava (solo Tredòzi fuggiva appena vedeva il clarinetto); nè rimanevan tempo e agio per confidenze tra Silvia e Erminia.
Ma a poco a poco la perfida donna, abile a non farsi scorgere da alcuno fuorchè dalla sposina, cominciò a tormentar Gaspare con occhiate patetiche. E non bastava: gli susurrava, fugacemente, parole all’orecchio; parole di nessun conto, ma piano piano, quasi in segreto.
«Se Erminia non ingelosisce — pensava Bicci — è un angelo».
Più! più! La cosa andò tant’oltre che egli dovè pensare:
«Se non ingelosisce, non mi ama». Ah! l’infelice — molto infelice, tra breve — non imaginava in che belva l’angelo si trasformerebbe, in che demonio scatenato!
Infatti incontratolo un giorno per via, Silvia gli disse:
— Oh, caro amico! Andiamo! Accompagnatemi a casa.
Si schermì: non poteva; l’attendeva Erminia.
— Allora accompagnerò io voi.
— Non importa....
Ella sorrise.
— Non temete che Erminia sia gelosa. Non è una stupida, lei!
Altro che gelosa! Lo accolse, dopo, un mostro infernale.
— Miserabile! Infame! Vi ho sorpresi, finalmente! Quella sfacciata t’accompagna anche a casa, dopo i convegni!
— Non è vero!
— Sì: me l’han detto! lo so! lo sapevo! Chi era quella che veniva a trovarti quando io era fidanzata a Enrico? E me ne sono accorta troppo tardi! Assassino!...
— Erminia, t’inganni....
— Infame! Mi son lasciata ingannare! Io! A questo modo! Io! da te!
La bile si disciolse in pianto; ed ella prese a invocare il morto, in guisa che straziava l’anima:
— Ah Enrico, Enrico! Tu mi amavi! Tu mi saresti rimasto fedele eternamente!... Non mi avresti tradita, tu, con la moglie del tuo capoufficio! Oh il mio Enrico!... È un’infamia! un’infamia!
Proteste, giuramenti non valsero; la confessione sincera e piena non fu creduta; la felicità di due che s’adoravano, distrutta per sempre; il letto coniugale diviso per sempre....
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No: il letto restò diviso solo due notti; chè Erminia volle togliere al marito ogni ragione di tradirla.
Ma certi libri dello zio spaventarono, atterrirono Gaspare un mattino ch’egli li consultò, sentendosi alcune fitte alla nuca. Urgeva, secondo quei libri, un rimedio.
«Mi farò trasferire lontano di qui; dove mia moglie non abbia più ragione d’amarmi tanto».
Maledetta però la gelosia! Dice il proverbio chi sta bene non si muova; e chiedere un trasferimento da Bologna valeva come sfidare la pazienza dei superiori. Ah quanto fu brutto quel mese d’incertezza affannosa nell’attesa del trasloco!... Lo manderebbero in Sicilia? in Sardegna? in Calabria? Dove? Dove, buon Dio?
....Fu trasferito a Milano. Ma eccoli che anche questo bel colpo di fortuna non fu sufficiente alla pace di tutti, alla contentezza assoluta di Gaspare. Perchè, alla notizia, Luigi divenne cupo; scosse il capo mestamente.
— A Milano? A Milano, io? Signorino, le due torri io non le lascio! Eppoi, se con la signora andiamo poco d’accordo a Bologna, s’imagini a Milano! Insomma, io non ci vengo.
— Luigi, ti prego....
Ogni preghiera fu inutile. Asciugandosi gli occhi, Luigi scoteva il capo, e ripeteva nel suo linguaggio:
— Povero padrone! Che «zuccata!» Oh che «zuccata» abbiamo avuta!
XII.
A chi non piacerebbe Milano? Ebbene, alla signora Bicci non piaceva. Una città, a parer suo, di bassa gente boriosa, idonea solo a mercare e in tutto sprovveduta del senso d’arte: bastava a convincerne l’architettura plebea e goffa, d’un fasto da parvenus. La Galleria? Un ridotto per i cantanti a spasso e le cocottes. Il Duomo?... Oh il Duomo d’Orvieto!
Quanto Erminia avrebbe preferita la mistica solitudine d’Orvieto al pandemonio di Milano! Una donna invero, Erminia Roccaforte, da fare un poeta, o un eroe. Suo marito, al contrario, si sentiva non più che un borghese pacifico nell’equilibrio delle sue facoltà; un ingegnere al Genio Civile; un uomo che aveva nome Gaspare, che si chiamava Bicci, e a cui Milano sembrava la più bella città del mondo.
Diversi i gusti, diversi gli animi. In breve la dimora a Milano fu causa e pretesto ai dissidi, dei quali per l’addietro la gelosia era parsa la sola cagione; in breve appicchi e ripicchi si acuirono. Che giovava a Gaspare l’arrendersi? Fomite alla discordia era anche il trovarsi d’accordo. Se egli dava torto alla moglie, erano raffacci, lagrime, svenimenti, convulsioni: un inferno; e se le dava ragione o taceva, essa inveleniva perchè non voleva la considerasse malata o matta.
Addio al tempo in cui la sventura era sconosciuta e non temuta! Addio sereni giorni del celibato! Addio voluttuosi giorni della luna di miele!
E come per l’addietro si era compiaciuto di non aver figlioli, risparmiandosi tutte le pene dell’allevamento e dell’educazione, così adesso il povero Gaspare attribuiva alla mancanza dei figli la sua disgrazia coniugale. E almeno avesse avuta la suocera, che per lui sarebbe stata, adesso, di sollievo. Ridotto a desiderare la suocera!
Ma finalmente Erminia si ammalò davvero.
— Isterismo — disse il medico. — Si distragga! — E al marito — : La distragga.
Ahi! come distrarre una creatura che preferiva Orvieto a Milano? che non voleva uscire di casa? che non voleva veder nessuno e non conoscer nessuno? che non parlava quasi più? E venne il dì che a Gaspare parvero invidiabili i giorni in cui almeno si litigava.
Durante quel silenzio ostinato e irragionevole della sua signora i più neri pensieri, i più foschi sospetti trovavano luogo pur nella testa di Bicci; tali, che una sera anticipò d’un’ora il ritorno a casa, abbreviò la consueta passeggiata e la sosta al caffè. Anticipare, lui, d’un’ora, il ritorno a casa? Non solo! Non solo! Quatto quatto entrò: al buio, nell’ingresso; poi, in punta di piedi, venne alla cucina. Buio anche là. Avanzò allora fino all’uscio della camera da pranzo, ascoltando...; e udì, lieve come un sospiro:
— Enrico!
Oh non aveva dunque avuto torto di sospettare! Infami!
Furibondo, irriconoscibile, quale un uomo che non s’è adirato mai in vita sua, Gaspare spalancò l’uscio.... E la signora e la serva, senza far motto, lasciarono andare il tavolino su cui avevano tenute a contatto le mani.
— Via! Via di casa mia! Fuori di qua! Domattina.... A te! A te! — e con voce strozzata, dopo avere indicata la porta, il padrone trasse, gettò, venti, trenta lire alla serva che lo contemplava stupita.
— Vattene! Vattene!
— Ma cosa ho fatto?
— Tener mano!... Via! fuori!
— Ma che male c’è? — cominciarono a dire insieme le due donne.
— Via! Via!
Sempre più minaccioso, con la destra in alto, lui, Bicci, Gaspare!, spinse con la sinistra la serva al di là dell’uscio e si volse. Erminia sorrideva sarcastica.
— Sei impazzito? — ella chiese. — Non m’hai insegnato tu? non mi dicevi tu che faceva così tuo zio?
A tanta audacia, a vedere e a udire l’uso che la sciagurata aveva fatto e faceva d’una confidenza ricevuta al tempo della luna di miele, Gaspare non trovò più parola: perdè forza o fiato: cadde a sedere su di una seggiola e si strinse il capo tra le mani. Muoveva a pietà; quantunque Erminia sorridesse sempre. Poi scotendo il capo, tranquillamente, ella si mise a leggere il giornale.
«Siamo seri! Ragioniamo!» in quel mentre Gaspare diceva tra sè, già stupito lui stesso d’essersi lasciato trasportare a tal punto. «Vediamo un poco.... Può darsi che sia da considerare, questo fatto che mi ha esasperato, come uno scherzo, un gioco, un innocente passatempo.... Ma no: è una cosa tremenda; che faceva terrore a un filosofo quale mio zio.... Un’esperienza? È in questo caso un delitto! un delitto enorme; tant’è vero che non è nemmeno contemplato nel codice! Sì, un tradimento mostruoso...: intendersi con l’amante morto quando il marito è vivo! Orribile!... Eppure, Erminia ci ride...; e anche la serva non ci vedeva niente di male.... La scienza positiva ne ride.... Ma insomma!, io ho o non ho il diritto di riposare almeno la notte? di dormire i miei sonni tranquilli?...»
Dopo di che egli s’alzò e parlò con voce tremula e bassa:
— Erminia, a te sembra una cosa da nulla quella che a me sembra una colpa grandissima. Un accordo tra noi due non è dunque più possibile; bisognerà venire alla separazione.
Erminia aveva alzati gli occhi a guardarlo impavida. Gaspare proseguì:
— A ogni modo, prima, interrogherò il cavalier Squiti....
Solo a quest’ultima parola Erminia impallidì, si fece seria; e quindi scoppiò in pianto dirotto, e cominciò a lamentarsi e a scongiurare:
— Hai ragione, Gaspare! Perdonami! Ti giuro che non lo farò più.... Mai più!
Fosse la soggezione e il tedio ch’ella sentiva, anche da lontano, del cavalier Squiti, o la paura di essere ancora condannata al clarinetto, il fatto fu che mai un marito ingannato ebbe la consolazione di veder pentita la colpevole come Gaspare vide Erminia, quella sera.
XIII.
Nè mai sarebbe stato così giusto il proverbio che tutto il male non viene per nuocere, se Erminia avesse seguitato a lungo nel buon mutamento. Riprese a uscire di giorno e di sera; riprese a discorrere e, grazie a Dio, senza litigare. Ma tanta felicità poteva durare un pezzo?
E sopravvenne di nuovo la noia nell’animo dell’isterica donna, con la intollerabile intolleranza d’ogni cosa, d’ogni persona; nessuno al mondo avrebbe saputo da che lato prenderla. Non poteva soffrire neanche le persone che avessero avuta qualche somiglianza di gusti con lei.
Infatti una volta all’Eden, ove egli si divagava ma si annoiava Erminia, Gaspare scorse, non più rivisto da anni, il più caro compagno e più allegro amico della prima giovinezza: Gino Monarchi, un pittore già in fama a Parigi; e benchè ricordasse il consiglio dello zio «Sta lontano agli artisti» (il povero zio l’aveva anche esortato ad ammogliarsi!), egli lo chiamò:
— Ehi, Monarchi!
— Oh! Chi vedo!... Bicci!
— Tu, qua?
— Tu, qui?
A un abbraccio cordiale e a baci fraterni tenne dietro la presentazione della signora.
Il Monarchi era un bel giovane; forse troppo elegante, con la caramella all’occhio destro e copiosi capelli alla simbolista; ma un parlatore delizioso, un osservatore arguto. Parlò d’arte, di Parigi, fino d’Orvieto. «Erminia ne resterà contenta» pensava Gaspare. Invece, chi lo crederebbe?, quando se ne fu andato Erminia disse:
— Mi è molto antipatico, il tuo amico! Se verrà a trovarmi prima di partire, farò dirgli che non sono in casa.
Nè del Monarchi si discorse mai più; nè più lo rividero, tranne, da lungi, due o tre sere a teatro.... A teatro?
Sì, Erminia ebbe all’improvviso questa nuova smania, una nuova pazzia! Convinta che per essere notati a Milano bisognava spendere, si mise a spendere e a spandere rovinosamente in gioielli e abiti; e dal suo palco pretendeva insegnar «il buon gusto nella moda» alle milanesi! «Non basta seguire la moda!» diceva.
Come il marito l’ammonì che non erano abbastanza ricchi da impartire cotesto insegnamento, ella gli si scagliò contro:
— Perchè mi hai sposata, se non puoi mantenermi? Dov’è la mia dote? Quando, con chi l’hai consumata? — E così via, fino a giungere allo svenimento e alle convulsioni.
C’era da temere si rinnovassero anche le invocazioni di «Enrico! Enrico!» e le pratiche spiritiche. Per evitar tutto ciò Gaspare lasciò dunque correre, rassegnato alla rovina. «Qualche santo — pensava — mi aiuterà».
E infatti un bel giorno Erminia si disse stanca; desiderosa di quiete e di solitudine. Un santo era intervenuto.
Ma troppa grazia! Perchè essa cominciò anche a meditare il suicidio; e lo diceva. Che giorni per un marito di cuore e di coscienza! Mentre a casa attendeva quali ore di tregua le ore dell’ufficio, all’ufficio, lui, il povero marito, dubitava di trovarla, al ritorno, impazzita del tutto, oppure asfissiata.
Un Calvario! E non era più possibile tirare avanti un pezzo così. E solo un colpo di fortuna poteva ridar la pace a Gaspare Bicci.
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Verso le cinque pomeridiane egli saliva le scale di casa sua, superando ogni gradino con lo sforzo di chi ascenda al patibolo.... Quand’ecco, era appena davanti all’uscio, che l’uscio si spalancò alla disperazione della cuoca.
— La signora.... non c’è più!
Morta?
— Dov’è andata? — chiese lui, livido e anelante.
— Dove sarà andata? — chiese, per risposta, la donna.
Nell’angoscia Gaspare rispondeva a sè stesso: «Ad annegarsi. È finita! Ma che guaio!»
— Di’, parla! A che ora?...
— Dopo colazione, è uscita con la valigetta.
Ad annegarsi con la valigetta?
— E non ti ha detto nulla?
— Sissignore; che c’è una lettera per lei, su lo scrittoio.
— Ah! Meno male!
Si precipitò nello studio. Lesse:
- «Gaspare,
«Io ti ho reso molto infelice.... Lo riconosco lealmente, e ti giuro che mi annegherei se non fossi persuasa di saper rendere felice Gino Monarchi. Vado con lui a Parigi. Tu vieni in Francia: vi faremo divorzio; così sarai libero di trovarti una donna degna di te. Addio.
«Erminia.»
— Sciagurato! — gridò Gaspare volto il pensiero al traditore.
Per altro, gli sembrava che una mano benefica gli levasse, o dalle spalle, o dal petto, o dal cuore — non sapeva da qual parte, certo d’addosso — un enorme peso; e tant’era il sollievo, che gliene conseguì una mitigazione all’ira, un senso di dolcezza; e tant’era buono, Bicci, che a poco a poco il sollievo e la dolcezza gli si convertirono in un senso di pietà.
«Sciagurato! — ripetè, a bassa voce. — S’accorgerà presto di qual natura è quella donna!» «Dopo tutto — aggiunse in un risveglio d’irresistibile letizia — , meglio a lui che a me!»
E quasi fuori di sè medesimo, o piuttosto ritornato interamente a sè medesimo, da morte a vita, scrisse — senza nemmeno riflettere che arriverebbe prima lui della lettera — :
- «Caro Luigi,
«Un amico mi ha portata via la moglie. Sono salvo, libero, felice; l’uomo più fortunato del mondo! E corro a Bologna da te.
«Il tuo Gaspare.»